sabato 22 febbraio 2014

SANTI é BEATI :

Beata Giuseppina Vannini Fondatrice

23 febbraio

Roma, 7 luglio 1859 - 23 febbraio 1911

Fondatrice delle Figlie di San Camillo. Fiduciosa dell'aiuto divino, in appena 19 anni di lavoro, Gioseppina Vannini riuscì a diffondere il provvidenziale Istituto in Italia, in Francia, in Belgio e nel Sudamerica. Oggi le Figlie di S. Camillo operano in quattro continenti: Europa, Asia, Africa, America. Sentendo avvicinarsi il momento della sua dipartita, ripeteva alle figlie: “Fatevi coraggio! Anzitutto è Dio che manda avanti le cose e non io. E poi dal paradiso potrò fare voi di più di quello che non faccio stando in questo mondo. Quando io non sarò più, credete pure che si farà meglio di quanto non si faccia adesso”. Ricca di meriti e circondata di grande fama di santità, la Madre entrò nella vita eterna il 23 febbraio 1911.
La causa di canonizzazione fu avviata presso il tribunale del Vicariato di Roma nel 1955. Adempiuto quanto stabilito dalle Leggi Canoniche, il 7 marzo 1992 è stato dichiarato che la Giuseppina Vannini esercitò in grado eroico le virtù teologali, cardinali ed annesse. Il 16 ottobre 1994 Giovanni Paolo II la proclamò "beata".
Il giorno 23 febbraio 2011, le suore Figlie di San Camillo, hanno celebrato solennemente il primo centenario della morte della loro fondatrice.

Martirologio Romano: A Roma, beata Giuseppina (Giuditta Adelaide) Vannini, vergine, fondatrice della Congregazione delle Figlie di San Camillo per l’assistenza ai malati.

Giuseppina Vannini nasce a Roma il 7 luglio 1859 da Angelo e Annunziata Papi e viene battezzata con il nome di Giuditta. È preceduta da una sorella, Giulia, e seguita da un fratello, Augusto.
Il Signore solitamente prepara e matura le anime attraverso la via della croce. A 4 anni Giuditta perde il papà e tre anni dopo anche la mamma. I tre fratelli orfani vengono separati: Augusto è accolto da uno zio materno, Giulia è affidata alle Suore di San Giuseppe e Giuditta di 7 anni è accolta nel Conservatorio Torlonia in Roma, ove le Figlie della Carità la educano alla fede cristiana e la preparano alla vita.
Giuditta cresce buona, pia, docile e riflessiva. Ottiene il diploma di maestra d’asilo e a 21 anni chiede di entrare nel noviziato delle Figlie della Carità a Siena. Ma poco dopo ritorna a Roma per motivi di salute e per un periodo di prova. L’anno seguente torna a Siena, ma poi viene definitivamente dimessa dall’IStituto perché ritenuta inadatta.
Sente profondamente la chiamata verso la vita religiosa; ma in quale istituto? Ella soffre e prega. Ha 32 anni, quando partecipa a un corso di esercizi spirituali nella casa delle Suore di Nostra Signora del Cenacolo a Roma. L’ultimo giorno del ritiro, il 17 dicembre 1891, Giuditta si presenta al predicatore, il camilliano P. Luigi Tezza per chiederne un consiglio. Il padre, pochi mesi prima, aveva avuto l’incarico in qualità di Procuratore generale di ripristinare le Terziarie Camilliane e in quel momento ha un’ispirazione: affidare a lei la realizzazione di tate progetto.
Giuditta risponde: "Padre, lasciatemi riflettere; vi darò una risposta". Due giorni dopo si presenta al Padre: "Eccomi a sua disposizione per il suo progetto. Non sono capace di nulla io. Confido però in Dio".
P. Tezza scopre ben presto in lei la tempra della fondatrice, sicura di sé, donna di preghiera e di sacrificio. Informa i superiori dell’Ordine camilliano e ottiene l’autorizzazione del Cardinale Vicario di Roma a procedere in questa iniziativa.
Giuditta con altre due giovani, preparate da P. Tezza, formano la prima comunità. Il 2 febbraio 1892, ricorrenza della conversione di San Camillo, nella stanza-santuario ove è morto il Santo, mediante l’imposizione dello scapolare con la croce rossa, nasce la nuova famiglia camilliana. Il 19 marzo seguente, P. Tezza veste dell’abito religioso, contrassegnato dalla croce rossa, Giuditta, che prende il nome di suor Giuseppina e viene nominata superiora.
Con la consulenza del Tezza vengono formulate le Regole dell’incipiente Istituto religioso, specificandone la finalità: per l’assistenza delle malate anche a domicilio.
Pure in mezzo a grandi povertà, cresce il loro numero. Alla fine del 1892 sono già quattordici, nel1893 è aperta una nuova comunità a Cremona e nel 1894 a Mesagne nelle Puglie; seguiranno altre case altrove.
Ma occorre ottenere l’approvazione definitiva dell’autorità ecclesiastica. Purtroppo il Papa Leone XIII aveva deciso proprio in quegli anni di non permettere fondazioni di nuove comunità a Roma. Perciò alla richiesta di P. Tezza, rinnovata per due volte, fu risposto a nome del Papa: "non expedit". (non conviene, non si approva). Anzi fu imposto al gruppo delle religiose di allontanarsi da Roma. Sembra che debba svanire ogni prospettiva, ma per l’ammirazione dell’attività di assistenza delle sorelle, anche da parte della stampa, e per l’appoggio del Cardinale Vicario si ottiene l’erezione in "Pia Associazione" dipendente dal cardinale e così l’opera può continuare.
Un’altra prova sopravviene. L’amabilità di P. Tezza verso le religiose, che chiama "le mie figlie", è oggetto di interpretazioni maligne da parte di alcune persone, che spargono sul Padre alcune insinuazioni definite da madre Giuseppina "ciarle e vere calunnie".
Interviene il Cardinale Vicario e senza appurare la verità toglie al loro padre spirituale Ia facoltà di confessare e gli proibisce di incontrane le suore.
P. Tezza non vuole difendersi e accetta in silenzio le disposizioni offrendo il sacrificio della separazione per il bene e lo sviluppo dell’Istituto. Il distacco viene completato quando il Padre, nell’anno 1900, è incaricato dal suo superiore generale di recarsi in Perù in qualità di visitatore della comunità di Lima. Accetta l’obbedienza e parte per l’America Latina. Da lì non tornerà più in Italia.
Manterrà la relazione con la fondatrice e con l’Istituto solo con la corrispondenza epistolare e morirà a Lima a 82 anni, il 26 settembre 1923, venerato come un santo.
L’allontanamento di P. Tezza costituisce un dramma per la fondatrice, che deve addossarsi da sola il peso del nascente Istituto. Ma non si perde d’animo; ha ricevuto da lui quanto occorre per proseguire. Dotata di mirabile fortezza e fiduciosa nell’aiuto del Signore, riesce a diffondere l’Istituto in varie parti d’Italia e in Argentina.
Nonostante una salute debole, spesso travagliata da languori e da emicranie, la Madre non si risparmia, visita ogni anno le case, si prodiga per le Figlie e le accompagna con amabilità e con vigore.
Il 21 giugno 1909, dopo tante resistenze, riesce ad ottenere il Decreto di erezione dell’istituto in Congregazione religiosa sotto il titolo di "Figlie di S. Camillo".
Net 1910, dopo l’ultima visita a tutte le case in Italia e in Francia, è colpita da una grave malattia di cuore. Passa gli ultimi mesi sofferente nel corpo e per un certo periodo anche nello spirito per timori e ansietà sulle sorti dell’Istituto.
Così, purificata ulteriormente dal dolore, il 23 febbraio 1911 rende serenamente l’anima a Dio. Lascia un Istituto con sedici case religiose in Europa e America e con 156 religiose professe.
Il 16 ottobre 1994 Giovanni Paolo II la proclamò "beata".


La sua eredità
Le Figlie di San Camillo, contrassegnate dalla rossa croce camilliana, sono sparse in quattro continenti.
Continuano il carisma della Fondatrice negli ospedali, case di cura, centri di riabilitazione in Europa e in terra di missione, anche presso malati a domicilio e nei lebbrosari, memori dell’ammonimento della Beata Vannini: "Abbiate cura dei poveri infermi con lo stesso amore, come suole un’amorevole madre curare il suo unico figlio infermo".


L’esempio e il mandato di Gesù
"Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide Ia suocera di lui che giaceva a letto con la febbre. Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo.
Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
Egli ha preso le nostre infermità e si e addossato le nostre malattie" (Mt 8,14-17).
"Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano e dite loro: è vicino a voi il regno di Dio" (Lc 10,8-9).

( Mt 5,38-48 ) Amate i vostri nemici.

VANGELO 
( Mt 5,38-48 )Amate i vostri nemici.
Dal Vangelo secondo Matteo In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». Parola del Signore




LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
O Dio, fortezza di chi spera in te, ascolta benigno le nostre invocazioni e poiché nella nostra debolezza nulla possiamo senza il tuo aiuto, soccorrici con la tua grazia e col tuo Spirito illuminaci.

La logica che ci lega alla terra è fatta di simpatie e di antipatie, di cose belle e cose brutte, d’odio e d’amore…Tutti siamo capaci di provare dei sentimenti, anche gli animali, che sicuramente sono migliori di noi anche in questo. In genere i nostri sentimenti debbono essere corrisposti, ricambiati, perché non siamo proprio abituati a dare gratuitamente e siamo più inclini all’ indifferenza e al rancore che all’ amore. Ma noi non siamo solo uomini, siamo anche Cristiani e nella logica di Cristo, l’ amore supera i nostri limiti.
Ama il tuo nemico, perché Dio lo ama, è tuo fratello e se ami Dio, se vuoi condividere con lui il progetto di salvezza, non puoi essere tu a decidere chi amare, devi fidarti di Dio. Io sono sicura che molte persone, che per noi non hanno speranza, saranno invece davanti a noi sulla via del paradiso. Il Signore sa come e quando chiamarci… ricordate la frase: - non siete voi che avete scelto me, ma io che ho scelto voi.- ? Si, è vero che abbiamo il libero arbitrio, che la scelta è la nostra, se dire sì o no a quella chiamata, ma come con Paolo, così fa con tutti noi, con tempi e modi che si differenziano.
Gesù ci invita ad amare, sempre e nonostante tutto, perché è da questo che si riconosce il Cristiano, anche i pagani sanno amare chi li ama, ma il Cristiano deve tendere ad amare anche il suo nemico. Dice ancora Gesù: - "Gv. 13,35 Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri." - Abbiamo tanti esempi di gente che ha saputo amare e perdonare come ha fatto Gesù, un esempio è suor Maria Laura Mainetti. Dal gesto insano di tre ragazze, all’ amore incondizionato della piccola suora, e da allora, tanti piccoli fiori sono fioriti da quel seme d’amore.Voglio darvi un link nel quale troverete le dichiarazioni di una delle giovanissime assassine; un'intervista a Veronica che mi ha molto colpito,perchè veramente queste giovani ,potrebbero essere le figlie di tutti noi.http://www.donboscoland.it/articoli../articolo.php?id=123622

 I disegni del Signore non sono i nostri, ma noi possiamo farne parte nel bene o nel male. Satana propone ma Dio con il nostro aiuto Dispone! Porgi l'altra guancia, non vendicarti, aiuta chi è in difficoltà, sopporta le ingiustizie con pazienza. Certo che Gesù pretende veramente molto da noi, eppure tutto ha una sua logica, solo che è lontana dalla nostra umanità. Ma che potevamo aspettarci da chi ha per amore dato la sua vita per noi, da chi mette l'amore al primo posto....Potremmo forse dire che cosa ne sa Lui? Che ne sa di quando ti accusano d’essere colpevole di un reato e non lo sei?
Lo sa!
Che ne sa di quando ti fanno un torto, ti tradiscono?
Lo sa!
Che ne sa di quando ti schiaffeggiano e ti umiliano davanti a tutti?
Lo sa!
Che ne sa di quando ti senti solo e tutti gli amici ti abbandonano?
Lo sa!
Gesù non parla per sentito dire, ha provato tutto sulla sua pelle, si è umiliato, fatto uomo per portarci nel suo regno, che è quello dell'amore e dove c'è amore vero, per tutti gli uomini, non ci può essere altro. Se negli uomini è insito il desiderio di prevalere, in Gesù quello di far prevalere e la cosa che deve essere prevalente è proprio l'amore.
-Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno - è stata la sua ultima preghiera....

venerdì 21 febbraio 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Non posso, poi, affatto credere e quindi dispensarti dal meditare solo perché a te sembra di non ricavarne nulla. Il sacro dono dell’orazione, mia buona figliuola, sta posto nella mano destra del Salvatore, ed a misura che tu sarai vuota di te stessa, cioè dell’amore del corpo e della tua propria volontà, e che ti andrai ben radicando nella santa umiltà, il Signore lo andrà comunicando al tuo cuore." (Epist. III, p. 979s.).

SANTI é BEATI :

Cattedra di San Pietro Apostolo

22 febbraio

Il 22 febbraio per il calendario della Chiesa cattolica rappresenta il giorno della festa della Cattedra di San Pietro. Si tratta della ricorrenza in cui viene messa in modo particolare al centro la memoria della peculiare missione affidata da Gesù a Pietro. In realtà la storia ci ha tramandato l'esistenza di due cattedre dell'Apostolo: prima del suo viaggio e del suo martirio a Roma, la sede del magistero di Pietro fu infatti identificata in Antiochia. E la liturgia celebrava questi due momenti con due date diverse: il 18 gennaio (Roma) e il 22 febbraio (Antiochia). La riforma del calendario le ha unificate nell'unica festa di oggi. Essa - viene spiegato nel Messale Romano - "con il simbolo della cattedra pone in rilievo la missione di maestro e di pastore conferita da Cristo a Pietro, da lui costituito, nella sua persona e in quella dei successori, principio e fondamento visibile dell'unità della Chiesa". (Avvenire)

Martirologio Romano: Festa della Cattedra di san Pietro Apostolo, al quale disse il Signore: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Nel giorno in cui i Romani erano soliti fare memoria dei loro defunti, si venera la sede della nascita al cielo di quell’Apostolo, che trae gloria dalla sua vittoria sul colle Vaticano ed è chiamata a presiedere alla comunione universale della carità.
Ascolta da RadioRai:
Ascolta da RadioMaria:


Per ricordare due importanti tappe della missione compiuta dal principe degli apostoli, S. Pietro, e lo stabilirsi del cristianesimo prima in Antiochia, poi a Roma, il Martirologio Romano celebra il 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia e il 18 gennaio quella della sua cattedra a Roma. La recente riforma del calendario ha unificato le due commemorazioni al 22 febbraio, data che trova riscontro in un'antica tradizione, riferita dalla Depositio mar rum. In effetti, in questo giorno si celebrava la cattedra romana, anticipata poi nella Gallia al 18 gennaio, per evitare che la festa cadesse nel tempo di Quaresima.
In tal modo si ebbe un doppione e si finì per introdurre al 22 febbraio la festa della cattedra di S. Pietro ad Antiochia, fissando al 18 gennaio quella romana. La cattedra, letteralmente, è il seggio fisso del sommo pontefice e dei vescovi. E’ posta in permanenza nella chiesa madre della diocesi (di qui il suo nome di "cattedrale") ed è il simbolo dell'autorità del vescovo e del suo magistero ordinario nella Chiesa locale. La cattedra di S. Pietro indica quindi la sua posizione preminente nel collegio apostolico, dimostrata dalla esplicita volontà di Gesù, che gli assegna il compito di "pascere" il gregge, cioè di guidare il nuovo popolo di Dio, la Chiesa.
Questa investitura da parte di Cristo, ribadita dopo la risurrezione, viene rispettata. Vediamo infatti Pietro svolgere, dopo l'ascensione, il ruolo di guida. Presiede alla elezione di Mattia e parla a nome di tutti sia alla folla accorsa ad ascoltarlo davanti al cenacolo, nel giorno della Pentecoste, sia più tardi davanti al Sinedrio. Lo stesso Erode Agrippa sa di infliggere un colpo mortale alla Chiesa nascente con l'eliminazione del suo capo, S. Pietro. Mentre la presenza di Pietro ad Antiochia risulta in maniera incontestabile dagli scritti neotestamentari, la sua venuta a Roma nei primi anni dell'impero di Claudio non ha prove altrettanto evidenti.
Lo sviluppo del cristianesimo nella capitale dell'impero attestato dalla lettera paolina ai Romani (scritta verso il 57) non si spiega tuttavia senza la presenza di un missionario di primo piano. La venuta, qualunque sia la data in cui ciò accadde, e la morte di S. Pietro a Roma, sono suffragare da tradizioni antichissime, accolte ora universalmente da studiosi anche non cattolici. Lo attestano in maniera storicamente inoppugnabile anche gli scavi intrapresi nel 1939 per ordine di Pio XII nelle Grotte Vaticane, sotto la Basilica di S. Pietro, e i cui risultati sono accolti favorevolmente anche da studiosi non cattolici.

Autore: Piero Bargellini

(Mt 16,13-19) Tu sei Pietro, e a te darò le chiavi del regno dei cieli.

VANGELO 
(Mt 16,13-19) Tu sei Pietro, e a te darò le chiavi del regno dei cieli. 
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 


Parola del Signore




LA MIA RIFLESSIONE

PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito, dolce compagno, vienimi accanto ed insieme a te sarà tutto più comprensibile, tutto più semplice, tutto più giusto. Fa che niente di me permanga nel cuore e riempi il vuoto con la tua presenza, per Cristo nostro Signore. Amen.

Un brano questo, in cui Gesù ci pone un interrogativo importante, ci mette alla prova, così come fa con Pietro: - Tu chi dici che io sia?- Noi oggi, come cristiani, siamo molto più fortunati di Pietro, perché in duemila anni, Gesù ci ha fornito tante prove della sua presenza in mezzo a noi, ma quello di credere in Gesù figlio di Dio, non è il solo problema che oggi il Vangelo ci presenta. Pietro riconosce, per grazia Divina, in Gesù il Figlio di Dio, ma ancora non è pronto a comprendere del tutto. Vediamo che Pietro non è migliore di noi, nonostante la conoscenza e l’ amicizia che lo legano a Gesù.

- Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente ! -
- Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto nei cieli.-Queste parole le dice dopo aver avvertito Pietro del fatto che lo avrebbe rinnegato, quindi nonostante questo,lo sceglie per dare inizio alla sua Chiesa.
Poche parole, ma essenziali per noi Cristiani. Seguire Pietro perché scelto da Gesù, ed è tutto.
Pietro è un uomo che ha paura? Sembrerebbe di sì perché negherà di conoscere Gesù quando fu catturato, ma da questa risposta che dà al Signore ancora prima che questo succedesse, si capisce che già lo Spirito agisce in lui, tanto da fargli dire quelle parole che solo la grazia di Dio poteva mettergli sulle labbra. Allora perché tace?
Perchè nega di conoscere Gesù? I disegni del Signore sono giusti, noi non li conosciamo, ma se Pietro fosse stato subito catturato e ucciso, come avrebbe potuto servire il Signore? Pietro era un uomo come noi, ma scelse Gesù, fino in fondo. Non era colto, aveva anche un carattere burbero, era un bel capoccione come diremmo oggi, ma si fece trascinare dall’ amore che quell’ uomo sprizzava da tutti i pori, per gli ultimi, per i bisognosi, per gli ammalati, per tutti quelli che considera fratelli, anche se lo crocifiggeranno anche se non lo vogliono accettare. Certo anche Pietro come noi, avrebbe voluto farsi un Gesù un po’ più su misura, un po’ meno idealista e più combattivo, un po’ più umano e meno obbediente a Dio, un po’ più terreno e meno irreale. Ma Gesù è Gesù, è Dio stesso e non può essere qualcun altro, nemmeno per farci contenti.
Il suo amore è immenso per noi, ma non scende a compromessi con la nostra umanità, sa perdonare perché è misericordioso, ma quello che ci dice di fare è legge. Seguirlo significa prendere la nostra croce, come ha fatto Lui e seguirlo su questa strada. Possiamo essere imperfetti, ce lo perdonerà, possiamo cadere e ci aiuterà ad alzarci, ma la strada è solo questa, attraverso la porta stretta delle sue parole possiamo seguirlo, non facendoci un Dio su misura, più consono ai nostri desideri.
Scegliere tra Dio o mammona, Tra un Dio vero o idealizzato, adattato. Questo non è permesso a nessuno, neanche a Pietro, infatti, ricordiamo che anche per lui c’ è subito il rimprovero di Gesù, che addirittura lo apostrofa chiamando figlio di satana. E’ facile sbagliare strada, se quella che vogliamo percorrere non parte direttamente dal cuore di Cristo. Prima di tutto questo, capire che è lui la porta per la salvezza e la vita eterna, e non tutte quelle altre uscite di sicurezza che apriamo con la nostra umanità. Abbiamo forse paura di affrontare il mondo con Gesù oppure la nostra non è paura, ma negazione dell’ appartenenza a Cristo? Non è una domanda da poco!

giovedì 20 febbraio 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Abbi pazienza nel perseverare in questo santo esercizio del meditare e contentati di cominciare a piccoli passi, finché abbi gambe per correre, e meglio ali per volare; contentati di fare l’ubbidienza, la quale non è mai una piccola cosa per un’anima, la quale ha scelto Dio per sua porzione e rassegnati di essere per ora una piccola ape di nido che ben presto diventerà una grande ape abile a fabbricare il miele. Umiliati sempre ed amorosamente davanti a Dio ed agli uomini, perché Dio parla veramente a chi tiene il suo cuore umile dinanzi a Lui." (Epist. III, p. 980).

SANTI é BEATI :

San Pier Damiani Vescovo e dottore della Chiesa

21 febbraio - Memoria Facoltativa

Ravenna, 1007 – Faenza, 22 febbraio 1072

Nacque a Ravenna nel 1007. Ultimo di una famiglia numerosa, orfano di padre, ebbe come riferimento educativo il fratello maggiore Damiano. Di qui, probabilmente l'appellativo «Damiani». Dopo aver studiato a Ravenna, Faenza, Padova e insegnato all'università di Parma, entrò nel monastero camaldolese di Fonte Avellana. Nel 1057 il Papa lo chiamò a Roma per averlo accanto in un momento di crisi della Chiesa, dilaniata da discordie e scismi e alle prese con la piaga della simonìa. Nominato vescovo di Ostia e poi creato cardinale, aiutò i sei Papi che si succedettero al Soglio pontificio, a svolgere un'opera moralizzatrice. In quest'azione si avvalse particolarmente dell'abate benedettino di San Paolo Fuori le Mura, Ildebrando che nel 1073 fu eletto Papa con il nome di Gregorio VII. Pier Damiani, fu delegato pontificio in Germania, Francia e nell'Italia settentrionale. Morì a Faenza nel 1072. Nel 1828 Leone XII lo proclamò dottore della Chiesa. (Avvenire)



Etimologia: Piero = accorciativo e dimin. di Pietro

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: San Pier Damiani, cardinale vescovo di Ostia e dottore della Chiesa: entrato nell’eremo di Fonte Avellana, promosse con forza la disciplina regolare e, in tempi difficili per favorire la riforma della Chiesa, richiamò con fermezza i monaci alla santità della contemplazione, i chierici all’integrità di vita, il popolo alla comunione con la Sede Apostolica.
(22 febbraio: A Faenza in Romagna, anniversario della morte di san Pier Damiani, la cui memoria si celebra il giorno prima di questo).

Questo santo, tutto fuoco, nacque a Ravenna nel 1007 da poveri genitori carichi di figli. Sua madre lo abbandonò, per fortuna momentaneamente, ancora lattante. Quando mori, l'orfano fu educato con grande durezza dal fratello Rodelinda, che lo fece guardiano di porci. Possedeva però un'intelligenza talmente viva che il fratello maggiore, Damiano, più benevolo, pensò di avviarlo agli studi prima a Faenza, poi a Parma. In essi Pietro fece prodigiosi progressi. A venticinque anni si acquistò un nome nell'insegnamento.
Verso il 1035 cattivi esempi e violente tentazioni determinarono il santo a entrare segretamente nel monastero benedettino di Fonte Avellana, sul monte Catria (Pesaro), dove si abbandonò a così rigorose penitenze da contrarre violenti mal di testa e insonnia. Durante la convalescenza approfondì lo studio delle Scritture. La fama di esegeta che si acquistò tra i pochi confratelli lo fece richiedere come oratore dall'abbazia di Pomposa, dal monastero di S. Vincenzo di Petra Pertusa, e da altri centri in relazione con Fonte Avellana.
Quando ritornò nel suo eremo, il Damiani fu eletto priore. Il suo governo segnò per la comunità un'era di prosperità materiale e spirituale, tant'era innamorato dell'ideale della vita claustrale di cui divenne il teorico. I novizi accorsero numerosi alla sua scuola, motivo per cui gli fu possibile moltiplicare le case filiali nelle regioni limitrofe, e dare origine a una Congregazione eremitica d'ispirazione camaldolese, anche se in sé autonoma. Penetrato dello spirito di S. Agostino e di S. Benedetto, egli seguì le orme dei grandi monaci del suo secolo: S. Romualdo, fondatore dei Camaldolesi; S. Odilone e S. Ugo il Grande, abati di Cluny e Desiderio, abate di Montecassino. Nulla sfuggiva al suo vigile occhio. Egli esigeva l'assiduità alle ore canoniche diurne e notturne, voleva che i monaci praticassero la rigorosa povertà, non uscissero dall'eremo, e non si occupassero di negozi secolari. Alla preghiera i religiosi dovevano aggiungere il lavoro, la pratica di frequenti digiuni e mortificazioni in proporzione dei propri peccati. Il santo fu un grande sostenitore delle flagellazioni corporali supererogatorie. Ai più ferventi religiosi permise di flagellarsi ogni giorno durante la recita di una quarantina di salmi.
L'epoca in cui Pier Damiani visse fu triste per la Chiesa a causa della simonia e dell'immoralità del clero. Per oltre trent'anni i conti di Tuscolo avevano disposto della sede romana come di un bene di famiglia. Il primo papa che fece sperare una riforma fu Gregorio VI, il quale aveva persuaso il dodicenne Benedetto IX a rinunciare al papato, sborsandogli una somma dì denaro. I romani lo avevano eletto al posto di lui, ma nel concilio di Sutri del 1046, radunato da Enrico III, fu costretto a dimettersi perché sospettato di simonia. Al suo posto fu eletto Clemente II. L'imperatore invitò più volte Pier Damiani a stabilirsi a Roma in qualità di consigliere del papa, ma egli si limitò a scrivere all'eletto, per notificargli il disordine che regnava nelle chiese della sua provincia a causa del fasto dei vescovi, la maggior parte dei quali era carica di crimini.
La riforma della Chiesa fu iniziata con coraggio da S. Leone IX (10481054) coadiuvato da Ildebrando, monaco e cardinale. Sotto il suo pontificato prese forme concrete l'opera del Damiani a favore del risanamento della gerarchia, che nel suo zelo irruente, voleva casta e feconda di opere buone. Scrisse allora i suoi due più famosi trattati, il Liber Gratissimus riguardante gli ecclesiastici ordinati gratuitamente e, secondo lui, validamente da vescovi simoniaci, e il Liber Gomorrhianus, dedicato al papa stesso, nel quale flagella spietatamente i costumi del clero corrotto. Leone IX lodò l'autore per l'aiuto che gli prestava nella lotta contro i mali del tempo, ma furono tanto vive le rimostranze che sollevò con il suo scritto che lo ritenne un po' frutto della sua fantasia.
Fu Stefano IX, succeduto a Vittore II (+ 1057), che impose per ubbidienza al Damiani il titolo di cardinale vescovo di Ostia, ma morì troppo presto per compiere l'opera di riforma che l'irruente santo perseguiva. Nel 1058 i conti di Tuscolo fecero eleggere papa Giovanni, vescovo di Velletri, col nome di Benedetto X, ma il nuovo cardinale lo trattò come intruso e simoniaco. Raggiunse a Siena Ildebrando, di ritorno da una missione presso l'imperatrice Agnese, e con lui provvide all'elezione del vescovo di Firenze, Gerardo di Borgogna, che prese il nome di Niccolò II. Da questo momento il Damiani dichiarò guerra senza quartiere ai perturbatori della Chiesa e si adoperò con le sue lettere di fuoco e i suoi trattati perché fosse osservato il decreto di Leone IX contro i chierici simoniaci e incontinenti, che avvilivano il sacerdozio e scandalizzavano i fedeli. Sotto il pontificato di Niccolò II, nel 1059, svolse la sua prima missione a Milano per la riforma di quella chiesa, e di altre della Lombardia. Egli vi riportò la pace applicando la sua teoria della validità delle ordinanze simoniache, in contrasto con quella del cardinal Umberto di Selva Candida. Molto verosimilmente, fu dietro consiglio di Ildebrando e di Pier Damiani che Niccolò II emanò in quello stesso anno il celebre decreto per cui, onde assicurare in futuro l'indipendenza delle elezioni pontificie, la scelta del papa era esclusivamente affidata al collegio dei cardinali. L'ultima parola spettava ai cardinali-vescovi, mentre l'imperatore conservava soltanto il diritto di conferma e il popolo quello d'approvazione.
Pur amando svisceratamente la Chiesa, il Damiani non vedeva l'ora di deporre la carica che gli era stata affidata contro voglia, per ritirarsi nella solitudine del chiostro. Il papa non lo esaudì perché un uomo come lui era indispensabile al suo fianco. Inoltre i nuovi torbidi sorti alla morte di Niccolò II (+1061), rendevano molto utile la sua presenza a Roma. Elevato al pontificato per interessamento suo e di Ildebrando Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, col nome di Alessandro II (+ 1073), il Damiani ne sostenne caldamente le parti contro l'antipapa Càdalo, vescovo di Parma, abusivamente eletto a Basilea per interessamento dell'imperatrice Agnese, ingannata dal partito favorevole ai simoniaci. Non tutti i suoi passi furono approvati dai sostenitori della riforma. Egli difatti pensava che convenisse mantenere ad ogni costo l'armonia tra il papato e l'impero germanico, mentre era risaputo che le maggiori difficoltà per la desiderata e improrogabile riforma provenivano proprio dall'impero e dal laicato.
Il nuovo papa acconsenti che Pier Damiani si ritirasse nel chiostro. Il cardinale arcidiacono Ildebrando, invece, riteneva indispensabile la sua permanenza alla corte pontificia. Fosse dipeso da lui gli avrebbe imposto di restare in virtù di santa ubbidienza. Il Damiani trovò il suo intervento indiscreto e giunse a tacciarlo di "Verga di Assur", Dio supremo degli Assiri, e di"Santo Satana".
A Fonte Avellana il santo si rinchiuse in un'angusta cella per darsi al digiuno quotidiano, alle intense discipline, alla meditazione e al canto dei salmi. Per umiltà prendeva il suo pane nello stesso piatto che serviva a lavare i piedi ai poveri, e dormiva per terra sopra un graticcio di giunchi. Nel capitolo, dopo aver rivolto le sue esortazioni ai monaci, si accusava pubblicamente delle proprie colpe come un religioso qualunque, e si dava la disciplina a due mani. Da ogni parte giungevano all'eremo persone desiderose dei suoi consigli. Alessandro II lo pregò di scrivergli più sovente. Il santo ne approfittò per dirgli con franchezza quel che pensava riguardo a due abusi invalsi nella curia romana: quello di moltiplicare gli anatemi senza motivo, e di impedire ai chierici e ai laici di riprendere gli eccessi dei loro vescovi.
All'occorrenza seppe accettare e portare a termine con zelo le missioni che gli furono affidate dal sommo pontefice. Nel 1063 andò a Cluny per difendere, contro le pretese del vescovo di Mâcon, l'esenzione dell'abate S. Ugo, direttamente dipendente dal papa, e a Firenze per un'indagine sul vescovo Pietro, accusato dai monaci vallombrosani di simonia, e da lui assolto per mancanza di prove. Nel 1069 fu inviato a Magonza per distogliere Enrico IV dal divorzio con Berta di Torino, e nel 1071 a Montecassino per la consacrazione della chiesa. Alla scomparsa nel 1072 dell'antipapa Càdalo (Onorio II), già apostrofato dal Damiani "voragine di libidine, ignominia del sacerdozio, fetore del mondo", e del suo principale sostenitore, Enrico, arcivescovo di Ravenna, il santo fu inviato a riconciliare con il papa gl'interdetti ravennati. Mentre ritornava a Roma per dar conto della sua legislazione, a Faenza fu colto da febbre e morì il 22-2-1072 nel monastero di Santa Maria fuori Porta. Sul suo sepolcro fece porre questo epitaffio: “Io fui ciò che tu sei; tu sarai ciò che io sono. Di grazia, ricordati di me. Guarda con pietà le ceneri di Pietro. Prega, piangi e ripeti: "Signore, risparmialo!"”. Fu subito universalmente venerato come santo. Leone XII il 1-10-1828 gli decretò il titolo di dottore. Le sue ossa sono custodite nel duomo di Faenza.

Autore: Guido Pettinati

Mc 8,34-9,1) Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.

VANGELO 
Mc 8,34-9,1) Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. 
+ Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, convocata la folla insieme ai suoi discepoli, Gesù disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita? Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi».Diceva loro: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza».

Parola del Signore.


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Spirito Santo e insegnami a vivere al tuo seguito con cuore sincero. Dammi la capacità di discernere il vero dal falso, dammi la forza d’essere portatrice della tua parola senza metterci nulla di mio, ma di saper lasciare fare a te per tutto quello che vuoi.

Dalla prima lettura vediamo come gli uomini fanno progetti, ma non riescono a portarli a termine se le cose si complicano, perché sono troppo spesso divisi tra loro.
Tutti noi siamo in fondo delle belle persone quando tutto va bene, ma nelle difficoltà, non riusciamo più a mantenere la nostra integrità e lucidità di pensiero.
Questo io lo considero anche abbastanza normale, perché anche la fede più forte di fronte al dolore può lasciare spazio alla paura e all’incertezza. Perché proprio io? Perché mi hai abbandonato? Se anche Gesù si è posto questa domanda, mi sembra legittimo che anche altri esseri umani se la pongano, non è facile accettare la sofferenza; oltre al fattore fisico, c’è il risvolto psicologico della sofferenza.
La persona che soffre ha bisogno di essere ascoltata, ha bisogno d’atteggiamenti affettivi, di valorizzazione e di accoglienza, e non di chiudersi in se stesso isolandosi in un profondo silenzio, in una solitudine dal risvolto non soltanto psicologico ma, anche relazionale.
Questo perché di fronte al dolore ci si pongono delle domande sul senso della vita, e del senso stesso della sofferenza ed è un bene che questo succeda perché vivere come se si fosse immortali non è realistico.
Si cerca negli altri il conforto, l’aiuto per relazionarsi e condividere questo momento di paura, e spesso parlando del dolore degli altri si soffre meno del proprio.
Resta comunque molto difficile accettare, spesso si subisce il dolore e questo crea una brutta relazione tra noi e lui.
Gesù però ci ha parlato di croce, d’amore per la croce, perché l’amore che Dio ha per noi è più forte d’ogni cosa, per la nostra salvezza è disposto a tutto, e non parlo al passato, perché come credo che Gesù sia vivo ancora oggi e sia con noi, credo anche che la nostra croce sia la sua, perché la condividiamo. Se abbiamo capito la Croce capiremo tutto. Se non capiamo la Croce non capiremo mai niente della nostra vita cristiana. La Madonna vuole che noi capiamo la Croce, perché Lei stessa l'ha capita, non perché è fuggita dalla Croce, ma l'ha accettata, con suo Figlio Gesù. In un messaggio ha parlato della Croce e della sofferenza, esprimendo un desiderio: « Desidero che per voi la vostra croce sia gioia ». Se la Madonna lo desidera significa che è possibile. La Madonna non dice mai una parola vuota, e se afferma che desidera, è possibile che per me e per te, la mia e la tua sofferenza, le nostre croci diventino gioia. Ci ha mostrato anche la via per la quale si può arrivare: « In modo particolare, cari figli, pregate per accettare la croce, la sofferenza, con amore ».
Spesso chi sa accettare con amore la propria croce, è trattato da patetico, da esaltato, da isterico, ma come possiamo sperare che sia diversamente?Quanti riconobbero nella croce di Gesù il suo trono?
Noi siamo legati alla terra, siamo parte della terra, ma la nostra aspirazione non si può fermare alle cose della terra: « Accettate con amore la sofferenza ». La Madonna ci vuole insegnare una strategia con la quale possiamo lottare contro la croce, contro la sofferenza. Noi abbiamo già trovato tante volte dei falsi mezzi nei confronti della sofferenza. Allora quando noi proviamo a fuggire dalla sofferenza, dalla croce, non vogliamo accettarla, ogni croce non accettata diventa doppia. La Madonna invitandoci ad accettare la sofferenza c’indica una strada, un cammino di guarigione. Infatti, dice più avanti: « Solo così posso con la gioia darvi le grazie e guarigione che Gesù mi permette ». Vedete, quando si accetta la sofferenza con amore, come Gesù, questa è l'ultima condizione per essere guariti.

mercoledì 19 febbraio 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Affinché l’imitazione si dia, è necessaria la quotidiana meditazione e l’assidua riflessione sulla vita di Gesú; dal meditare e dal riflettere nasce la stima dei suoi atti, e dalla stima il desiderio ed il conforto della imitazione." (Epist. I, p. 1000).

SANTI é BEATI :

Beata Giacinta Marto Veggente di Fatima
Aljustrel, Portogallo, 11 marzo 1910 - Lisbona, Portogalo, 20 febbraio 1920
Il nuovo Martirologio romano indica tra le ricorrenze di oggi la festa della beata Giacinta Marto, la pastorella delle apparizioni di Fatima elevata all'onore degli altari da Giovanni Paolo II il 13 maggio 2000 insieme al fratello Francesco. Nata l'11 marzo 1910 la piccola aveva solo sette anni quando la "bianca Signora" apparve ai due fratelli e alla cugina Lucia. Di temperamento vivace (come tante bambine della sua età amava molto ballare) si lasciò completamente trasformare dall'incontro con la Madonna. Vittima della terribile epideamia di "spagnola" che colpì in quegli anni l'Europa, Giacinta morì il 20 febbraio 1920 a nove anni e undici mesi. Francesco, di un anno più grande, era già morto l'anno prima. Giacinta Marto è la più giovane dei beati proclamati in questi anni da Giovanni Paolo II: proprio nel decreto sulle virtù eroiche dei due giovani pastorelli di Fatima, la Chiesa afferma che anche i bambini possono percorrere in pienezza la via della santità. (Avvenire)
Martirologio Romano: In località Aljustrel vicino a Fatima in Portogallo, beata Giacinta Marto, che, sebbene ancora fanciulla di tenera età, sopportò con pazienza il tormento della malattia da cui era affetta e testimoniò con fervore la sua devozione alla beata Vergine Maria.

Uno dei divertimenti preferiti da Francesco, Giacinta e Lucia era quello di gridare ad alta voce, dall’alto dei monti, seduti sulla roccia. Il nome che più echeggiava era quello della Madonna. A volte Giacinta, «quella a cui la Vergine Santissima ha comunicato maggior abbondanza di grazie e maggior conoscenza di Dio e della virtù», come scriverà Suor Lucia, recitava tutta l’Ave Maria, pronunciando la parola seguente soltanto quando l’eco riproduceva per intero quella precedente. Tale innocentissima preghiera di bambina, quasi surreale, dove il soprannaturale si sovrapponeva al naturale, doveva essere di sublime bellezza. Ebbene, la Madonna scelse proprio lei, suo fratello e la cugina per rivelare a Fatima, nel 1917, i rimedi che l’umanità e la Chiesa avrebbero dovuto prendere per combattere errori e guerre: la recita del Santo Rosario, la lotta contro il peccato, la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria per arrestare l’ideologia comunista.
Il 12 settembre 1935 le spoglie di Giacinta furono trasportate da Vila Nova de Ourém a Fatima. Quando la bara fu aperta si attestò che il volto della piccola veggente era incorrotto. Venne scattata una fotografia e il Vescovo di Leiria, Monsignor José Alves Correia da Silva (1872-1957) ne inviò una copia a suor Lucia che, nei ringraziamenti, accennò alle virtù della cugina. Tale fatto indusse il Monsignore ad ordinare alla monaca di scrivere tutto ciò che sapeva della vita di Giacinta, ecco che nacque la Prima Memoria, che l’autrice terminò nel Natale dello stesso 1935.
Trascorsero due anni dalla Prima Memoria e il Vescovo di Leiria ordinò a Suor Lucia di scrivere, in tutta verità, la sua vita e le apparizioni mariane, così come erano avvenute. Suor Lucia obbedì, scrivendo la Seconda Memoria dal 7 al 21 novembre 1937.
In una lettera del 31 agosto 1941, indirizzata a padre Giuseppe Bernardo Gonçalves Sj, Lucia spiega come nacque la Terza Memoria: «Mons. Vescovo… mi ordinò di ricordare qualsiasi altra cosa che avesse relazione con Giacinta, per una nuova edizione che vogliono stampare. Quest’ordine mi penetrò nell’anima come un raggio di luce …». Fu proprio con questo scritto che Fatima raggiunse dimensioni internazionali. Sorpresi dai racconti della Terza Memoria, Monsignor Giuseppe Alves Correia da Silva e don Galamba conclusero che Lucia, nelle relazioni anteriori, non aveva detto tutto e che nascondeva ancora degli elementi. Dunque, il 7 ottobre 1941, la monaca riceve il nuovo ordine di scrivere qualsiasi altra cosa che avesse potuto emergere dagli accadimenti di Fatima. Fu così che l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione, dello stesso anno, l’autrice consegnò il manoscritto affermando: «Fin qui, ho fatto il possibile per nascondere quel che le apparizioni della Madonna nella Cova d’Iria avevano di più intimo. Ogni volta che mi vidi obbligata a parlare, cercai di accennarvi di sfuggita, per non  scoprire quello che tanto desideravo tener in serbo. Ma ora, che l’obbedienza mi comandò, ho detto tutto! E io rimango come lo scheletro, spogliato di tutto e perfino della vita stessa, messo nel Museo Nazionale, per ricordare ai visitatori la miseria e il niente di tutto quel che passa. Così spogliata, resterò nel Museo del Mondo ricordando a quelli che passano, non la miseria e il niente, ma la grandezza delle Misericordie Divine».
Con schiettezza e semplicità Suor Lucia narra in queste pagine le “magiche” beltà della loro infanzia. Tutti e tre i bambini nacquero ad Aljustrel, in Portogallo. Lucia dos Santos, poi suor Lucia di Gesù, il 22 marzo 1907, morirà a Coimbra il 13 febbraio 2005; Francesco Marto l’11 giugno 1908, morirà a Fatima il 4 aprile 1919 (beatificato, con la sorella il 13 maggio 2000); Giacinta Marto l’11 marzo 1910, morirà a Lisbona il 20 febbraio 1920.
Era la primavera del 1916 quando l’Angelo del Portogallo (così si identificò) comparve loro, anticipando l’arrivo di Nostra Signora di Fatima. Lucia e Giacinta (come accadrà anche con la Madonna), potevano vedere e sentire; la prima poteva anche colloquiare, mentre Francesco vedeva soltanto. L’Angelo, che portò l’Eucaristia e li comunicò, per tre volte pregò: «Mio Dio! Io credo, adoro, spero e Vi amo. Vi chiedo perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Vi amano». Poi disse: «Pregate così. I Cuori di Gesù e di Maria stanno attenti alla voce delle vostre suppliche».
Francesco aveva un carattere mite, umile, paziente. Nel gioco accettava la sconfitta benevolmente e tendeva ad isolarsi, non si dava cura e pensiero se veniva emarginato. Era sempre sorridente, gentile, condiscendente. Quando qualcuno si ostinava a negargli i suoi diritti di vincitore, si piegava senza resistere: «Credi di aver vinto tu?! E va bene! A me non me n’importa!» e se qualcuno degli altri bambini insisteva nel togliergli qualcosa che gli apparteneva, diceva: “Fa’ pure… a me che me n’importa?!”». E davvero nulla gli importava, se non le realtà celesti. Amava il silenzio e non mancava occasione per mortificarsi con atti di eroismo.
Dopo il pascolo, la sera, Francesco e Giacinta andavano nell’aia della famiglia di Lucia per giocare e, insieme, aspettavano che la Madonna e gli Angeli accendessero le loro «lucerne», così definivano la luna e le stelle, e allora Francesco si animava nel contarle, ma nulla lo entusiasmava di più che l’osservare il sorgere e il tramontare del sole, che identificava come la lucerna del Signore, mentre Giacinta amava maggiormente quella della Madonna.
La sensibilità di animo di Francesco e di Giacinta, che traspariva dalla naturalezza dei loro gesti, con le apparizioni, raggiunse un livello di straordinario misticismo: la grazia corrisposta diede vita ad altezze di virtù. Quella di Francesco fu anima di profonda preghiera. Quando prese ad andare a scuola a volte diceva a Lucia: «Senti, tu va’ a scuola. Io resto qui, in chiesa, vicino a Gesù nascosto. Per me non vale la pena di imparare a leggere; fra poco vado in Cielo. Quando torni, vieni a chiamarmi». Allora si metteva vicino al Tabernacolo e, interrogato su cosa facesse tutte quelle ore, egli affermava: «Io guardo Lui e Lui guarda me».
Mentre Giacinta faceva penitenze per salvare anime peccatrici dall’Inferno, Francesco pensava a consolare il Signore e la Madonna. Ricordando la promessa di Maria Vergine, della quale aveva sempre un’immensa nostalgia, di portarlo presto in Cielo con Giacinta, gioiva dicendo: «lassù almeno potrò meglio consolare il Cuore di Gesù e di Nostra Signora».
Sapeva accettare e sopportare la sofferenza con esemplare rassegnazione e accolse la «Spagnola», che lo portò via, come un dono immenso per consolare Cristo, per riscattare i peccati delle anime e per raggiungere il Paradiso.
La breve vita di Giacinta trascorse in maniera parallela a quella del fratello, legata da un’identica serenità spirituale grazie al clima di profonda Fede che si respirava in casa. Il suo temperamento era però forte e volitivo e aveva una predisposizione per il ballo e la poesia. Era il numero uno dell’entusiasmo e della spensieratezza. Saranno gli accadimenti del 1917 a mutare i suoi interessi e più non ballerà, assumendo un aspetto serio, modesto, amabile. Il profilo che Lucia tratteggia della cuginetta è straordinario: è il ritratto dei puri di cuore, i cui occhi parlano di Dio.
Giacinta era insaziabile nella pratica del sacrificio e delle mortificazioni. Le penitenze più aspre per Lucia erano invece dettate dalle ostilità familiari e in particolare di sua madre, che la considerava una bugiarda e un’impostora. Lucia, essendo la più grande, fu la veggente più vessata e più interrogata (fino allo sfinimento) sia dalle autorità religiose che civili. A coronare questo clima intriso di tensioni e diffide c’era pure la situazione economica precaria dei dos Santos, provocata anche dal fatto che nel luogo delle apparizioni mariane, di proprietà della famiglia, non era più possibile coltivare nulla: la gente andava con asini e cavalli, calpestando tutto.
Agli inizi del mese di luglio del 1919 Giacinta entrò in ospedale, anche lei colpita dalla «Spagnola». Sua madre le chiese che cosa desiderasse e la piccola chiese la presenza dell’amata Lucia. La visita fu tutto un parlare delle sofferenze offerte per i peccatori al fine di allontanarli dall’Inferno - che con grande sgomento era stato loro mostrato dalla Madonna - e per il Sommo Pontefice: «Tu rimani qua per dire che Dio vuole istituire nel mondo la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Quando ce ne sarà l’occasione, non ti nascondere. Di’ a tutti che Dio ci concede le grazie per mezzo del Cuore Immacolato di Maria; che le domandino a Lei, che il Cuore di Gesù vuole che vicino a Lui, sia venerato il Cuore Immacolato di Maria. Chiediamo la pace al Cuore Immacolato di Maria; Dio la mise nelle mani di Lei. S’io potessi mettere nel cuore di tutti, il fuoco che mi brucia qui nel petto e mi fa amare tanto il Cuore di Gesù e il Cuore di Maria!”».
Quando Lucia perse i cugini fu abissale il suo dolore, infatti, come lei stessa ebbe a dichiarare, non ebbe in terra altra più amata compagnia che quella di Francesco e di Giacinta.
Autore: Cristina Siccardi



La Chiesa ha meditato molto prima di elevarla alla gloria degli altari, non perché si avesse qualche dubbio sulla sua vita cristallina, ma perché fior di teologi cercavano di mettersi d’accordo su una questione non di poco conto: se cioè a 10 anni non ancora compiuti le virtù possono essere vissute in grado eroico, come è appunto richiesto ad ogni cristiano che viene proposto alla venerazione dei fedeli come beato o santo. Alla fine ogni dubbio si è sciolto, anche perché il buon Dio ha messo più di una firma (i miracoli, richiesti per portare qualcuno “sugli altari”) sulla santità di questa bambina. Non dunque per aver avuto sei apparizioni della Madonna, ma perché queste l’hanno aiutata a raggiungere la perfezione cristiana, noi oggi abbiamo la gioia di festeggiare il 20 febbraio la Beata Giacinta Marto, una delle tre veggenti di Fatima, che il Papa ha elevato alla gloria degli altari insieme al fratellino Francesco il 13 maggio 2000.
Tutto inizia un altro 13 maggio di 83 anni prima, quando la Madonna le appare per la prima volta (ha appena 7 anni, perché è nata l’11 marzo 1910), mentre è al pascolo con il fratello Francesco e la cuginetta Lucia. E’ quest’ultima (morta il 13 febbraio 2005 sulla soglia dei 98 anni) a testimoniare che Giacinta fino a quel giorno è una bambina come tutte le altre: le piace giocare, come a tutti i bambini di quell’età; è un po’ permalosa, fa il broncio per un nonnulla e non si rassegna tanto facilmente a perdere; le piace ballare e basta il suono di un piffero rudimentale per far fremere e roteare il suo piccolo corpo.
La Madonna irrompe nella sua vita e la cambia radicalmente: medita a lungo sull’eternità dell’inferno e “prende sul serio i sacrifici per la conversione dei peccatori”, si priva anche della merenda per soccorrere i bambini di due famiglie bisognose, si innamora del Papa che vorrebbe tanto incontrare a tu per tu, la sorprendono spesso in preghiera fatta con uno slancio di amore sicuramente superiore alla sua età. Qualsiasi sofferenza offerta per la conversione dei peccatori è sempre accompagnato da un amore che si riscontra solo nei più grandi mistici.
Il 23 dicembre 1918, 14 mesi dopo l’ultima apparizione, lei e Francesco vengono colpiti dalla “spagnola”, ma mentre quest’ultimo si spegne in pochi mesi, per Giacinta il calvario è più tormentato perché sopraggiunge una pleurite purulenta, da lei sopportata e offerta “per la conversione dei peccatori e per riparare gli oltraggi che si fanno al cuore immacolato di Maria”. Un ultimo grande sacrificio le viene chiesto: staccarsi dai suoi e soprattutto dalla cugina Lucia, per un ricovero nell’ospedale di Lisbona. Dove si tenta di tutto, anche un intervento chirurgico senza anestesia per tentare di strapparla dalla morte, ma dove la Madonna viene serenamente a prenderla il 20 febbraio 1920, come aveva promesso.

Autore:
Gianpiero Pettiti

SANTI é BEATI :

Beata Giulia Rodzinska Domenicana, martire

20 febbraio
Polonia, 16 marzo 1899 - Stutthof (Polonia), 20 febbraio 1945

Martirologio Romano: In località Stutthof vicino a Danzica in Polonia, beata Giulia Rodzińska, vergine della Congregazione delle Suore di San Domenico e martire, che, devastata la patria dalla guerra, fu gettata in un campo di prigionia, dove, ammalatasi gravemente, raggiunse la gloria del cielo.

Papa Giovanni Paolo II ha beatificato il 13 giugno 1999 a Varsavia, durante il suo settimo viaggio apostolico in Polonia, 108 martiri vittime della persecuzione contro la Chiesa polacca, scaturita durante l’occupazione nazista tedesca, dal 1939 al 1945.
L’odio razziale operato dal nazismo, provocò più di cinque milioni di vittime tra la popolazione civile polacca, fra cui molti religiosi, sacerdoti, vescovi e laici impegnati cattolici.
Fra i tanti si è potuto, in base alle notizie raccolte ed alle testimonianze, istruire vari processi per la beatificazione di 108 martiri; il primo processo fu aperto il 26 gennaio 1992 dal vescovo di Wloclawek, dove il maggior numero di vittime subì il martirio; in questo processo confluirono poi altri e il numero dei Servi di Dio, inizialmente di 92 arrivò man mano a 108.
Diamo qualche notizia numerica di essi, non potendo riportare in questa scheda tutti i 108 nomi. Il numeroso gruppo di martiri è composto da quattro gruppi principali, distinti secondo gli stati di vita: vescovi, clero diocesano, famiglie religiose maschili e femminili e laici; appartennero a 18 diocesi, all’Ordinariato Militare ed a 22 Famiglie religiose.
Tre sono vescovi, 52 sono sacerdoti diocesani, 3 seminaristi, 26 sacerdoti religiosi, 7 fratelli professi, 8 religiose, 9 laici. Subirono torture, maltrattamenti, imprigionati, quasi tutti finirono i loro giorni nei campi di concentramento, tristemente famosi di Dachau, Aschwitz, Sutthof, Ravensbrück, Sachsenhausen; subirono a seconda dei casi, la camera a gas, la decapitazione, la fucilazione, l’impiccagione o massacrati di botte dalle guardie dei campi. La loro celebrazione religiosa è singola, secondo il giorno della morte di ognuno.
Fra loro ci fu la religiosa professa domenicana Giulia Rodzinska (Stanislava era il suo nome di nascita), nata il 16 marzo 1899 in Polonia.
Di lei si sa che entrò nell’Ordine Domenicano nel 1916 e fece la professione religiosa solenne il 5 agosto 1924; istitutrice molto nota come “madre degli orfani” e ‘apostola del Rosario’.
Venne arrestata il 12 luglio 1943, soffrì per due anni nel campo di concentramento di Stutthof, dove morì il 20 febbraio 1945, dopo aver contratto il tifo, che infuriava nel campo dove le condizioni igieniche erano inesistenti. Contrasse l’infezione mentre si recava a dare conforto e sostegno alle prigioniere ebree già contagiate e isolate.
È l’unica Suora Domenicana compresa in questo numeroso gruppo di martiri beatificati nel 1999.

Autore: Antonio Borrelli

(Mc 8,27-33) Tu sei il Cristo… Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire.

VANGELO
(Mc 8,27-33) Tu sei il Cristo… Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire.
+ Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE

PREGHIERA

Vieni Gesù, vieni nel mio cuore, parlami e fatti conoscere, dimmi tutto quello che io non so di te, che non riesco a capire, insegnami a vederti la dove mi sfuggi, dammi la forza e la costanza di vivere sempre e solo in Te, per Te di Te. Amen.

Chi sei per noi Signore? Ti viviamo veramente come il figlio di Dio, nato per noi, per dare la sua vita per la nostra salvezza, e risorto per darci la certezza del regno di Dio? O ti stiamo vivendo solo come un personaggio affascinante delle telenovelas… Stiamo imparando da te ad amare i poveri e gli oppressi? A non disprezzare gli ultimi? A vedere gli invisibili? O siamo sempre in lotta per gli extracomunitari che ci rubano il lavoro? Passiamo davanti ai barboni e ci voltiamo schifati? Diciamo che non possiamo pensare agli altri perché non ci basta neanche per noi? Io non so gli altri Signore, ma io in teoria amo tutti… ma solo in teoria, perché non riesco a donarmi neanche alla mia famiglia, a volte basta una battuta pungente per farmi ritirare. La paura di essere ferita è più forte dell’amore che dovrei provare, quindi il mio io viene prima del bisogno dell’altro. Certo che se Tu fossi stato come me, non avresti neanche accettato di essere catturato e umiliato….. io forse sono più di te Signore? Tengo forse più a me che a Te, Dio mio?
Perdonami se indietreggio, se tentenno, se scappo come una vigliacca ancor prima di avvicinarmi al prossimo che tu ami, io me lo vorrei poter scegliere il mio, vorrei solo persone buone, che dicano grazie, che non puzzino, che non sporchino…. e invece no…. Mandami Signore la dove c’è da sporcarsi, come tu ti sei sporcato di sangue per noi; io che ero melma e so che vuol dire essere fango, voglio non aver paura di sporcarmi le mani, ma devo aver paura di sporcarmi l’ anima. Quest’ anima che mi sembra così candida ma che puzza di stantio e                       d’ irrisolto. Aiutami ad essere come Te Gesù e allora potrò dire di saperti riconoscere come il Figlio del mio Dio, di essere degna di appartenere alla famiglia celeste, di non essere una spettatrice occasionale del Vangelo.

martedì 18 febbraio 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" L’anima cristiana non fa passare mai giorno senza meditare la passione di Gesú Cristo." (OP).

SANTI é BEATI :

- Beato Corrado Confalonieri da Piacenza Eremita, Terziario francescano

19 febbraio

Piacenza, ca. 1290 - Noto, Siracusa, 19 febbraio 1351

Nato a Piacenza nel 1290, era di nobili origini. Un giorno accusò un uomo innocente di un incendio appiccato da lui stesso durante una battuta di caccia. Di fronte alla condanna a morte per l'uomo accusato ingiustamente Corrado si mosse e pietà e ammise la sua responsabilità. Dopo aver pagato i danni causati si ritrovò in povertà. Assieme alla moglie vendette gli averi restanti e ne diede il ricavato ai poveri. Abbracciate la regola di Francesco e Chiara decisero di diventare religiosi. Corrado quindi divenuto terziario francescano si ritirò in eremitaggio. Dopo aver vagabondato in solitudine approdò all'isola di Malta. Da qui riprese il mare e giunse al porto di Palazzolo e da qui a Noto Antica. Giunto nella Val di Noto vi passò trent'anni, tra la preghiera, il servizio e il romitaggio. Gli si attribuiscono molti miracoli. Morì mentre era in preghiera, il 19 febbraio 1351. Gli e' comunemente attribuito il titolo di santo. Cosi' fa pure la Bibliotheca Sanctorum. Il Martyrologium Romanum, invece, lo qualifica come "beato".

Etimologia: Corrado = consigliere audace, dal tedesco

Martirologio Romano: A Noto in Sicilia, beato Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita del Terz’Ordine di San Francesco, che, messi da parte gli svaghi mondani, praticò per circa quarant’anni un severissimo tenore di vita nell’orazione continua e nella penitenza.

Nato nel 1290 ca. da nobile famiglia a Piacenza, Corrado Confalonieri viveva secondo il suo stato, fra divertimenti e onori. All’età di venticinque anni ca., mentre era sontuosamente a caccia, con servi, cavalli, cani, furetti, falconi e astori, non riuscendo a stanare i conigli, fece appiccare il fuoco alla sterpaglia; l’incendio, alimentato dal vento, recò danni alle coltivazioni vicine e distrusse tutto. Non riuscendo a domarlo, tristemente se ne tornò a casa. Saputasi la cosa in città, le guardie di Galeazzo Visconti, signore di Piacenza, andarono sul luogo, e, trovato un uomo, credendolo colpevole, lo condussero in giudizio, dove fu condannato a morte, perché il danno era stato grandissimo. Corrado viene a conoscenza della ingiusta condanna, libera il malcapitato, affronta l’ira del Visconti, che, non potendolo condannare a morte perché nobile, lo priva dei suoi beni in città e fuori, riducendolo alla massima povertà. Corrado, spogliato delle ricchezze del mondo, decide di servire Dio.
Dopo avere raccomandati i servi a Dio, va a vivere in povertà fra un gruppo di religiosi; da essi viene accolto nell’Ordine e ammaestrato sulla via da seguire. Fatto un pellegrinaggio a Roma, se ne allontana e si reca in Sicilia, a Noto, nelle cui vicinanze resterà fino alla morte, in soltitudine eremitica, senza tralasciare i contatti con gli abitanti del luogo. In un primo momento era vissuto alle Celle, presso Noto, con il beato Guglielmo Buccheri. Ma, poiché i Netini lo riverivano troppo, volle allontanarsi un poco, per maggiore solitudine.
La preghiera e il lavoro manuale sono la sua vita quotidiana, austera e parca nel cibo, tanto che le sue tentazioni sono soprattutto di gola; ma la sua perseveranza è fortissima e il diavolo, contro il quale combatte in continuazione, se ne torna sempre sconfitto.
Nella Vita beati Corradi, il più antico documento che abbiamo, scritta in dialetto siciliano da un anonimo verso la fine del Trecento, sembra di rileggere episodi e stile di vita come nei Fioretti di san Francesco e nelle Vitae Patrum (le vite degli antichi eremiti), oltre che nei Dialoghi di Gregorio Magno: aneddoti, miracoli, preghiera: anche gli uccelli si appoggiavano sulle sue spalle e sulle sue mani e cantavano dolcemente. Guarisce, con la preghiera e il segno della croce, un bambino ammalato di ernia: questo è il primo miracolo. La fama di fra Corrado diventa sempre maggiore, ma egli torna nella sua spelonca a lodare Dio, a cui umilmente attribuisce tutto il bene che opera. Lì è visitato dal vescovo di Siracusa, che ne riconosce la santità; al vescovo ed al suo seguito Corrado offre pane fresco, miracoloso, e, alla meraviglia del prelato, si dichiara peccatore aggiungendo che “Dio ha fatto questa cosa, per sua grazia”. Il santo, poi, andrà a Siracusa a parlare con il prelato, segno della sua venerazione per la gerarchia ecclesiastica, in un periodo in cui spesso i rapporti fra gli uomini di chiesa erano abbastanza turbolenti, specialmente per i problemi sulla povertà, che l’Ordine francescano aveva al suo interno e con la Curia papale ad Avignone.
Per accostarsi ai sacramenti della confessione e della comunione andava a Noto, dove c’era un prete suo devoto.
Nella Vita traspare anche la sua devozione verso la vergine Maria, come dimostra la preghiera, che il frate recita ad un suo amico e devoto, che gli aveva chiesto di insegnargli a pregare. Il suo saluto era l’evangelico e francescano (con molta probabilità il santo apparteneva al Terz’Ordine): “La pace sia con te”, oppure: “Cristo ti dia la pace”.
Dopo avere profetizzato prossima la morte, raccomandata l’anima a Dio, il santo muore, mentre ad Avola e a Noto le campane suonano da sole, annunciando così il glorioso trapasso. Gli abitanti delle due città accorrono per avere le reliquie; nello scontro, durissimo come una battaglia, grazie all’intervento miracoloso, nessuno resta ferito, nonostante le molte armi. Il fatto che il corpo di Corrado rimase fra i Netini dimostrò la volontà di Dio; fu perciò portato nella Chiesa Madre di Noto, dove fu seppellito. E nella Cattedrale barocca di Noto ancora oggi è conservato, in un’arca di argento di pregevole fattura, sulla cui sommità Cristo risorto è speranza e certezza di resurrezione per tutti.
Beatificato da Leone X nel 1515, Urbano VIII, nel 1625, concesse ai francescani di celebrarne la festa con Messa e Ufficio propri. Alcune notizie della sua vita, trasformate dalla leggenda, si sono imposte anche nell’iconografia, come il suo separarsi dalla sposa, che si fa monaca; nelle fonti però non c’è accenno a questo matrimonio. Generalmente il santo è rappresentato come un vecchio, che dimostra molto più dei suoi anni, con la barba fluente, vestito da francescano, davanti ad un crocifisso e con il bastone a tau.

Bibl.: F. Rotolo, Vita Beati Corradi. Testo siciliano del XIV-XV sec., Noto-Palermo, 1995.

Autore: Concetto Del Popolo

Nato nel 1290; morto tra il 1351 ed il 1354; il suo culto fu approvato con il titolo di Santo dal Papa Paolo III. Di nobile origine Corrado amò i divertimenti e la vita di corte.
Un giorno su ordine di Corrado , i suoi servi appiccarono il fuoco al sottobosco per stanare una preda che il loro signore desiderava uccidere. Il fuoco dei suoi servi divampò e ben presto investì l'intera zona e danneggiò diverse case. Incapaci di gestire il fuoco, Corrado ed i servi tornarono a casa e non proferirono parola su ciò che era accaduto. Un pover'uomo che si trovava in quelle zone a fare legna, fu accusato ingiustamente di aver appiccato il fuoco e fu condannato a morte. La coscienza di Corrado era profondamente turbata , ed egli preso da profondo rimorso confessò di essere il responsabile del fuoco, al fine di salvare la vita del disgraziato. I danni che dovette risarcire furono enormi, grandi infatti erano state le distruzioni apportate dall'incendio; Corrado e la sua sposa si impoverirono enormemente!
Ma questa profonda trasformazione aveva arricchito la sua spiritualità. Sembrò ad entrambi che il buon Dio li avesse chiamati all'abbandono di quella vita, tutta dedita ai piaceri di quel rango tanto potente. La coppia vendette gli averi restanti e ne diede il ricavo ai poveri del posto e abbracciate le regole di Francesco e Chiara decisero di diventare religiosi. Corrado quindi divenuto terziario francescano si ritirò in eremitaggio.
Da quel giorno la vita di Corrado cambiò, attratto dalla fede visse con grande austerità il resto della sua vita. Egli vagò per tanto tempo in solitudine e si trasferì in varie località, finché approdò nell isola di Malta, dove ancora esiste la grotta chiamata di San Corrado. Dall'isola di Malta ripreso il mare giunse al porto di Palazzolo e da qui a Noto Antica.
Nel Capovalle arrivò tra il 1331 e il 1335, per poi scegliere un posto isolato per la sua scelta vita eremitica. raccontati dai suoi contemporanei. fino a quando arrivo nel Val di Noto, dove passò trent'anni della propria vita. Gran parte della sua attività nel territorio netino fu trascorsa al servizio dei malati presso l'Ospedale di San Martino a Noto Antica ma poi vista la crescente fama di santità ed il continuo numero di visitatori decise di allontanarsi dalla città; passando gli anni restanti in eremitaggio insieme ad un altro monaco anacoreta oggi santo: Guglielmo Buccheri ( nobile netino).
Nella completa solitudine egli visse nella Grotta dei Pizzoni vicino Noto. Quì le sue preghiere rivolte a salvare gli uomini perduti, ad implorare grazie per i disastri, a soccorrere gli ammalati furono ascoltate da Dio ed a migliaia giungevano a lui,da tutto il Vallo. Numerosi sono i miracoli che a lui si ascrivono uno dei più i importanti è quello che vide per protagonista il Vescovo di Siracusa. Durante i suoi viaggi per la Diocesi, il prelato decise di fare visita all'eremitaggio ( siamo alla fine della vita terrena di Corrado), gli attendenti del Vescovo stavano preparando le provvigioni per il ritorno quando il Vescovo, sorridendo, chiese a Corrado se avesse avuto qualcosa da offrire ai suoi ospiti. Corrado replico che sarebbe andato a vedere nella sua cella; egli tornò portando due pani appena sfornati, che il prelato accettò come miracolo! Corrado ricambiò la visita del vescovo, confessandolo, ed al ritorno lungo la strada egli fu circondato da uccelli cinguettanti che lo scortarono fino a Noto. Corrado morì mentre era in preghiera, il 19 Febbraio 1351, ed alla sua morte tutte le campane delle chiese netine per miracolo suonarono a festa.
Fu seppellito nella chiesa normanna di San Nicolò, dove la sua tomba fu contesa tra le due popolazioni di Noto e di Avola. Quasi immediatamente fu avviato il processo canonico di beatificazione, che si concluse molto tempo dopo con il Breve di Papa Leone X (12 luglio 1515) , istituendone ufficialmente il culto, già presente da secoli. Fra le peculiarità da segnalare c'è la festa del Santo in Agosto che celebra proprio l'arrivo del Breve Papaple e della prima processione avvenuta proprio in quella occasione (Libro Verde del comune di Noto).
Nell'arte Corrado e rappresentato come un eremita francescano ai piedi una croce, mentre la sua figura è circondata da uccelli. Talvolta il suo ritratto è riprodotto come un vecchio con la barba, piedi nudi, un bastone tra le mani ed un lungo mantello sulle spalle. Nei secoli le sue virtù taumaturgiche furono implorate ed invocate contro l'ernia.

Autore: Gaetano Malandrino

(Mc 8,22-26) Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa.

VANGELO
 (Mc 8,22-26) Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. 
+ Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

Parola del Signore
(Mc 8,22-26) Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa.
(Mc 8,22-26) Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa.

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA


Aiutami Santo Spirito a capire il senso delle azioni di Gesù. Fammi vedere quello che Tu vuoi che io capisca. Insegnami a camminare dietro a Gesù, insegnami la santità che Dio vuole da me. Io posso solo dirti… guidami, trascinami e non permettere che mi perda.

Questo è un brano del vangelo poco conosciuto, un po’ particolare, perché non parla della guarigione di un cieco, ma di uno che, nonostante vedesse, non riusciva a distinguere bene.
È un’ azione quella che compie Gesù che fa capire di avere dei tempi ben precisi, forse sta parlando agli apostoli con questo miracolo, o forse sta parlando proprio a me o a te che leggi.
Stiamo conoscendo Gesù, cominciamo a capire ciò che è bene e ciò che è male agli occhi di Dio, ma ancora non riusciamo ad afferrare tutto il concetto di quel che vuol dire essere seguaci, discepoli di Gesù. La nostra vita scorre su dei binari che attraversano la professione di fede senza fermarsi, senza scendere a scoprirla veramente, senza voler rinunciare a niente.
Invece Gesù ci educa con sapienza, con lentezza e ci fa uscire dai nostri limiti di tempo; vuole che pian piano scopriamo la bellezza del messaggio del Vangelo.
Noi siamo sanguinei, a volte ci innamoriamo pazzamente, ma subito abbandoniamo alle prime difficoltà, perché confondiamo l’amore e la passione, e questo non è quello che vuole il Signore, che ci conosce meglio di quanto noi stessi ci conosciamo.
Gesù ci conduce nel suo Regno, man mano che riusciamo ad allontanarci dal nostro io, ci offre azioni, miracoli, grazie ed anche tanti ostacoli da superare. Ci assiste nel nostro cammino e vede che spesso diamo tutto per scontato, quando le cose vanno bene, non ci fermiamo a ringraziare, ma ci ricordiamo di Lui solo nel momento del bisogno. Se questo è quello di cui siamo capaci, come possiamo pensare di seguire Gesù? Abbiamo una visione contorta di quello che significa e dobbiamo ancora lasciarci toccare dal Signore. La nostra vita forse non basterà per comprendere la bellezza di una fede vera e senza riserve.  La mia preghiera iniziale  è un’invocazione alla santità, che non è finire sui calendari, ma imparare a compiere nella vita d’ogni giorno, cominciando dalle piccole cose, il volere di Dio Padre.

lunedì 17 febbraio 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Riflettete ed abbiate sempre innanzi all’occhio della mente la grande umiltà della Madre di Dio e nostra, la quale, a misura che in lei crescevano i doni celesti, sempre piú si sprofondava nell’umiltà." (Epist. II, p. 419).

SANTI é BEATI :

Beato Giovanni da Fiesole (detto Beato Angelico o Fra Angelico) Domenicano

18 febbraio

Vicchio di Mugello, Firenze, 1387 - Roma, 18 febbraio 1455

Il beato domenicano Giovanni di Fiesole è meglio conosciuto come Beato Angelico. Esercitò l'arte predicatoria con il pennello, dipingendo moltissimi capolavori tra i quali la celeberrima Annunciazione. Nato alla fine del Trecento - con il nome di Guido - a Vicchio di Mugello, entrò con il fratello Benedetto nel convento di Fiesole. Operò a Firenze, in tutta la Toscana, a San Pietro e nei palazzi vaticani, su invito di Eugenio IV. Morì a Roma nel 1455 nel convento di Santa Maria sopra Minerva, dove tuttora sono conservate le sue spoglie. Giovanni Paolo II l'ha proclamato nel 1984 patrono universale degli artisti. (Avvenire)

Patronato: Artisti (Giovanni Paolo II, 1984)

Martirologio Romano: A Roma, beato Giovanni da Fiesole, detto Angelico, sacerdote dell’Ordine dei Predicatori, che, sempre unito a Cristo, espresse nelle sue pitture ciò che contemplava nel suo intimo, in modo tale da elevare le menti degli uomini alle realtà celesti.

Questa soave e genialissima figura di Frate Predicatore fu un dono magnifico fatto da Dio all’Ordine. Guido o Guidolino, figlio di Pietro, nacque a Vicchio di Mugello in Toscana alla fine del XIV° secolo e fin da giovane fu pittore in Firenze. Quando sentì la vocazione, insieme al fratello Benedetto, si presentò al convento domenicano di Fiesole. Ordinato sacerdote assunse il nome di Fra Giovanni da Fiesole, ma subito dopo la sua morte fu usanza comune chiamarlo “Beato Angelico”. L’azione di santo e di artista del giovane si svolse mirabilmente nel clima di alta perfezione spirituale e intellettuale trovato nel chiostro. Le sante austerità, gli studi profondi, la perenne elevazione dell’anima a Dio, affinarono il suo spirito e gli aprirono orizzonti sconfinati. Così preparato, da buon Frate Predicatore, poté anch’egli dare agli altri il frutto della propria contemplazione e dar vita, col suo magico pennello, al più sacro dei poemi, narrando ai fratelli la divina storia della nostra salvezza. I suoi Crocifissi, le sue Madonne, i suoi Santi sono una predica che risuona nei secoli. Anima di una semplicità evangelica, seppe vivere col cuore in cielo, pur consacrandosi a un intenso lavoro. Sue sono molte pale d’altare a Fiesole (1425-1438) e le celle, i corridoi, l’aula capitolare e i chiostri del Convento di San Marco a Firenze (1439-1445). Recatosi a Roma, su invito di Papa Eugenio IV, dipinse nella Basilica di San Pietro e nei Palazzi Vaticani, e dal 1445 al 1449, per Papa Niccolò V la sua cappella privata e lo studio in Vaticano. Il Papa gli offrì la Sede Vescovile di Firenze, che energicamente rifiutò, persuadendo il Pontefice a nominare il confratello Sant’Antonino. Fu da Dio chiamato al premio eterno il 18 febbraio 1455 a Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva, dove il suo corpo è ancora conservato nella attigua Basilica Domenicana. A suo onore, e per la promozione dell’arte sacra, Papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 1982 ha concesso il suo culto liturgico a tutto l’Ordine e il 18 febbraio 1984 lo ha proclamato Patrono Universale degli Artisti.

Autore: Franco Mariani