San Pier Damiani Vescovo e dottore della Chiesa
21 febbraio - Memoria Facoltativa
Ravenna, 1007 – Faenza, 22 febbraio 1072
Nacque a Ravenna nel 1007. Ultimo di una famiglia numerosa, orfano di
padre, ebbe come riferimento educativo il fratello maggiore Damiano. Di
qui, probabilmente l'appellativo «Damiani». Dopo aver studiato a
Ravenna, Faenza, Padova e insegnato all'università di Parma, entrò nel
monastero camaldolese di Fonte Avellana. Nel 1057 il Papa lo chiamò a
Roma per averlo accanto in un momento di crisi della Chiesa, dilaniata
da discordie e scismi e alle prese con la piaga della simonìa. Nominato
vescovo di Ostia e poi creato cardinale, aiutò i sei Papi che si
succedettero al Soglio pontificio, a svolgere un'opera moralizzatrice.
In quest'azione si avvalse particolarmente dell'abate benedettino di San
Paolo Fuori le Mura, Ildebrando che nel 1073 fu eletto Papa con il nome
di Gregorio VII. Pier Damiani, fu delegato pontificio in Germania,
Francia e nell'Italia settentrionale. Morì a Faenza nel 1072. Nel 1828
Leone XII lo proclamò dottore della Chiesa. (Avvenire)
Etimologia: Piero = accorciativo e dimin. di Pietro
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: San Pier Damiani, cardinale vescovo di Ostia e
dottore della Chiesa: entrato nell’eremo di Fonte Avellana, promosse con
forza la disciplina regolare e, in tempi difficili per favorire la
riforma della Chiesa, richiamò con fermezza i monaci alla santità della
contemplazione, i chierici all’integrità di vita, il popolo alla
comunione con la Sede Apostolica.
(22 febbraio: A Faenza in Romagna,
anniversario della morte di san Pier Damiani, la cui memoria si celebra
il giorno prima di questo).
Questo santo, tutto fuoco,
nacque a Ravenna nel 1007 da poveri genitori carichi di figli. Sua madre
lo abbandonò, per fortuna momentaneamente, ancora lattante. Quando
mori, l'orfano fu educato con grande durezza dal fratello Rodelinda, che
lo fece guardiano di porci. Possedeva però un'intelligenza talmente
viva che il fratello maggiore, Damiano, più benevolo, pensò di avviarlo
agli studi prima a Faenza, poi a Parma. In essi Pietro fece prodigiosi
progressi. A venticinque anni si acquistò un nome nell'insegnamento.
Verso il 1035 cattivi esempi e violente tentazioni determinarono il
santo a entrare segretamente nel monastero benedettino di Fonte
Avellana, sul monte Catria (Pesaro), dove si abbandonò a così rigorose
penitenze da contrarre violenti mal di testa e insonnia. Durante la
convalescenza approfondì lo studio delle Scritture. La fama di esegeta
che si acquistò tra i pochi confratelli lo fece richiedere come oratore
dall'abbazia di Pomposa, dal monastero di S. Vincenzo di Petra Pertusa, e
da altri centri in relazione con Fonte Avellana.
Quando ritornò nel
suo eremo, il Damiani fu eletto priore. Il suo governo segnò per la
comunità un'era di prosperità materiale e spirituale, tant'era
innamorato dell'ideale della vita claustrale di cui divenne il teorico. I
novizi accorsero numerosi alla sua scuola, motivo per cui gli fu
possibile moltiplicare le case filiali nelle regioni limitrofe, e dare
origine a una Congregazione eremitica d'ispirazione camaldolese, anche
se in sé autonoma. Penetrato dello spirito di S. Agostino e di S.
Benedetto, egli seguì le orme dei grandi monaci del suo secolo: S.
Romualdo, fondatore dei Camaldolesi; S. Odilone e S. Ugo il Grande,
abati di Cluny e Desiderio, abate di Montecassino. Nulla sfuggiva al suo
vigile occhio. Egli esigeva l'assiduità alle ore canoniche diurne e
notturne, voleva che i monaci praticassero la rigorosa povertà, non
uscissero dall'eremo, e non si occupassero di negozi secolari. Alla
preghiera i religiosi dovevano aggiungere il lavoro, la pratica di
frequenti digiuni e mortificazioni in proporzione dei propri peccati. Il
santo fu un grande sostenitore delle flagellazioni corporali
supererogatorie. Ai più ferventi religiosi permise di flagellarsi ogni
giorno durante la recita di una quarantina di salmi.
L'epoca in cui
Pier Damiani visse fu triste per la Chiesa a causa della simonia e
dell'immoralità del clero. Per oltre trent'anni i conti di Tuscolo
avevano disposto della sede romana come di un bene di famiglia. Il primo
papa che fece sperare una riforma fu Gregorio VI, il quale aveva
persuaso il dodicenne Benedetto IX a rinunciare al papato, sborsandogli
una somma dì denaro. I romani lo avevano eletto al posto di lui, ma nel
concilio di Sutri del 1046, radunato da Enrico III, fu costretto a
dimettersi perché sospettato di simonia. Al suo posto fu eletto Clemente
II. L'imperatore invitò più volte Pier Damiani a stabilirsi a Roma in
qualità di consigliere del papa, ma egli si limitò a scrivere
all'eletto, per notificargli il disordine che regnava nelle chiese della
sua provincia a causa del fasto dei vescovi, la maggior parte dei quali
era carica di crimini.
La riforma della Chiesa fu iniziata con
coraggio da S. Leone IX (10481054) coadiuvato da Ildebrando, monaco e
cardinale. Sotto il suo pontificato prese forme concrete l'opera del
Damiani a favore del risanamento della gerarchia, che nel suo zelo
irruente, voleva casta e feconda di opere buone. Scrisse allora i suoi
due più famosi trattati, il Liber Gratissimus riguardante gli
ecclesiastici ordinati gratuitamente e, secondo lui, validamente da
vescovi simoniaci, e il Liber Gomorrhianus, dedicato al papa stesso, nel
quale flagella spietatamente i costumi del clero corrotto. Leone IX
lodò l'autore per l'aiuto che gli prestava nella lotta contro i mali del
tempo, ma furono tanto vive le rimostranze che sollevò con il suo
scritto che lo ritenne un po' frutto della sua fantasia.
Fu Stefano
IX, succeduto a Vittore II (+ 1057), che impose per ubbidienza al
Damiani il titolo di cardinale vescovo di Ostia, ma morì troppo presto
per compiere l'opera di riforma che l'irruente santo perseguiva. Nel
1058 i conti di Tuscolo fecero eleggere papa Giovanni, vescovo di
Velletri, col nome di Benedetto X, ma il nuovo cardinale lo trattò come
intruso e simoniaco. Raggiunse a Siena Ildebrando, di ritorno da una
missione presso l'imperatrice Agnese, e con lui provvide all'elezione
del vescovo di Firenze, Gerardo di Borgogna, che prese il nome di
Niccolò II. Da questo momento il Damiani dichiarò guerra senza quartiere
ai perturbatori della Chiesa e si adoperò con le sue lettere di fuoco e
i suoi trattati perché fosse osservato il decreto di Leone IX contro i
chierici simoniaci e incontinenti, che avvilivano il sacerdozio e
scandalizzavano i fedeli. Sotto il pontificato di Niccolò II, nel 1059,
svolse la sua prima missione a Milano per la riforma di quella chiesa, e
di altre della Lombardia. Egli vi riportò la pace applicando la sua
teoria della validità delle ordinanze simoniache, in contrasto con
quella del cardinal Umberto di Selva Candida. Molto verosimilmente, fu
dietro consiglio di Ildebrando e di Pier Damiani che Niccolò II emanò in
quello stesso anno il celebre decreto per cui, onde assicurare in
futuro l'indipendenza delle elezioni pontificie, la scelta del papa era
esclusivamente affidata al collegio dei cardinali. L'ultima parola
spettava ai cardinali-vescovi, mentre l'imperatore conservava soltanto
il diritto di conferma e il popolo quello d'approvazione.
Pur amando
svisceratamente la Chiesa, il Damiani non vedeva l'ora di deporre la
carica che gli era stata affidata contro voglia, per ritirarsi nella
solitudine del chiostro. Il papa non lo esaudì perché un uomo come lui
era indispensabile al suo fianco. Inoltre i nuovi torbidi sorti alla
morte di Niccolò II (+1061), rendevano molto utile la sua presenza a
Roma. Elevato al pontificato per interessamento suo e di Ildebrando
Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, col nome di Alessandro II (+ 1073),
il Damiani ne sostenne caldamente le parti contro l'antipapa Càdalo,
vescovo di Parma, abusivamente eletto a Basilea per interessamento
dell'imperatrice Agnese, ingannata dal partito favorevole ai simoniaci.
Non tutti i suoi passi furono approvati dai sostenitori della riforma.
Egli difatti pensava che convenisse mantenere ad ogni costo l'armonia
tra il papato e l'impero germanico, mentre era risaputo che le maggiori
difficoltà per la desiderata e improrogabile riforma provenivano proprio
dall'impero e dal laicato.
Il nuovo papa acconsenti che Pier
Damiani si ritirasse nel chiostro. Il cardinale arcidiacono Ildebrando,
invece, riteneva indispensabile la sua permanenza alla corte pontificia.
Fosse dipeso da lui gli avrebbe imposto di restare in virtù di santa
ubbidienza. Il Damiani trovò il suo intervento indiscreto e giunse a
tacciarlo di "Verga di Assur", Dio supremo degli Assiri, e di"Santo
Satana".
A Fonte Avellana il santo si rinchiuse in un'angusta cella
per darsi al digiuno quotidiano, alle intense discipline, alla
meditazione e al canto dei salmi. Per umiltà prendeva il suo pane nello
stesso piatto che serviva a lavare i piedi ai poveri, e dormiva per
terra sopra un graticcio di giunchi. Nel capitolo, dopo aver rivolto le
sue esortazioni ai monaci, si accusava pubblicamente delle proprie colpe
come un religioso qualunque, e si dava la disciplina a due mani. Da
ogni parte giungevano all'eremo persone desiderose dei suoi consigli.
Alessandro II lo pregò di scrivergli più sovente. Il santo ne approfittò
per dirgli con franchezza quel che pensava riguardo a due abusi invalsi
nella curia romana: quello di moltiplicare gli anatemi senza motivo, e
di impedire ai chierici e ai laici di riprendere gli eccessi dei loro
vescovi.
All'occorrenza seppe accettare e portare a termine con zelo
le missioni che gli furono affidate dal sommo pontefice. Nel 1063 andò a
Cluny per difendere, contro le pretese del vescovo di Mâcon,
l'esenzione dell'abate S. Ugo, direttamente dipendente dal papa, e a
Firenze per un'indagine sul vescovo Pietro, accusato dai monaci
vallombrosani di simonia, e da lui assolto per mancanza di prove. Nel
1069 fu inviato a Magonza per distogliere Enrico IV dal divorzio con
Berta di Torino, e nel 1071 a Montecassino per la consacrazione della
chiesa. Alla scomparsa nel 1072 dell'antipapa Càdalo (Onorio II), già
apostrofato dal Damiani "voragine di libidine, ignominia del sacerdozio,
fetore del mondo", e del suo principale sostenitore, Enrico,
arcivescovo di Ravenna, il santo fu inviato a riconciliare con il papa
gl'interdetti ravennati. Mentre ritornava a Roma per dar conto della sua
legislazione, a Faenza fu colto da febbre e morì il 22-2-1072 nel
monastero di Santa Maria fuori Porta. Sul suo sepolcro fece porre questo
epitaffio: “Io fui ciò che tu sei; tu sarai ciò che io sono. Di grazia,
ricordati di me. Guarda con pietà le ceneri di Pietro. Prega, piangi e
ripeti: "Signore, risparmialo!"”. Fu subito universalmente venerato come
santo. Leone XII il 1-10-1828 gli decretò il titolo di dottore. Le sue
ossa sono custodite nel duomo di Faenza.
Autore: Guido Pettinati
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