- Commemorazione di tutti i fedeli defunti
2 novembre
La pietas verso i morti risale agli albori dell’umanità. In epoca
cristiana, fin dall’epoca delle catacombe l’arte funeraria nutriva la
speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità,
i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui
era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare:
Come Gesù ha pianto per l’amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in
vita, così farà anche per questo suo discepolo! La commemorazione
liturgica di tutti i fedeli defunti, invece, prende forma nel IX secolo
in ambiente monastico. La speranza cristiana trova fondamento nella
Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio
redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!», esclama
Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la
dissoluzione nella polvere il destino finale dell’uomo, bensì,
attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è
ripreso con potenza espressiva dall’apostolo Paolo che colloca la
morte-resurrezione di Gesù in una successione non disgiungibile. I
discepoli sono chiamati alla medesima esperienza, anzi tutta la loro
esistenza reca le stigmate del mistero pasquale, è guidata dallo Spirito
del Risorto. Per questo i fedeli pregano per i loro cari defunti e
confidano nella loro intercessione. Nutrono infine la speranza di
raggiungerli in cielo per unirsi gli eletti nella lode della gloria di
Dio.
Martirologio Romano: Commemorazione di tutti i fedeli
defunti, nella quale la santa Madre Chiesa, già sollecita nel celebrare
con le dovute lodi tutti i suoi figli che si allietano in cielo, si dà
cura di intercedere presso Dio per le anime di tutti coloro che ci hanno
preceduti nel segno della fede e si sono addormentati nella speranza
della resurrezione e per tutti coloro di cui, dall’inizio del mondo,
solo Dio ha conosciuto la fede, perché purificati da ogni macchia di
peccato, entrati nella comunione della vita celeste, godano della
visione della beatitudine eterna.
Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:
La commemorazione dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in
continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno
completo alla preghiera per tutti i defunti. Amalario, nel secolo IX,
poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei
santi che erano già in cielo. E’ solo con l’abate benedettino
sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre fu dedicata alla
commemorazione di tutti i fedeli defunti, per i quali già sant’Agostino
lodava la consuetudine di pregare anche al di fuori dei loro
anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza
suffragio. La Chiesa è stata sempre particolarmente fedele al ricordo
dei defunti. Nella professione di fede del cristiano noi affermiamo:
“Credo nella santa Chiesa cattolica, nella comunione dei Santi…”. Per
“comunione dei santi” la Chiesa intende l’insieme e la vita d’assieme di
tutti i credenti in Cristo, sia quelli che operano ancora sulla terra
sia quelli che vivono nell’altra vita in Paradiso ed in Purgatorio. In
questa vita d’assieme la Chiesa vede e vuole il fluire della grazia, lo
scambio dell’aiuto reciproco, l’unità della fede, la realizzazione
dell’amore. Dalla comunione dei santi nasce l’interscambio di aiuto
reciproco tra i credenti in cammino sulla terra i i credenti viventi
nell’aldilà, sia nel Purgatorio che nel Paradiso. La Chiesa, inoltre, in
nome della stessa figliolanza di Dio e, quindi, fratellanza in Gesù
Cristo, favorisce questi rapporti e stabilisce anche dei momenti forti
durante l’anno liturgico e nei riti religiosi quotidiani.
Il 2
Novembre è il giorno che la Chiesa dedica alla commemorazione dei
defunti, che dal popolo viene chiamato semplicemente anche “festa dei
defunti”. Ma anche nella messa quotidiana, sempre riserva un piccolo
spazio, detto “memento, Domine…”, che vuol dire “ricordati, Signore…” e
propone preghiere universali di suffragio alle anime di tutti i defunti
in Purgatorio. La Chiesa, infatti, con i suoi figli è sempre madre e
vuole sentirli tutti presenti in un unico abbraccio. Pertanto prega per i
morti, come per i vivi, perché anch’essi sono vivi nel Signore. Per
questo possiamo dire che l’amore materno della Chiesa è più forte della
morte. La Chiesa, inoltre, sa che “non entrerà in essa nulla di impuro”.
Nessuno può entrare nella visione e nel godimento di Dio, se al momento
della morte, non ha raggiunto la perfezione nell’amore. Per particolari
pratiche, inoltre, come le preghiere e le buone opere, la Chiesa offre
lo splendido dono delle indulgenze, parziali o plenarie, che possono
essere offerte in suffragio delle anime del Purgatorio. Una indulgenza
parziale o plenaria offre alla persona interessata una parziale o
plenaria riduzione delle pene, dovute ai suoi peccati, che sono già
stati perdonati. Tale riduzione può essere fruita anche dai defunti, i
quali possono essere liberati dalle loro pene parzialmente o totalmente.
La commemorazione dei defunti ebbe origine in Francia all’inizio del
decimo secolo.
Nel convento di Cluny viveva un santo monaco, l’abate
Odilone, che era molto devoto delle anime del Purgatorio, al punto che
tutte le sue preghiere, sofferenze, penitenze, mortificazioni e messe
venivano applicate per la loro liberazione dal purgatorio. Si dice che
uno dei suoi confratelli, di ritorno dalla Terra Santa, gli raccontò di
essere stato scaraventato da una tempesta sulla costa della Sicilia; lì
incontrò un eremita, il quale gli raccontò che spesso aveva udito le
grida e le voci dolenti delle anime purganti provenienti da una grotta
insieme a quelle dei demoni che gridavano contro lui, l’abate Odilone.
Costui, all’udire queste parole, ordinò a tutti i monaci del suo Ordine
cluniacense di fissare il 2 Novembre come giorno solenne per la
commemorazione dei defunti. Era l’anno 928 d. C. Da allora, quindi, ogni
anno la “festa” dei morti viene celebrata in questo giorno. Da allora
quel giorno rappresenta per tutti una sosta nella vita per ricordare con
una certa nostalgia il passato, vissuto con i nostri cari che il tempo e
la morte han portato via, il bene che coloro che ci hanno preceduti
sulla terra hanno lasciato all’umanità, e il loro contributo all’aumento
della fede, della speranza, della carità e della grazia nella chiesa.
Il 2 Novembre, poi, ci riporta alla realtà delle cose richiamando la
nostra attenzione sulla caducità della vita. Questo pensiero richiama il
fluire del tempo intorno a noi e in noi.
Ci accorgiamo facilmente
della trasformazione e del cambiamento del mondo a noi circostante:
vediamo con indifferenza il passaggio delle cose e delle persone quando
queste scivolano lentamente davanti a noi o non fanno rumore o non
portano dolori e dispiaceri. Ogni passaggio, ogni spostamento comporta
l’impiego del tempo, dice la dinamica della fisica. Che non è come
quello del martello o di un qualsiasi strumento: dopo l’uso può essere
ancora utilizzato. Il tempo no. Il tempo va via per sempre. Non
ritornerà mai più. Resta il frutto maturato in quel tempo: quel che
abbiamo seminiamo in quel tempo produce frutto. Se si è seminato vento
si raccoglierà tempesta, recita il proverbio antico.
Quel che
viviamo è altro, non quello di prima. Con maggiore indifferenza non
notiamo il fluire del tempo in noi. Il nostro “io” si erge in noi come
persona fuori dal mondo e, quindi, estranea al mutare delle cose e al
susseguirsi delle stagioni.
Il nostro “io” è l’essere pensante che
fa vivere e muovere le cose, che gioca con il giorno e con la notte e
spinge le lancette dell’orologio e dona emozioni nella gioia e nel
dolore. Questo dicono alcuni filosofi che hanno il culto dell’Idea e che
per questo si chiamano idealisti. Ma poi l’io aggiorna le idee e si
adegua ai nuovi pensieri e scopre il fluire del tempo in sé. L’io eterno
entra nel tempo, si fa per dire, e avverte il suo logorio.
Il
presente appare provvisorio, tanto provvisorio da non contare, da “non
essere” in sé: conclusione o epilogo di ieri, anticipo o prologo del
domani. Tutta passa. Giorno dopo giorno il tempo va via. Passo dopo
passo il cammino si affatica sempre più. Atto dopo atto il logorio delle
forze fisiche che invecchiano si fa sempre più sentire. Passano le
gioie e passano pure i dolori. Poi passeremo anche noi; e finiranno su
questa terra anche i nostri giorni. Il richiamo alla realtà della nostra
morte ci invita, pure, a dare importanza alle cose essenziali, ai
valori perenni e universali, che elevano lo spirito e resistono al
tempo. “Accumulate un tesoro nel cielo, dove né tignuola e né ladro
possono arrivare”, consiglia Gesù Cristo ai suoi discepoli.
Se tutto
passa, l’amore di Dio resta. Il pensiero ritorna a noi. La certezza
della morte deve farci riflettere, affinché possiamo essere pronti
all’incontro con essa senza alcuna paura. Sarebbe un grande errore dire:
“Mi darò a Dio quando sarò vecchio”, ed aspettare di cambiare i nostri
cuori al momento della morte. Così come nessuno diventa all’improvviso
cattivo, allo stesso modo nessuno diventa in un attimo buono.
E
ricorda che la morte può arrivare senza alcun preannunzio,
improvvisamente. Si dice che la morte sia spaventosa: ma non è tanto la
morte in sé a terrorizzarci, quanto piuttosto l’atto del morire ed il
giudizio susseguente di dannazione o di salvezza eterna.
E’,
infatti, il terrore di un attimo e non dell’eternità a spaventarci.
Dunque sorgono molte domande: come sarà quel momento? Quanto durerà? Chi
mi assisterà? Sarò solo? Dove sarò? In casa, per strada, al lavoro,
mentre prego o sono distratto in altre faccende? Quando mi sorprenderà?
Il pensiero di trovarsi soli, faccia a faccia con la morte, vittima ed
esecutore, può produrre disagio e paura
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