VANGELO (Mc
6,7-13)
Prese
a mandarli.
+
Dal Vangelo secondo Marco
In
quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a
due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non
prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né
sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non
portare due tuniche.
E
diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non
sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non
vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri
piedi come testimonianza per loro».
Ed
essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano
molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li
guarivano.
Parola
del Signore
LA
MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Aiutami
Gesù,con lo Spirito Santo,nell'amore di Dio Padre,a compiere quanto
sento di fare.
Non
serve essere dotti, capaci o santi per servire il Signore, Lui
infatti non sceglie per sapienza, ma per obbedienza e con queste
parole l'evangelista ci ricorda che quello che viene chiesto ad un
discepolo, non è prendere, ma lasciare.
Il
discorso forse è un po’ forte, ma anche se non preso alla lettera,
il senso è molto chiaro.
Non
attaccatevi a nulla di terreno, perché non vi serve ed anche per
distinguervi dagli altri.
Al
tempo di Gesù, c’erano diversi movimenti di religiosi: esseni,
farisei, zeloti. Anche loro cercavano un nuovo modo di convivere in
comunità ed avevano i loro missionari (cf. Mt 23,15 Guai a voi,
scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare
un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il
doppio di voi ).
Costoro,
quando andavano in missione, erano prevenuti, portavano bastone e
bisaccia per mettervi il proprio cibo perchè non si fidavano del
cibo offerto che non sempre era “puro”. Al contrario degli altri
missionari, i discepoli di Gesù ricevono raccomandazioni diverse che
ci aiutano a capire i punti fondamentali della missione di annunciare
la Buona Notizia. Gesù li invita a confidare nell’ospitalità.
Perché chi va senza niente, va perché confida nella gente e pensa
che sarà ricevuto.
Con
questo atteggiamento loro rinnovano le leggi di esclusione, praticate
dalla religione ufficiale e mostrano che avevano altri criteri di
comunità, devono partecipare alla vita ed al lavoro della gente, che
li accoglierà nella comunità e condividerà con loro casa e cibo.
Ciò significa che devono aver fiducia nella missione e nella
condivisione, spiega anche la severità della critica contro coloro
che rifiutano il messaggio: scuotere la polvere dei piedi, come
protesta contro di loro, perché rifiutano di aprire il cuore. Sembra
che Gesù, inviti a scuotere qualcosa che i discepoli proveranno
dentro di loro al momento del rifiuto. Vuole che escano da quella
casa in pace, senza rancore, senza disprezzo, senza rimpianto, perché
loro saranno stati portatori di relazione, di incontro, di parola di
salvezza. Il rifiuto è una chiusura di possibilità, ma non dovrà
mettere in discussione la loro fede, il loro aver camminato a lungo
in nome di questa e la loro testimonianza. Scuoteranno, allora, la
polvere della delusione da sotto le scarpe, scuoteranno la polvere
dell’attaccamento e dell’ostinazione, della stanchezza per non
essere riuscita a trasmettere il tesoro che portano dentro, per
riprendere, poi, il cammino con speranza e per essere nuovamente
pronti a creare ponti di relazione, nel nome di Gesù, Ponte di
relazione tra il Padre e l’umanità. Perché Gesù non manda ognuno
per conto proprio? Li manda a coppie, perché nessuno può fare
verità da solo. L’andare è sempre dialogico, coniugato. Anche chi
va per annunciare un parola bella e liberante come la Parola di Dio e
per portare un messaggio di salvezza, non può andare da solo.
Andranno in due perché per l’uno ci sarà, a fianco, sempre
l’altro a ricordargli la strada, quando la smarrirà, a difenderlo
dal pericolo, a ricordargli l’amore di Dio, quando non lo sentirà
e a portarlo a discernimento sulla sua verità, quando sarà
necessario. Il due della missione diventa, criterio, di verità. Non
si fa Chiesa singolarmente.Voglio
aggiungere una cosa ancora sulla missione della Chiesa,che da tutte
le parti viene attaccata ed accusata di aver coperto, perchè questa
è la parola che viene usata, quindi di essere stata complice degli
abusi sui minori e delle storie torbide di alcuni uomini e donne del
clero.
Per
tanti errori ed orrori, ci sono stati anche tanti bambini salvati
dall'indigenza, dalla fame, dalla solitudine e dai pericoli; oltre ai
tanti peccatori, ci sono tanti santi sacerdoti e suore, per
tanti imbroglioni ed arrivisti, ci sono anche tanti sconosciuti
missionari.... senza togliere nulla a chi ha sbagliato,cerchiamo di
vedere anche quanti fanno ogni giorno del bene,e non cerchiamo scuse
per la nostra mancanza di fede, ma anzi,riflettiamo sul fatto che
satana tentando queste persone, colpisce sia loro che chi si
allontana dalla chiesa per colpa loro, e con le chiacchiere lo
aiutiamo.
Vorrei conoscere la Bibbia a memoria,conoscere il greco,il latino e pure l' aramaico,ma nulla di tutto questo mi è stato donato. Quello che al Signore è piaciuto donarmi, è una grande voglia di parlargli e di ascoltarlo.Logorroica io e taciturno Lui,ma mentre io ho bisogno di parole,Lui si esprime meglio a fatti.Vorrei capire perchè questo bisogno si tramuta in scrivere, e sento che è un modo semplice,delicato e gratuito di mettere al centro la mia relazione con Dio.
mercoledì 5 febbraio 2014
martedì 4 febbraio 2014
SANTI é BEATI :
Beata Elisabetta Canori Mora Madre di famiglia, terziaria trinitaria
5 febbraio
Roma, 21 novembre 1774 - Roma, 5 febbraio 1825
Elisabetta Canori nasce nel 1774 da un’agiata famiglia romana. A 22 anni sposa un giovane avvocato. Ma la felicità dei due giovani è presto distrutta dalla fragilità psicologica ed emotiva del marito,Tommaso Mora, che cede alle lusinghe di una donna di bassa condizione con la quale sperpera il patrimonio familiare, riducendo la famiglia all’indigenza. Tuttavia egli non abbandona né la moglie né le due figlie, ma torna a casa solo a notte tarda, distrutto dalla vita disordinata. Elisabetta decide allora per una totale fedeltà al marito e alle due figlie che mantiene faticosamente col proprio lavoro. Ella trae la sua forza da una preghiera intensa, dalla propria fedele appartenenza al Terz’Ordine Trinitario, e dalla persuasione che il sacramento del Matrimonio l’ha veramente legata in maniera preziosa e indissolubile. Elisabetta sa che la fedeltà che ella riserva al marito, pur immeritata, è dovuta a Cristo; e onora il sacramento ricevuto, anche se da sola. S’inoltra così in un terreno 'mistico' fatto di carità inesauribile, aiuto prestato alle altre famiglie in difficoltà, educazione attenta delle figlie, familiarità con Gesù suo sposo, che la assiste con prodigi d’amore. Il marito – che non sa darsi pace per quella fedeltà e per quell’onore che sa di non meritare e tuttavia gli viene ugualmente donato – si rifugia apparentemente nello scherno verso tanta umile dedizione, ma interiormente è travagliato dalla santità della moglie. Dopo la morte di lei, infatti,Tommaso si convertirà, fino a farsi frate francescano conventuale e a diventare sacerdote. Giovanni Paolo II nel 1994 – Anno Internazionale della Famiglia – ha beatificato assieme Elisabetta Canori Mora e Gianna Beretta Molla definendole «donne d’eroico amore».
Martirologio Romano: A Roma, beata Elisabetta Canori Mora, madre di famiglia, che, dopo avere a lungo sofferto a causa dell’infedeltà del marito, per le ristrettezze economiche e le crudeli molestie da parte dei parenti, tutto sopportò con insuperabile carità e pazienza e offrì la vita al Signore per la conversione, la salvezza, la pace e la santificazione dei peccatori aggregandosi al Terz’Ordine della Santissima Trinità.
Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli.
La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all'educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione.
I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un'altra sorella, Benedetta.
Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l'insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all'aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta.
Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza.
Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un "tradimento", anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata.
Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.
Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriera di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico.
Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà. La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all'assistenza degli ammalati.
La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un'azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l'ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare.
La fama della sua "santità", l'eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi "poteri taumaturgici" hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze. Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio.
Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825. È sepolta nella Chiesa di San Carlino.
Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell'Ordine secolare dei Trinitari e diviene, poi, frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte.
Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994 -Anno Internazionale della Famiglia.
"Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m 'impedivano d'andare a Dio…".
"Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio".
"Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto …".
(dall'autobiografia)
"Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte".
( il marito Cristoforo alle figlie) .
Autore: Carmelo Randello
5 febbraio
Roma, 21 novembre 1774 - Roma, 5 febbraio 1825
Elisabetta Canori nasce nel 1774 da un’agiata famiglia romana. A 22 anni sposa un giovane avvocato. Ma la felicità dei due giovani è presto distrutta dalla fragilità psicologica ed emotiva del marito,Tommaso Mora, che cede alle lusinghe di una donna di bassa condizione con la quale sperpera il patrimonio familiare, riducendo la famiglia all’indigenza. Tuttavia egli non abbandona né la moglie né le due figlie, ma torna a casa solo a notte tarda, distrutto dalla vita disordinata. Elisabetta decide allora per una totale fedeltà al marito e alle due figlie che mantiene faticosamente col proprio lavoro. Ella trae la sua forza da una preghiera intensa, dalla propria fedele appartenenza al Terz’Ordine Trinitario, e dalla persuasione che il sacramento del Matrimonio l’ha veramente legata in maniera preziosa e indissolubile. Elisabetta sa che la fedeltà che ella riserva al marito, pur immeritata, è dovuta a Cristo; e onora il sacramento ricevuto, anche se da sola. S’inoltra così in un terreno 'mistico' fatto di carità inesauribile, aiuto prestato alle altre famiglie in difficoltà, educazione attenta delle figlie, familiarità con Gesù suo sposo, che la assiste con prodigi d’amore. Il marito – che non sa darsi pace per quella fedeltà e per quell’onore che sa di non meritare e tuttavia gli viene ugualmente donato – si rifugia apparentemente nello scherno verso tanta umile dedizione, ma interiormente è travagliato dalla santità della moglie. Dopo la morte di lei, infatti,Tommaso si convertirà, fino a farsi frate francescano conventuale e a diventare sacerdote. Giovanni Paolo II nel 1994 – Anno Internazionale della Famiglia – ha beatificato assieme Elisabetta Canori Mora e Gianna Beretta Molla definendole «donne d’eroico amore».
Martirologio Romano: A Roma, beata Elisabetta Canori Mora, madre di famiglia, che, dopo avere a lungo sofferto a causa dell’infedeltà del marito, per le ristrettezze economiche e le crudeli molestie da parte dei parenti, tutto sopportò con insuperabile carità e pazienza e offrì la vita al Signore per la conversione, la salvezza, la pace e la santificazione dei peccatori aggregandosi al Terz’Ordine della Santissima Trinità.
Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli.
La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all'educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione.
I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un'altra sorella, Benedetta.
Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l'insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all'aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta.
Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza.
Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un "tradimento", anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata.
Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.
Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriera di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico.
Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà. La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all'assistenza degli ammalati.
La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un'azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l'ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare.
La fama della sua "santità", l'eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi "poteri taumaturgici" hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze. Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio.
Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825. È sepolta nella Chiesa di San Carlino.
Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell'Ordine secolare dei Trinitari e diviene, poi, frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte.
Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994 -Anno Internazionale della Famiglia.
"Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m 'impedivano d'andare a Dio…".
"Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio".
"Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto …".
(dall'autobiografia)
"Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte".
( il marito Cristoforo alle figlie) .
Autore: Carmelo Randello
(Mc 6,1-6) Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
VANGELO
(Mc 6,1-6) Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Grazie o Spirito Santo di essere sempre così presente nella mia vita, di vivere costantemente nel mio cuore e accorrere al mio richiamo. Sei luce che spacca le tenebre, in ogni occasione; sei voce che grida nel deserto, la voce del Signore mio; sei l’impronta che Dio pone davanti a me perché ci metta il mio piede. Nulla ti è oscuro e nulla tu mi neghi. Ti adoro mio Signore che nella SS.Trinità, ci riempi della tua misericordia.
Seguire Gesù. Sappiamo quanto è difficile essere onesti, quanto ci costa essere cristiani, vincere la tentazione di fare come tutti; come è difficile essere compresi e non trattati da poveri dementi per questa nostra fede. A Gesù stesso fu riservato questo trattamento, figuriamoci a noi.Non ci saranno certo belle parole e complimenti, anzi, a volte anche tra chi ha fede, tra chi vive nella stessa comunità Cristiana, ci saranno incomprensioni.
Pensate che, a Gesù,che non aveva colpe, non aveva mai dato scandalo con i suoi comportamenti, non aveva mai fatto del male a nessuno, lo hanno oltraggiato, fustigato, sbeffeggiato ed ucciso. Non speriamo di essere trattati meno duramente amici miei, noi che siamo anche peccatori….
Forse non ci uccideranno su una croce,ma vedrete come l'uomo riesce a trasformare il bene in male, quando segue satana e non Gesù! Gli uomini hanno molta più memoria dei peccati altrui che dei propri.
Una frase in questa pagina di Vangelo, mi porta a invitarvi, e a rinnovare a me stessa l ' invito a credere e a fare veramente posto alla parola di Dio nel nostro cuore:- E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.- Lasciamo che Gesù entri con tutto il suo ESSERE nel nostro cuore, facciamogli tutto il posto che riusciamo a fargli con la nostra disponibilità a fidarci di lui ed affidarci a Lui, non cerchiamo di voler fare, capire, agitarci come Marta, ma restiamo in ascolto di quello che lui ci indicherà con la sua parola… facciamogli posto nel cuore e nella mente e allora si che vedremo grandi prodigi, senza dover andare troppo lontano a cercare, ma ripartendo da dentro di noi. Potremo allora dire anche noi,ti cercavo fuori e ti ho trovato dentro di me, come ha detto Sant’Agostino in una delle sue pagine più belle. I nostri Santi, la loro vita, il loro modo di cercare e trovare Dio , sono esempi da imitare, perchè pur vivendo nel mondo , come tutti noi, hanno varcato la porta del Regno e ci insegnano come.
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Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t'amai,bellezza così antica e così nuova.
Eppure, Signore, tu eri dentro me, ma io ero fuori;
deforme com' ero, guardavo la bellezza del tuo creato.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t 'amai, bellezza così antica e così nuova.
Eri con me, e invece io, Signore, non ero con Te;
le tue creature mi tenevano lontano, lontano da Te.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
Tu mi chiamasti, e la Tua voce squarciò la mia sordità;
Tu balenasti e fu dissipata la mia cecità.
Tardi t' amai, bellezza infinita, tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
Tu esalasti il dolce Tuo profumo ed ho fame e sete di Te;
mi hai toccato: ecco ora io anelo alla Tua pace.
Tardi t' amai, bellezza infinita,tardi t' amai,
tardi t' amai, bellezza così antica e così nuova.
lunedì 3 febbraio 2014
PREGHIERA
PREGHIERA
Signore mio
quanto vorrei sapere dove vado,dove mi stai conducendo,ma non riesco più nemmeno a seguirti con il pensiero,ed il mio cuore ormai ti appartiene,parla più con te che con me...
Aiutami ad essere forte,semplice e pura,aiutami a non lasciarmi travolgere dagli eventi,aiutami a fare silenzio....aiutami ad ascoltare solo la tua voce.
(lella)
Signore mio
quanto vorrei sapere dove vado,dove mi stai conducendo,ma non riesco più nemmeno a seguirti con il pensiero,ed il mio cuore ormai ti appartiene,parla più con te che con me...
Aiutami ad essere forte,semplice e pura,aiutami a non lasciarmi travolgere dagli eventi,aiutami a fare silenzio....aiutami ad ascoltare solo la tua voce.
(lella)
VOCE DI SAN PIO :
-" La preghiera è la migliore arma che abbiamo; è
una chiave che apre il cuore di Dio. Devi parlare a Gesú anche col
cuore, oltre che col labbro; anzi, in certi contingenti, devi parlargli
soltanto col cuore." (CE, 40).
SANTI é BEATI :
San Giovanni de Britto Martire
|
Lisbona, 1 marzo 1647 - Oreiour, India, 11 febbraio 1693
Emblema: PalmaMartirologio Romano: In località Oriur nel regno di Maravá in India, san Giovanni de Britto, sacerdote della Compagnia di Gesù e martire, che, dopo aver convertito molti alla fede imitando la vita e la condotta degli asceti di quella regione, coronò la sua vita con un glorioso martirio. |
"Nuovo Saverio" chiamarono i Portoghesi e gli Indiani del Seicento il missionario Giovanni de Britto, nato a Lisbona, ucciso per la fede di Cristo a Oriur, nel Maravá (India). A dieci anni, Giovanni si ammalò di tisi, e i medici dichiararono il caso disperato. Allora la madre chiese la sua guarigione a s. Francesco Saverio, anzi, si obbligò con voto, a vestire per un anno il figliolo, a grazia ottenuta, con l'abito della Compagnia di Gesú. In pochi giorni Giovanni lasciò il letto, e, in esecuzíone del voto, comparve a corte in sottanina nera, portando al fianco una corona della Madonna. Finito l'anno del voto, l'abito religioso fu smesso, ma, non molto tempo dopo, Giovanni avanzò istanza per essere ammesso nella Compagnia di Gesú. Da parte del provinciale dei Gesuiti non c'erano difficoltà, ma sia il re, sia l'infante tentarono ogni via pur di scongiurare quella partenza. Ciononostante, il 17 dicembre 1662, a quindici anni, Giovanni entrò nel noviziato di Lisbona e poi fu mandato a Evora ed a Coimbra per attendere agli studi e sempre ebbe la fama d'uno dei migliori ingegni dell'università. Ma di pari passo con gli studi, sentiva crescere il desiderio di lavorare sulle orme del Saverio. Ebbe il coraggio di scrivere due volte, all'insaputa dei suoi superiori immediati, al p. generale Oliva, supplicandolo insistentemente di concedergli la grazia di andare alle missioni dell'India. Ed ebbe la promessa di essere accontentato alla prima partenza di nuovi operai per quella regione. Doveva però ancora compiere due anni di magistero in un collegio, poi dedicarsi allo studio della teologia e ricevere l'ordinazione sacerdotale: ciò avvenne all'inizio del 1673. Prima di partire per le missioni, dovette affrontare e superare l'ultima grande difficoltà, cioè sua madre, che non si era ancora riavuta dal dolore della morte in guerra del suo primogenito, Cristoforo. Giovanni ebbe però ragione di tutti gli interventi provocati dalla madre presso il re e presso il nunzio apostolico e, per evitare altri improvvisi intralci, non si recò al porto coi suoi compagni di viaggio, ma uscí di nascosto dal collegio dei Gesuiti e, prendendo delle scorciatoie, si recò diritto alla nave, di dove scrisse l'addio alla madre. Nel 1673, dopo un viaggio avventuroso, Giovanni arrivò a Goa. Visitando la tomba di s. Francesco Saverio, nella chiesa dei Gesuiti, egli ripeté il voto di lavorare per la conversione degli Indiani e s'installò nel collegio della Compagnia di Gesú, ove completò gli studi di teologia. Si applicò allo studio delle lingue indigene e poi si apprestò a raggiungere la residenza indicatagli dal padre provinciale: Colei, nel regno di Gingia. Scelse la via attraverso le montagne dei Gati e, per l'eccesso di fatica, si ammalò gravemente, ma, come anche altre volte, l'invocato intervento del Saverio lo risanò. Negli anni 1674-1679 lavorò a Colei e Tattuvancheri, poi nei regni di Tangiore e Gingia; negli anni 1685-686 fu anche superiore della missione. Le fatiche del suo lavoro erano poca cosa rispetto ai patimenti che le accompagnavano. Avendo saputo che da diciotto anni nessun missionario aveva raggiunto il regno di Maravá, ad est di Madura, egli si decise alla pericolosa impresa, dopo avervi inviato alcuni valenti catechisti. Il 5 maggio 1686 ne varcava il confine, e fu tale l'azione da lui svoltavi, che il 17 luglio dello stesso anno aveva già battezzato piú di duemila indiani, passando le notti a confessare e battezzare. Presto però il primo ministro del re di Maravá spiccò l'ordine di arresto contro il missionario e i suoi compagni, arresto al quale non erano estranee le imprudenze di un missionario di un altro Ordine religioso. In seguito, Giovanni subí, per circa un mese, un vero e crudele martirio, pur senza l'esecuzione della sua condanna a morte. Fra gli altri tormenti, fu flagellato con scudisci, schiaffeggiato, caricato di catene, e poi sdraiato nudo su di un masso di pietra pomice, arroventata dal sole e irta di punte acute, ove lo obbligavano a stare per maggior tormento, ora bocconi, ora supino, mentre sette od otto persone saltavano sul suo corpo. In quel carcere Giovanni rimase ancora ventidue giorni. Finalmente riuscí a parlare col re, il quale apparve soggiogato dalla verità. Liberato nell'agosto del 1686, Giovanni ricevette una lettera del provinciale con la comunicazione della sua nomina a procuratore della missione essendo morto il precedente; ebbe l'ordine di raggiungere al piú presto il Portogallo e di là Roma, e di presentarsi al padre generale. Giovanni fece tutte le obbiezioni che gli erano consentite dall'ubbidienza, ma dinanzi alla incrollabile decisione del provinciale si dispose immediatamente alla partenza. Dopo un viaggio "eccezionalmente felice", durante il quale toccò anche là sponda del Brasile, sbarcò a Lisbona l'8 settembre 1687. Dopo aver ossequiato i superiori, si recò dal re don Pedro II, della cui corte d'infante aveva fatto parte da bambino. Nell'aprile 1690 Giovanni riuscí alfine a prendere ancora una volta, l'ultima volta, la nave per l'India, arrivando a Goa il 2 novembre, quando i v?veri g?à cominciavano a scarsegg?are. Entrò di nuovo nel regno di Maravá, affron tando le ire di quel sovrano, feroce persecutore dei cristiani, che già aveva avuto occasione di minacciarlo di morte. Lavorava febbrilmente, senza pausa, pur non potendo fermarsi due giorni di seguito in un posto senza correre grave rischio. Un fatto singolare aggravò la situazione del futuro martire. Il 6 gennaio 1693, egli conferì il Battesimo a un principe di nome Teriadevem, trovato moribondo e da lui guarito istantaneamente, pronunziando il Credo e l'inizio del Vangelo di s. Giovanni. Secondo l'ordine del santo, il principe aveva scelto una sola fra le cinque donne che aveva già sposato, ripudiando le altre quattro, fra le quali vi era una nipote del re. Giovanni aveva compiuto il suo dovere; ma era facilmente prevedibile che i parenti avrebbero tentato di vendicare sanguinosamente l'affronto del ripudio. Difatti il sovrano diede ordine immediato che fossero arse tutte le chiese cristiane, saccheggiate le case dei fedeli ed arrestato il santo. E per impedire che fossero messe a ferro e fuoco le case dei cristiani, andò incontro ai nemici, l'8 gennaio, insieme con tre giovani catechisti. Accolto con ingiurie e percosse, è atterrato, poi, legato, con i suoi tre fedeli, è costretto ad una dolorosa marcia forzata, dietro gli armati a cavallo cadendo e insanguinando la lunga strada affollata di fedeli, accorsi a contemplare la passione generosa del loro padre, ad attingere forza dal suo esempio. Il giorno dopo l'arrivo nel carcere della capitale, al gruppetto dei prigionieri si aggiungono altri tre catechisti. In attesa del re, che giunge alla capitale solo il 20 gennaio, i prigionieri vivono con straordinario fervore le loro giornate. L'esempio e la parola del missionario sono il grande lievito di quel coraggio costante, inflessibile. Il 28 gennaio, il re emanò la sentenza. In realtà il re inviava lontano il missionario per farlo uccidere piú tranquillamente: lo fece condurre alla città di Oriur, presso la frontiera e contemporaneamente avvisò suo fratello, governatore di quella provincia, di giustiziarlo appena arrivato in sua mano. Stremato dalla prigionia, dalle privazioni, dalle percosse e dalla incessante preghiera, il missionario attraversò con estrema fatica la regione che si estende tra la capitale e Oriur. Il suo stato miserabile, i suoi piedi insanguinati, muovevano a compassione perfino alcuni pagani che l'incontravano, e un bramino gli offerse il suo cavallo, per farlo arrivare vivo alla meta. Il giorno seguente fu decapitato. Beatifìcato da Pio IX il 21 agosto del 1853, fu canonizzato da Pio XII, il 22 giugno 1947. Autore: Ferdinand Baumann |
(Mc 5,21-43) Fanciulla, io ti dico: Alzati!.
VANGELO
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
O mio Santo Spirito, confortami.Con la Tua sapienza, consigliami.Con il Tuo amore, riempimi.Con la Tua luce, illuminami.Fa che ogni tua parola diventi la mia parola, per testimoniare la parola che porta luce e vita eterna in ogni cuore.
Marco in questo 5° capitolo del suo Vangelo ci ha accompagnato in questo andare e tornare di Gesù e degli apostoli da una riva all’altra del mar Morto.
Gesù acclamato dalla folla e Gesù scacciato da chi ha altri interessi; come abbiamo visto nel vangelo di ieri, quindi possiamo vedere come l’incontro con lo stesso uomo sia accolto in maniera diversa, come nulla cambi nell’ accoglienza del figlio di Dio in base a quello che Lui offre, ma in base a quanto il cuore dell’uomo è disposto ad aprirsi.
Torna quindi sull’altra riva con i suoi discepoli e trova la folla che lo aspetta, si accalca e lo tocca. Immaginate quante mani lo abbiano sfiorato, si siano aggrappate a Lui, ma c’è un tocco che non gli sfugge, che si distingue dagli altri: il tocco di chi l’ ha cercato con la spasmodica attesa di chi crede il Lui, di chi ha fiducia cieca, di chi vuole essere salvato e immerge con quel suo tocco tutta la sua anima in quell’incontro.La donna rappresenta tutte quelle persone con delle ferite interiori che cercano la guarigione, ma quelle ferite così intime, che a volte non si vedono, ci debbono far pensare a quanto possano sanguinare, quanto possano indebolire e rendere fragili, specialmente quando ci troviamo davanti ad una persona che reagisce alle cose della vita, in maniera che ci può sembrare errata.
Anche Giairo si fa presso Gesù, crede sicuramente in Lui, nei suoi poteri di guaritore, altrimenti non si esporrebbe così (lui è uno dei capi della Sinagoga) e sappiamo bene che Gesù non era accettato dalla maggior parte di loro come il Messia.Hanno appena comunicato che la figlia è morta, ma Gesù dopo aver guarito la donna si rivolge a lui e dice: «Non temere, soltanto abbi fede!».Si reca a casa sua e trova la gente che piangeva disperata, allontana tutti ed alla presenza della mamma e del papà assicurò che la piccola non era morta, ma dormiva e le ordinò di alzarsi.
La fanciulla immediatamente si alzò e si mise a camminare.
Una cosa ancora per analizzare il comportamento di Gesù, chiede all’uomo d’avere fede e ai parenti perché si agitano e piangono, sembra quasi una domanda senza senso, la bambina è morta, ed il dolore umano sfoga nel pianto, ma è evidente che Gesù lega tra loro vari elementi, ma non si esprime operando il miracolo apertamente, come fa in altre occasioni, perché?
Lo deridevano…alcuni dei presenti, che molto probabilmente era lì a piangere a pagamento (cosa in vigore all’epoca) e che quindi non era spinto dall’amore per la fanciulla a quelle lacrime, non essendo effettivamente addolorato non era interessato al fatto che la ragazza si salvasse, quindi non avendo niente che gli stesse a cuore da chiedere a Gesù, si permetteva di deriderlo e di rifiutarlo. Vediamo che quello che chiede è una nuova visione della vita e della morte, un superare le idee terrene della morte come la fine di tutto, perché Gesù che dice perché piangete, non è morta, sta dormendo è colui che crede nella resurrezione. Gesù quindi fa distinzione tra chi lo prega con cuore sincero e chi no, scaccia via chi finge dolore, allontana gli ipocriti; torniamo a scoprire che nessun peccatore è allontanato da Gesù, neanche il peggiore, ma l’ipocrita si.
(Mc 5,21-43) Fanciulla, io ti dico: Alzati!.
+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’ altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Parola del Signore
+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’ altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
O mio Santo Spirito, confortami.Con la Tua sapienza, consigliami.Con il Tuo amore, riempimi.Con la Tua luce, illuminami.Fa che ogni tua parola diventi la mia parola, per testimoniare la parola che porta luce e vita eterna in ogni cuore.
Marco in questo 5° capitolo del suo Vangelo ci ha accompagnato in questo andare e tornare di Gesù e degli apostoli da una riva all’altra del mar Morto.
Gesù acclamato dalla folla e Gesù scacciato da chi ha altri interessi; come abbiamo visto nel vangelo di ieri, quindi possiamo vedere come l’incontro con lo stesso uomo sia accolto in maniera diversa, come nulla cambi nell’ accoglienza del figlio di Dio in base a quello che Lui offre, ma in base a quanto il cuore dell’uomo è disposto ad aprirsi.
Torna quindi sull’altra riva con i suoi discepoli e trova la folla che lo aspetta, si accalca e lo tocca. Immaginate quante mani lo abbiano sfiorato, si siano aggrappate a Lui, ma c’è un tocco che non gli sfugge, che si distingue dagli altri: il tocco di chi l’ ha cercato con la spasmodica attesa di chi crede il Lui, di chi ha fiducia cieca, di chi vuole essere salvato e immerge con quel suo tocco tutta la sua anima in quell’incontro.La donna rappresenta tutte quelle persone con delle ferite interiori che cercano la guarigione, ma quelle ferite così intime, che a volte non si vedono, ci debbono far pensare a quanto possano sanguinare, quanto possano indebolire e rendere fragili, specialmente quando ci troviamo davanti ad una persona che reagisce alle cose della vita, in maniera che ci può sembrare errata.
Anche Giairo si fa presso Gesù, crede sicuramente in Lui, nei suoi poteri di guaritore, altrimenti non si esporrebbe così (lui è uno dei capi della Sinagoga) e sappiamo bene che Gesù non era accettato dalla maggior parte di loro come il Messia.Hanno appena comunicato che la figlia è morta, ma Gesù dopo aver guarito la donna si rivolge a lui e dice: «Non temere, soltanto abbi fede!».Si reca a casa sua e trova la gente che piangeva disperata, allontana tutti ed alla presenza della mamma e del papà assicurò che la piccola non era morta, ma dormiva e le ordinò di alzarsi.
La fanciulla immediatamente si alzò e si mise a camminare.
Una cosa ancora per analizzare il comportamento di Gesù, chiede all’uomo d’avere fede e ai parenti perché si agitano e piangono, sembra quasi una domanda senza senso, la bambina è morta, ed il dolore umano sfoga nel pianto, ma è evidente che Gesù lega tra loro vari elementi, ma non si esprime operando il miracolo apertamente, come fa in altre occasioni, perché?
Lo deridevano…alcuni dei presenti, che molto probabilmente era lì a piangere a pagamento (cosa in vigore all’epoca) e che quindi non era spinto dall’amore per la fanciulla a quelle lacrime, non essendo effettivamente addolorato non era interessato al fatto che la ragazza si salvasse, quindi non avendo niente che gli stesse a cuore da chiedere a Gesù, si permetteva di deriderlo e di rifiutarlo. Vediamo che quello che chiede è una nuova visione della vita e della morte, un superare le idee terrene della morte come la fine di tutto, perché Gesù che dice perché piangete, non è morta, sta dormendo è colui che crede nella resurrezione. Gesù quindi fa distinzione tra chi lo prega con cuore sincero e chi no, scaccia via chi finge dolore, allontana gli ipocriti; torniamo a scoprire che nessun peccatore è allontanato da Gesù, neanche il peggiore, ma l’ipocrita si.
domenica 2 febbraio 2014
SANTI é BEATI :
San Biagio Vescovo e martire
3 febbraio - Memoria Facoltativa
+ Sebaste, Armenia, ca. 316
Il martire Biagio è ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di Sebaste in Armenia al tempo della "pax" costantiniana. Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è perciò spiegato dagli storici con una persecuzione locale dovuta ai contrasti tra l'occidentale Costantino e l'orientale Licinio. Nell'VIII secolo alcuni armeni portarono le reliquie a Maratea (Potenza), di cui è patrono e dove è sorta una basilica sul Monte San Biagio. Il suo nome è frequente nella toponomastica italiana - in provincia di Latina, Imperia, Treviso, Agrigento, Frosinone e Chieti - e di molte nazioni, a conferma della diffusione del culto. Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una lisca in gola, è invocato come protettore per i mali di quella parte del corpo. A quell'atto risale il rito della "benedizione della gola", compiuto con due candele incrociate. (Avvenire)
Patronato: Malattie della gola
Etimologia: Biagio = bleso, balbuziente, dal latino
Emblema: Bastone pastorale, Candela, Palma, Pettine per lana
Martirologio Romano: San Biagio, vescovo e martire, che in quanto cristiano subì a Sivas nell’antica Armenia il martirio sotto l’imperatore Licinio.
Poco si conosce della vita di San Biagio, di cui oggi si festeggia la memoria liturgica. Notizie biografiche sul Santo si possono riscontrare nell’agiografia di Camillo Tutini, che raccolse numerose testimonianze tramandate oralmente. Si sa che fu medico e vescovo di Sebaste in Armenia e che il suo martirio è avvenuto durante le persecuzioni dei cristiani, intorno al 316, nel corso dei contrasti tra gli imperatori Costantino (Occidente) e Licino (Oriente).
Catturato dai Romani fu picchiato e scorticato vivo con dei pettini di ferro, quelli che venivano usati per cardare la lana, ed infine decapitato per aver rifiutato di abiurare la propria fede in Cristo. Si tratta di un Santo conosciuto e venerato tanto in Occidente, quanto in Oriente. Il suo culto è molto diffuso sia nella Chiesa Cattolica che in quella Ortodossa.
Nella sua città natale, dove svolse il suo ministero vescovile, si narra che operò numerosi miracoli, tra gli altri si ricorda quello per cui è conosciuto, ossia, la guarigione, avvenuta durante il periodo della sua prigionia, di un ragazzo da una lisca di pesce conficcata nella trachea. Tutt’oggi, infatti, il Santo lo si invoca per i “mali alla gola”.
Inoltre San Biagio fa parte dei quattordici cosiddetti santi ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari. Venerato in moltissime città e località italiane, delle quali, di molte, è anche il santo patrono, viene festeggiato il 3 febbraio in quasi tutta la penisola italica.
È tradizione introdurre, nel mezzo della celebrazione liturgica, una speciale benedizione alle “gole” dei fedeli, impartita dal parroco incrociando due candele (anticamente si usava olio benedetto). Interessanti sono anche alcune tradizioni popolari tramandatesi nel tempo in occasione dei festeggiamenti del Santo. Chi usa, come a Milano, festeggiare in famiglia mangiando i resti dei panettoni avanzati appositamente a Natale, e chi prepara dei dolci tipici con forme particolari, che ricordano il santo, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. A Lanzara, una frazione della provincia di Salerno, per esempio, è tradizione mangiare la famosa “polpetta di San Biagio”.
Nella città di Salemi, invece, si narra che nel 1542 il Santo salvò la popolazione da una grave carestia, causata da un’invasione di cavallette che distrusse i raccolti nelle campagne, intercedendo ed esaudendo le preghiere del popolo che invocava il suo aiuto (san Biagio, infatti, oltre che essere protettore dei “mali della gola” è anche protettore delle messi); da quel giorno a Salemi, ogni anno il 3 di febbraio, si festeggia il Santo preparando i cosiddetti “cavadduzzi”, letteralmente “cavallette”, per ricordare il miracolo, e i “caddureddi” (la cui forma rappresenta la “gola”), che sono dei piccoli pani preparati con acqua e farina, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. Dal 2008 inoltre, sempre a Salemi, viene organizzata, con la collaborazione di tutte le scuole e associazioni della città, una spettacolare rappresentazione del “miracolo delle cavallette” che si conclude con l’arrivo alla chiesa del Santo per deporre i doni e farsi benedire le “gole”.
A Cannara, invece, un comune della provincia di Perugia, i festeggiamenti del Santo sono occasione per sfidarsi in antichi giochi di abilità popolani come, ad esempio, il simpatico gioco, attestato già nel XVI secolo, del “Ruzzolone”, ossia, far rotolare più a lungo possibile delle forme di formaggio per le vie del centro storico, o la famosa corsa dei sacchi e molti altri giochi ancora, per concludersi con la solenne processione con la statua del Santo accompagnati dalla banda musicale del posto.
A Fiuggi, invece, la sera prima, si bruciano nella piazza del paese davanti al municipio le “stuzze”, delle grandi cataste di legna a forma piramidale, in ricordo del miracolo avvenuto nel 1298 che vide San Biagio far apparire delle finte fiamme nella città, tanto da indurre le truppe nemiche, che attendevano fuori le mura pronte ad attaccare, a ripiegare pensando d’esser state precedute dagli alleati.
Le reliquie di San Biagio sono custodite nella Basilica di Maratea, città di cui è santo protettore: vi arrivarono nel 723 all’interno di un’urna marmorea con un carico che da Sebaste doveva giungere a Roma, viaggio poi interrotto a Maratea, unica città della Basilicata che si affaccia sul Mar Tirreno, a causa di una bufera.
Si racconta che la le pareti della Basilica, e più avanti anche la statua a lui eretta nel 1963 in cima alla Basilica, stillarono una specie di liquido giallastro che i fedeli raccolsero e usarono per curare i malati. Papa Pio IV nel 1563, allora vescovo, riconobbe tale liquido come “manna celeste”.
Non a caso a Maratea il Santo assume una valenza particolare e viene festeggiato per ben 2 volte l’anno; il 3 febbraio, come di consueto, e il giorno dell’anniversario della traslazione delle reliquie, dove i festeggiamenti durano 8 giorni, dal primo sabato di maggio fino alla seconda domenica del mese.
Autore: Pietro Barbini
C’è una sua statua anche su una guglia del Duomo di Milano, la città dove in passato il panettone natalizio non si mangiava mai tutto intero, riservandone sempre una parte per la festa del nostro santo. (E tuttora si vende a Milano il “panettone di san Biagio”, che sarebbe quello avanzato durante le festività natalizie). San Biagio lo si venera tanto in Oriente quanto in Occidente, e per la sua festa è diffuso il rito della “benedizione della gola”, fatta poggiandovi due candele incrociate (oppure con l’unzione, mediante olio benedetto), sempre invocando la sua intercessione. L’atto si collega a una tradizione secondo cui il vescovo Biagio avrebbe prodigiosamente liberato un bambino da una spina o lisca conficcata nella sua gola.
Vescovo, dunque. Governava, si ritiene, la comunità di Sebaste d’Armenia quando nell’Impero romano si concede la libertà di culto ai cristiani: nel 313, sotto Costantino e Licinio, entrambi “Augusti”, cioè imperatori (e pure cognati: Licinio ha sposato una sorella di Costantino). Licinio governa l’Oriente, e perciò ha tra i suoi sudditi anche Biagio. Il quale però muore martire intorno all’anno 316, ossia dopo la fine delle persecuzioni. Perché?
Non c’è modo di far luce. Il fatto sembra dovuto al dissidio scoppiato tra i due imperatori-cognati nel 314, e proseguito con brevi tregue e nuove lotte fino al 325, quando Costantino farà strangolare Licinio a Tessalonica (Salonicco). Il conflitto provoca in Oriente anche qualche persecuzione locale – forse ad opera di governatori troppo zelanti, come scrive lo storico Eusebio di Cesarea nello stesso IV secolo – con distruzioni di chiese, condanne dei cristiani ai lavori forzati, uccisioni di vescovi, tra cui Basilio di Amasea, nella regione del Mar Nero.
Per Biagio i racconti tradizionali, seguendo modelli frequenti in queste opere, che vogliono soprattutto stimolare la pietà e la devozione dei cristiani, sono ricchi di vicende prodigiose, ma allo stesso tempo incontrollabili. Il corpo di Biagio è stato deposto nella sua cattedrale di Sebaste; ma nel 732 una parte dei resti mortali viene imbarcata da alcuni cristiani armeni alla volta di Roma. Una improvvisa tempesta tronca però il loro viaggio a Maratea (Potenza): e qui i fedeli accolgono le reliquie del santo in una chiesetta, che poi diventerà l’attuale basilica, sull’altura detta ora Monte San Biagio, sulla cui vetta fu eretta nel 1963 la grande statua del Redentore, alta 21 metri.
Dal 1863 ha assunto il nome di Monte San Biagio la cittadina chiamata prima Monticello (in provincia di Latina) e disposta sul versante sudovest del Monte Calvo. Numerosi altri luoghi nel nostro Paese sono intitolati a lui: San Biagio della Cima (Imperia), San Biagio di Callalta (Treviso), San Biagio Platani (Agrigento), San Biagio Saracinisco (Frosinone) e San Biase (Chieti). Ma poi lo troviamo anche in Francia, in Spagna, in Svizzera e nelle Americhe... Ne ha fatta tanta di strada, il vescovo armeno della cui vita sappiamo così poco.
Autore: Domenico Agasso
3 febbraio - Memoria Facoltativa
+ Sebaste, Armenia, ca. 316
Il martire Biagio è ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di Sebaste in Armenia al tempo della "pax" costantiniana. Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è perciò spiegato dagli storici con una persecuzione locale dovuta ai contrasti tra l'occidentale Costantino e l'orientale Licinio. Nell'VIII secolo alcuni armeni portarono le reliquie a Maratea (Potenza), di cui è patrono e dove è sorta una basilica sul Monte San Biagio. Il suo nome è frequente nella toponomastica italiana - in provincia di Latina, Imperia, Treviso, Agrigento, Frosinone e Chieti - e di molte nazioni, a conferma della diffusione del culto. Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una lisca in gola, è invocato come protettore per i mali di quella parte del corpo. A quell'atto risale il rito della "benedizione della gola", compiuto con due candele incrociate. (Avvenire)
Patronato: Malattie della gola
Etimologia: Biagio = bleso, balbuziente, dal latino
Emblema: Bastone pastorale, Candela, Palma, Pettine per lana
Martirologio Romano: San Biagio, vescovo e martire, che in quanto cristiano subì a Sivas nell’antica Armenia il martirio sotto l’imperatore Licinio.
Poco si conosce della vita di San Biagio, di cui oggi si festeggia la memoria liturgica. Notizie biografiche sul Santo si possono riscontrare nell’agiografia di Camillo Tutini, che raccolse numerose testimonianze tramandate oralmente. Si sa che fu medico e vescovo di Sebaste in Armenia e che il suo martirio è avvenuto durante le persecuzioni dei cristiani, intorno al 316, nel corso dei contrasti tra gli imperatori Costantino (Occidente) e Licino (Oriente).
Catturato dai Romani fu picchiato e scorticato vivo con dei pettini di ferro, quelli che venivano usati per cardare la lana, ed infine decapitato per aver rifiutato di abiurare la propria fede in Cristo. Si tratta di un Santo conosciuto e venerato tanto in Occidente, quanto in Oriente. Il suo culto è molto diffuso sia nella Chiesa Cattolica che in quella Ortodossa.
Nella sua città natale, dove svolse il suo ministero vescovile, si narra che operò numerosi miracoli, tra gli altri si ricorda quello per cui è conosciuto, ossia, la guarigione, avvenuta durante il periodo della sua prigionia, di un ragazzo da una lisca di pesce conficcata nella trachea. Tutt’oggi, infatti, il Santo lo si invoca per i “mali alla gola”.
Inoltre San Biagio fa parte dei quattordici cosiddetti santi ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari. Venerato in moltissime città e località italiane, delle quali, di molte, è anche il santo patrono, viene festeggiato il 3 febbraio in quasi tutta la penisola italica.
È tradizione introdurre, nel mezzo della celebrazione liturgica, una speciale benedizione alle “gole” dei fedeli, impartita dal parroco incrociando due candele (anticamente si usava olio benedetto). Interessanti sono anche alcune tradizioni popolari tramandatesi nel tempo in occasione dei festeggiamenti del Santo. Chi usa, come a Milano, festeggiare in famiglia mangiando i resti dei panettoni avanzati appositamente a Natale, e chi prepara dei dolci tipici con forme particolari, che ricordano il santo, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. A Lanzara, una frazione della provincia di Salerno, per esempio, è tradizione mangiare la famosa “polpetta di San Biagio”.
Nella città di Salemi, invece, si narra che nel 1542 il Santo salvò la popolazione da una grave carestia, causata da un’invasione di cavallette che distrusse i raccolti nelle campagne, intercedendo ed esaudendo le preghiere del popolo che invocava il suo aiuto (san Biagio, infatti, oltre che essere protettore dei “mali della gola” è anche protettore delle messi); da quel giorno a Salemi, ogni anno il 3 di febbraio, si festeggia il Santo preparando i cosiddetti “cavadduzzi”, letteralmente “cavallette”, per ricordare il miracolo, e i “caddureddi” (la cui forma rappresenta la “gola”), che sono dei piccoli pani preparati con acqua e farina, benedetti dal parroco e distribuiti poi ai fedeli. Dal 2008 inoltre, sempre a Salemi, viene organizzata, con la collaborazione di tutte le scuole e associazioni della città, una spettacolare rappresentazione del “miracolo delle cavallette” che si conclude con l’arrivo alla chiesa del Santo per deporre i doni e farsi benedire le “gole”.
A Cannara, invece, un comune della provincia di Perugia, i festeggiamenti del Santo sono occasione per sfidarsi in antichi giochi di abilità popolani come, ad esempio, il simpatico gioco, attestato già nel XVI secolo, del “Ruzzolone”, ossia, far rotolare più a lungo possibile delle forme di formaggio per le vie del centro storico, o la famosa corsa dei sacchi e molti altri giochi ancora, per concludersi con la solenne processione con la statua del Santo accompagnati dalla banda musicale del posto.
A Fiuggi, invece, la sera prima, si bruciano nella piazza del paese davanti al municipio le “stuzze”, delle grandi cataste di legna a forma piramidale, in ricordo del miracolo avvenuto nel 1298 che vide San Biagio far apparire delle finte fiamme nella città, tanto da indurre le truppe nemiche, che attendevano fuori le mura pronte ad attaccare, a ripiegare pensando d’esser state precedute dagli alleati.
Le reliquie di San Biagio sono custodite nella Basilica di Maratea, città di cui è santo protettore: vi arrivarono nel 723 all’interno di un’urna marmorea con un carico che da Sebaste doveva giungere a Roma, viaggio poi interrotto a Maratea, unica città della Basilicata che si affaccia sul Mar Tirreno, a causa di una bufera.
Si racconta che la le pareti della Basilica, e più avanti anche la statua a lui eretta nel 1963 in cima alla Basilica, stillarono una specie di liquido giallastro che i fedeli raccolsero e usarono per curare i malati. Papa Pio IV nel 1563, allora vescovo, riconobbe tale liquido come “manna celeste”.
Non a caso a Maratea il Santo assume una valenza particolare e viene festeggiato per ben 2 volte l’anno; il 3 febbraio, come di consueto, e il giorno dell’anniversario della traslazione delle reliquie, dove i festeggiamenti durano 8 giorni, dal primo sabato di maggio fino alla seconda domenica del mese.
Autore: Pietro Barbini
C’è una sua statua anche su una guglia del Duomo di Milano, la città dove in passato il panettone natalizio non si mangiava mai tutto intero, riservandone sempre una parte per la festa del nostro santo. (E tuttora si vende a Milano il “panettone di san Biagio”, che sarebbe quello avanzato durante le festività natalizie). San Biagio lo si venera tanto in Oriente quanto in Occidente, e per la sua festa è diffuso il rito della “benedizione della gola”, fatta poggiandovi due candele incrociate (oppure con l’unzione, mediante olio benedetto), sempre invocando la sua intercessione. L’atto si collega a una tradizione secondo cui il vescovo Biagio avrebbe prodigiosamente liberato un bambino da una spina o lisca conficcata nella sua gola.
Vescovo, dunque. Governava, si ritiene, la comunità di Sebaste d’Armenia quando nell’Impero romano si concede la libertà di culto ai cristiani: nel 313, sotto Costantino e Licinio, entrambi “Augusti”, cioè imperatori (e pure cognati: Licinio ha sposato una sorella di Costantino). Licinio governa l’Oriente, e perciò ha tra i suoi sudditi anche Biagio. Il quale però muore martire intorno all’anno 316, ossia dopo la fine delle persecuzioni. Perché?
Non c’è modo di far luce. Il fatto sembra dovuto al dissidio scoppiato tra i due imperatori-cognati nel 314, e proseguito con brevi tregue e nuove lotte fino al 325, quando Costantino farà strangolare Licinio a Tessalonica (Salonicco). Il conflitto provoca in Oriente anche qualche persecuzione locale – forse ad opera di governatori troppo zelanti, come scrive lo storico Eusebio di Cesarea nello stesso IV secolo – con distruzioni di chiese, condanne dei cristiani ai lavori forzati, uccisioni di vescovi, tra cui Basilio di Amasea, nella regione del Mar Nero.
Per Biagio i racconti tradizionali, seguendo modelli frequenti in queste opere, che vogliono soprattutto stimolare la pietà e la devozione dei cristiani, sono ricchi di vicende prodigiose, ma allo stesso tempo incontrollabili. Il corpo di Biagio è stato deposto nella sua cattedrale di Sebaste; ma nel 732 una parte dei resti mortali viene imbarcata da alcuni cristiani armeni alla volta di Roma. Una improvvisa tempesta tronca però il loro viaggio a Maratea (Potenza): e qui i fedeli accolgono le reliquie del santo in una chiesetta, che poi diventerà l’attuale basilica, sull’altura detta ora Monte San Biagio, sulla cui vetta fu eretta nel 1963 la grande statua del Redentore, alta 21 metri.
Dal 1863 ha assunto il nome di Monte San Biagio la cittadina chiamata prima Monticello (in provincia di Latina) e disposta sul versante sudovest del Monte Calvo. Numerosi altri luoghi nel nostro Paese sono intitolati a lui: San Biagio della Cima (Imperia), San Biagio di Callalta (Treviso), San Biagio Platani (Agrigento), San Biagio Saracinisco (Frosinone) e San Biase (Chieti). Ma poi lo troviamo anche in Francia, in Spagna, in Svizzera e nelle Americhe... Ne ha fatta tanta di strada, il vescovo armeno della cui vita sappiamo così poco.
Autore: Domenico Agasso
VOCE DI SAN PIO :
-" Prega e spera; non agitarti.
L’agitazione non giova a nulla. Iddio è misericordioso e ascolterà la
tua preghiera."(CE, 39).
(Mc 5,1-20) Esci, spirito impuro, da quest’uomo.
VANGELO
(Mc 5,1-20) Esci, spirito impuro, da quest’uomo.
+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Gerasèni. Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!». E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti». E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati.
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni, o Spirito di Consiglio e di Fortezza, e rendici coraggiosi testimoni del Vangelo ricevuto. Fa che tutto quello che è mio non conti più nulla e quello che viene da Dio si impossessi della mia mente e del mio cuore.
Questa scena descritta da Marco, ci racconta il seguito della scena precedente, quando Gesù sulla barca con i discepoli, calma la tempesta. Eccoli, finalmente sull’ altra riva, che è descritta piena di sepolcri tra i quali si aggira un uomo posseduto dagli spiriti impuri. Una terra di morti e spiriti immondi, che avevano provato a contrastare l’arrivo di Gesù su quella spiaggia, provocando la tempesta, perché sapevano che con il suo arrivo sarebbero dovuti andare altrove.
Proviamo a mettere in relazione questo posto così inospitale, con qualcosa che invece conosciamo bene, tipo la nostra vita, la nostra cerchia d’amicizie, le nostre serate passate cercando di divertirci ad ogni costo, i nostri giri tra lazzi e vizi. Quell’ essere indemoniato gridava e si percuoteva con delle pietre, perché è così che il diavolo agisce; ti fa fare cose che ti fanno del male, ti fa compiere azioni distruttive perché il suo godimento e vederti schiavo dei tuoi peccati, dei tuoi vizi.
Appena vede Gesù, lo riconosce e si getta ai suoi piedi, pregandolo di non scacciarlo da lì. Non pensate ad un diavolo poverino che può far pena, ma piuttosto alla falsità con la quale si pone. Non sta cercando com’ essere umano di sopravvivere, ma com’ essere diabolico, di continuare a colpire, di fare del male all’ uomo per colpire Dio e quello che succede dopo, ci deve far riflettere e non poco, sulla capacità del male di insinuarsi nella nostra vita.
Infatti, non è un solo spirito maligno, ma addirittura una legione di diavoli che si schiera davanti a Gesù, i quali, non potendo lottare contro di lui, lo implorarono di mandarli nei corpi d’alcuni porci che erano lì vicino.
Questo chiedere a Gesù il permesso per entrare in quei corpi mi porta a considerare che Dio permette le prove e per quanto scomodo sia dire questo, mi sembra e non solo in base a questa scrittura, ma anche ad altri passi della Bibbia, come il libro di Giobbe che io leggo ogni giorno, che questa sia una realtà con la quale dobbiamo fare i conti. Così fece e subito i porci si buttarono in mare e perirono.
Ed ecco che gli abitanti dell’ isola, avvisati dai mandriani, accorsero per vedere quello che era successo, e non ne furono per nulla felici, anzi, in un mondo in cui tutto è basato sugli interessi, quei maiali rappresentavano la ricchezza, ed allora, della salvezza di quell’ uomo non interessa a nessuno.
Gesù non riceve ringraziamenti e tutti gli chiedono di andarsene, perché non accettano la perdita dei loro averi . Nessuno è disposto a perdere le cose alle quali tiene, gli interessi valgono più della vita umana e questa è, purtroppo la vita di tutti i giorni. La triste realtà con la quale ci scontriamo nel mondo d’oggi, ma che a quanto pare, di sempre!
Quando pensiamo ai comandamenti di Dio, ci viene naturale dire di essere cristiani, in fondo non ammazziamo, non rubiamo, andiamo a messa.... ma già al primo comandamento, se siamo onesti e sinceri, sappiamo di avere molti altri idoli che vengono prima di Dio, proprio come i Geràseni.
Quando pensiamo ai comandamenti di Dio, ci viene naturale dire di essere cristiani, in fondo non ammazziamo, non rubiamo, andiamo a messa.... ma già al primo comandamento, se siamo onesti e sinceri, sappiamo di avere molti altri idoli che vengono prima di Dio, proprio come i Geràseni.
sabato 1 febbraio 2014
PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO :
Presentazione del Signore
2 febbraio
Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32), ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. Nel sec. VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. La presentazione del Signore chiude le celebrazioni natalizie e con l’offerta della Vergine Madre e la profezia di Simeone apre il cammino verso la Pasqua. (Mess. Rom.)
Martirologio Romano: Festa della Presentazione del Signore, dai Greci chiamata Ipapánte: quaranta giorni dopo il Natale del Signore, Gesù fu condotto da Maria e Giuseppe al Tempio, sia per adempiere la legge mosaica, sia soprattutto per incontrare il suo popolo credente ed esultante, luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele.
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:
La festività odierna, di cui abbiamo la prima testimonianza nel secolo IV a Gerusalemme, venne denominata fino alla recente riforma del calendario festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della sacra Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di "presentazione del Signore", che aveva in origine. L'offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, prelude alla sua offerta sacrificale sulla croce.
Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce pure una lezione di umiltà, a coronamento dell'annuale meditazione sul grande mistero natalizio, in cui il Figlio di Dio e la sua divina Madre ci si presentano nella commovente ma mortificante cornice del presepio, vale a dire nell'estrema povertà dei baraccati, nella precaria esistenza degli sfollati e dei perseguitati, quindi degli esuli.
L'incontro del Signore con Simeone e Anna nel Tempio accentua l'aspetto sacrificale della celebrazione e la comunione personale di Maria col sacrificio di Cristo, poiché quaranta giorni dopo la sua divina maternità la profezia di Simeone le fa intravedere le prospettive della sua sofferenza: "Una spada ti trafiggerà l'anima": Maria, grazie alla sua intima unione con la persona di Cristo, viene associata al sacrificio del Figlio. Non stupisce quindi che alla festa odierna si sia dato un tempo tale risalto da indurre l'imperatore Giustiniano a decretare il 2 febbraio giorno festivo in tutto l'impero d'Oriente.
Roma adottò la festività verso la metà del VII secolo; papa Sergio I (687-701) istituì la più antica delle processioni penitenziali romane, che partiva dalla chiesa di S. Adriano al Foro e si concludeva a S. Maria Maggiore. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: "I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti". Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della "candelora". La notizia data già da Beda il Venerabile, secondo la quale la processione sarebbe un contrapposto alla processione dei Lupercalia dei Romani, e una riparazione alle sfrenatezza che avvenivano in tale circostanza, non trova conferma nella storia.
Autore: Piero Bargellini
2 febbraio
Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32), ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. Nel sec. VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. La presentazione del Signore chiude le celebrazioni natalizie e con l’offerta della Vergine Madre e la profezia di Simeone apre il cammino verso la Pasqua. (Mess. Rom.)
Martirologio Romano: Festa della Presentazione del Signore, dai Greci chiamata Ipapánte: quaranta giorni dopo il Natale del Signore, Gesù fu condotto da Maria e Giuseppe al Tempio, sia per adempiere la legge mosaica, sia soprattutto per incontrare il suo popolo credente ed esultante, luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele.
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:
La festività odierna, di cui abbiamo la prima testimonianza nel secolo IV a Gerusalemme, venne denominata fino alla recente riforma del calendario festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della sacra Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di "presentazione del Signore", che aveva in origine. L'offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, prelude alla sua offerta sacrificale sulla croce.
Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce pure una lezione di umiltà, a coronamento dell'annuale meditazione sul grande mistero natalizio, in cui il Figlio di Dio e la sua divina Madre ci si presentano nella commovente ma mortificante cornice del presepio, vale a dire nell'estrema povertà dei baraccati, nella precaria esistenza degli sfollati e dei perseguitati, quindi degli esuli.
L'incontro del Signore con Simeone e Anna nel Tempio accentua l'aspetto sacrificale della celebrazione e la comunione personale di Maria col sacrificio di Cristo, poiché quaranta giorni dopo la sua divina maternità la profezia di Simeone le fa intravedere le prospettive della sua sofferenza: "Una spada ti trafiggerà l'anima": Maria, grazie alla sua intima unione con la persona di Cristo, viene associata al sacrificio del Figlio. Non stupisce quindi che alla festa odierna si sia dato un tempo tale risalto da indurre l'imperatore Giustiniano a decretare il 2 febbraio giorno festivo in tutto l'impero d'Oriente.
Roma adottò la festività verso la metà del VII secolo; papa Sergio I (687-701) istituì la più antica delle processioni penitenziali romane, che partiva dalla chiesa di S. Adriano al Foro e si concludeva a S. Maria Maggiore. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: "I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti". Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della "candelora". La notizia data già da Beda il Venerabile, secondo la quale la processione sarebbe un contrapposto alla processione dei Lupercalia dei Romani, e una riparazione alle sfrenatezza che avvenivano in tale circostanza, non trova conferma nella storia.
Autore: Piero Bargellini
SANTI é BEATI :
Beato Pietro da Ruffia Sacerdote e martire
2 Febbraio
Ruffia, Cuneo, 1320 circa - Susa, Torino, 2 febbraio 1365
Lasciata Ruffia (Cn) dove era nato da una famiglia della nobiltà piemontese, entrò nell'Ordine, praticando eroicamente la povertà, il rinnegamento di sé e applicandosi intensamente allo studio. Fu inquisitore della fede a Torino e non risparmiò fatica per salvaguardare dall'eresia le popolazioni del Piemonte e della Liguria. Mentre era ospite a Susa dei Frati Minori, fu pugnalato dai valdesi il 2 febbraio, giorno della Presentazione del Signore.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Susa in Piemonte, beato Pietro Cambiani da Ruffia, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e martire, che in odio alla Chiesa fu trucidato nel chiostro dai suoi avversari.
Un inquisitore barbaramente ucciso, se è un martire per la Chiesa cattolica, è considerato invece, dai più, la vittima di un fenomeno religioso, politico e sociale, circoscritto a un determinato periodo storico, di cui era evidentemente protagonista. Nati alla fine del XII secolo e, nel corso dei secoli, assai diversi nel loro funzionamento, a seconda degli stati in cui operavano, i tribunali inquisitori dovevano difendere la fede dalle eresie ma sovente erano strumentalizzati dai vari sovrani per il controllo del territorio. D’altra parte anche i protestanti attuarono un sistema di difesa del proprio credo religioso. I fatti sanguinosi che genericamente e superficialmente identificano l’inquisizione in realtà sono stati meno numerosi di ciò che si crede e comunque si devono valutare nel complesso contesto in cui avvennero. Secoli sono passati, oggi sono altre le eresie da arginare, resta però l’esempio di alcuni uomini che si sono immolati, senza compromessi, a difesa dei fondamenti cattolici. I Domenicani, da sempre a capo dell’Inquisizione, spesso etichettati come intransigenti, pagarono in alcuni casi un tributo di sangue. Il Beato Pietro Cambiani è il protomartire degli inquisitori piemontesi: al suo successore, Beato Antonio Pavoni, toccò la stessa sorte, la domenica in Albis del 1374 a Bricherasio, come pure al Beato Bartolomeo da Cervere nel 1466.
Pietro, di nobile famiglia, nacque a Ruffia (Cuneo), intorno all’anno 1320. A sedici anni abbandonò gli agi familiari per entrare tra i Domenicani di Savigliano dove studiò brillantemente la Sacra Scrittura, la Teologia e il Diritto. Eccellenti doti umane e dottrinarie gli valsero la fama di grande oratore. Ricercato per i preziosi consigli, il suo nome giunse a Roma, tanto che il Papa lo elesse, nel 1351, inquisitore generale per il Piemonte e la Liguria. Torino, che già assumeva le caratteristiche di una capitale, era la sede del tribunale e Pietro vi si stabilì. Nelle immediate vicinanze dell’antica chiesa di S. Domenico, aveva la sua dimora con annesse alcune stanze adibite a carcere speciale.
Il problema più grave per le gerarchie ecclesiastiche era rappresentato dai Valdesi. L’ispiratore era un mercante francese, Pietro Valdo, che nel 1173 aveva rinunciato ai suoi beni per praticare e predicare la povertà. Successivamente il movimento laicale, dividendosi in più correnti, conobbe un rapido sviluppo, raggiungendo anche alcune valli piemontesi. Nati pacificamente, i loro toni degenerarono in attacchi frontali all’autorità ecclesiastica, confutando il potere dei sacerdoti, l’utilità degli edifici di culto e delle indulgenze, negando la venerazione dei santi e il purgatorio. Il Beato Pietro, dotto in scienza e dottrina, conoscendo bene il territorio maggiormente esposto al pericolo, era stato appositamente scelto come inquisitore. Piissimo, zelante nel suo ufficio, instancabile, per quattordici anni operò a Torino, in cui aveva sede il tribunale, e nelle valli della regione. Si spostava a piedi per le strade di montagna, sopportando fatiche enormi. Vista la gravosità del compito, chiedeva forza al Signore, fortificando il proprio spirito con preghiere, penitenze e digiuni. Convertì molti eretici e preservò interi paesi dall’abiura, con un ardore e un impegno eccezionali che però furono causa di molte inimicizie.
Il 2 febbraio 1365, celebrata la S. Messa della Presentazione del Signore nella chiesa francescana di Susa, due sconosciuti, probabilmente valdesi giunti dalle Valli di Lanzo, gli chiesero un colloquio appartato. Nel chiostro lo pugnalarono a morte per poi fuggire. L’omicidio suscitò grande emozione anche perché avvenuto in un edificio sacro, un vescovo dovette in seguito purificare il luogo del delitto. I Savoia, a una dura repressione, preferirono aumentare il presidio del territorio.
La fama del martirio di Pietro Cambiani fu tale che ne parlarono come cosa notissima Papa Gregorio XI nel 1375 e S. Vincenzo Ferreri nel 1403. Qualche tempo dopo la sua morte circolava un’incisione in cui gli assassini era effigiati come demoni. Il corpo rimase a Susa fino al 7 novembre 1516, quando fu traslato solennemente nella chiesa torinese di S. Domenico. Fu posto in cornu evangeli con un affresco che lo ritraeva, poi scomparso. Oggi le reliquie sono venerate nella navata di sinistra. Papa Pio IX il 4 dicembre 1865, nel quinto centenario della morte, ne confermò il culto. La sua festa, anticamente al 7 novembre, è oggi fissata al 2 febbraio.
PREGHIERA
Per tuo amore, o Dio, il Beato Pietro da Ruffia
non esitò ad offrirti la propria vita.
Fa che in unione a Cristo anche noi ti offriamo
il sacrificio della nostra esistenza quotidiana.
Per Cristo Nostro Signore, amen.
Autore: Daniele Bolognini
2 Febbraio
Ruffia, Cuneo, 1320 circa - Susa, Torino, 2 febbraio 1365
Lasciata Ruffia (Cn) dove era nato da una famiglia della nobiltà piemontese, entrò nell'Ordine, praticando eroicamente la povertà, il rinnegamento di sé e applicandosi intensamente allo studio. Fu inquisitore della fede a Torino e non risparmiò fatica per salvaguardare dall'eresia le popolazioni del Piemonte e della Liguria. Mentre era ospite a Susa dei Frati Minori, fu pugnalato dai valdesi il 2 febbraio, giorno della Presentazione del Signore.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Susa in Piemonte, beato Pietro Cambiani da Ruffia, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori e martire, che in odio alla Chiesa fu trucidato nel chiostro dai suoi avversari.
Un inquisitore barbaramente ucciso, se è un martire per la Chiesa cattolica, è considerato invece, dai più, la vittima di un fenomeno religioso, politico e sociale, circoscritto a un determinato periodo storico, di cui era evidentemente protagonista. Nati alla fine del XII secolo e, nel corso dei secoli, assai diversi nel loro funzionamento, a seconda degli stati in cui operavano, i tribunali inquisitori dovevano difendere la fede dalle eresie ma sovente erano strumentalizzati dai vari sovrani per il controllo del territorio. D’altra parte anche i protestanti attuarono un sistema di difesa del proprio credo religioso. I fatti sanguinosi che genericamente e superficialmente identificano l’inquisizione in realtà sono stati meno numerosi di ciò che si crede e comunque si devono valutare nel complesso contesto in cui avvennero. Secoli sono passati, oggi sono altre le eresie da arginare, resta però l’esempio di alcuni uomini che si sono immolati, senza compromessi, a difesa dei fondamenti cattolici. I Domenicani, da sempre a capo dell’Inquisizione, spesso etichettati come intransigenti, pagarono in alcuni casi un tributo di sangue. Il Beato Pietro Cambiani è il protomartire degli inquisitori piemontesi: al suo successore, Beato Antonio Pavoni, toccò la stessa sorte, la domenica in Albis del 1374 a Bricherasio, come pure al Beato Bartolomeo da Cervere nel 1466.
Pietro, di nobile famiglia, nacque a Ruffia (Cuneo), intorno all’anno 1320. A sedici anni abbandonò gli agi familiari per entrare tra i Domenicani di Savigliano dove studiò brillantemente la Sacra Scrittura, la Teologia e il Diritto. Eccellenti doti umane e dottrinarie gli valsero la fama di grande oratore. Ricercato per i preziosi consigli, il suo nome giunse a Roma, tanto che il Papa lo elesse, nel 1351, inquisitore generale per il Piemonte e la Liguria. Torino, che già assumeva le caratteristiche di una capitale, era la sede del tribunale e Pietro vi si stabilì. Nelle immediate vicinanze dell’antica chiesa di S. Domenico, aveva la sua dimora con annesse alcune stanze adibite a carcere speciale.
Il problema più grave per le gerarchie ecclesiastiche era rappresentato dai Valdesi. L’ispiratore era un mercante francese, Pietro Valdo, che nel 1173 aveva rinunciato ai suoi beni per praticare e predicare la povertà. Successivamente il movimento laicale, dividendosi in più correnti, conobbe un rapido sviluppo, raggiungendo anche alcune valli piemontesi. Nati pacificamente, i loro toni degenerarono in attacchi frontali all’autorità ecclesiastica, confutando il potere dei sacerdoti, l’utilità degli edifici di culto e delle indulgenze, negando la venerazione dei santi e il purgatorio. Il Beato Pietro, dotto in scienza e dottrina, conoscendo bene il territorio maggiormente esposto al pericolo, era stato appositamente scelto come inquisitore. Piissimo, zelante nel suo ufficio, instancabile, per quattordici anni operò a Torino, in cui aveva sede il tribunale, e nelle valli della regione. Si spostava a piedi per le strade di montagna, sopportando fatiche enormi. Vista la gravosità del compito, chiedeva forza al Signore, fortificando il proprio spirito con preghiere, penitenze e digiuni. Convertì molti eretici e preservò interi paesi dall’abiura, con un ardore e un impegno eccezionali che però furono causa di molte inimicizie.
Il 2 febbraio 1365, celebrata la S. Messa della Presentazione del Signore nella chiesa francescana di Susa, due sconosciuti, probabilmente valdesi giunti dalle Valli di Lanzo, gli chiesero un colloquio appartato. Nel chiostro lo pugnalarono a morte per poi fuggire. L’omicidio suscitò grande emozione anche perché avvenuto in un edificio sacro, un vescovo dovette in seguito purificare il luogo del delitto. I Savoia, a una dura repressione, preferirono aumentare il presidio del territorio.
La fama del martirio di Pietro Cambiani fu tale che ne parlarono come cosa notissima Papa Gregorio XI nel 1375 e S. Vincenzo Ferreri nel 1403. Qualche tempo dopo la sua morte circolava un’incisione in cui gli assassini era effigiati come demoni. Il corpo rimase a Susa fino al 7 novembre 1516, quando fu traslato solennemente nella chiesa torinese di S. Domenico. Fu posto in cornu evangeli con un affresco che lo ritraeva, poi scomparso. Oggi le reliquie sono venerate nella navata di sinistra. Papa Pio IX il 4 dicembre 1865, nel quinto centenario della morte, ne confermò il culto. La sua festa, anticamente al 7 novembre, è oggi fissata al 2 febbraio.
PREGHIERA
Per tuo amore, o Dio, il Beato Pietro da Ruffia
non esitò ad offrirti la propria vita.
Fa che in unione a Cristo anche noi ti offriamo
il sacrificio della nostra esistenza quotidiana.
Per Cristo Nostro Signore, amen.
Autore: Daniele Bolognini
VOCE DI SAN PIO :
-" Voglio essere soltanto un povero frate che prega… Dio vede le macchie anche negli angeli, figuriamoci in me!" (T, 58).
(Lc 2,22-40) I miei occhi hanno visto la tua salvezza. (presentazione di Gesù al tempio)
VANGELO
(Lc 2,22-40)
I miei occhi hanno visto la tua salvezza. (presentazione di Gesù al tempio)
+ Dal Vangelo secondo Luca
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
Parola del Signore.
I miei occhi hanno visto la tua salvezza. (presentazione di Gesù al tempio)
+ Dal Vangelo secondo Luca
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
Parola del Signore.
LA
MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Signore
mio, a volte ti sento così vicino, altre irraggiungibile, fa che il
Tuo Spirito, resti su di me, in me e mi faccia vedere tutta la luce
che emana da Te, che io mi lasci penetrare da essa. Per Cristo nostro
Signore. Amen.
La
presentazione di Gesù al tempio, atto dovuto che ci fa vedere come
Maria e Giuseppe, pur essendo coscienti di essere cari al Signore, di
essere stati scelti, per un compito, del quale ancora non comprendono
bene il fine, non cercano di sfuggire le regole della legge giudaica,
sotto alla quale sono cresciuti, ma anzi la onorano e in questo modo
la fondono con la venuta del Messia.
E’
Gesù il tanto atteso, se ne accorge subito il vecchio Simeone che
era un uomo saggio e giusto, ripieno di Spirito di Dio, che
profetizzò alla Madre che per quel figlio avrebbe sofferto
moltissimo e se ne accorse Anna, una vecchia vedova che
dedicava la sua vita al tempio. Quel bambino avrebbe salvato
l’umanità, con il suo sacrificio sulla croce, ma avrebbe prima
spiegato da allora e per sempre agli uomini come entrare nel regno di
Dio.
Ci
avrebbe dato tutte le armi e gli strumenti necessari per comprendere
e solo chi voleva rimanere cieco e sordo, chi non cerca la salvezza,
ma mette dei paletti alla conoscenza del Signore, non lo riconosce.
Simeone e Anna che invece erano vigili e immersi nella preghiera,
mettevano Dio ed il suo tempio, la sua comunità al primo posto, non
si lasciano sfuggire l’occasione di ammirarlo ed adorarlo.
La
Chiesa ci propone con le ceneri il richiamano il digiuno e la
penitenza. È un gesto di umiltà e di realismo. Un digiuno
finalizzato. "Non digiuniamo per la Pasqua, né per la croce, ma
per i nostri peccati, perché stiamo per accedere ai misteri"
(San Giovanni Crisostomo). Sant’Agostino: " Il digiuno
veramente grande è l’astinenza dalle iniquità e dai piaceri
illeciti del mondo; questo è il digiuno perfetto". La pratica
del digiuno,non è un optional che abbellisce il nostro aspetto
esteriore di bravi cristiani, anzi, deve essere concepita proprio nel
senso opposto. Abbiamo spesso affermato, che quello che il Signore
vuole da noi, è una vera fede, non fatta di apparenza e di
esteriorità e quello che deve essere il nostro intento, è proprio
entrare nella profondità della fede. Il digiuno serve per capire
quanto siamo schiavi delle cose materiali, quanto quello che ci
succede intorno in fondo non ci tocca l'anima perché non ci tocca
personalmente. Non cerchiamo di sembrare migliori, cerchiamo di
diventarlo, per noi stessi, per poter godere delle grazie che il
Signore ci elargirà, solo in base a quanto noi ci affideremo a Lui.
Viviamo in vera preparazione alla Pasqua, seguendo Gesù nel deserto,
cercando di affrontare le tentazioni e di vincerle, provando ad
entrare nel mistero della comunione con Cristo.
Non
può essere una cosa che ci rattrista, ma anzi, se veramente si
riesce a viverla con profondità, ci darà talmente tanto, che nessun
sacrificio ci sembrerà tale. La gioia di avvicinare il nostro
spirito al Signore, nel silenzio, nell'umiltà, nella verità; non
come i farisei, solo per seguire le regole, ci potrà riempire di
consapevolezza, ci potrà far capire quanto siamo fragili,perché
senza la forza dello Spirito Santo noi non siamo niente. Il gesto che
il sacerdote compie su di noi in chiesa di segnarci con le ceneri,
serve a ricordare in modo provocatorio, che tutto quello che noi
siamo appartiene a Dio, che il nostro corpo tornerà alla
polvere,perché verrà consunto dalla morte, ma che la parte eterna
di noi, vivrà con Cristo, la Pasqua della resurrezione. La nostra
fede in Gesù è una fede nella speranza della vita eterna, che passa
attraverso le tribolazioni della passione di Cristo, dovute al nostro
rifiuto di riconoscerlo re della nostra vita, ed allora tutto quello
che noi viviamo, lo possiamo vivere con Lui o senza di Lui, resta una
nostra scelta fidarci o continuare a cercare di vivere senza
ascoltare la sua parola, resta una scelta, ma spero che insieme
potremo fare la scelta definitiva, quella che ci farà decidere per
Cristo, attraverso il digiuno, la preghiera e la carità.
venerdì 31 gennaio 2014
VOCE DI SAN PIO :
-"VOCE
DI SAN PIO : La preghiera è l’effusione del nostro cuore in quello di
Dio… Quando essa è fatta bene, commuove il Cuore divino e lo invita
sempre piú ad esaudirci. Cerchiamo di effondere tutto l’animo nostro
quando ci mettiamo a pregare Iddio. Egli rimane avvinto dalle nostre
preghiere per poterci venire in aiuto." (T, 74).
SANTI é BEATI :
Beato Andrea Conti (De Comitibus) Francescano
1 febbraio
Anagni, 1240 - Piglio, (monte Scalambra), 1° febbraio 1302
Martirologio Romano: A Piglio nel Lazio, beato Andrea dei Conti di Segni, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che, rifiutata ogni più alta dignità, preferì servire Cristo in umiltà e semplicità.
Andrea De Comitibus dei Conti di Segni, nacque ad Anagni verso il 1240; fu parente stretto dei papi Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro IV e Bonifacio VIII, degli ultimi due fu rispettivamente nipote e zio.
Dalla città di Anagni, che fu sede pontificia di alcuni papi e in cui conobbe l’Ordine Francescano, facendone parte, venne trasferito per suo desiderio nel vicino convento eremitaggio di Piglio, alle pendici del monte Scalambra, dove rimase per tutta la vita.
In questo convento divenne modello perfetto di umiltà francescana e mortificazione, di modestia e di pietà.
Ancora oggi è visibile la grotta in cui trascorreva gran parte della sua giornata in preghiera e nella più dura povertà e penitenza.
Ma fu anche uno studioso, suo è il trattato “De partu Virginis” purtroppo andato perduto; ebbe doni carismatici da Dio nell’aiutare le anime, con consigli e miracoli, specie contro le insidie diaboliche.
Nel 1295 suo nipote il papa Bonifacio VIII, voleva nominarlo cardinale, ma egli rifiutò tale dignità, preferendo servire la Chiesa nella sua solitudine. A circa 62 anni, morì il 1° febbraio 1302 nello stesso convento romitorio del monte Scalambra, dove il suo corpo riposa tuttora nella chiesa di S. Lorenzo dei Frati Minori Conventuali.
Il suo culto fu riconosciuto ed approvato da papa Innocenzo XIII, l’11 dicembre 1724; durante l’ultima Guerra Mondiale, il suo sepolcro ricevé danni dal bombardamento alleato del 12 maggio 1944 e per ripararlo si fece una ricognizione delle reliquie, l’8 febbraio 1945.
Un’antica immagine del beato datata al secolo XIV, si può vedere in un affresco di Taddeo Gaddi nella Basilica di S. Croce a Firenze.
La sua celebrazione liturgica è al 1° febbraio a Piglio (Frosinone) e nella diocesi di Anagni, in altre chiese francescane al 3 febbraio.
Autore: Antonio Borrelli
1 febbraio
Anagni, 1240 - Piglio, (monte Scalambra), 1° febbraio 1302
Martirologio Romano: A Piglio nel Lazio, beato Andrea dei Conti di Segni, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che, rifiutata ogni più alta dignità, preferì servire Cristo in umiltà e semplicità.
Andrea De Comitibus dei Conti di Segni, nacque ad Anagni verso il 1240; fu parente stretto dei papi Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro IV e Bonifacio VIII, degli ultimi due fu rispettivamente nipote e zio.
Dalla città di Anagni, che fu sede pontificia di alcuni papi e in cui conobbe l’Ordine Francescano, facendone parte, venne trasferito per suo desiderio nel vicino convento eremitaggio di Piglio, alle pendici del monte Scalambra, dove rimase per tutta la vita.
In questo convento divenne modello perfetto di umiltà francescana e mortificazione, di modestia e di pietà.
Ancora oggi è visibile la grotta in cui trascorreva gran parte della sua giornata in preghiera e nella più dura povertà e penitenza.
Ma fu anche uno studioso, suo è il trattato “De partu Virginis” purtroppo andato perduto; ebbe doni carismatici da Dio nell’aiutare le anime, con consigli e miracoli, specie contro le insidie diaboliche.
Nel 1295 suo nipote il papa Bonifacio VIII, voleva nominarlo cardinale, ma egli rifiutò tale dignità, preferendo servire la Chiesa nella sua solitudine. A circa 62 anni, morì il 1° febbraio 1302 nello stesso convento romitorio del monte Scalambra, dove il suo corpo riposa tuttora nella chiesa di S. Lorenzo dei Frati Minori Conventuali.
Il suo culto fu riconosciuto ed approvato da papa Innocenzo XIII, l’11 dicembre 1724; durante l’ultima Guerra Mondiale, il suo sepolcro ricevé danni dal bombardamento alleato del 12 maggio 1944 e per ripararlo si fece una ricognizione delle reliquie, l’8 febbraio 1945.
Un’antica immagine del beato datata al secolo XIV, si può vedere in un affresco di Taddeo Gaddi nella Basilica di S. Croce a Firenze.
La sua celebrazione liturgica è al 1° febbraio a Piglio (Frosinone) e nella diocesi di Anagni, in altre chiese francescane al 3 febbraio.
Autore: Antonio Borrelli
(Mc 4,35-41) Chi è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?
VANGELO
(Mc
4,35-41) Chi
è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?
+ Dal
Vangelo secondo Marco
In quel medesimo giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, càlmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Parola del Signore
In quel medesimo giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, càlmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Signore mio, donami la tua luce, per capire come applicare nella mia vita la tua parola, perché possa portarti con me nella vita di tutti i giorni. Amen.
Questa pagina del Vangelo, ha molte sfaccettature, guardiamo per prima cosa il fatto in se stesso: c’è una barca sulla quale far salire Gesù, immaginiamo che questa barca sia la nostra vita e viviamola con Gesù nel cuore. Poi vediamo che Marco ci parla anche di altre barche che si trovavano in quel mare, e che andavano tutte dalla stessa parte, verso l’altra sponda; questo mi fa pensare ad altre persone che come noi cristiani vivono la loro vita cercando di andare verso l’altra sponda come noi. Poi arriva la tempesta, e qual è quella vita in cui non c’è qualche difficoltà, più o meno grave.
Avere Gesù nella propria vita, non ci rende immuni da momenti difficili, o addirittura da croci che sembrano insormontabili, perché Gesù non è un amuleto, o un portafortuna, ma come vediamo nella scena che l’evangelista ci presenta, nella difficoltà, i discepoli lo chiamano, lo invocano, gli chiedono aiuto.
E gli altri, quelli che non sono sulla barca con lui, gioiscono anche loro dell’intervento divino, non vengono esclusi, eppure Gesù comanda la natura, ordina alle acque di chetarsi, poteva farlo solo per la sua barca, ma è evidente che non vuole escludere nessuno.
La domanda dei discepoli: “Maestro, ma non ti importa se siamo perduti ?” Non rimane senza risposta, è in quel momento che Gesù interviene solo dopo la richiesta dei discepoli. Il libero arbitrio che Dio ci ha dato, la libertà di decidere spingono Gesù ad intervenire nella nostra vita solo dopo la nostra richiesta, dopo la nostra preghiera e ci chiede perché abbiamo paura se lui è nella nostra vita, non abbiamo forse abbastanza fede?
E’ infatti questo il punto, se il Signore guida le nostre azioni, la nostra vita, non dobbiamo temere nulla, non sarà il mondo terreno quello a cui faremo riferimento ,ma il regno dei cieli che è già entrato a pieno diritto nella nostra vita.
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