INTRODUZIONE ALLA PREGHIERA
CRISTIANA
1. Definizione
La
teologia della nostra Chiesa di lingua latina ha definito la preghiera con
questa formula: elevazione della mente a
Dio per lodarlo e per chiedergli cose convenienti alla salvezza eterna. La
Chiesa ritiene perciò che la preghiera abbia due finalità principali: “… per
lodarlo” “… per chiedergli cose
convenienti alla salvezza eterna”. La prima di esse è la lode. Il primo atto
della preghiera e il più nobile in assoluto è certamente la lode. Solo dopo la
lode è ammissibile la preghiera di domanda: “… per chiedergli”. Tuttavia, i
contenuti della richiesta non devono in primo luogo essere riferiti a questioni
di ordine quotidiano o materiale, ma devono riguardare primariamente la
salvezza eterna; anche la preghiera di domanda presuppone il rispetto di alcune
priorità, per cui domandare a Dio un beneficio materiale senza chiedergli prima
la guarigione del nostro spirito e la liberazione dall’opera del maligno,
sarebbe un modo squilibrato di pregare. La richiesta di benefici temporali è
sempre lecita, ma va posta in una posizione subordinata.
Prima di iniziare un discorso
sistematico sulla preghiera, dobbiamo precisare quel è il suo potere e cosa ci
si può aspettare dall’orazione. Innanzitutto la certezza assoluta della
salvezza eterna: “Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (Gl
3,5). Per scampare alla perdizione, basta una semplice invocazione del nome del
Signore. L’episodio evangelico di Pietro che sprofonda nel lago in tempesta
contiene questo profondo significato: “Per la violenza del vento si impaurì e,
cominciando ad affondare, gridò: Signore, salvami! E subito Gesù stese la mano
e lo afferrò” (Mt 14,30-31).
La preghiera dà inoltre la forza di
combattere e di vincere gli assalti di Satana e di tutte le sue legioni di
demoni minori: “I discepoli gli chiesero in privato: perché noi non abbiamo
potuto scacciarlo? Ed Egli disse loro: Questa specie di demoni non si può
scacciare in alcun modo se non con la preghiera” (Mc 9,28-29). Nella notte
della Passione, Gesù avverte i discepoli circa la gravità di quell’ora e
soprattutto fa intendere loro che non potranno resistere alla bufera satanica,
senza la forza che viene dalla preghiera: “Vegliate e pregate per non entrare
in tentazione” (Mc 14,38). In sostanza, è la preghiera che tiene lontano il
diavolo dalla nostra vita e dalle nostre famiglie.
La
preghiera infonde nella nostra mente la luce della sapienza e del
discernimento. Siamo infatti sempre soggetti a essere ingannati dal maligno,
come pure a essere portati fuori strada da una insufficiente conoscenza della
volontà di Dio. La Bibbia ci dice in più
punti che la preghiera infonde una luce nuova alla nostra intelligenza: “Pregai
e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito della sapienza”
(Sap 7,7); e più avanti aggiunge: “Mi
rivolsi al Signore e lo pregai, dicendo con tutto il cuore: Dio dei padri e
Signore di misericordia, … dammi la sapienza che siede in trono accanto a Te”
(Sap 8,21-9,1.4). Nella lettera di Giacomo si legge “se qualcuno di voi manca
di sapienza, la chieda a Dio, che dona a tutti generosamente” (Gc 1,5). Nel
libro di Daniele, la conoscenza derivante dalla preghiera e dalla penitenza è
considerata molto superiore alle conoscenze occulte che si possono acquisire
mediante la magia. Alla corte del re Nabucodonosor, Daniele è capace di svelare
al re degli enigmi estremamente difficili, che i maghi del regno non erano
stati capaci di risolvere. Al re che gli chiede se lui sia capace di svelare i
misteri sconosciuti ai maghi, Daniele risponde: “Il mistero di cui il re chiede
la spiegazione non può essere spiegato né da saggi, né da maghi, né da
astrologi, né da indovini; ma c’è un Dio nel cielo che svela i misteri” (Dan
2,27-28). In sostanza, Daniele vuole dire che il sapere occulto ha un limite,
perché i maghi non sono in contatto con Dio, mentre Dio svela solo ai suoi
servi tutto ciò che essi devono conoscere. Lo stesso accade a Giuseppe in Egitto:
il Faraone, dopo che i maghi hanno fallito, lo convoca e gli dice: “Ho sentito
dire che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito. Giuseppe rispose
al Faraone: Non io, ma Dio darà la risposta” (Gen 41,15-16).
C’è ancora una domanda che ci dobbiamo
porre: può la preghiera cambiare il corso degli eventi? E come si concilia ciò
con l’immutabilità della volontà di Dio?
Dalle parole di Gesù sembra quasi
che la preghiera abbia un potere pressoché illimitato. Basta ricordare alcuni
insegnamenti evangelici: “quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la
porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti
ricompenserà” (Mt 6,6). La promessa che suona “ti ricompenserà”, si riferisce
al fatto che la preghiera dell’uomo non resta mai senza una risposta da parte
di Dio.
Se
poi la risposta di Dio è o non è conforme alle aspettative dell’uomo, è
un’altra questione. Nel contesto del medesimo insegnamento Gesù dice: “Chiedete
e vi sarà dato… Chi di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? Se
voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il
Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!”
(Mt 7,7-11). Bisogna però aggiungere che il passo parallelo di Luca al posto di
“cose buone” mette il dono dello Spirito Santo, che Dio dà con assoluta
sicurezza a quelli che glielo chiedono (cfr. Lc 11,9-13). Durante l’ultimo
viaggio di Gesù a Gerusalemme, Egli disse ai suoi discepoli, commentando
l’episodio del fico seccato: “In verità vi dico, chi dicesse a questo monte:
Levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo… ciò gli sarà accordato.
Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e
vi sarà accordato” (Mc 11,23-24). Nell’ultima cena, dopo l’uscita di Giuda dal
cenacolo, Gesù ritorna sullo stesso argomento: “Qualunque cosa chiederete nel
nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel figlio” (Gv 14,13). E
più avanti ripete: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve
la darà” (Gv 16,23).
Per descrivere la potenza della
preghiera non occorrono altre dimostrazioni bibliche. Nella nostra esperienza
cristiana, tuttavia, le cose non sembrano andare così lisce. A volte si prega e
si ha l’impressione di non essere ascoltati, si attende a lungo e non si
ottiene ciò che si chiedeva. Questo fatto ha bisogno di una attenta riflessione
per essere spiegato. Infatti, accanto al fatto che Dio ascolta chi lo prega, si
dicono nel NT tante altre cose che devono essere tenute altrettanto presenti.
Consideriamole una per una, perché sono esse che tolgono efficacia alla
preghiera:
nonostante
le promesse di Gesù circa l’infallibilità della preghiera, vi sono condizioni
che purtroppo la rendono inefficace e sono:
-
il dubbio e la mancanza di fiducia in
Dio: Mc 11,23-24; Mt 14,31
-
un cuore non riconciliato, ferito e
malato di risentimenti: Mc 11,25, e in positivo Mt 18,19-20
-
una vita non unita profondamente a
Cristo: Gv 15,5
-
una preghiera che non dà il primato ai
valori del regno: Gc 4,3-4
-
una preghiera che non è accompagnata
dalla conversione: Mc 1,15; At 2,37-38
-
una preghiera parolaia: Mt 6,7-8
-
una preghiera che è solo un parlare con
se stessi: Lc 18,11
-
il mistero della volontà di Dio: Is
55,8-9. Dio si riserva infatti di guidare ciascuno in modo diverso e non sempre
comprensibile alla nostra mente.
2. I gradi
dell’orazione
La
tradizione spirituale della Chiesa latina considera la preghiera come un
cammino di graduale maturazione nel dialogo con Dio. Come ogni altra relazione
personale, anche il rapporto di amicizia col Signore ha bisogno di crescere e
di approfondirsi nel tempo. Il battezzato passa perciò attraverso diverse forme
di preghiera, in proporzione alla sua maturità spirituale: il primo gradino è
rappresentato dalla preghiera vocale,
il secondo da quella mentale, il
terzo dalla preghiera del cuore, il
quarto dalla contemplazione.
2.1 L’orazione
vocale
La
preghiera più facile, ossia quella che costituisce il primo gradino del cammino
spirituale è la preghiera fatta di formule. Con la definizione “orazione
vocale” non si intende tanto la preghiera pronunciata ad alta voce (anche la
preghiera del cuore può essere pronunciata ad alta voce), ma si allude alla
preghiera accessibile a chi è ancora immaturo nel dialogo con Dio, e perciò non
gli sgorga nulla da dire a Dio, oppure gli sgorgano richieste sbagliate. La
Chiesa, allora, ha preparato delle preghiere standard (l’Ave Maria, l’Atto di Fede, l’Atto di Speranza, le
preghiere del mattino e della sera…) in cui il battezzato può trovare ciò che
va detto a Dio. La preghiera del “Padre Nostro”, insegnata da Gesù ai suoi
discepoli – e che a suo tempo analizzeremo – risponde proprio a questa
esigenza. In sostanza, nella fase immatura della vita cristiana non si sente il
bisogno di parlare a Dio (così come non si sente il bisogno di ascoltarlo nella
sua Parola), e la preghiera dei formulari è un aiuto per l’elevazione della
mente a Dio.
2.2 L’orazione mentale o meditazione
Il
secondo gradino è la preghiera “mentale”. Questo tipo di preghiera è priva di
formule. Anche qui la definizione non allude semplicemente al fatto che non è
pronunciata con le labbra. Infatti, anche la preghiera vocale, ad esempio
un’Ave Maria, può essere recitata mentalmente, pur essendo costituita da una
formula prestabilita. Più precisamente, con la definizione “orazione mentale”
ci si riferisce solitamente alla meditazione.
La meditazione è una forma di preghiera elevata a cui non si arriva facilmente.
Essa può essere definita pure “preghiera di ascolto”, perché si fonda su un
rapporto profondo con la Parola di Dio.
Questa
forma di preghiera non consiste nel “dire” qualcosa a Dio, ma nella capacità di
“ascoltare e capire” ciò che Egli sta dicendo proprio a me attraverso i testi biblici della Messa, e attraverso
la lettura quotidiana della Bibbia.
Questo tipo di preghiera raggiunge la sua massima espressione
nelle giornate di ritiro e negli esercizi spirituali. Beninteso, questa forma
di preghiera non consiste nel capire il testo biblico, ma nella capacità di sentire quella parola utile e illuminante per le
situazioni che io sto vivendo proprio adesso.
2.3 La preghiera del cuore
Terzo
gradino: la preghiera del cuore. La preghiera del cuore consiste nel “dire”
qualcosa a Dio. Essa rappresenta un livello ancora più alto di quello della
meditazione. Quando la persona giunge a sentire
il bisogno di “parlare” a Dio, di aprirgli il cuore con fiducia, di esprimergli
l’affetto filiale e la lode senza formule prestabilite, ma con parole che
vengono dall’intimo, come quelle che siamo soliti dire alle persone che più
amiamo, allora significa che si è giunti alla preghiera del cuore e che si è
ben avanti nello sviluppo della carità teologale. Questo tipo di preghiera si
manifesta sia in momenti celebrativi comunitari, sia nella preghiera intima e
individuale, e assume quindi sia il carattere vocale che mentale. Negli
incontri di preghiera, quando la comunità si raduna per l’ascolto della Parola
o per l’Adorazione, allora la preghiera del cuore si presenta come preghiera
spontanea, perlopiù sotto la forma della lode. Nella preghiera individuale, la
preghiera del cuore si ha nella spontanea e filiale consegna della propria vita
quotidiana a Dio, sentito come Padre.
La conoscenza di Dio come “mio” Padre è essenziale alla preghiera del cuore;
senza questo rapporto veramente filiale con Dio non può esserci alcuna
preghiera del cuore. Sarebbe inautentica se ci fosse.
2.4 La contemplazione
La forma più elevata di
preghiera è la contemplazione. La sua caratteristica peculiare è quella di
essere “quasi senza parole”. In termini pratici, questa forma di preghiera si
attua quando la persona si concentra su un mistero della fede, preferibilmente
con l’aiuto di una icona o di un crocifisso su cui fissare lo sguardo, perché
le distrazioni non producano eccessivo disturbo. Per questa preghiera conviene
assumere una posizione comoda, in modo che ci si possa rilassare; poi, fissando
lo sguardo sul crocifisso, o su un’icona, o sull’Eucaristia solennemente
esposta, ridurre i pensieri al silenzio e lasciare che il mistero di Dio occupi
tutto lo spazio della nostra interiorità.
L’obiettivo è quello cogliere
le meraviglie di Dio, intuire la sua bellezza, e guardarlo come si guardano gli
innamorati, ossia con un senso di beatitudine e di stupore. Mentre l’attenzione
è concentrata sul mistero di Dio, il pensiero non deve seguire alcun
ragionamento. Al massimo, conviene far risuonare dentro di sé, di tanto in
tanto, e secondo il proprio stato interiore, qualche breve frase evangelica o
liturgica come ad esempio: “Se vuoi puoi guarirmi”, “Figlio di Davide, abbi
pietà di me”, “Tu sei il Cristo”, “vieni, Spirito Santo”, “Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito”, oppure semplicemente “Padre”. Ma tutto ciò senza
che la mente sia afferrata dal ragionamento.
3. I tipi di
preghiera conosciuti dalla Bibbia
I tipi fondamentali di
preghiera sono quattro (intercessione, lode, ringraziamento, richiesta), come
già abbiamo detto, ma adesso è opportuno ripercorrere i testi biblici per
vedere in quali contesti e in quali situazioni vengono pronunciate.
3.1 La preghiera di
intercessione
La prima preghiera di
intercessione registrata dalla Bibbia risale all’epoca patriarcale ed è
pronunciata da Abramo presso le querce di Mamre. Qui Dio gli svela il proposito
di distruggere le città di Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 18,16ss), allora Abramo
ricorre a una argomentazione molto efficace: “Davvero sterminerai il giusto con
l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città…” (Gen 18,23-24). Dio si
lascia convincere da Abramo e si dichiara disposto a risparmiare tutta la città
in forza non di cinquanta ma anche di dieci giusti. Il testo intende
sottolineare l’importanza della preghiera di intercessione, con la quale molti
mali possono essere evitati, perché Dio non gode della rovina dell’uomo. Il
Signore vuole che l’uomo sia consapevole del peccato e del dolore che
travagliano il mondo, ma non per schierarsi contro e accusare l’umanità, ma per
schierarsi in favore come fa un avvocato difensore. Dio, in sostanza, non ha
bisogno di essere “difeso” davanti all’umanità peccatrice; ha bisogno solo di
avvocati difensori che attenuino la sua giustizia verso di essa. Egli infatti
non gradisce quelli che si calano nel ruolo di avvocati difensori della sua
causa, ma a scapito dell’umanità. A Dio va riconosciuta la gloria e la
giustizia che gli sono proprie, ma il peccato del mondo va riconosciuto
unitamente alla richiesta della divina misericordia. Vi sono diversi esempi
biblici che rendono chiara questa intenzione di Dio.
Uno di questi è senz’altro la
figura di Giona (cfr. Il libro di Giona), mandato a Ninive per annunciare un
castigo imminente, che si sarebbe verificato entro quaranta giorni. La
popolazione
prende sul serio l’avvertimento
del profeta e si sprofonda nella penitenza e nel digiuno. Dio allora revoca la
sua sentenza e il castigo non si verifica. A questo punto Giona ci rimane molto
male: si sente preso in giro da Dio che lo aveva mandato ad annunciare una cosa
che poi non si è verificata. Il testo sottolinea a più riprese la grettezza
della mentalità del profeta, che non capisce che Dio avrebbe preferito avere in
lui non un giudice ma un intercessore.
Un
altro caso significativo è quello dei tre amici di Giobbe che vanno a trovarlo
nel tempo della sua malattia. Rimangono accanto a lui per una settimana senza
dire neanche una parola, ma poi cominciano a parlare. I loro discorsi ruotano
tutti intorno a un nucleo centrale che si può sintetizzare così: se un uomo
viene colpito dalla sventura, allora è segno che egli è sotto la divina
riprovazione. Giobbe professa la sua innocenza, ma gli amici non accettano di
considerarlo un uomo giusto, perché se fosse giusto non sarebbe stato colpito
così dalla sventura. In sostanza, l’atteggiamento dei tre amici di Giobbe è
quello che Dio non vuole trovare nei suoi servi: gli amici di Giobbe non fanno
altro che affermare la giustizia e l’impeccabilità di Dio, ma a prezzo di
calpestare la dignità di Giobbe, che al peso della malattia sente aggiungersi
quello del biasimo morale dei suoi amici: “Dio ti ha colpito; non puoi che
essere un peccatore. Dio è infinitamente giusto, se ti ha colpito ha
sicuramente una buona ragione per farlo”. Alla fine entra in scena Dio stesso,
condannando i ragionamenti teologici falsi degli amici di Giobbe e affidandoli
alla sua preghiera di intercessione (cfr. Gb 42,7-8). Dal discorso di Dio si
comprende che anche qui Egli avrebbe voluto trovare nei tre amici di Giobbe non
tre teologi che esaltano la giustizia di Dio schiacciando la persona umana, ma
tre intercessori che si schierano accanto alle miserie umane e pregano perché
Dio faccia grazia.
Nei
libri dell’Esodo e dei Numeri viene particolarmente sottolineata la preghiera
di intercessione di Mosè. Prima della partenza dall’Egitto, egli intercede per
far cessare le piaghe che tormentano il faraone e il suo popolo. Dopo la
liberazione, l’intercessione di Mosè si rivolge unicamente a Israele. Essa ha
tre fondamentali sfaccettature, che si ritrovano anche nelle altre parti della
Scrittura: è preghiera di richiesta di perdono,
è preghiera di guarigione e di liberazione. La prima grande preghiera
di intercessione di Mosè è quella che si collega al peccato del vitello d’oro.
Fino a quel momento, l’Israele uscito dall’Egitto aveva avuto soltanto
impennate dinanzi alle difficoltà del deserto e moti di ribellione o di
mormorazione. La produzione del vitello d’oro rappresenta il primo peccato
organizzato in grande stile e lucidamente studiato.
Mosè
si trova ancora sul monte, quando Dio gli rivela che Israele si è fatto un vitello
d’oro per adorarlo, e aggiunge il suo proposito di annientarlo: “Ora lascia che
la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te farò invece una
grande nazione” (Es 32,10). Mosè non accetta la prospettiva di divenire
capostipite di una grande nazione a prezzo dell’annientamento di Israele e
innalza a Dio una preghiera di intercessione che comprende i vv. 11-13 del cap.
32 dell’Esodo. Altri episodi in cui Mosè intercede hanno luogo dopo la partenza
dal Sinai e sono narrarti dal libro dei Numeri.
Dopo
la partenza dal Sinai, il popolo comincia a lamentarsi a motivo della scarsità
del cibo. Più precisamente, il problema non consiste nella mancanza di cibo, ma
nel fatto che a un certo momento tutti si stancano di mangiare sempre manna
(cfr. Nm 11,4-9). Lo sdegno del Signore divampò, ma l’intercessione di Mosè
ottiene al popolo le quaglie e a se stesso la collaborazione di settanta uomini
saggi, su cui si posa lo Spirito del Signore, per suddividere il peso del
governo del popolo. Mosè intercede ancora per guarire la propria sorella dalla
lebbra, che l’aveva colpita per la sua maldicenza nei confronti di Mosè (cfr.
Nm 12, 1-15). Nella stessa maniera, quando la mormorazione contro Mosè assume
un carattere organizzato o assembleare e viene messa in discussione la sua
legittima autorità, l’ira del Signore si accende e il popolo viene colpito da
un qualche castigo; allora è sempre l’intercessione di Mosè che libera il
popolo dalla piaga che lo tormenta (cfr. Nm 14 e 16). Dall’insieme dello
svolgimento dell’intercessione di Mosè si comprende come Dio, nella sua
giustizia, non possa lasciare impunito il peccato dell’uomo, ma al tempo
stesso, nel suo amore, Egli cerca ansiosamente qualcuno che fermi la sua Mano,
intercedendo per i propri fratelli colpevoli. Mosè intercede sempre per
Israele, anche quando la colpa è stata commessa direttamente contro di lui.
Un altro grande intercessore per
Israele è il profeta Samuele. Per lui sarebbe addirittura un peccato contro Dio
tralasciare la preghiera di intercessione: “Quanto a me, non sia mai che io
pecchi contro il Signore, tralasciando di supplicare per voi” (1 Sam 12,23).
Nella stessa linea, anche Elia esercita un ministero di intercessione in favore
di Israele e ottiene la pioggia in un periodo di estrema siccità (cfr. 1 Re
18,41-46). Anche il re Salomone, nel giorno della consacrazione del Tempio di
Gerusalemme, innalza a Dio una lunga preghiera di intercessione, chiedendogli
di ascoltare chiunque venisse a pregare in quel luogo per svariate necessità
(cfr. 1 Re 8,22-53).
Uno dei compiti di cui si sentono investiti i profeti di Israele
è la preghiera di intercessione. Isaia riceve una parola per gli abitanti di
Gerusalemme: “Popolo di Sion… tu non dovrai più piangere; a un tuo grido di
supplica il Signore ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta” (Is 30,19).
Il profeta Amos, viene avvertito da Dio circa l’imminenza di due castighi: le
cavallette e la siccità. Entrambi vengono scongiurati grazie alla preghiera di
intercessione del profeta (cfr. Am 7,1-6). Il profeta Ezechiele riceve da Dio
una parola durissima nei confronti dei peccati di Gerusalemme e profetizza un
saccheggio e uno sterminio della popolazione; ma mentre profetizza egli stesso
si sente sopraffatto dalla visione del castigo: “Io mi gettai con la faccia a
terra e gridai con tutta la voce: Ah! Signore Dio, vuoi proprio distruggere
quanto resta di Israele?” (Ez 11,13). Il Signore risponde manifestando al
profeta il suo progetto di radunare il popolo dopo la sua dispersione, insieme
al dono di un cuore nuovo (cfr. Ez 11,14-21).
Nel NT, sia nei Vangeli che nel
libro degli Atti, sono molto numerose le allusioni alla preghiera di
intercessione sia da parte del singolo Apostolo, sia da parte della comunità
cristiana nel suo insieme. In Gv 11,3 gli Apostoli si rivolgono a Gesù in
occasione della malattia di Lazzaro: “Signore, il tuo amico è malato”; in
questo caso, la preghiera di intercessione ha il taglio specifico della
richiesta di guarigione. Come sappiamo dal seguito del cap. 11, nei confronti
di Lazzaro, Cristo intervenuto a modo suo, e da ciò si comprende come la
risposta di Dio alla preghiera dell’uomo c’è sempre, anche se non sempre è data
nella medesima linea delle aspettative dell’orante. In At 12,5, mentre Pietro
si trova in carcere, tutta la chiesa prega per lui incessantemente, e Dio manda
un angelo a liberarlo. La comunità cristiana non deve mai tralasciare la
preghiera per i suoi pastori, e infatti nella celebrazione eucaristica è
prevista la preghiera di intercessione per il Papa, per il Vescovo del luogo e
in generale per tutto l’ordine sacerdotale. Dall’altro lato, anche l’Apostolo
mette la comunità tra gli obiettivi primari della sua preghiera di
intercessione: “Quel Dio, a cui rendo culto nel mio spirito, annunziando il
Vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi” (Rm
1,9). Intercessione apostolica, a cui fa eco la preghiera della comunità: “Vi
esorto… a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio” (Rm
15,30). La preghiera di intercessione per le necessità della Chiesa non ha
limiti e può abbracciare tutto l’arco dei bisogni da quelli concreti, come la
rimozione degli ostacoli di ordine materiale, a quelli spirituali, come la
conoscenza del progetto di Dio;
la
comunità degli Atti si raduna in preghiera sia per chiedere a Dio il soccorso
nei momenti di persecuzione (cfr. At 4,23-31), sia per conoscere in pieno la
volontà di Dio (cfr. 13,2; Col 1,9-12). La preghiera di intercessione della
Chiesa deve infine farsi carico anche dei bisogni della società civile (cfr. 1
Tm 2,1-4)
3.2 La preghiera di
guarigione
Un
particolare tipo di preghiera di intercessione è quella che ha come obiettivo
specifico la guarigione della persona, che può essere una richiesta tanto di
guarigione fisica quanto di guarigione interiore. Sono troppi i passi biblici
in cui il Signore è presentato come colui che guarisce, a cui sta a cuore la
nostra salute piena. Ne possiamo solo citare qualcuno: “Io sono il Signore,
colui che ti guarisce” (Es 15,26); “Io percuoto e io guarisco” (Dt 32,39);
“Nella malattia, prega il Signore ed egli ti guarirà” (Sir 38,9). Uno dei testi
più espliciti sulla preghiera di guarigione è Gc 5,16: “Pregate per essere
guariti”. In sostanza, l’insegnamento biblico esorta ad aggiungere la preghiera
di guarigione ai mezzi umani della medicina e della terapia. E’ un dato della
fede cristiana il fatto che la guarigione passi comunque per le mani di Dio
prima che in quelle del medico. Sia Cristo sia gli Apostoli portano avanti un
ministero di guarigione, che considerano parte integrante dell’annuncio del
Vangelo. La parola di Dio è essa stessa una forza di guarigione: “Li guarì la
tua Parola, o Signore” (Sap 16,12). Anche il centurione del Vangelo, pur
essendo un pagano, coglie molto bene il fatto che ciò che guarisce è la Parola
di Cristo, cioè l’espressione della sua divina volontà: “Signore… di’ soltanto
una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). Chi accoglie la Parola di
Cristo, inizia un cammino di guarigione globale della sua persona.
La questione della guarigione fisica
non si può affrontare da sola, ossia svincolata dalla guarigione interiore.
Quando il Vangelo parla di “guarigione”, il riferimento non va alla
eliminazione di una particolare malattia di cui si può essere affetti. Infatti,
nonostante la preghiera e la vita di fede, determinate malattie fisiche
persistono. Il Vangelo indica innanzitutto il mistero della volontà di Dio, che
talvolta ci chiama a condividere la croce del Figlio; tale chiamata alla croce
può avere anche il volto di una malattia fisica. A condizione che sia vissuta
bene dal soggetto. Esiste infatti una guarigione offerta dalla Parola di
Cristo, anche quando Dio vuole che la malattia persista.
Si
tratta della guarigione del rapporto con
la propria malattia; talvolta, ciò che ci rende veramente malati non è la
malattia in sé, ma è il rapporto scorretto che abbiamo instaurato con la nostra
malattia.
La
guarigione si ha allora quando la malattia non è sentita più dal soggetto come
una forza distruttiva operante nel proprio corpo, ma come una crescita nella
santità cristiana: “Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo
esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.
Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una
quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,16-17). Chi giunge a vivere la
propria malattia, o la propria sofferenza di qualunque natura (vi sono anche
malattie invisibili, come le ferite interiori causate dalle cattive esperienze
della vita), in questa ottica è una persona radicalmente guarita. La preghiera
di guarigione fatta dalla comunità cristiana chiede a Dio innanzitutto questo
tipo di guarigione, ma chiede anche, quando Dio lo ritenga opportuno, la
guarigione fisica, senza escludere per questo l’intervento del medico.
L’espressione sacramentale di questa dottrina è rappresentata dall’unzione
degli infermi, che il cristiano medio non è capace ancora di valorizzare. Il
sacramento si affianca alla preghiera della Chiesa, per ottenere all’ammalato
quella forza spirituale, interiore, che non lo faccia sentire schiacciato sotto
il peso del suo dolore.
Un ambito importante della preghiera
di guarigione è quello della guarigione delle malattie interiori, ossia le
ferite emozionali, a cui abbiamo accennato sopra tra parentesi. Anche qui non
si vuole mettere il medico a riposo, ma si vuole ribadire che secondo la fede cristiana la guarigione è prima
nelle mani di Dio, e poi in quelle del medico. La comunità cristiana deve
quindi farsi carico non solo di coloro che soffrono fisicamente, circondandoli
con la sua solidarietà e la sua preghiera, ma anche di coloro che sono in
qualche modo disturbati nella loro personalità. Qui non ci vogliamo riferire
alla malattia mentale in senso stretto, ma ci riferiamo a quelle forme di
perturbazioni della personalità che derivano semplicemente da esperienze
negative non integrate. Talvolta è sufficiente qualcosa come la perdita
inaspettata di una persona cara, oppure un obiettivo non raggiunto dopo tanti
sacrifici, un tradimento da parte di chi ci si mostrava amico; sono eventi che
si possono verificare abbastanza spesso e che turbano gravemente gli equilibri
emozionali di una persona. Qui deve subentrare la solidarietà e la preghiera di
guarigione della comunità cristiana.
3.3 La preghiera di
liberazione
Un’altra
specificità della preghiera di intercessione è costituita dalla cosiddetta
“preghiera di liberazione”. Questo genere di preghiera ha come suo oggetto
specifico tutta quella serie di mali che il maligno può procurare a una persona
mediante le pratiche occulte, spiritiche e magiche. Le esperienze connesse
all’occultismo non lasciano mai la persona senza conseguenze e senza squilibri
bisognosi di risanamento. In questo ambito lo psicoterapeuta può fare oggettivamente
poco, dal momento che i disturbi che la persona accusa non sono di natura
psicologica, anche se la loro sintomatologia è molto simile. Il rischio
maggiore è che la persona venga imbottita di psicofarmaci, senza che le cause
profonde del suo malessere vengano rimosse.
La Bibbia esorta caldamente a
mantenere una distanza di sicurezza dal mondo dell’occulto. Qualche citazione
potrebbe bastare: “Non praticherete alcuna sorta di magia” (Lv 19,26); “Non si
trovi in mezzo a te chi esercita la magia” (Dt 18,10); “Non vi rivolgete ai
negromanti” (Lv 19,31); “Non date retta ai vostri indovini” (Ger 27,9); “Gli
indovini vedono il falso” (Zc 10,2). Questa insistenza dell’insegnamento
biblico non si capirebbe se in tutte queste cose non ci fosse un rischio
concreto o una minaccia per la salute spirituale dell’uomo. Di fatto,
l’esperienza insegna che chi ha praticato lo spiritismo, e in generale
l’occultismo, o ha frequentato maghi, ne esce scosso nei suoi equilibri
emozionali, e sovente perde la pace e la serenità della vita quotidiana. Più
precisamente, viene imprigionato dalla paura che certe entità negative possano
fargli del male e, per evitare questo, uno è portato a compiere quei gesti
superstiziosi che terrebbero buone tali entità. In sostanza, la persona cade in
una forma di prigionia psicologica, la cui sintomatologia può avvicinarsi – nei
casi più gravi - alle nevrosi ossessive.
Qui deve intervenire la preghiera di
intercessione e la solidarietà della comunità cristiana, la quale,
nell’annuncio dell’unica Signoria di Gesù Cristo, restituisce serenità a coloro
che si sentono minacciati da piccoli tiranni invisibili; tutti i piccoli
tiranni, sia visibili che invisibili, in Cristo sono stati vinti, e il vero
cristiano si sente un uomo libero. Non solo. Cristo ha dato ai suoi discepoli
il potere sugli spiriti immondi, perciò il battezzato che vive bene la sua fede
deve sapere che, vivendo in grazia di Dio, è il demonio che deve avere paura di
lui e non viceversa: “Chiamati a Sé i dodici, diede loro il potere di scacciare
gli spiriti immondi” (Mt 10,1); “La folla accorreva portando malati e persone
tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti” (At 5,16); “Nel mio
nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17).
La
preghiera di liberazione porta sollievo e accelera il processo di guarigione di
chi è caduto nella prigionia di questo genere di angosce. La guarigione piena
dipende però dal cammino di conversione della persona stessa e dalla sua
volontaria rinuncia alle opere di satana. L’esperienza più autentica di
liberazione si verifica solo nello sviluppo della vita cristiana e lungo la
crescita personale nella fede: “Se rimanete fedeli alla mia Parola, sarete
davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv
8,31-32). Poi più avanti aggiunge: “Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete
liberi davvero” (v. 36). Cristo promette qui una liberazione autentica, cioè
non semplicemente un sollievo, che non è affidata alla preghiera della comunità
cristiana, bensì alla crescita personale nel discepolato. In realtà è lo
sviluppo della santità cristiana che guarisce e libera la persona in maniera
totale e irreversibile. Per questo, attendersi una liberazione dalla preghiera
della comunità, senza un impegno personale di conversione e di rinuncia alle
opere di satana, sarebbe un errore. In questi casi si può avere un sollievo, ma
non la piena liberazione. La persona può essere sempre riafferrata dalle forze
del male, pur indebolite dalla preghiera della Chiesa, se la persona stessa non
impara a opporvisi con tutte le proprie forze nel combattimento spirituale.
La preghiera di liberazione infine non va confusa con
l’esorcismo. L’esorcismo viene praticato solo dal sacerdote autorizzato, mentre
la preghiera di liberazione può essere fatta da qualunque battezzato, da solo o
in gruppo.
3.4 La preghiera di lode
Tra
tutte le forme di preghiera è l’unica che può definirsi “senza tempo”. E’
infatti quel modo di rivolgersi a Dio che caratterizza il culto celeste; mentre
tutte le altre forme elencate sotto presuppongono lo stato di pellegrinaggio,
insieme alle difficoltà e alle ombre della vita presente, la preghiera di lode
è la preghiera di chi si sente libero, come fosse già risorto. Questa preghiera
è perciò possibile quando la persona riesce ad allentare la naturale
concentrazione su se stessa, dal momento che è l’unica forma di preghiera ad
avere come obiettivo Dio in quanto Dio.
La preghiera di lode si apprende
soprattutto dai Salmi. Il Salmo 8 è una preghiera di lode allo stato puro.
Analizzando il testo, ci rendiamo conto che la lode non è motivata da un’opera
o da un beneficio che Dio ha personalmente procurato all’orante; il Salmo 8
esprime infatti uno stato d’animo rapito nella visione della bellezza e della
grandezza di Dio. Un altro esempio chiaro di preghiera di lode è il Salmo
19(18), dove di nuovo l’unico motivo che spinge alla preghiera è la grandezza e
la magnificenza di Dio.
A
questo proposito si può vedere anche il Salmo 34(33), il Salmo 46(45), il Salmo
47(46), il Salmo 48(47), il Salmo 62(61), il Salmo 63(62), il Salmo 84(83), il
Salmo 91(90), il Salmo 92(91), il Salmo 93(92), il Salmo 100(99), il Salmo
103(102), il Salmo 104(103), il Salmo 135(134), il Salmo 145(144), il Salmo
146(145), il Salmo 147(146-147), il Salmo 148, il Salmo 148 e il Salmo 150.
3.5 La preghiera di ringraziamento
E’
una preghiera che nasce dalla capacità di vedere l’opera di Dio nella nostra
vita, e perciò è in un certo senso il risultato di una guarigione. Infatti, la
preghiera di ringraziamento non è quella preghiera che si fa quando, una volta
ogni tanto, ci si riconosce liberati da qualche grave malanno, ma è la
preghiera che si fa quando i nostri occhi si aprono al mistero della Presenza
di Dio nel mondo, nella creazione, nell’itinerario della nostra crescita umana
e della nostra esperienza personale. Allora nasce il ringraziamento, ma nasce
al contempo anche la lode. Chi non sente il bisogno di ringraziare Dio non deve
pensare che ciò provenga dal fatto di vivere una vita serena e tutto sommato non
bisognosa di miracoli, ma deve pensare, più verosimilmente, che non ha ancora aperto gli occhi sull’insonnia
di Dio verso le sue creature.
Nel libro dei Salmi troviamo alcune preghiere di ringraziamento
che possono essere utili a meglio illustrarci i contenuti e la struttura del
ringraziamento: Salmo 18(17), Salmo 30(29), Salmo 40(39), Salmo 65(64), Salmo
66(65), Salmo 107(106), Salmo 116(114-115), Salmo 118(117), Salmo 124(123),
Salmo 138(137).
3.6 La preghiera penitenziale
E’
la preghiera del “tempo della caduta”. La richiesta di perdono non è limitata
al momento sacramentale, ma è una preghiera personale e indipendente del
battezzato. La formula tradizionale della preghiera della sera, conteneva, tra
le altre cose, la richiesta di perdono del male commesso durante la giornata.
La celebrazione eucaristica prevede all’inizio un rito penitenziale per
preparare l’assemblea, mediante la richiesta di perdono. Non ha dunque nessun
senso il ragionamento di chi dice: “Prima di fare la comunione mi dico un atto
di dolore”. La Chiesa lo prevede già in forma comunitaria sotto la presidenza
del celebrante.
Nella Bibbia le preghiere penitenziali si trovano soprattutto nel
libro dei Salmi e nella letteratura profetica.
Una preghiera penitenziale completa è quella riportata nel libro
di Daniele al capitolo 3, versetti 25-45. Essa esprime la struttura completa di
una preghiera penitenziale: l’inizio è la lode (vv. 26-28), poi la memoria e la
confessione del peccato (vv. 29-32), poi il dispiacere di avere peccato provocando
tante rovine intorno a sé (vv. 33-38), poi la richiesta di perdono (vv. 39-40),
poi il proposito di cambiare stile di vita (vv. 41-43).
Alcune preghiere penitenziali del libro dei Salmi: Salmo 32(31),
Salmo 38(37), Salmo 51(50), Salmo 79(78), Salmo 106(105), Salmo 130(129).
4. I tempi della
preghiera
La
preghiera può essere fatta a qualunque ora del giorno e della notte, e non vi
sono particolari restrizioni in proposito; tuttavia, dall’insegnamento biblico
si ricava una scansione di tempo per la quale vi sono determinate ore che la
Bibbia considera tradizionalmente come ore di preghiera. La Chiesa ha ben
appreso questa lezione e ha distribuito la preghiera dei Salmi, che è la sua
preghiera ufficiale, in quelle determinate ore. Il libro della liturgia delle
ore è il risultato di questo insegnamento. Sarà opportuno ripercorre i luoghi
biblici più importanti a riguardo. Possiamo però anticipare, dicendo che i
tempi della preghiera cristiana sono: il mattino, la sera, la notte e le ore
cosiddette terza, sesta e nona.
La giornata del cristiano si apre
con la preghiera: la vita quotidiana viene così offerta e consacrata a Dio; il
lavoro e la fatica vengono presentati sull’altare del proprio cuore fin dal
mattino come un sacrificio gradito a Dio. Per il cristiano non c’è nulla di
profano e le opere quotidiane non si
esauriscono nella loro causa contingente, ma acquistano un valore anche
davanti a Dio, oltre che davanti agli uomini per i quali esse vengono compiute.
Ciò che valorizza le opere della giornata in una dimensione soprannaturale è
appunto la preghiera del mattino con la quale si chiede a Dio di illuminare e
fecondare la fatica del giorno. La preghiera del mattino è esplicitamente
richiesta dalla Bibbia: “Fin dal mattino ti invoco e sto in attesa” (Sal 5,4);
“Al risveglio mi sazierò della tua presenza” (Sal 17,15); “Al mattino giunge a
te la mia preghiera” (Sal 88,14); “Saziaci al mattino con la tua grazia” (Sal
90,14). La liturgia delle ore risponde a questa esigenza con la preghiera delle
Lodi mattutine.
La
sera, ossia a conclusione della giornata lavorativa, la Bibbia suggerisce al
cristiano di mettersi ancora una volta alla presenza di Dio per ringraziarlo
della giornata trascorsa e chiedergli perdono delle eventuali mancanze o
omissioni. Anche la preghiera della sera è esplicitamente richiesta: “Come
incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della
sera” (Sal 141,2); “All’offerta della sera… sono caduto in ginocchio e ho steso
le mani al mio Signore” (Esd 9,5). Questa orazione legata all’offerta della
sera è rappresentata, nella vita della Chiesa, dalla preghiera del Vespro, che
appunto si recita al tramonto, ovvero alla fine della giornata lavorativa.
La Bibbia conosce anche delle ore
minori, ossia delle interruzioni brevi del lavoro quotidiano che si hanno nelle
tradizionali ore di terza (09,00), sesta (12,00) e nona (15,00). Gli Apostoli
solevano pregare in queste ore: “Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio
per la preghiera verso le tre del pomeriggio” (At 3,1), ossia all’ora nona. In
At 10, Pietro è descritto nell’atto di salire sulla terrazza della casa che lo
ospita, per pregare verso mezzogiorno (v. 9), e sarebbe questa la preghiera
dell’ora sesta. Ancora il libro degli Atti descrive la comunità cristiana
radunata in preghiera con Maria (cfr. 1,14) e all’ora terza, cioè verso le nove
del mattino, la Chiesa viene battezzata nello Spirito a Pentecoste (cfr. 2,15).
La preghiera dell’ora terza è quindi particolarmente importante in quanto
ricorda l’effusione dello Spirito sulla prima comunità.
Queste tre ore di preghiera previste
dalla liturgia delle ore hanno anche un riferimento cristologico: le nove del
mattino è l’ora della crocifissione: “Erano le nove del mattino quando lo
crocifissero” (Mc 15,25). L’ora sesta è l’ora dell’eclisse che accompagna
l’agonia di Gesù: “Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino
alle tre del pomeriggio” (Mc 15,33). Infine, l’ora nona segna la morte fisica
di Cristo (cfr. Mc 15,34).
Accanto a queste ore di preghiera
diurna, la tradizione cristiana conosce anche la preghiera notturna, ma
preferiamo rimandare l’argomento e parlarne nel contesto dell’insegnamento di
Gesù sulla preghiera, insegnamento nel quale la preghiera notturna ha un
notevole rilievo.
Tra i tempi idonei alla preghiera
cristiana non si può sorvolare il giorno che i cristiani, fin dalla prima
generazione, dedicano alla celebrazione della Risurrezione del Signore: la
Domenica. Per i cristiani i giorni non sono tutti uguali. Il giorno del Signore
è diverso dagli altri. In esso si mettono da parte le fatiche e le
preoccupazioni dei giorni feriali: ci si comporta da uomini liberi, affrancati
dagli obblighi del lavoro servile.
Ciò
è chiaro fin dalla Legge mosaica: “Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro,
ma il settimo giorno è il sabato per il Signore… non fare lavoro alcuno” (Dt
5,13-14). Si tratta di un giorno destinato a Dio, un giorno in cui l’uomo è
sollevato dai pesi della sua fatica quotidiana: “Ricordati che sei stato
schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là”
(Dt 5,15). Il giorno del Signore intende insomma celebrare la liberazione del
popolo che dalla condizione di schiavitù è stato condotto verso una nuova
dignità di nazione sovrana.
Nella pasqua cristiana, però, il giorno del Signore non è più il
sabato ma è la domenica. E la memoria che si celebra non è più quella della
liberazione dall’Egitto ma quella della liberazione dal peccato e dalla morte.
Questa celebrazione non poteva più avvenire di sabato, per il semplice fatto
che Cristo è risorto all’alba della domenica. La celebrazione eucaristica
intende rivivere la pasqua di Cristo, e perciò la domenica è il giorno più
adeguato. Del resto, Cristo stesso ha orientato la comunità cristiana verso la
domenica, quando è apparso più volte ai discepoli “il primo giorno dopo il
sabato” (Gv 20,1.19.26). Il veggente
dell’Apocalisse, riceve l’ultima rivelazione del NT “nel giorno del Signore”
(Ap 1,10).
La domenica è il giorno in cui il
Risorto si rivolge alla sua Chiesa radunata e la nutre con la Parola e
l’Eucaristia. A questo proposito sentiamo il bisogno di fare alcune importanti
precisazioni: la celebrazione eucaristica è innanzitutto composta da due
momenti, la celebrazione della Parola e la celebrazione della Eucaristia. Molti
ancora oggi ritengono che la Messa sia composta dalla celebrazione della
Eucaristia con una introduzione di qualche lettura biblica. Questa concezione è
falsa. La conseguenza è che costoro non prendono nulla della Parola annunciata
e rimangono ignoranti nella dottrina cristiana. Poi si fanno la comunione e si
ritengono falsamente a posto con Dio. Questi battezzati sono soliti confessarsi
di non essere andati a Messa una domenica, mentre dovrebbero confessarsi di
esserci andati sempre con una disposizione d’animo fondamentalmente scorretta.
Questo è il vero peccato di cui dovrebbero confessarsi. Il battezzato la
domenica deve fare due comunioni: la Parola e l’Eucaristia. La seconda senza la
prima non può nutrire la fede, perché la fede si nutre della dottrina. Il
sacramento dell’Eucaristia corrobora il cammino di fede, ma il cammino di fede
a sua volta prende l’avvio dalla Parola.
5. I luoghi della
preghiera
Nell’AT
e nella tradizione ebraica i luoghi della preghiera erano ben determinati,
secondo le diverse epoche. Nel periodo patriarcale bastava una teofania, ossia
una qualche manifestazione di Dio a uno dei patriarchi, per costituire un luogo
sacro. Possiamo ricordare il famoso sogno di Giacobbe, nel quale egli vide una
scala che collegava cielo e terra, mentre gli angeli vi salivano e scendevano
(cfr. Gen 28,10ss). Al mattino Giacobbe comprende di avere avuto una
rivelazione durante la notte e erige una stele, rinominando il luogo
simbolicamente col nome di Betel, cioè “casa di Dio”. Così quel luogo diventa
un santuario per lui e per i suoi discendenti. Fino alla nascita della
monarchia esistono diversi santuari periferici, finché con la costruzione e la
consacrazione del Tempio di Gerusalemme, viene considerato legittimo solo il
culto celebrato lì. Vi sono poi altre vicissitudini storiche, ma non è
opportuno trattarne in questa sede. A noi interessa giungere al NT e
all’esperienza cristiana, per sapere se il luogo ha o no un influsso
determinante sulla preghiera. In generale dobbiamo dire che la comunità
cristiana non ha luoghi obbligatori per la preghiera personale o comunitaria.
L’Apostolo Pietro prega indifferentemente nel Tempio o sul terrazzo di una
casa, come abbiamo già visto; questo significa che il cristiano può ritenersi
libero da un qualsivoglia legame locale o geografico. Il cristiano può pregare
là dove si trova. Infatti, il Tempio in cui il cristiano prega è Cristo stesso.
Il battesimo ci inserisce nel Corpo di Cristo come in un Tempio, in cui la
preghiera arriva al Padre anche se pronunciata nel profondo di una selva.
L’insegnamento del Vangelo di Giovanni è chiaro su questo punto: “Distruggete
questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Ma egli parlava del Tempio del
suo Corpo” (Gv 2,19.21). Da questo momento, dunque, il Tempio è il Corpo di
Cristo, ossia la comunità cristiana: “Non sapete che siete Tempio di Dio e che
lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16). Se allora si edificano luoghi
sacri per il culto cristiano ciò non è per indicare l’esclusività della celebrazione
in un determinato luogo, ma solo in ragione della praticità e in vista di un
culto ordinato e stabile.
Qualcosa di simile avviene quando in
seguito a un’apparizione della Madonna un certo luogo acquista un particolare
significato religioso. Si tratta di un “particolare significato religioso”,
ossia di un luogo che Dio ha dato al popolo cristiano come luogo
dell’appuntamento, come polo di attrazione per la nostra sensibilità umana
sempre bisognosa di segni, ma non come luogo esclusivo per incontrare la
salvezza.
6. La posizione del
corpo
Dobbiamo
interrogare la Bibbia per sapere se anche la tradizione ebraico-cristiana
prevede per la preghiera determinati gesti o atteggiamenti del corpo. Dobbiamo
subito rispondere di sì, ma dobbiamo precisare che vale anche in questo ambito
quel che abbiamo detto a proposito dei luoghi della preghiera: non c’è nulla di
assoluto o di obbligante; la posizione del corpo, come pure il luogo, ha senso
in quanto favorisce la preghiera e la rende ordinata e non confusa. Interroghiamo
però la Bibbia circa la posizione del corpo dell’orante.
Il Vangelo riporta la consuetudine
dei farisei di pregare in piedi: “Amano pregare stando ritti nella sinagoga”
(Mt 6,5); ma in generale la tradizione dell’AT conosce un modo di pregare in
piedi: “Salomone si mise in piedi e benedisse tutta l’assemblea” (1 Re 8,55);
durante la cerimonia di dedicazione del Tempio l’assemblea partecipa pregando
in piedi (cfr. 2 Cr 7,6). In prossimità di una guerra santa “i leviti si
alzarono a lodare il Signore” (2 Cr 20,19). Anche il nostro cerimoniale
liturgico prevede che in alcune parti della Messa l’assemblea stia in piedi.
Un altro atteggiamento che dalla
tradizione ebraica è passato in quella cristiana è la consuetudine di
inginocchiarsi per pregare: “Giosafat si inginocchiò… e gli abitanti di
Gerusalemme si prostrarono davanti a Signore” (2 Cr 20,18). Quando Mosè ritorna
in Egitto, dopo l’incontro con Dio nel roveto ardente, si fa incontro agli
israeliti radunandoli, e questi, avendo udito le parole che Dio aveva detto a
Mosè, si inginocchiano (cfr. 4,31). Durante la dedicazione del Tempio, Salomone
rimane per un certo tempo inginocchiato davanti all’altare (cfr. 1 Re 8,54). Il
testo più esplicito che fonda teologicamente questo atteggiamento di pregare in
ginocchio è comunque Is 45,23: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio”. Anche
gli Apostoli sogliono pregare in ginocchio: quando i fratelli della comunità
portano Pietro a visitare il cadavere di Tabità, “Pietro fece uscire tutti e si
inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse: Tabità, alzati!”. Ed essa
aprì gli occhi” (At 9,40). L’Apostolo Paolo prega inginocchiato prima di
partire per Gerusalemme dove sarebbe stato arrestato; così prima di lasciare
Efeso “si inginocchiò con tutti loro e pregò” (At 20,36), come pure sulla costa
di Tiro “accompagnati da tutti loro con mogli e figli, inginocchiati sulla
spiaggia pregammo, poi ci salutammo a vicenda” (At 21,5).
Un
altro atteggiamento ricorrente nella preghiera biblica è la prostrazione. Questa
posizione per la preghiera si riscontra sovente nei patriarchi, ma anche in
epoca monarchica: “Allora Abramo disse: andremo fin lassù, ci prostreremo e poi
ritorneremo da voi” (Gen 22,5); anche Mosè prega in questa posizione: il
Signore scese nella nube presso di lui, allora “Mosè si curvò in fretta fino a
terra e si prostrò” (Es 34,8). Anche di Davide si dice che “andò alla casa del
Signore e vi si prostrò” (2 Sam 12,20). Questa posizione per la preghiera è
inoltre esplicitamente richiesta dal Sal 29,2: “Prostratevi al Signore in santi
ornamenti”, come pure da Is 66,23: “Verrà ognuno a prostrarsi davanti a me,
dice il Signore”. La prostrazione è perfino descritta dall’Apocalisse nel culto
celeste: “i 24 vegliardi si prostrarono” (Ap 4,10).
Infine occorre aggiungere qualche
parola sui gesti delle braccia: la preghiera biblica prevede anche le braccia
alzate. Questo atteggiamento si riscontra nella preghiera di Mosè: “Quando Mosè
alzava le mani, Israele era il più forte” (Es 17,11). Le sorti della battaglia
vengono stranamente determinate non dalle armi ma dalla intercessione di Mosè.
Anche Salomone è descritto nell’atto di alzare le braccia per pregare:
“Salomone stese le mani verso il cielo” (1 Re 8,22). In Ne 8,6 tutto il popolo
prega a mani alzate, rispondendo Amen. I Salmi indicano ripetutamente questo
gesto per l’orante: “Alzo le mie mani verso il tuo santo tempio” (Sal 28,2);
“nel tuo nome alzerò le mie mani” (Sal 63,5). Anche il NT prevede questo gesto
per la preghiera cristiana: “Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si
trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese” (1 Tm 2,8).
La consuetudine comune ha recepito
questo gesto quasi esclusivamente per la preghiera del Padre Nostro, ma
potrebbe estendersi anche alle altre forme preghiera.
7. L’insegnamento di
Gesù sulla preghiera
Qui
tocchiamo un punto nevralgico dell’insegnamento sulla preghiera cristiana: la
preghiera di Cristo è il vertice della preghiera biblica. Nei giorni della sua
vita terrena, Cristo prega, sente cioè la necessità di un contatto intimo e
frequente col Padre, e insegna a pregare anche ai suoi discepoli. Sarà
opportuno analizzare tanto la preghiera di Gesù quanto il suo insegnamento
sulla preghiera.
7.1 La preghiera di
Gesù
Sarà in primo luogo opportuno
chiederci “come” Cristo ha pregato nella sua vita da uomo. Uno sguardo generale
ai cenni evangelici sulla preghiera di Gesù ci permette di dire che Lui ha
pregato frequentemente ritirandosi in luoghi deserti, preferibilmente la notte
o prima dell’alba. Questa preghiera di Gesù scandisce la sua attività di
evangelizzazione e non sembra avere scopi pratici aldilà di un ristoro del suo
cuore nell’intimità con il Padre. Notiamo anche l’assenza di preghiera in
occasione dei miracoli: Gesù non prega prima di operare il miracolo, tranne in
due casi, la moltiplicazione dei pani e la risurrezione di Lazzaro. Oltre alla
preghiera ordinaria che scandisce il ritmo delle sue attività apostoliche, vi è
una preghiera circostanziale, ossia una preghiera dettata dal momento
particolare che Cristo si trova a vivere; vediamo così Cristo in orazione prima
di prendere le decisioni più importanti, come la scelta dei Dodici; oppure in
momenti cardine del suo ministero, come il battesimo e la trasfigurazione
(secondo Luca); quando gli Apostoli stanno per essere vagliati dalla bufera
della Passione, Cristo prega in particolare per Pietro (cfr. Lc 22,31-34);
infine Cristo prega per ottenere dal Padre la forza di affrontare il tempo
della prova e di essere in grado di affrontare la morte.
Si può dire inoltre che Cristo ha
praticato le forme più importanti di preghiera note all’AT: la preghiera di
lode, di intercessione, di richiesta di perdono (anche se mai per Se Stesso),
di domanda.
I caratteri della preghiera di
Gesù
La
prima cosa che ci viene di notare in riferimento alla preghiera di Gesù è il
suo pieno inserimento nell’esperienza religiosa di Israele. Cristo si reca di
sabato nella sinagoga e lì prega insieme alla comunità ebraica: “Si recò a
Nazaret ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga” (Lc 4,16). E
ancora: “Gesù insegnava nelle loro sinagoghe” (Mt 4,23). La sinagoga e la
preghiera comunitaria rappresentano quindi la prima tappa della manifestazione
pubblica di Cristo. La comunità che si raduna in preghiera è sempre il primo e
necessario riferimento del singolo credente, il quale impara a pregare dalla
comunità che prega.
Più volte il Vangelo fa riferimento
al fatto che Gesù soleva ritirarsi in luoghi solitari a pregare (Mt 14,13; Mc
1,35), ma non ci dice mai in cosa consistesse questa preghiera solitaria né
quali contenuti avesse.
I
discepoli hanno infatti desiderato sapere come Cristo pregasse, quindi hanno
intuito nella preghiera di Cristo qualcosa di nuovo e di diverso da quel che
tradizione ebraica aveva loro comunicato; e gli hanno chiesto esplicitamente di
insegnare loro a pregare come pregava Lui. Sarà appunto questo l’argomento del
successivo paragrafo. L’unico punto in cui potrebbe venire alla luce quel che
la preghiera solitaria di Cristo poteva essere, è il capitolo 17 del Vangelo di
Giovanni, dove viene portata la lunga preghiera di Gesù che affida alla
custodia del Padre gli Apostoli e la Chiesa futura. Si tratta di una preghiera
piena di confidenza filiale, ma anche piena di una divina consapevolezza, per
la quale Cristo può dire perfino, rivolgendosi al Padre: “Voglio che anche
quelli che mi hai dato siano con Me” (Gv 17,24). La preghiera di Gesù conosce
dunque sia l’adesione piena del Figlio al volere del Padre, sia la coscienza lucida
dell’uguaglianza nella natura divina e nell’unica maestà, identica per il Padre
e per il Figlio.
Cristo non mette sullo stesso piano
la preghiera e l’attività apostolica, né si ritira a pregare solo quando non ha
nulla da fare. Al contrario, Egli si ritira a pregare anche quando le folle lo
cercano per ascoltare la sua Parola e ricevere al guarigione: “Folle numerose
venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. Ma Gesù si
ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc 5,15-16). Neppure l’incalzare della
piena dei bisogni umani lo ferma dalla ricerca della solitudine e della
intimità col Padre. Significa che la preghiera deve avere la priorità assoluta su ogni attività. Mentre lo
cercano, Egli si ritira in luoghi solitari. Non sempre ci riesce, perché
talvolta la folla intuisce dove sta per andare e lo precede. Qui Cristo si
commuove e apre a chi lo cerca i tesori del suo Cuore (cfr. Mc 6,30-34). La
notte è perciò l’unico tempo di preghiera che Lui riesce a ricavarsi senza
interruzioni.
I momenti più importanti e più determinanti dell’attività
apostolica di Gesù sono scanditi dalla preghiera. Il Vangelo di Luca sottolinea
la preghiera di Gesù nel battesimo e nella trasfigurazione, due grandi momenti
teofanici che Cristo vive immerso nella preghiera e astratto dal mondo (cfr. Lc
3,21 e 9,28-29). Certe esperienze forti, insomma – quei momenti di incontro con
Dio che sono orientati alla nostra crescita -, non possono essere vissute dal
cristiano con l’animo distratto o svagato, o assente. Cristo stesso si è
concentrato e ha messo in fuga distrazioni e superficialità nel giorno del suo
battesimo e della sua trasfigurazione, quando il Padre lo ha accreditato
dinanzi agli uomini come testimone verace.
Un
altro momento cardine del ministero pubblico di Cristo è la scelta dei Dodici.
Anche in questa circostanza Egli ha voluto sprofondarsi nella preghiera prima
di prendere una decisione così importante e determinante per la vita della
Chiesa: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la
notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a Sé i suoi discepoli e ne scelse
dodici” (Lc 6,12-13). Non c’è dubbio che il cristiano debba sentirsi
interpellato dinanzi a questo quadro: le svolte della vita, le grandi decisioni
e le scelte definitive non possono essere prese nel rumore e nel trambusto
della vita quotidiana, né possono prescindere da una consultazione del Signore
nel silenzio e nella preghiera prolungata.
Come già dicevamo, nella preghiera
personale di Gesù troviamo sia la preghiera di lode che quella di
intercessione. La sua preghiera di lode è riportata in Lc 10,21: “In quello
stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode Padre…
che hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. La preghiera
di lode di Gesù non è di origine cerebrale, intellettuale, ma non è neppure
frutto di un moto sentimentale: si tratta di una esultanza nello Spirito Santo.
Può giungere alla preghiera di lode solo chi giunge a provare la gioia dello
Spirito, ossia a percepire intimamente che ciò che Dio comanda e vuole è
qualcosa di meraviglioso che riempie di stupore; chi pensa che il Vangelo
contiene una serie di idee belle e buone non è ancora arrivato a scoprire
questa esultanza; essa non si prova dinanzi alle cose belle e buone, ma solo
dinanzi alle cose divine. Chi arriva a sentire dentro di sé che il Vangelo è
divino, che il modo di essere uomo personificato da Cristo è divino, che la
Parola che risuona nella Chiesa non è solo “moralmente buona” ma è divina, allora
costui può giungere alla preghiera di lode, che esprime l’esultanza dell’animo
riempito di stupore dinanzi alla bellezza divina del Cristo.
La preghiera di intercessione di
Gesù è riportata da Lc 22,31: “Simone, Simone, satana vi ha cercato per vagliarvi
come il grano; ma Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede”. Poco
prima di essere arrestato, Gesù prepara l’Apostolo Pietro non solo avvertendolo
della bufera che sta per scatenarsi, ma soprattutto pregando per lui così che
la sua fede non venga annullata dalla persecuzione. Sarà infatti Pietro il
punto di riferimento della comunità postpasquale e il kerygma cristiano
comincerà proprio con lui nel giorno di Pentecoste (cfr. At 2).
L’altra
grande preghiera di intercessione è quella riportata da Gv 17, dove Gesù, prima
di essere arrestato, prega per la Chiesa che nascerà dalla predicazione
apostolica e chiede al Padre di conservarla nell’unità della Trinità.
Tra
il Getsemani e il Golgota
La
preghiera di Gesù raggiunge il vertice nel momento più delicato e drammatico
della sua vita terrena: le ore oscure della Passione. Qui Gesù prega per
ottenere dal Padre la forza di attraversare quel mare di odio che stava per
riversarglisi addosso. Il messaggio è abbastanza chiaro anche per il cristiano:
se è importante la preghiera nelle svolte e nelle grandi decisioni della vita,
lo è soprattutto nella svolta più grande che è rappresentata dall’esperienza
del dolore e dalla prossimità della morte. Cristo prega non solo in prossimità
della morte, ma anche nelle ore lunghe dell’agonia, prima di perdere
conoscenza.
Nel Getsemani, Gesù vuole la
compagnia di tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. A loro chiede un
particolare tipo di preghiera, che consiste semplicemente nel rimanere accanto
a Lui: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con Me”
(Mt 26,38). Cristo non chiede loro particolari formule da recitare, non chiede
la proclamazione di qualche Salmo, ma semplicemente
di restare con Lui. Restare e vegliare, ossia offrirgli una presenza non
distratta ma attenta, concentrata sulla sua divina Persona. E’ in sostanza la
preghiera di semplice sguardo che si fa davanti all’Eucaristia; una preghiera
senza parole, ma carica di attenzione, dove la tensione del cuore è tutta nello
sguardo.
La preghiera di Gesù nel Getsemani è una preghiera essenziale,
fatta di poche parole: “Se è possibile passi da Me questo calice! Però non come
voglio Io, ma come vuoi Tu” (Mt 26,39). Queste stesse parole Gesù le ripete più
volte (cfr. Mt 26,44); è quindi possibile che, in momenti particolarmente
intensi, la preghiera del cristiano si componga anche di poche e brevi frasi,
ripetute più volte. Come vedremo, Gesù mette esplicitamente in guardia i suoi
discepoli dalla pratica di una preghiera parolaia, che non giunge di fatto al
cuore di Dio. Serve solo a ingolfare la vita interiore del discepolo con le
molte parole e i ragionamenti non necessari.
Gesù prega soprattutto mentre sulla
croce sente che la vita a poco a poco gli sfugge. La sua preghiera è una preghiera
di richiesta di perdono per tutti coloro che lo hanno colpito: “Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
Ma
è anche una preghiera di infinita fiducia in Colui che lo ha abbandonato (cfr.
Mc 15,34) nelle mani dei nemici: “Padre, nelle tue mani consegno il mio
spirito” (Lc 23,46). Anche qui c’è un intero programma per il cristiano, che
non può giungere impreparato alla morte, né farne l’esperienza senza
immedesimarsi profondamente nel mistero della croce. E ciò non può avvenire se
non nella preghiera.
7.2 La preghiera
insegnata da Gesù
Oltre
alla preghiera personalmente fatta da Gesù nei giorni della sua vita terrena,
c’è anche un insegnamento esplicito, sollecitato dai suoi discepoli: “Un giorno
Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli
gli disse: insegnaci a pregare” (Lc 11,1). L’insegnamento di Gesù sulla
preghiera è riportato in diversi brani. Cominciamo col Vangelo di Matteo 6,5-15
e 7,7-11.
Il contesto prossimo ci conduce
direttamente alla preghiera del cuore: è infatti tolta di mezzo ogni forma di
preghiera che si esaurisca nel pronunciamento meccanico di determinate formule:
“Quando preghi, entra nella tua camera…” (6,5). La propria “camera” è
indubbiamente un’immagine finalizzata a un insegnamento, visto che la preghiera
comunitaria e liturgica è sempre stata, fin dalla prima generazione cristiana,
un elemento portante della vita della Chiesa. In sostanza, non si tratta di un
invito di carattere privato e intimistico, quanto piuttosto di una qualità dell’incontro con Dio. La
“camera” indica il dialogo del cristiano con il Padre, incontrato nella
profondità della propria coscienza. La stessa preghiera comunitaria e liturgica
si svuota completamente, e diventa pura esteriorità, quando i membri
dell’assemblea, ciascuno per la propria parte, non hanno incontrato il Padre
nelle profondità del proprio animo. Ancora peggio è quando la preghiera è fatta
visibilmente, per dare un “tocco di classe” alla propria rispettabilità sociale
(cfr. 6,5). Al giorno d’oggi, perfino i maghi ricorrono a questo stratagemma,
circondandosi di crocifissi e di immagini sacre, per far credere alla gente che
i loro “poteri” vengono da Dio. Perciò il discepolo non deve mai lasciarsi
trarre in inganno dalle apparenze, perché Satana si traveste solitamente da
angelo di luce (cfr. 2 Cor 11,14).
L’insegnamento centrale sulla preghiera è però rappresentato dal
Padre Nostro, che non si presenta come una “formula” di preghiera, bensì come
un archetipo su cui modellare la preghiera cristiana. Il medesimo insegnamento
è riportato nel Vangelo di Luca, dove la parabola dell’amico importuno è
introdotta dalla preghiera del Padre Nostro, che Luca riporta in una maniera
più breve di quella di Matteo (cfr Lc 11,1-4).
La diversità delle due redazioni di questa preghiera, dimostra
che non si tratta di una “formula” ma, come abbiamo detto, di un modello di preghiera. Se si fosse
trattato di una formula, sarebbe stata registrata parola per parola, tanto più
che questa è l’unica preghiera insegnata direttamente dal Signore.
Da questo modello risulta:
1.
La nostra preghiera è
rivolta più alla Paternità di Dio che alla sua onnipotenza: “Quando pregate,
dite: Padre...” (6,9).
2.
Non è giusto pregare per le proprie
necessità umane, senza cercare prima la gloria di Dio: cfr vv. 9-10
3.
Non è autentica la preghiera di chi non è
uomo di pace (cfr. v. 12)
L’insegnamento
di Gesù addita ai discepoli anche una preghiera ininterrotta. Uno dei
discepoli, avendo notato che Gesù si ritirava spesso in solitudine a pregare,
gli disse: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). La preghiera è uno dei
temi che l’evangelista Luca più ama sottolineare. Soprattutto è messa in
evidenza la preghiera di Gesù nelle scelte più difficili (cfr Lc 6,12) o nei
momenti più cruciali del suo ministero (cfr Lc 3,21 e 9,28). Queste due
parabole si riferiscono alla preghiera dei cristiani, i quali a maggior ragione
devono affidarsi a Dio nella preghiera, se Cristo non ha pensato di poterne
fare a meno. Il Gesù storico si presenta allora anche come Maestro di
preghiera. Queste due parabole non esauriscono l’insegnamento di Gesù sulla
preghiera, ma ne sono soltanto una introduzione.
Occorre pregare senza stancarsi
Prima
di narrare la parabola del giudice iniquo, Luca ci fa sapere perché Cristo l’ha inserita nel proprio
insegnamento: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1).
La preghiera cristiana, secondo
questo insegnamento, ha insomma bisogno di due principali caratteristiche: essere
ininterrotta; non essere soggetta alla stanchezza.
Ma quale stanchezza?
Cominciamo
col secondo elemento: “pregare senza stancarsi”. Di che stanchezza si tratta?
Certo, la preghiera esige concentrazione, lotta contro le distrazioni, in certo
qual modo un affaticamento mentale. E’ questa la stanchezza di cui parla Gesù?
Non ci sembra proprio. Non è in questione la stanchezza fisica o quella
psicologica. Infatti, quando uno è stanco fisicamente o mentalmente, il
suggerimento di Cristo è prima di tutto il riposo: cfr. Mc 6,31 e Mt 9,36.
Inoltre, se è una stanchezza di cui
si può dire “non stancarti”, allora è di diversa natura da quella
fisico-psichica. L’unica stanchezza di cui si può dire “non ti stancare” è
infatti quella stanchezza che risulta
dall’affievolimento della fede. La stanchezza che non dobbiamo avere è
quella del dubbio, del cedimento interiore della certezza dell’aiuto di Dio. In
tal modo la preghiera sarebbe indebolita in partenza e sterilizzata alla
radice. Ecco perché se la preghiera vuole essere efficace non può e non deve
essere soggetta alla “stanchezza” della fede.
E’ possibile pregare
ininterrottamente?
Più
difficile a capirsi (oltre che a farsi) ci sembra quest’altra esigenza della
preghiera cristiana. Pregare ininterrottamente! Ma come si fa con tutti gli
impegni che ci sommergono appena ci alziamo dal letto?
Per capire cosa sia la “preghiera
continua” occorre ampliare la prospettiva sull’intera rivelazione biblica, dal
momento che la preghiera ininterrotta è richiesta anche ai Patriarchi, e
precisamente ad Abramo. Ci riferiamo al brano di Gen 17,1, dove incontriamo il
primo insegnamento biblico sulla preghiera ininterrotta: “Io sono Dio
onnipotente: cammina davanti a Me e
sii integro”. Da qui comprendiamo una cosa essenziale: la preghiera non
consiste nel parlare con Dio, ma nel
vivere ogni istante della vita quotidiana alla sua Presenza. Questo
insegnamento ritorna chiaramente nel racconto della Passione; nell’orto degli
Ulivi, Gesù dice ai suoi discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc 14,34). Gesù
non chiede che i discepoli si mettano lì a conversare con Lui, ma chiede
solo la loro presenza. Pregare significa infatti essere presenti a
Colui che è Presente. In definitiva, pregare
è amare. E non si ama con le parole. Nell’amore le parole esprimono “una
disposizione di dono” della persona; ma talvolta può esserci la “disposizione
di dono” senza le parole. Come nella vita di coppia, non sempre si parla, ma
ciò che conta è la disposizione personale
del reciproco dono.
Chi
giunge a vivere la propria giornata “alla presenza di Dio”, si può dire che ha
attuato l’insegnamento evangelico della preghiera continua, ripreso anche
dall’Apostolo Paolo: cfr. Ef 6,18 e 1 Ts 5,17, ma anche nell’intendere il vivere cristiano, cioè la
quotidianità, e non solo la preghiera liturgica, come un culto spirituale reso
a Dio (cfr. Rm 12,1-2).
“Quale padre darà una pietra al figlio che gli chiede un pane?” (cfr
Lc 11,9-13)
Prima
di parlare della preghiera, Cristo tiene a precisare chi è Colui a cui la
nostra preghiera si rivolge. Al discepolo che gli chiede “insegnaci a pregare”,
Gesù risponde: “Quando pregate, dite: Padre...” (11,2). Il tema della paternità
di Dio è poi ripreso dopo la parabola dell’amico importuno: un uomo può anche
soccorrere un amico solo per la sua insistenza, ma un padre non ha bisogno
dell’insistenza dei figli, per beneficarli, perché
li ama. Anche un uomo malvagio può fare del bene solo per essere lasciato
in pace (Lc 18,4-5), ma al proprio figlio
non darà un sasso se gli chiede del pane (11,13). Nella stessa maniera il
Padre celeste dà il necessario all’uomo, ma soprattutto gli dà il regalo che in
senso assoluto è necessario: lo Spirito
Santo (v. 13). Ma è proprio su questo terreno che si gioca l’autenticità
della preghiera cristiana. Cfr. anche 1 Re 3,5-15.
Un altro elemento di estrema
importanza nell’insegnamento di Gesù è la
fede che deve accompagnare la preghiera. La mancanza di fede o il tarlo del
dubbio rischiano di vanificare l’efficacia della preghiera cristiana: “Se
avrete fede e non dubiterete… direte a questo monte levati di lì e gettati nel
mare, e ciò avverrà. Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo
otterrete” (Mt 21,21-22). E il passo parallelo di Marco: “Abbiate fede in Dio!
In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza
dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà
accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera
abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,22.24). In altre
parole, la mancanza di fede, che poi altro non è se non sfiducia in Dio, o
mancanza di aspettative, come se Dio non fosse abbastanza buono o abbastanza
potente da soccorrerci nelle nostre necessità, la mancanza di fede, insomma,
sterilizza la preghiera che così rischia di ridursi a una vuota recitazione di
formule.