VANGELO
(Mt 5,1-12) Beati i poveri in spirito.
+ Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:«Beati i poveri in spirito,perché di essi è il regno dei cieli.Beati quelli che sono nel pianto,perché saranno consolati.Beati i miti,perché avranno in eredità la terra.Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,perché saranno saziati.Beati i misericordiosi,perché troveranno misericordia.Beati i puri di cuore,perché vedranno Dio.Beati gli operatori di pace,perché saranno chiamati figli di Dio.Beati i perseguitati per la giustizia,perché di essi è il regno dei cieli.Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego o Spirito Santo, stammi vicino, fin dentro il cuore e insegnami Gesù; dammi la chiave per aprire alla comprensione la mia mente, perché tutto quello che vuoi che io capisca possa entrare in questo mio cervellino striminzito.
Questa pagina è una delle più belle del vangelo... io la definisco quella dei comandamenti di chi vive la fede.
Quella dei comandamenti di Dio è una bellissima pagina in cui Lui ci detta delle regole per la nostra vita, dettate dall'amore che ha per noi, che come un Padre buono ha istituito perché non facessimo cose pericolose per la nostra vita e per la nostra serenità, ma quelle delle beatitudini sono una dichiarazione d' amore da parte nostra a Gesù e ai nostri fratelli.
Infatti, anche se ad un primo sguardo può sembrare che dovremmo essere poveri, affamati e perseguitati per essere graditi a Dio, leggendo meglio vediamo è essere Cristiani che ci fa diventare beati.
Essere Cristiani vuol dire appartenere a Cristo, condividere con Lui il progetto che Dio ha per noi, essere suoi amici e accettare come Lui il volere di Dio.
Non è il potere e la gioia della terra che ci danno la beatitudine, perché tutto va bene fino a che non ci succede niente di spiacevole, poi che facciamo?
Come accettare una malattia o una disgrazia quando il metro con il quale misuriamo la nostra beatitudine è così terreno?
Si può farsene una ragione, o arrabbiarsi, ma niente è paragonabile a quando il metro con il quale misuriamo tutto è quello dell'amore di Dio.
Accettare la propria condizione ed offrire al Signore ogni cosa della nostra vita è una grande Grazia, vivere attimo dopo attimo in compagnia della nostra famiglia celeste ed affidare ogni cosa, anche la più piccola al Signore, è una dolcissima abitudine.
I cristiani non sono dei pazzi, né dei masochisti, ma imparano ogni giorno di più ad amare i propri fratelli e questo è molto bello e dà gioia.
Proprio nelle difficoltà affinano le loro qualità con l' aiuto di Dio e ricevono grazie su grazie.
Certo per qualcuno può suonare strano sentire che si considera una malattia come una GRAZIA e non una DISGRAZIA, ma certe cose ci sono e insegnano.
Gira qui su fb un video di un certo Nick
http://www.youtube.com/watch?v=z7TZ_Fq4fU0
ci sono cose che non si possono spiegare senza gli occhi della fede.... ditemi come qualcuno di noi avrebbe potuto convincere questo ragazzo a vivere la sua vita e a provare la gioia che lui prova nell'essere strumento di Dio se non Dio stesso.
Potrei portare mille altri esempi di persone che hanno saputo vincere il limite umano e sono riuscite ad andare oltre quello che è comprensibile ai più.
Non vi nego che provo una sana invidia per chi riesce ad avvicinarsi alla figura del Cristo e ad abbracciare la croce in questo modo meraviglioso, mentre la maggior parte di noi prova solo dolore, stanchezza, e rifiuto per ogni minima cosa non gradita.
Il nostro non accettare quello che Dio ci dona, solo perché non è quello che vorremmo, è un rifiuto di amarci e di scoprirci meravigliosi, così come lo siamo agli occhi di Dio. Ognuno di noi è un prodigio, un capolavoro d’amore che a volte sfugge ai nostri e agli altrui occhi distratti , ma il nostro metro di valutazione si ferma solo all’apparenza; eppure in fondo in fondo, siamo poi talmente soddisfatti di noi che la cosa più difficile è cambiare, imparare a vivere da figli di Dio e non del mondo, in parole povere, convertirci.Per capire meglio la distanza che ancora ci separa dalla vera fede, vi vorrei invitare a leggere qualcosa di Luisa Piccarretta, di cui ho trovato un volume in pdf a questo indirizzo:
http://www.fiat-fiat-fiat.com/fiatpages/DIVINA%20VOLONTA-LIBRO%20DI%20CIELO.pdf
Vorrei conoscere la Bibbia a memoria,conoscere il greco,il latino e pure l' aramaico,ma nulla di tutto questo mi è stato donato. Quello che al Signore è piaciuto donarmi, è una grande voglia di parlargli e di ascoltarlo.Logorroica io e taciturno Lui,ma mentre io ho bisogno di parole,Lui si esprime meglio a fatti.Vorrei capire perchè questo bisogno si tramuta in scrivere, e sento che è un modo semplice,delicato e gratuito di mettere al centro la mia relazione con Dio.
domenica 8 giugno 2014
sabato 7 giugno 2014
(Gv 20,19-23) Come il Padre ha mandato me anch’ io mando voi
VANGELO
(Gv 20,19-23) Come il Padre ha mandato me anch’ io mando voi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
(Gv 20,19-23) Come il Padre ha mandato me anch’ io mando voi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Signore di soffiare anche su di me il tuo Spirito,per darmi la conoscenza sempre del tuo volere che debbo e voglio fare e per il quale chiedo a te tutto l'aiuto necessario.
PREGHIERA
Ti prego Signore di soffiare anche su di me il tuo Spirito,per darmi la conoscenza sempre del tuo volere che debbo e voglio fare e per il quale chiedo a te tutto l'aiuto necessario.
Notiamo come nel vedere Gesù i discepoli gioiscono, e chiediamoci: Perché è venuto?
Gli mostra le ferite per fargli vedere che è proprio lui, quello che è salito sulla croce, e ha vinto la morte.
È normale che qualcuno abbia dei dubbi, Tommaso ne è la conferma.
La nostra umanità ci porta a credere solo a quello che possiamo vedere, ma con Gesù ormai abbiamo capito che non può bastare.
Ha compiuto miracoli davanti ai loro occhi, è entrato in una casa con le porte chiuse, ma è proprio Lui?
Nulla lo può dividere da noi, perché il suo amore lo spinge a cercarci sempre e a darci tutto di se, così come fa con gli apostoli, ai quali dona lo spirito Santo. Solo la nostra incredulità riesce a tenerlo lontano da noi, siamo sempre noi che abbiamo l’ultima parola.
Chi fa l’esperienza di Gesù nella propria vita, non ha più dubbi, e non serve che lo veda fisicamente o no, anzi proprio perché si fida della sua parola, riesce a sentire la sua azione tramite lo Spirito Santo. Quello che a molti di noi manca è proprio l' esperienza della resurrezione di Gesù. Molti continuano a vivere Gesù come qualcosa di astratto, lontano e sconosciuto ed io spero tanto che se ne rendano finalmente conto e che comincino ad avere sete dello Spirito Santo, quella sete che lui aspetta per farci scoprire la differenza!
Nel dolore spesso ci sentiamo distrutti sia fisicamente sia moralmente, ma quando chiediamo al Signore aiuto, vediamo che siamo subito alleviati dalla cosa più atroce del dolore, la disperazione. È importante stare vicini a chi soffre, per un motivo o per l’ altro, perché noi possiamo essere la parola che Gesù vuole dire, la mano di Gesù che sa accarezzare, noi possiamo essere la testimonianza che Gesù non abbandona i suoi figli, perché seguire il Signore vuol dire amare il nostro prossimo come Dio ama noi.
Amore è la parola d’ordine per entrare nella famiglia celeste, e per tornare nella casa del Padre, dove Gesù è andato a preparare un posto.
Gli mostra le ferite per fargli vedere che è proprio lui, quello che è salito sulla croce, e ha vinto la morte.
È normale che qualcuno abbia dei dubbi, Tommaso ne è la conferma.
La nostra umanità ci porta a credere solo a quello che possiamo vedere, ma con Gesù ormai abbiamo capito che non può bastare.
Ha compiuto miracoli davanti ai loro occhi, è entrato in una casa con le porte chiuse, ma è proprio Lui?
Nulla lo può dividere da noi, perché il suo amore lo spinge a cercarci sempre e a darci tutto di se, così come fa con gli apostoli, ai quali dona lo spirito Santo. Solo la nostra incredulità riesce a tenerlo lontano da noi, siamo sempre noi che abbiamo l’ultima parola.
Chi fa l’esperienza di Gesù nella propria vita, non ha più dubbi, e non serve che lo veda fisicamente o no, anzi proprio perché si fida della sua parola, riesce a sentire la sua azione tramite lo Spirito Santo. Quello che a molti di noi manca è proprio l' esperienza della resurrezione di Gesù. Molti continuano a vivere Gesù come qualcosa di astratto, lontano e sconosciuto ed io spero tanto che se ne rendano finalmente conto e che comincino ad avere sete dello Spirito Santo, quella sete che lui aspetta per farci scoprire la differenza!
Nel dolore spesso ci sentiamo distrutti sia fisicamente sia moralmente, ma quando chiediamo al Signore aiuto, vediamo che siamo subito alleviati dalla cosa più atroce del dolore, la disperazione. È importante stare vicini a chi soffre, per un motivo o per l’ altro, perché noi possiamo essere la parola che Gesù vuole dire, la mano di Gesù che sa accarezzare, noi possiamo essere la testimonianza che Gesù non abbandona i suoi figli, perché seguire il Signore vuol dire amare il nostro prossimo come Dio ama noi.
Amore è la parola d’ordine per entrare nella famiglia celeste, e per tornare nella casa del Padre, dove Gesù è andato a preparare un posto.
venerdì 6 giugno 2014
(Gv 21,20-25) Questo è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e la sua testimonianza è vera.
VANGELO
(Gv 21,20-25) Questo è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e la sua testimonianza è vera.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Signore mio,di illuminarmi col tuo Santo Spirito, per farmi comprendere e vivere la tua parola, per Cristo nostro Signore. Amen.
L'immagine di Giovanni come del discepolo più piccolo e più dolce tra gli apostoli di Gesù, è una delle immagini che mi addolcisce l' anima. Penso a Lui, piccolo, che si lascia andare ad un amore incondizionato, e che Gesù guarda con una dolcezza particolare. Pietro si preoccupa di lui, si chiede che sarà del giovane quando resterà solo, ma Gesù gli dice di non preoccuparsi di lui, perché anche per lui tutto è scritto.
Giovanni infatti sotto l' ispirazione dello Spirito Santo scriverà la storia di Gesù, e racconterà della sua vita tra i discepoli, dei suoi insegnamenti, e trasmetterà alla luce del suo amore, ogni cosa gli verrà ispirata. Sembra quasi che con le sue parole Gesù voglia far continuare l'opera di Giovanni all' infinito,dice infatti: - se io voglio che rimanga finché io venga - come se volesse chiedere ad ognuno di noi di scrivere la sua pagina di vangelo, perché se ognuno di noi scrivesse quello che ha conosciuto di Gesù nella sua vita, non basterebbe il mondo intero per contenere i libri.Giovanni traspare amore, incondizionato, amore che non mette tra lui e Cristo nessun limite, non mette la sua umanità, si lascia condurre. Questo rapporto così intimo tra Giovanni e Gesù, ha fatto parlare e sparlare perchè rappresenta qualcosa che difficilmente capiremo mai, l'amicizia con Gesù che tanto tutti vorremmo. Giovanni è l'amore corrisposto. Non cerca di apparire, ma c'è, è sempre con Gesù, dove c'è Gesù c'è lui, e resta con Maria nella buona e nella cattiva sorte.Giovanni ha deciso per Gesù e quando l'ha fatto, l'ha fatto per sempre; non ha tentennato come Pietro, non ha dubitato come Tommaso... ha deciso di seguirlo e si è lasciato andare sul suo petto per sempre!
(Gv 21,20-25) Questo è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e la sua testimonianza è vera.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Signore mio,di illuminarmi col tuo Santo Spirito, per farmi comprendere e vivere la tua parola, per Cristo nostro Signore. Amen.
L'immagine di Giovanni come del discepolo più piccolo e più dolce tra gli apostoli di Gesù, è una delle immagini che mi addolcisce l' anima. Penso a Lui, piccolo, che si lascia andare ad un amore incondizionato, e che Gesù guarda con una dolcezza particolare. Pietro si preoccupa di lui, si chiede che sarà del giovane quando resterà solo, ma Gesù gli dice di non preoccuparsi di lui, perché anche per lui tutto è scritto.
Giovanni infatti sotto l' ispirazione dello Spirito Santo scriverà la storia di Gesù, e racconterà della sua vita tra i discepoli, dei suoi insegnamenti, e trasmetterà alla luce del suo amore, ogni cosa gli verrà ispirata. Sembra quasi che con le sue parole Gesù voglia far continuare l'opera di Giovanni all' infinito,dice infatti: - se io voglio che rimanga finché io venga - come se volesse chiedere ad ognuno di noi di scrivere la sua pagina di vangelo, perché se ognuno di noi scrivesse quello che ha conosciuto di Gesù nella sua vita, non basterebbe il mondo intero per contenere i libri.Giovanni traspare amore, incondizionato, amore che non mette tra lui e Cristo nessun limite, non mette la sua umanità, si lascia condurre. Questo rapporto così intimo tra Giovanni e Gesù, ha fatto parlare e sparlare perchè rappresenta qualcosa che difficilmente capiremo mai, l'amicizia con Gesù che tanto tutti vorremmo. Giovanni è l'amore corrisposto. Non cerca di apparire, ma c'è, è sempre con Gesù, dove c'è Gesù c'è lui, e resta con Maria nella buona e nella cattiva sorte.Giovanni ha deciso per Gesù e quando l'ha fatto, l'ha fatto per sempre; non ha tentennato come Pietro, non ha dubitato come Tommaso... ha deciso di seguirlo e si è lasciato andare sul suo petto per sempre!
giovedì 5 giugno 2014
(Gv 21,15-19) Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
VANGELO
(Gv 21,15-19) Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
(Gv 21,15-19) Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [quando si fu manifestato ai discepoli ed] essi ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore».Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse “Mi vuoi bene?”, e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
O Dio, nostro Padre, che ci hai aperto il passaggio alla vita eterna con la glorificazione del tuo Figlio e con l' effusione dello Spirito Santo, fà che, partecipi di così grandi doni, progrediamo nella fede e ci impegniamo sempre più nel tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
PREGHIERA
O Dio, nostro Padre, che ci hai aperto il passaggio alla vita eterna con la glorificazione del tuo Figlio e con l' effusione dello Spirito Santo, fà che, partecipi di così grandi doni, progrediamo nella fede e ci impegniamo sempre più nel tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Uno strano dialogo questo, tra Gesù e Pietro, sembra quasi che Gesù voglia mettere alla prova il povero Pietro, che si mortifica e non sa più come ribattere al maestro. Mi ami? Come mi ami? Quanto mi ami? Ma sei sicuro che mi vuoi bene?
Che cosa vuoi da Pietro Signore, cosa vuoi da noi? Vuoi che ci rendiamo conto della nostra pochezza? Della nostra fragilità? Tu ci conosci e ci scruti e a te non possiamo mentire, come facciamo persino con noi stessi.
Facile sentirsi giusti, in un mondo in cui il male è tangibile, basta non rubare e non uccidere e ci sentiamo giusti; se poi andiamo anche in Chiesa ancora meglio, ci sentiamo quasi Santi,come se il nostro dovere si esaurisse in qualche pratica religiosa.
Ecco perché Gesù insiste, ci chiede di guardarci veramente dentro, di spingerci oltre, di diventare proprio come lui, Pastori delle sue pecore. Può sembrare una cosa per i soli sacerdoti, ma non è così, perché se anche loro sono chiamati a fare di più e meglio, anche noi siamo i pastori delle nostre famiglie, e siamo chiamati a testimoniare la nostra fede, non solo con le parole ma prima di tutto con la nostra vita.
Una parola per chi poi frequenta la Chiesa: è importante che noi testimoniamo l' amore per i fratelli, che viviamo in coerenza con quello che la Chiesa predica, perché se ci comportiamo da IPOCRITI, saremo anche noi colpevoli dell' allontanamento di molti fratelli.
Il Papa ha messo l'indice sul carrierismo, ed ha fatto benissimo secondo me, ma il discorso riguarda un po' tutti noi, ricordiamoci che il centro della Chiesa è Cristo, e nessun altro.
Gesù lascia a Pietro il compito di guidare il suo popolo la sua Chiesa, lo elegge pastore delle anime, ma non si limita a questo, lo invita a riflettere sulla sua umanità, per far sì che non se ne dimentichi mai, e che non conti sulle sue forze, ma sulla sua affiliazione a Dio.L'invito a riconoscersi che Gesù fa a Pietro, lo vuole portare a capire che tutto con Gesù è condivisione con Lui, che non deve mai pensare di poter essere pronto, arrivato, fedele, santo; ma dovrà sempre ricominciare da capo, sempre combattere con la sua piccola umanità alla quale è legato.
Gli indica la sua vecchiaia, in cui dovrà affidarsi all' amore di chi lo curerà e lo vestirà, perché in questo gesto umano, pieno di amore, c' è l' essenza dell' uomo, che con pazienza si affida, non potendo far altro. Ed ancora io leggo tra queste righe che sarà l'amore di Dio che ci porterà dove noi non sapremo di andare... per questo Gesù ci dice ,SEGUIMI!
Che cosa vuoi da Pietro Signore, cosa vuoi da noi? Vuoi che ci rendiamo conto della nostra pochezza? Della nostra fragilità? Tu ci conosci e ci scruti e a te non possiamo mentire, come facciamo persino con noi stessi.
Facile sentirsi giusti, in un mondo in cui il male è tangibile, basta non rubare e non uccidere e ci sentiamo giusti; se poi andiamo anche in Chiesa ancora meglio, ci sentiamo quasi Santi,come se il nostro dovere si esaurisse in qualche pratica religiosa.
Ecco perché Gesù insiste, ci chiede di guardarci veramente dentro, di spingerci oltre, di diventare proprio come lui, Pastori delle sue pecore. Può sembrare una cosa per i soli sacerdoti, ma non è così, perché se anche loro sono chiamati a fare di più e meglio, anche noi siamo i pastori delle nostre famiglie, e siamo chiamati a testimoniare la nostra fede, non solo con le parole ma prima di tutto con la nostra vita.
Una parola per chi poi frequenta la Chiesa: è importante che noi testimoniamo l' amore per i fratelli, che viviamo in coerenza con quello che la Chiesa predica, perché se ci comportiamo da IPOCRITI, saremo anche noi colpevoli dell' allontanamento di molti fratelli.
Il Papa ha messo l'indice sul carrierismo, ed ha fatto benissimo secondo me, ma il discorso riguarda un po' tutti noi, ricordiamoci che il centro della Chiesa è Cristo, e nessun altro.
Gesù lascia a Pietro il compito di guidare il suo popolo la sua Chiesa, lo elegge pastore delle anime, ma non si limita a questo, lo invita a riflettere sulla sua umanità, per far sì che non se ne dimentichi mai, e che non conti sulle sue forze, ma sulla sua affiliazione a Dio.L'invito a riconoscersi che Gesù fa a Pietro, lo vuole portare a capire che tutto con Gesù è condivisione con Lui, che non deve mai pensare di poter essere pronto, arrivato, fedele, santo; ma dovrà sempre ricominciare da capo, sempre combattere con la sua piccola umanità alla quale è legato.
Gli indica la sua vecchiaia, in cui dovrà affidarsi all' amore di chi lo curerà e lo vestirà, perché in questo gesto umano, pieno di amore, c' è l' essenza dell' uomo, che con pazienza si affida, non potendo far altro. Ed ancora io leggo tra queste righe che sarà l'amore di Dio che ci porterà dove noi non sapremo di andare... per questo Gesù ci dice ,SEGUIMI!
mercoledì 4 giugno 2014
(Gv 17,20-26) Siano perfetti nell’unità.
VANGELO
(Gv 17,20-26) Siano perfetti nell’unità.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [Gesù, alzàti gli occhi al cielo, pregò dicendo:]«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare al tuo disegno di salvezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Gesù prega per noi. Chiede al Padre di vegliare non solo sui primi discepoli che lo hanno conosciuto e che attraverso Lui, hanno conosciuto Dio stesso, ma anche per coloro che seguiranno la sua Chiesa e quindi anche per noi.
La preghiera di Gesù per l' unità della chiesa, non è quella di chi ignora che ci saranno dispute e diatribe, ma che spera nell' unità dello Spirito che ci tenga uniti nel suo nome. In questa preghiera Gesù riunisce tutti quelli che crederanno in Lui, non mette paletti, anche se ci sembra così difficile andare d’ accordo tra noi, ma l' importante è amarci nel nome di Dio, perché è l' amore per i fratelli che ci farà superare tutti gli ostacoli e le differenze. Ci saranno sempre le liti, ma se nel cuore non c' è cattiveria, invidia ed egoismo, ci sarà anche la preghiera per i nemici, per chi ci ingiuria, per i nostri nemici e per i nemici della Chiesa, e questo ,con la consapevolezza che nessuno è perfetto.
Per vincere le divisioni bisogna mettere al centro Gesù, non basarci sulle differenze, ma ancorarci sull'amore di Dio per noi e per tutti i nostri fratelli.
(Gv 17,20-26) Siano perfetti nell’unità.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [Gesù, alzàti gli occhi al cielo, pregò dicendo:]«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare al tuo disegno di salvezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Gesù prega per noi. Chiede al Padre di vegliare non solo sui primi discepoli che lo hanno conosciuto e che attraverso Lui, hanno conosciuto Dio stesso, ma anche per coloro che seguiranno la sua Chiesa e quindi anche per noi.
La preghiera di Gesù per l' unità della chiesa, non è quella di chi ignora che ci saranno dispute e diatribe, ma che spera nell' unità dello Spirito che ci tenga uniti nel suo nome. In questa preghiera Gesù riunisce tutti quelli che crederanno in Lui, non mette paletti, anche se ci sembra così difficile andare d’ accordo tra noi, ma l' importante è amarci nel nome di Dio, perché è l' amore per i fratelli che ci farà superare tutti gli ostacoli e le differenze. Ci saranno sempre le liti, ma se nel cuore non c' è cattiveria, invidia ed egoismo, ci sarà anche la preghiera per i nemici, per chi ci ingiuria, per i nostri nemici e per i nemici della Chiesa, e questo ,con la consapevolezza che nessuno è perfetto.
Per vincere le divisioni bisogna mettere al centro Gesù, non basarci sulle differenze, ma ancorarci sull'amore di Dio per noi e per tutti i nostri fratelli.
martedì 3 giugno 2014
(Gv 17,11-19) Siano una cosa sola, come noi.
VANGELO DI MERCOLEDì 4 GIUGNO
(Gv 17,11-19) Siano una cosa sola, come noi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [Gesù, alzati gli occhi al cielo, pregò dicendo:]«Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Quand’ ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’ essi consacrati nella verità».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Aiutami o Santo Spirito a saper leggere come Tu vuoi la sacra scrittura, a comprendere alla Tua luce quello che Tu vuoi che io comprenda e a scrivere quello che Tu vuoi che io scriva.
Continua la preghiera di Gesù al Padre per chiedere la protezione per i suoi discepoli, per tutti quelli che gli appartengono e non sono solo del mondo, ma sono in comunione con lui ed attraverso di lui al Padre. Proprio stamattina pensavo a come è difficile per noi, la santità alla quale siamo chiamati, proprio perché siamo nel mondo, un luogo in cui è più facile di quando pensiamo perderci.
Credere di essere senza peccato è già peccato, ed è verissimo, perché questo pensiero ci viene dettato dal nostro orgoglio e dalla superbia, e ci spinge a vedere solo i peccati degli altri, così da sentirci santi e benedetti.
Questo Gesù lo sa, e cerca di metterci in guardia, ma non sempre siamo in grado di renderci conto di quanto sia facile peccare e giudicare gli altri.
Oggi poi c'è il finto buonismo, quella specie di istituzione per la quale tutti fingiamo di non giudicare, ma non è affatto vero; ci ergiamo a giudici ipocriti, proprio come quelli che non accettando Gesù, non accettarono l'amore che è in Dio per tutti, anche per i peccatori.
Nel mondo c'è tanta perdizione, perché non tutti gli uomini scelgono di seguire Gesù e la cattiveria delle forze del male verso la sua Chiesa si scatenano.
A questo proposito vorrei sottolineare che non siamo noi in grado di giudicare chi si può perdere nel mondo, perché, fino all'ultimo istante di vita tutti abbiamo la possibilità di tornare al Padre, ricordo in proposito la parabola degli operai chiamati dal padrone a lavorare nella vigna, chi prima chi dopo, ma tutti ricevettero la stessa paga.
Gesù ama i suoi discepoli, la sua Chiesa e la mette sotto la protezione del Padre attraverso lo Spirito Santo, perché sia sempre una Chiesa di verità ed unione nel suo nome. In questi ultimi tempi vediamo che la corruzione del maligno è entrata ormai anche tra le mura della Chiesa, per questo dobbiamo seguire Gesù nella preghiera al Padre, perché protegga i suoi sacerdoti, dono indispensabile per noi.
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Preghiera del popolo cristiano per i sacerdoti
Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli del cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce. Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.
Don Tonino Bello
(Gv 17,11-19) Siano una cosa sola, come noi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [Gesù, alzati gli occhi al cielo, pregò dicendo:]«Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Quand’ ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’ essi consacrati nella verità».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Aiutami o Santo Spirito a saper leggere come Tu vuoi la sacra scrittura, a comprendere alla Tua luce quello che Tu vuoi che io comprenda e a scrivere quello che Tu vuoi che io scriva.
Continua la preghiera di Gesù al Padre per chiedere la protezione per i suoi discepoli, per tutti quelli che gli appartengono e non sono solo del mondo, ma sono in comunione con lui ed attraverso di lui al Padre. Proprio stamattina pensavo a come è difficile per noi, la santità alla quale siamo chiamati, proprio perché siamo nel mondo, un luogo in cui è più facile di quando pensiamo perderci.
Credere di essere senza peccato è già peccato, ed è verissimo, perché questo pensiero ci viene dettato dal nostro orgoglio e dalla superbia, e ci spinge a vedere solo i peccati degli altri, così da sentirci santi e benedetti.
Questo Gesù lo sa, e cerca di metterci in guardia, ma non sempre siamo in grado di renderci conto di quanto sia facile peccare e giudicare gli altri.
Oggi poi c'è il finto buonismo, quella specie di istituzione per la quale tutti fingiamo di non giudicare, ma non è affatto vero; ci ergiamo a giudici ipocriti, proprio come quelli che non accettando Gesù, non accettarono l'amore che è in Dio per tutti, anche per i peccatori.
Nel mondo c'è tanta perdizione, perché non tutti gli uomini scelgono di seguire Gesù e la cattiveria delle forze del male verso la sua Chiesa si scatenano.
A questo proposito vorrei sottolineare che non siamo noi in grado di giudicare chi si può perdere nel mondo, perché, fino all'ultimo istante di vita tutti abbiamo la possibilità di tornare al Padre, ricordo in proposito la parabola degli operai chiamati dal padrone a lavorare nella vigna, chi prima chi dopo, ma tutti ricevettero la stessa paga.
Gesù ama i suoi discepoli, la sua Chiesa e la mette sotto la protezione del Padre attraverso lo Spirito Santo, perché sia sempre una Chiesa di verità ed unione nel suo nome. In questi ultimi tempi vediamo che la corruzione del maligno è entrata ormai anche tra le mura della Chiesa, per questo dobbiamo seguire Gesù nella preghiera al Padre, perché protegga i suoi sacerdoti, dono indispensabile per noi.
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Preghiera del popolo cristiano per i sacerdoti
Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli del cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce. Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.
Don Tonino Bello
lunedì 2 giugno 2014
(Gv 17,1-11) Padre, glorifica il Figlio tuo.
VANGELO
(Gv 17,1-11) Padre, glorifica il Figlio tuo.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi al cielo, disse:«Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse. Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Colletta
Padre onnipotente e misericordioso, fa’ che lo Spirito Santo venga ad abitare in noi e ci trasformi in tempio della sua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Questa è una preghiera di Gesù a Dio... ancora una volta ci insegna come rivolgerci al Padre; fermiamoci un momento ed ascoltiamolo. Padre è venuta l'ora della gloria Del Padre, del Figlio e di tutti coloro che gli appartengono. Appartenere a Dio, essere figlio di Dio, non è una schiavitù, un obbligo, ma un atto di affiliazione sincero. Riconoscere il gesto di Gesù come un atto sublime d'amore, significa anche capire che per questo amore Lui abbraccia quella croce, per salvarci grazie a quel sacrificio egli sa di dover essere innalzato dalla croce al regno di Dio. Gesù non si smentisce, perché è verità e le parole con le quali ci è entrato nel cuore, sono le parole del Padre che lo ha mandato e chi gli ha creduto e lo ha seguito, sente che nelle sue parole c'è un affetto che va oltre ogni limite; una conoscenza della nostra fragilità, che non è rimprovero, ma invito ad essere migliori, a fidarci di Lui. Ci ama e non vuole perderci, ma più che altro, non vuole che ci perdiamo. Il mondo è ingannevole e Gesù sa che abbiamo bisogno del suo aiuto per superare la morsa del maligno, che cerca di sedurci con il suo gioco di specchi; per questo prega per noi, perché fino a che siamo nel mondo, sappiamo lottare contro le forze del male che sembra ci vogliano dare felicità, ma ci porteranno solo lontani da Dio. Per seguire Gesù e per non perdere la strada, ricordiamo che ci sono delle regole essenziali da tenere presenti: amare Dio e i nostri fratelli, perché quello che divide non viene da Dio e non sbaglieremo mai strada.
Fa o Signore che io non diventi disabile...(preghiera)
Fa o Signore che io non diventi disabile...
che sappia sempre correre da chi ha bisogno d'aiuto,
che sappia sempre vedere chi cerca una mano da stringere
nel bisogno,
che sappia sempre ascoltare chi è solo,
che sappia sempre parlare con dolcezza a chi è ferito,
che sappia sempre indicare la tua via a chi si è perduto.
Per me Signore ti chiedo solo una cosa:
fammi vivere di te e non farmi vivere senza di te!
(Lella)
domenica 1 giugno 2014
I «sette peccati capitali» (il senso del peccato)
I «sette peccati capitali»
Introduzione: Chi si ricorda dei sette peccati capitali?
1. AVARIZIA: L’amore smisurato per il denaro, radice di tutti i mali
2. SUPERBIA: quando la stima di se stessi diventa disprezzo degli altri
3. IRA: Arrabbiarsi «a vanvera»: questo è il vero peccato
4-5: GOLA E LUSSURIA: Quando il piacere è fine a se stesso
6. ACCIDIA: La tentazione di cedere allo scoraggiamento
7. INVIDIA: Quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione
Conclusione: Esiste ancora il senso del peccato?
1. AVARIZIA: L’amore smisurato per il denaro, radice di tutti i mali
di: Mons. Andrea Drigani*
«L’amore del denaro è la radice di tutti i mali». Così scrive San Paolo Apostolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) ed è la migliore introduzione per riflettere sull’argomento dell’avarizia che, dalla dottrina cattolica, è stata definita come la cupidigia disordinata dei beni materiali. Questi beni infatti sono utili soltanto nella misura in cui giovano all’uomo per il raggiungimento del suo fine ultimo. Spiega San Tommaso d’Aquino: «Dunque la bontà dell’uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Quindi nell’eccedere codesta misura si ha un peccato: quando si vuole acquistare o ritenere più del dovuto. E questo costituisce precisamente l’avarizia, che è un amore immoderato di possesso».
Come negli altri vizi capitali, anche nell’avarizia c’è una triplice offesa: al prossimo, a se stessi e a Dio. È contro il prossimo poiché nelle ricchezze materiali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell’indigenza, perché i beni materiali non possono essere posseduti simultaneamente da più persone; è contro se stessi perché comporta una mancanza di moderazione negli affetti che uno prova per le ricchezze, cioè amore, compiacenze o desideri esagerati verso di esse, creando un disordine nella propria anima; è contro Dio perché per i beni materiali si disprezzano i beni eterni.
San Gregorio Magno osserva che l’avarizia si consuma, piuttosto che nel piacere o sensazione della carne, come la gola e la lussuria, nel piacere o percezione dell’anima e la pone tra i vizi capitali, da cui nascono altri peccati ed elenca le sette figlie dell’avarizia: la «obduratio contra misericordiam» (la durezza del cuore che impedisce di dare ai bisognosi), la «inquietudo mentis» ( la troppa ansia nel ricercare le ricchezze) la «violentia» (violenza), la «fallacia» (l’inganno), il «periurium» (lo spergiuro), la «fraus» (la frode), la «proditio» (il tradimento) cioè i mezzi illeciti per impossessarsi delle ricchezze.
Quanto si è ricordato non riguarda soltanto la storia dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma vale pure per noi cristiani dell’inizio del Terzo Millennio, che viviamo in una società «sazia e disperata» che rischia di procedere verso una pericolosa deriva materialista. L’avaro, pertanto, non è il patetico protagonista della celebre commedia di Molière o qualche altro personaggio tirchio e spilorcio che la letteratura ed il cinema hanno illustrato e che dunque ci è estraneo per la sua goffaggine e ridicolezza, ma potrebbe, invece, essere anche dentro di noi.
La tentazione sottile e velenosa dell’avarizia è sempre in agguato, il richiamo di San Paolo è, soprattutto, per i nostri giorni dove le scorribande finanziarie, frutto perverso di una certa globalizzazione, sono tese al grande ed ingiusto accumulo di denaro, per l’opera di avventurieri senza etica, ma nel disinteresse o con l’ignoranza di risparmiatori desiderosi solo di ammucchiar soldi.
L’avarizia è vecchia quanto il mondo, già il poeta latino Virgilio diceva indignato: «Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!» («auri sacra fames»), perciò siamo in pericolo di invecchiare nei nostri peccati. Il tempo di Quaresima è anche un periodo di profonda revisione di vita e di attenta vigilanza dei comportamenti; non disperdiamo questa occasione per riflettere e meditare sul retto uso dei beni materiali.
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* Mons. Andrea Drigani, docente di Diritto Canonico alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, è anche Vicario Giudiziale del Tribunale Ecclasistico Diocesano di Firenze. È autore, tra l’altro, del saggio «L’ingiusto guadagno» dedicato al fenomeno dell’usura. Di recente ha pubblicato una «Introduzione al diritto concordatario».
Tratto da: Toscana Oggi
----------------------------------------------------------------------------------------------------2. SUPERBIA: quando la stima di se stessi diventa disprezzo degli altri
di Stefano Grossi*
Più che un singolo tipo di peccato la superbia appare come un’espressione che indica una costellazione di peccati: orgoglio, arroganza, arbitrio, tracotanza, apparenza esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere.
Tuttavia se andiamo a ricercare nella Scrittura la parola che traduciamo con superbia, ci accorgiamo che questa ha anche un significato positivo: l’ebraico ga’on indica ciò che è alto ed elevato e, in senso figurato, ciò che eccelle e che per valore si distacca dalla media.
L’italiano conserva questo valore positivo attraverso l’aggettivo «superbo» come apprezzamento per tutto ciò che si distingue, che rappresenta una realizzazione eccellente e diventa punto di riferimento. Nella versione greca dei Settanta ga’on viene spesso tradotto con hybris esprimendone però solo il lato negativo di prepotenza, violenza, arroganza; nei libri sapienziali viene utilizzato anche hyperephania, quasi termine tecnico, per indicare l’atteggiamento che gli uomini pii debbono assolutamente evitare. Nel Nuovo Testamento al poco usato hybris si preferisce alazoneia e anche hyperephania per esprimere uno stile di vita basato sull’attribuire a se stessi più di quanto si ha o si è.
San Gregorio Magno sintetizza il peccato di superbia indicandone quattro manifestazioni: credere che il bene posseduto derivi esclusivamente da se stessi oppure di averlo ricevuto solo per i propri meriti; vantarsi di ciò che non si ha; cercare di far apparire uniche e singolari le proprie doti disprezzando gli altri.
Questa semplice nota linguistica ci aiuta a cogliere in cosa consiste la forza di seduzione tipica di questo peccato che, non a caso, S. Tommaso - riprendendo sia S. Agostino che S. Gregorio Magno - definisce come amore smodato della propria eccellenza. Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di primeggiare, di migliorare noi stessi, di giungere alla perfezione fino al limite di quella divina; si tratta di uno stimolo positivo e potente a cercare di dare il meglio di sé nelle diverse situazioni e campi in cui siamo chiamati a operare. La capacità seducente della superbia, il suo fascino, consiste proprio nell’esaltare questo desiderio naturale di eccellere centrando in modo assoluto l’attenzione su se stessi, prescindendo da qualsiasi considerazione oggettiva, assumendo come criterio fondamentale del proprio agire una regola del tipo: «conta solo arrivare primi, perciò sii il numero uno a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo».
La superbia, così, mostra di essere un atteggiamento che cambia volto a seconda della situazione in cui si manifesta: in assoluto e fondamentalmente è la pretesa di essere come Dio in rapporto a tutto ciò (persone, viventi e cose) che ci circonda, ma si mostra anche come desiderio di essere «il più…» bello, forte, ricco, simpatico, intelligente, colto, raffinato, professionale, esperto, e potremmo continuare con tutte le caratteristiche positive della nostra umanità fino a comprendere le stesse dimensioni etiche e religiose: pio, buono, coerente, santo. Perciò per naturale propensione la superbia si nutre di menzogna e di violenza perché la ricerca ad ogni costo della propria superiorità costringe a svilire o a negare la positività delle doti altrui e a combatterle come se fossero pericolosi avversari con tanta più virulenza quanto più si percepisce che l’altro è effettivamente migliore di noi.
A questo punto viene spontaneo pensare che il miglior antidoto per la superbia sia coltivare l’umiltà, cosa senza dubbio vera purché non si scambi umiltà con ritrosia, timidezza o mediocrità; con la paura di impegnarsi, di confrontarsi alla pari, apertamente e lealmente con gli altri; con la vigliaccheria e l’incapacità di donare con le parole e i gesti il positivo di cui siamo portatori.
Credo che l’umiltà abbia bisogno di un percorso che inizia dai gesti semplici della cortesia: chiedere «per favore» e ringraziare; diviene capacità di gioire e utilizzare al meglio ciò che si ha; procede con lo sviluppo di una onestà intellettuale che sa di dover capire a fondo la posizione dell’altro prima di emettere un qualsiasi giudizio; trova il suo compimento nell’accettazione gioiosa che tutto il nostro essere è dono del Padre e il nostro operare è risposta all’iniziativa della grazia divina in Cristo. È, infine, coscienza ecclesiale come San Paolo ricordava ai fedeli di Corinto: «Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio a favore di uno contro un altro. Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,6-7).
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Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, tiene corsi di antropologia e di etica alla Facolta Teologica per l’Italia Centrale
Tratto da: Toscana Oggi
di: Mons. Andrea Drigani*
«L’amore del denaro è la radice di tutti i mali». Così scrive San Paolo Apostolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) ed è la migliore introduzione per riflettere sull’argomento dell’avarizia che, dalla dottrina cattolica, è stata definita come la cupidigia disordinata dei beni materiali. Questi beni infatti sono utili soltanto nella misura in cui giovano all’uomo per il raggiungimento del suo fine ultimo. Spiega San Tommaso d’Aquino: «Dunque la bontà dell’uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Quindi nell’eccedere codesta misura si ha un peccato: quando si vuole acquistare o ritenere più del dovuto. E questo costituisce precisamente l’avarizia, che è un amore immoderato di possesso».
Come negli altri vizi capitali, anche nell’avarizia c’è una triplice offesa: al prossimo, a se stessi e a Dio. È contro il prossimo poiché nelle ricchezze materiali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell’indigenza, perché i beni materiali non possono essere posseduti simultaneamente da più persone; è contro se stessi perché comporta una mancanza di moderazione negli affetti che uno prova per le ricchezze, cioè amore, compiacenze o desideri esagerati verso di esse, creando un disordine nella propria anima; è contro Dio perché per i beni materiali si disprezzano i beni eterni.
San Gregorio Magno osserva che l’avarizia si consuma, piuttosto che nel piacere o sensazione della carne, come la gola e la lussuria, nel piacere o percezione dell’anima e la pone tra i vizi capitali, da cui nascono altri peccati ed elenca le sette figlie dell’avarizia: la «obduratio contra misericordiam» (la durezza del cuore che impedisce di dare ai bisognosi), la «inquietudo mentis» ( la troppa ansia nel ricercare le ricchezze) la «violentia» (violenza), la «fallacia» (l’inganno), il «periurium» (lo spergiuro), la «fraus» (la frode), la «proditio» (il tradimento) cioè i mezzi illeciti per impossessarsi delle ricchezze.
Quanto si è ricordato non riguarda soltanto la storia dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma vale pure per noi cristiani dell’inizio del Terzo Millennio, che viviamo in una società «sazia e disperata» che rischia di procedere verso una pericolosa deriva materialista. L’avaro, pertanto, non è il patetico protagonista della celebre commedia di Molière o qualche altro personaggio tirchio e spilorcio che la letteratura ed il cinema hanno illustrato e che dunque ci è estraneo per la sua goffaggine e ridicolezza, ma potrebbe, invece, essere anche dentro di noi.
La tentazione sottile e velenosa dell’avarizia è sempre in agguato, il richiamo di San Paolo è, soprattutto, per i nostri giorni dove le scorribande finanziarie, frutto perverso di una certa globalizzazione, sono tese al grande ed ingiusto accumulo di denaro, per l’opera di avventurieri senza etica, ma nel disinteresse o con l’ignoranza di risparmiatori desiderosi solo di ammucchiar soldi.
L’avarizia è vecchia quanto il mondo, già il poeta latino Virgilio diceva indignato: «Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!» («auri sacra fames»), perciò siamo in pericolo di invecchiare nei nostri peccati. Il tempo di Quaresima è anche un periodo di profonda revisione di vita e di attenta vigilanza dei comportamenti; non disperdiamo questa occasione per riflettere e meditare sul retto uso dei beni materiali.
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* Mons. Andrea Drigani, docente di Diritto Canonico alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, è anche Vicario Giudiziale del Tribunale Ecclasistico Diocesano di Firenze. È autore, tra l’altro, del saggio «L’ingiusto guadagno» dedicato al fenomeno dell’usura. Di recente ha pubblicato una «Introduzione al diritto concordatario».
Tratto da: Toscana Oggi
----------------------------------------------------------------------------------------------------2. SUPERBIA: quando la stima di se stessi diventa disprezzo degli altri
di Stefano Grossi*
Più che un singolo tipo di peccato la superbia appare come un’espressione che indica una costellazione di peccati: orgoglio, arroganza, arbitrio, tracotanza, apparenza esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere.
Tuttavia se andiamo a ricercare nella Scrittura la parola che traduciamo con superbia, ci accorgiamo che questa ha anche un significato positivo: l’ebraico ga’on indica ciò che è alto ed elevato e, in senso figurato, ciò che eccelle e che per valore si distacca dalla media.
L’italiano conserva questo valore positivo attraverso l’aggettivo «superbo» come apprezzamento per tutto ciò che si distingue, che rappresenta una realizzazione eccellente e diventa punto di riferimento. Nella versione greca dei Settanta ga’on viene spesso tradotto con hybris esprimendone però solo il lato negativo di prepotenza, violenza, arroganza; nei libri sapienziali viene utilizzato anche hyperephania, quasi termine tecnico, per indicare l’atteggiamento che gli uomini pii debbono assolutamente evitare. Nel Nuovo Testamento al poco usato hybris si preferisce alazoneia e anche hyperephania per esprimere uno stile di vita basato sull’attribuire a se stessi più di quanto si ha o si è.
San Gregorio Magno sintetizza il peccato di superbia indicandone quattro manifestazioni: credere che il bene posseduto derivi esclusivamente da se stessi oppure di averlo ricevuto solo per i propri meriti; vantarsi di ciò che non si ha; cercare di far apparire uniche e singolari le proprie doti disprezzando gli altri.
Questa semplice nota linguistica ci aiuta a cogliere in cosa consiste la forza di seduzione tipica di questo peccato che, non a caso, S. Tommaso - riprendendo sia S. Agostino che S. Gregorio Magno - definisce come amore smodato della propria eccellenza. Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di primeggiare, di migliorare noi stessi, di giungere alla perfezione fino al limite di quella divina; si tratta di uno stimolo positivo e potente a cercare di dare il meglio di sé nelle diverse situazioni e campi in cui siamo chiamati a operare. La capacità seducente della superbia, il suo fascino, consiste proprio nell’esaltare questo desiderio naturale di eccellere centrando in modo assoluto l’attenzione su se stessi, prescindendo da qualsiasi considerazione oggettiva, assumendo come criterio fondamentale del proprio agire una regola del tipo: «conta solo arrivare primi, perciò sii il numero uno a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo».
La superbia, così, mostra di essere un atteggiamento che cambia volto a seconda della situazione in cui si manifesta: in assoluto e fondamentalmente è la pretesa di essere come Dio in rapporto a tutto ciò (persone, viventi e cose) che ci circonda, ma si mostra anche come desiderio di essere «il più…» bello, forte, ricco, simpatico, intelligente, colto, raffinato, professionale, esperto, e potremmo continuare con tutte le caratteristiche positive della nostra umanità fino a comprendere le stesse dimensioni etiche e religiose: pio, buono, coerente, santo. Perciò per naturale propensione la superbia si nutre di menzogna e di violenza perché la ricerca ad ogni costo della propria superiorità costringe a svilire o a negare la positività delle doti altrui e a combatterle come se fossero pericolosi avversari con tanta più virulenza quanto più si percepisce che l’altro è effettivamente migliore di noi.
A questo punto viene spontaneo pensare che il miglior antidoto per la superbia sia coltivare l’umiltà, cosa senza dubbio vera purché non si scambi umiltà con ritrosia, timidezza o mediocrità; con la paura di impegnarsi, di confrontarsi alla pari, apertamente e lealmente con gli altri; con la vigliaccheria e l’incapacità di donare con le parole e i gesti il positivo di cui siamo portatori.
Credo che l’umiltà abbia bisogno di un percorso che inizia dai gesti semplici della cortesia: chiedere «per favore» e ringraziare; diviene capacità di gioire e utilizzare al meglio ciò che si ha; procede con lo sviluppo di una onestà intellettuale che sa di dover capire a fondo la posizione dell’altro prima di emettere un qualsiasi giudizio; trova il suo compimento nell’accettazione gioiosa che tutto il nostro essere è dono del Padre e il nostro operare è risposta all’iniziativa della grazia divina in Cristo. È, infine, coscienza ecclesiale come San Paolo ricordava ai fedeli di Corinto: «Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio a favore di uno contro un altro. Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,6-7).
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Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, tiene corsi di antropologia e di etica alla Facolta Teologica per l’Italia Centrale
Tratto da: Toscana Oggi
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3. IRA: Arrabbiarsi «a vanvera»: questo è il vero peccato
di Carlo Nardi
Perché anche l’ira tra i vizi capitali? E perché, invece, Giuseppe Giusti, tra il serio e il faceto, l’avrebbe messa, - se ben ricordo -, niente meno che «tra i sacramenti»? Un po’ d’ordine non nuoce.
La lista dei vizi capitali ha un perché. Per Platone, - Fedro, Repubblica, Timeo specialmente -, l’anima umana ha tre aspetti: quello razionale che dovrebbe regolare tutto, come l’auriga guida i cavalli. Nell’anima i «cavalli» sono due: c’è una parte oscura, la brama, con parola più tecnica «concupiscenza» (epithymía) nell’ambito degli «appetiti»; c’è la parte chiara, nel campo delle «repulsioni», lo «sdegno» (thymós) o irascibilità. Se vi s’installa un’abitudine cattiva, cattiva per il cattivo uso, ossia l’abuso, l’eccesso dello sdegno, quel vizio non è più l’«irascibilità» in sé, in latino ira, ma l’iracondia, ossia la smania di vendetta col far del male, la «libidine di vendicarsi», nel senso comune della parola (Agostino).
Insomma, dalla «irascibilità» di Platone vengono fuori non solo l’ira o meglio iracondia, ma anche l’accidia e l’invidia. Dal desiderio di avere deriva l’avarizia, intesa come avidità, da quello di piacere gola e lussuria, da quello di potere la superbia, talora considerata un oscuramento dell’intelletto, divenuto guida cieca.
Perciò, già in Platone e poi sopratutto in Aristotele (Etica a Nicomaco) fino a San Tommaso (Il male) e a Dante (Purgatorio), forse fino alla non banale buffonata del Giusti, si distingue tra lo sdegno come tendenza, impulso naturale, e il suo uso o esercizio, che può essere in modo giusto o sbagliato, debito o indebito, buono o cattivo nei fini e nei mezzi. In questo secondo caso l’irascibilità (ira) diventa peccaminosa e viziosa, iracondia (ira mala) che, per odio, nel suo desiderio di distruzione, mira comunque a produrre danno, nutrendosi di invidia, di occhio cattivo.
Le osservazioni di Aristotele sono state apprezzate dai cristiani. In fondo, che uomo sarebbe quello che non si sa sdegnare di fronte all’ingiustizia? Metterebbe a rischio la sua umanità. È significativa, anche se di sapore filosofico, l’aggiunta dell’avverbio «a vanvera» nel testo del discorso della montagna come lo leggiamo in Basilio nella sua predica Contro gli iracondi: «Chi si adira col fratello “a vanvera”, sarà sottoposto al giudizio».
Altri filosofi dell’antichità, gli stoici, intendevano piuttosto estirpare, sradicare ogni ribollimento fin dai suoi primi impulsi. Sulla loro scia, Seneca e Plutarco, stoici peraltro di assai larga osservanza, nelle loro trattazioni sull’ira, si soffermano sulla fenomenologia dell’iracondo. La valutazione morale è implicita, ma immediata, come nei nostri modi di dire: sangue al cervello, fumo al naso, perdita del lume degli occhi, andare in bestia, come un cane arrabbiato, trionfo dell’irrazionalità, fino all’irreparabile, l’omicidio, fino al non ritorno, tra umani la guerra, tra cristiani lo scisma.
Certo, San Basilio introduce un certo razionalismo morale nel suo testo evangelico con la limitazione imposta dall’avverbio «a vanvera». Eppure non intende affatto offrire speciosi motivi per «curare il male col male» nella vendetta, dove, paradossalmente, chi vince perde. Anzi, assumendo argomentazioni dagli antichi, propone rimedi pratici per superare l’ira: immaginarsi allo specchio in quella «breve follia», nello stesso tempo tremendi e ridicoli; tacere, il benedetto mordersi la lingua in quel momento, e, come retroterra, il ricordare esempi e coltivare pensieri di mitezza, bontà, perdono. Comunque, non intende metter su una collezione di modelli lontani o generici valori, ma indurre a lasciarsi plasmare dalla grazia di Cristo. Tanto più che Gesù indica felicità e pienezza di vita nella «mansuetudine» di «chi fa la pace», beatitudini (Mt 5,5.7.9) con cui Basilio (cap. 7), come Dante (Purgatorio), suggellano il loro trattare di ira.
Ma la capacità di «sdegnarsi» a volte è sacrosanta
Poco dopo il 313 un cristiano latino, Lattanzio, scriveva un libro sull’Ira di Dio. Succo dell’opera: Iddio vivo e vero, della Bibbia, vecchio come nuovo testamento, non è un Dio «pacioccone» come quello degli antichi, degli epicurei, che se ne sta lassù, senza voler beghe dalle cose umane. Banalizzando didatticamente, un Dio contento e beato nel suo «nirvana».
Facendo eco all’antico scrittore latino, con una riflessione del card. Carlo Maria Martini («L’ira di Dio e altri scritti» (1962-1994). A cura di S. Giacomini, Milano 1995) e un impegnativo libro di teologia fresco fresco (R. Miggelbrink, «L’ira di Dio. Il significato di una provocante tradizione biblica», Brescia 2005), si può dire che Dio non è insensibile al dolore di chi perde soprattutto per colpa degli uomini. Non è insensibile al grido del sangue di Abele, ma anche alle paure del fuggiasco Caino, che Dio segna perché «nessun tocchi Caino». E si potrebbe continuare con l’Esodo, con i profeti, con S. Giacomo nella sua Lettera.
Ira del Dio della Bibbia che ode il grido e conosce l’ira dei poveri, si direbbe con Paolo VI a quasi quarant’anni dalla «Populorum progressio», già commentata da La Pira. Perché un rischio c’è: quello di non domandarci più il senso di quelle ire e, semmai, misurarle con le nostre rabbie. E il rischio mi pare direttamente proporzionale al tempo passato, - perso? -, davanti alla televisione, perché per sopravvivere, - ora bambini rapiti per estrarre organi; dopo, l’Isola dei famosi o il Grande Fratello, che mi tocca scrivere anche con la lettera maiuscola -, è d’obbligo la perdita della capacità psicologica di sdegnarsi. Pena l’ipocondria. O arrabbiarsi solo se l’ingiustizia la subisco io nella mia vita, cose, idee, valori. Se la subiscono altri, poco importa.
A proposito, «ira di Dio» anche in Paolo, peraltro ingoiata dalla sua grazia sovrabbondante, ma perché con quell’ira è misteriosamente connessa la morte del Figlio. Forse anche nel nostro modo di dire «è costato l’ira di Dio» riecheggia la drammaticità sconcertante tra ira e misericordia nella pasqua di Cristo, per un grazie d’essere liberati dall’ira, trepidanti per non ritrovarsi tra «quelli che muoion nell’ira di Dio», in parole povere «in peccato mortale» nell’ora in cui ... «più panico o meno uccelli».
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Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo. Tratto da: Toscana Oggi
di Carlo Nardi
Perché anche l’ira tra i vizi capitali? E perché, invece, Giuseppe Giusti, tra il serio e il faceto, l’avrebbe messa, - se ben ricordo -, niente meno che «tra i sacramenti»? Un po’ d’ordine non nuoce.
La lista dei vizi capitali ha un perché. Per Platone, - Fedro, Repubblica, Timeo specialmente -, l’anima umana ha tre aspetti: quello razionale che dovrebbe regolare tutto, come l’auriga guida i cavalli. Nell’anima i «cavalli» sono due: c’è una parte oscura, la brama, con parola più tecnica «concupiscenza» (epithymía) nell’ambito degli «appetiti»; c’è la parte chiara, nel campo delle «repulsioni», lo «sdegno» (thymós) o irascibilità. Se vi s’installa un’abitudine cattiva, cattiva per il cattivo uso, ossia l’abuso, l’eccesso dello sdegno, quel vizio non è più l’«irascibilità» in sé, in latino ira, ma l’iracondia, ossia la smania di vendetta col far del male, la «libidine di vendicarsi», nel senso comune della parola (Agostino).
Insomma, dalla «irascibilità» di Platone vengono fuori non solo l’ira o meglio iracondia, ma anche l’accidia e l’invidia. Dal desiderio di avere deriva l’avarizia, intesa come avidità, da quello di piacere gola e lussuria, da quello di potere la superbia, talora considerata un oscuramento dell’intelletto, divenuto guida cieca.
Perciò, già in Platone e poi sopratutto in Aristotele (Etica a Nicomaco) fino a San Tommaso (Il male) e a Dante (Purgatorio), forse fino alla non banale buffonata del Giusti, si distingue tra lo sdegno come tendenza, impulso naturale, e il suo uso o esercizio, che può essere in modo giusto o sbagliato, debito o indebito, buono o cattivo nei fini e nei mezzi. In questo secondo caso l’irascibilità (ira) diventa peccaminosa e viziosa, iracondia (ira mala) che, per odio, nel suo desiderio di distruzione, mira comunque a produrre danno, nutrendosi di invidia, di occhio cattivo.
Le osservazioni di Aristotele sono state apprezzate dai cristiani. In fondo, che uomo sarebbe quello che non si sa sdegnare di fronte all’ingiustizia? Metterebbe a rischio la sua umanità. È significativa, anche se di sapore filosofico, l’aggiunta dell’avverbio «a vanvera» nel testo del discorso della montagna come lo leggiamo in Basilio nella sua predica Contro gli iracondi: «Chi si adira col fratello “a vanvera”, sarà sottoposto al giudizio».
Altri filosofi dell’antichità, gli stoici, intendevano piuttosto estirpare, sradicare ogni ribollimento fin dai suoi primi impulsi. Sulla loro scia, Seneca e Plutarco, stoici peraltro di assai larga osservanza, nelle loro trattazioni sull’ira, si soffermano sulla fenomenologia dell’iracondo. La valutazione morale è implicita, ma immediata, come nei nostri modi di dire: sangue al cervello, fumo al naso, perdita del lume degli occhi, andare in bestia, come un cane arrabbiato, trionfo dell’irrazionalità, fino all’irreparabile, l’omicidio, fino al non ritorno, tra umani la guerra, tra cristiani lo scisma.
Certo, San Basilio introduce un certo razionalismo morale nel suo testo evangelico con la limitazione imposta dall’avverbio «a vanvera». Eppure non intende affatto offrire speciosi motivi per «curare il male col male» nella vendetta, dove, paradossalmente, chi vince perde. Anzi, assumendo argomentazioni dagli antichi, propone rimedi pratici per superare l’ira: immaginarsi allo specchio in quella «breve follia», nello stesso tempo tremendi e ridicoli; tacere, il benedetto mordersi la lingua in quel momento, e, come retroterra, il ricordare esempi e coltivare pensieri di mitezza, bontà, perdono. Comunque, non intende metter su una collezione di modelli lontani o generici valori, ma indurre a lasciarsi plasmare dalla grazia di Cristo. Tanto più che Gesù indica felicità e pienezza di vita nella «mansuetudine» di «chi fa la pace», beatitudini (Mt 5,5.7.9) con cui Basilio (cap. 7), come Dante (Purgatorio), suggellano il loro trattare di ira.
Ma la capacità di «sdegnarsi» a volte è sacrosanta
Poco dopo il 313 un cristiano latino, Lattanzio, scriveva un libro sull’Ira di Dio. Succo dell’opera: Iddio vivo e vero, della Bibbia, vecchio come nuovo testamento, non è un Dio «pacioccone» come quello degli antichi, degli epicurei, che se ne sta lassù, senza voler beghe dalle cose umane. Banalizzando didatticamente, un Dio contento e beato nel suo «nirvana».
Facendo eco all’antico scrittore latino, con una riflessione del card. Carlo Maria Martini («L’ira di Dio e altri scritti» (1962-1994). A cura di S. Giacomini, Milano 1995) e un impegnativo libro di teologia fresco fresco (R. Miggelbrink, «L’ira di Dio. Il significato di una provocante tradizione biblica», Brescia 2005), si può dire che Dio non è insensibile al dolore di chi perde soprattutto per colpa degli uomini. Non è insensibile al grido del sangue di Abele, ma anche alle paure del fuggiasco Caino, che Dio segna perché «nessun tocchi Caino». E si potrebbe continuare con l’Esodo, con i profeti, con S. Giacomo nella sua Lettera.
Ira del Dio della Bibbia che ode il grido e conosce l’ira dei poveri, si direbbe con Paolo VI a quasi quarant’anni dalla «Populorum progressio», già commentata da La Pira. Perché un rischio c’è: quello di non domandarci più il senso di quelle ire e, semmai, misurarle con le nostre rabbie. E il rischio mi pare direttamente proporzionale al tempo passato, - perso? -, davanti alla televisione, perché per sopravvivere, - ora bambini rapiti per estrarre organi; dopo, l’Isola dei famosi o il Grande Fratello, che mi tocca scrivere anche con la lettera maiuscola -, è d’obbligo la perdita della capacità psicologica di sdegnarsi. Pena l’ipocondria. O arrabbiarsi solo se l’ingiustizia la subisco io nella mia vita, cose, idee, valori. Se la subiscono altri, poco importa.
A proposito, «ira di Dio» anche in Paolo, peraltro ingoiata dalla sua grazia sovrabbondante, ma perché con quell’ira è misteriosamente connessa la morte del Figlio. Forse anche nel nostro modo di dire «è costato l’ira di Dio» riecheggia la drammaticità sconcertante tra ira e misericordia nella pasqua di Cristo, per un grazie d’essere liberati dall’ira, trepidanti per non ritrovarsi tra «quelli che muoion nell’ira di Dio», in parole povere «in peccato mortale» nell’ora in cui ... «più panico o meno uccelli».
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Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo. Tratto da: Toscana Oggi
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4-5: GOLA E LUSSURIA: Quando il piacere è fine a se stesso
di Carlo Nardi*
Gola e lussuria, come dire Bacco e Venere, e non di meno tabacco e cenere. È ovvia l’allusione al proverbio «Bacco tabacco e Venere \ riducon l’uomo in cenere». Gola e lussuria abbinate? Intanto, perché - è un altro proverbio, questa volta latino - «se Cerere manca», ossia pane e companatico, «anche Venere è fredda». Dunque, sopravvivenza dell’individuo e sopravvivenza della specie, di cui è spia una duplice fame, innanzi tutto quella di cibo, e poi, a pancia abbastanza piena, quella, non meno allupata, di sesso, tutte e due nell’ambito del «desiderio», in particolare della «concupiscenza della carne», secondo la tripartizione della Prima lettera di s. Giovanni (2,16).
Gola
Certo, «concupiscenza», secondo la definizione scolastica di «amore disordinato delle cose sensibili», si colora di negatività, di tendenziale peccaminosità: è un qualcosa che «deriva dal peccato» almeno quello originale, «ed inclina al peccato» (Concilio di Trento). Eppure, è difficile pensare che alla madre Eva, al vedere così appetitosa quella «benedetta» mela, non fosse venuta l’acquolina in bocca. Con tutto il rispetto per i fiumi d’inchiostro, tra il teologico e il faceto, versati su quella mela, in caso contrario si dovrebbe ammettere un’umanità biologicamente diversa da quella che è. In effetti, la concupiscenza. più che un male, è «una sfida» per una vita umana, che è come dire morale (ancora il Concilio di Trento). Del resto, istinti e impulsi di per sé sono un bene. Quindi: buon appetito, direi con la sensibilità fenomenologica dell’antico Aristotele, ma anche con la signorilità del Padreterno, che, quando si tratta di banchetto da lui imbadito, non fa a miccino: «vini eccellenti, cibi succulenti» (Is 25,6), proprio quelle cose che un’antica eresia, l’encratismo, condannava senza appello - tutti assolutamente astemi e vegetariani! - eresia fondata sull’idea che la materia, nata da uno sbaglio di Dio o fatta da un dio inferiore, è male, che il corpo anche, che le sue pulsioni pure. Figuriamoci, le sostanze inebrianti! Tant’è che c’era chi diceva messa con l’acqua! I cosiddetti aquarii. Certo, la Chiesa se ne accorse e condannò. Ma, come succede, l’eresia, fatta uscire dalla porta, rientrò, come mentalità, sempre ricorrente come tendenza, dalla finestra. Sicché, per non poca ascesi, lo stomaco ci sarebbe per digiunare e per fare a gara a chi mangia di meno, alla ricerca di una «santa» anoressia.
Ma oggi, per noi, che si può dire di sensato ed utile sulla gola, di umano, di cristiano? Che, - forse con l’antico Socrate -, si mangia per vivere e non si vive per mangiare. Parole sante, da sottolineare. Sennò madre natura, - notavano ancora gli antichi -, avrebbe dovuto farci la gola lunga come quella delle gru con tanto di papille gustative per un maggior godío. Il che non è poco per una morale della temperanza, nell’ambito d’una retta ragione che a una riflessione attenta non manca di dire qualcosa di sensato, che il lettore coscienzioso saprà applicare col suo cervello alle situazioni della vita. Anche a proposito di compensazioni, autoconsolazioni, autocommiserazioni, per cui ecco il cioccolatino e il pasticcino, il fiasco del vino e il bicchierino e il grondino. E, come si sa, non c’è due senza tre: e magari si restasse a tre! E con Bacco il tabacco, e d’erba in erba, e «in compagnia prese moglie un frate». Ma non voglio togliere il da fare ai figli d’Ippocrate e di Freud.
Ma non è detto tutto: perché mangiare non è un puro e semplice atto biologico di sopravvivenza. È la gioia di condividere un pezzo di pane, è la tristezza del caviale da soli. Mangiare è comunione, tant’è che la Comunione, con la ci maiuscola, è mangiare, uno dei verbi più ricorrenti nella Sacra Scrittura.
A proposito, perché la manna, da raccogliersi per la porzione di un giorno, se prelevata di più, bacava (Es 16,4-5.16-29)? Perché chi ne prendeva di più, è segno che non si fidava di quel Dio che insegnerà a chiedere «il pane quotidiano» (Mt 6,11) e ne pigliava al prossimo che rimaneva senza. Sicché quel ben di Dio andava a male, come «il lavoro per l’Ascensione», che «va tutto in perdizione», a quanto dicevano i nostri vecchi. Invece, lo stomaco, che, gorgogliando, reclama, fa capire quanto siamo fragili e deboli, dipendenti e bisognosi di Dio, e insegna a dirgli grazie. E poi, se «chi è a pancia piena, non pensa a chi l’ha vuota», - proverbio già in Giovanni Crisostomo (350 circa - 407) -, forse solo una pancia vuota fa capire, con Giobbe, la stoltezza umana di chi «mangia da solo il suo pane senza che ne mangi l’orfano» (Gb 31,17). A proposito di gola, digiuno, quaresima.
Lussuria
La lussuria, come si sa o si dovrebbe sapere, non riguarda il lusso, ma il sesso. Il quale, come la gola, garantisce la sopravvivenza, questa volta del genere umano: non senza un perché si chiamano «genitali». Ma la sessualità umana è una realtà molto complessa, enigmatica e interessante. Intanto, se l’attrazione fisica fosse solo il trucco di madre natura per far figliare, con strane attivazioni di membra che al solo rammentarle fanno ridere (Erasmo), Quello lassù poteva farci riprodurre come i lombrichi: da uno se ne fa due. Tant’è che ora c’è chi s’ingegna in intrugli del genere. O fare andare in caldo ogni cinque anni, come il panda.
D’altra parte, se scopo del sesso fosse esclusivamente il piacere, in una successione di desiderio, eccitazione, ricerca, sfogo, secondo una «concezione idraulica» del medesimo, sesso appunto a sciacquone (Fromm), perché così pochi momenti e centimetri per quest’altro godio, che invece, una volta assaggiato, tende all’infinito? Effetti dei pizzicori delle foglie di fico sui tristi progenitori? Ma poi perché il buon Dio ci avrebbe fatti «bambini» e «bambine», maschi e femmine, se si trattasse solo di dar lo sturo a un troppo pieno?
In realtà, il sesso tende all’unione di «tutto un corpo in un corpo» (Lucrezio). È il mistero della biblica «una sola carne» (Gen 2,23-24; Mc 10,8; Ef 5,29-30): immedesimazione in una distinzione, anzi opposizione, e perciò reciprocità, di lui per lei e lei per lui, di lui con lei e lei con lui, di lui in lei e lei in lui. È unione di persone: il coito, se umano, comincia di solito con un bacio. In quell’unione che vuol essere totale, come se fosse un pozzo (Prov 5,15) soffocato da tanti detriti, - quelli sedimentati dalla lussuria all’insegna dell’«ogni lasciata è persa» o «basta che respiri» -, si può riscontrare un desiderio, anzi una volontà di perennità e vitalità, per un sesso così unitivo ed espressivo da essere umanamente e serenamente procreativo. Certo, neppure nell’esercizio concreto del sesso c’è una unione totale di persone, che sarà data solo nel mondo dei corpi risorti, del cui anelito la verginità è segno particolare e «testimonianza dell’invisibile» (Paolo VI).
Eppure, la Chiesa contemporanea (da Pio XII a Benedetto XVI) e già patristica (Clemente di Alessandria, Metodio, Proba Faltona, il monaco Melezio), nella sua riflessione sull’eros, apprezza quell’atto, con espressivi e piacevoli annessi e connessi. E lo rispetta e stima di molto, a quelle condizioni di unità e fecondità coniugali. Tanto che verrebbe da dire: anche troppo, e troppa grazia in quel ben di Dio che richiede d’esser fatto e vissuto fin troppo bene!
Come si fa? Tanto più in un mondo afrodisiaco (Bergson) nei suoi richiami, stimoli, seduzioni, obblighi e illusioni. Non solo. Fino a quarant’anni or sono, quando ancora una puerpera si sentiva in dovere di «rientrare in santo», l’antico procreazionismo rigido (Agostino) del «non lo fo per amor mio ma per dare figli a Dio» faceva chiaramente capire dov’erano la virtù e il vizio, castità e lussuria. Ora, l’apprezzamento cordiale del valore dell’eros e nel contempo la dottrina del suo significato inscindibilmente unitivo e strutturalmente procreativo suscitano non pochi problemi, per chi, s’intende, vuole avere un po’ di coscienza. Eppure, per non lasciare che la vita di affetti, sentimenti, sensi vada a finire in cenere umanamente infeconda, frutto deludente di lussuria illusoria, è da rendersi dove l’impudicizia si annida, come egoismo, disperazione e rivalsa.
Ancora. Proprio lì, - innanzi tutto nel cervello e poi nel cuore, e anche … tra il bellico e i ginocchi -, per un eros vissuto umanamente, è da scegliere, senza demordere, la sfida morale di un arduo cammino verso la fresca «purità di cuore» evangelica (Mt 5,8). Insomma, consapevolezza vissuta della bontà del sesso e limpidezza che, sola, conosce gratitudine e beatitudine.
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Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo. Tratto da: Toscana Oggi
di Carlo Nardi*
Gola e lussuria, come dire Bacco e Venere, e non di meno tabacco e cenere. È ovvia l’allusione al proverbio «Bacco tabacco e Venere \ riducon l’uomo in cenere». Gola e lussuria abbinate? Intanto, perché - è un altro proverbio, questa volta latino - «se Cerere manca», ossia pane e companatico, «anche Venere è fredda». Dunque, sopravvivenza dell’individuo e sopravvivenza della specie, di cui è spia una duplice fame, innanzi tutto quella di cibo, e poi, a pancia abbastanza piena, quella, non meno allupata, di sesso, tutte e due nell’ambito del «desiderio», in particolare della «concupiscenza della carne», secondo la tripartizione della Prima lettera di s. Giovanni (2,16).
Gola
Certo, «concupiscenza», secondo la definizione scolastica di «amore disordinato delle cose sensibili», si colora di negatività, di tendenziale peccaminosità: è un qualcosa che «deriva dal peccato» almeno quello originale, «ed inclina al peccato» (Concilio di Trento). Eppure, è difficile pensare che alla madre Eva, al vedere così appetitosa quella «benedetta» mela, non fosse venuta l’acquolina in bocca. Con tutto il rispetto per i fiumi d’inchiostro, tra il teologico e il faceto, versati su quella mela, in caso contrario si dovrebbe ammettere un’umanità biologicamente diversa da quella che è. In effetti, la concupiscenza. più che un male, è «una sfida» per una vita umana, che è come dire morale (ancora il Concilio di Trento). Del resto, istinti e impulsi di per sé sono un bene. Quindi: buon appetito, direi con la sensibilità fenomenologica dell’antico Aristotele, ma anche con la signorilità del Padreterno, che, quando si tratta di banchetto da lui imbadito, non fa a miccino: «vini eccellenti, cibi succulenti» (Is 25,6), proprio quelle cose che un’antica eresia, l’encratismo, condannava senza appello - tutti assolutamente astemi e vegetariani! - eresia fondata sull’idea che la materia, nata da uno sbaglio di Dio o fatta da un dio inferiore, è male, che il corpo anche, che le sue pulsioni pure. Figuriamoci, le sostanze inebrianti! Tant’è che c’era chi diceva messa con l’acqua! I cosiddetti aquarii. Certo, la Chiesa se ne accorse e condannò. Ma, come succede, l’eresia, fatta uscire dalla porta, rientrò, come mentalità, sempre ricorrente come tendenza, dalla finestra. Sicché, per non poca ascesi, lo stomaco ci sarebbe per digiunare e per fare a gara a chi mangia di meno, alla ricerca di una «santa» anoressia.
Ma oggi, per noi, che si può dire di sensato ed utile sulla gola, di umano, di cristiano? Che, - forse con l’antico Socrate -, si mangia per vivere e non si vive per mangiare. Parole sante, da sottolineare. Sennò madre natura, - notavano ancora gli antichi -, avrebbe dovuto farci la gola lunga come quella delle gru con tanto di papille gustative per un maggior godío. Il che non è poco per una morale della temperanza, nell’ambito d’una retta ragione che a una riflessione attenta non manca di dire qualcosa di sensato, che il lettore coscienzioso saprà applicare col suo cervello alle situazioni della vita. Anche a proposito di compensazioni, autoconsolazioni, autocommiserazioni, per cui ecco il cioccolatino e il pasticcino, il fiasco del vino e il bicchierino e il grondino. E, come si sa, non c’è due senza tre: e magari si restasse a tre! E con Bacco il tabacco, e d’erba in erba, e «in compagnia prese moglie un frate». Ma non voglio togliere il da fare ai figli d’Ippocrate e di Freud.
Ma non è detto tutto: perché mangiare non è un puro e semplice atto biologico di sopravvivenza. È la gioia di condividere un pezzo di pane, è la tristezza del caviale da soli. Mangiare è comunione, tant’è che la Comunione, con la ci maiuscola, è mangiare, uno dei verbi più ricorrenti nella Sacra Scrittura.
A proposito, perché la manna, da raccogliersi per la porzione di un giorno, se prelevata di più, bacava (Es 16,4-5.16-29)? Perché chi ne prendeva di più, è segno che non si fidava di quel Dio che insegnerà a chiedere «il pane quotidiano» (Mt 6,11) e ne pigliava al prossimo che rimaneva senza. Sicché quel ben di Dio andava a male, come «il lavoro per l’Ascensione», che «va tutto in perdizione», a quanto dicevano i nostri vecchi. Invece, lo stomaco, che, gorgogliando, reclama, fa capire quanto siamo fragili e deboli, dipendenti e bisognosi di Dio, e insegna a dirgli grazie. E poi, se «chi è a pancia piena, non pensa a chi l’ha vuota», - proverbio già in Giovanni Crisostomo (350 circa - 407) -, forse solo una pancia vuota fa capire, con Giobbe, la stoltezza umana di chi «mangia da solo il suo pane senza che ne mangi l’orfano» (Gb 31,17). A proposito di gola, digiuno, quaresima.
Lussuria
La lussuria, come si sa o si dovrebbe sapere, non riguarda il lusso, ma il sesso. Il quale, come la gola, garantisce la sopravvivenza, questa volta del genere umano: non senza un perché si chiamano «genitali». Ma la sessualità umana è una realtà molto complessa, enigmatica e interessante. Intanto, se l’attrazione fisica fosse solo il trucco di madre natura per far figliare, con strane attivazioni di membra che al solo rammentarle fanno ridere (Erasmo), Quello lassù poteva farci riprodurre come i lombrichi: da uno se ne fa due. Tant’è che ora c’è chi s’ingegna in intrugli del genere. O fare andare in caldo ogni cinque anni, come il panda.
D’altra parte, se scopo del sesso fosse esclusivamente il piacere, in una successione di desiderio, eccitazione, ricerca, sfogo, secondo una «concezione idraulica» del medesimo, sesso appunto a sciacquone (Fromm), perché così pochi momenti e centimetri per quest’altro godio, che invece, una volta assaggiato, tende all’infinito? Effetti dei pizzicori delle foglie di fico sui tristi progenitori? Ma poi perché il buon Dio ci avrebbe fatti «bambini» e «bambine», maschi e femmine, se si trattasse solo di dar lo sturo a un troppo pieno?
In realtà, il sesso tende all’unione di «tutto un corpo in un corpo» (Lucrezio). È il mistero della biblica «una sola carne» (Gen 2,23-24; Mc 10,8; Ef 5,29-30): immedesimazione in una distinzione, anzi opposizione, e perciò reciprocità, di lui per lei e lei per lui, di lui con lei e lei con lui, di lui in lei e lei in lui. È unione di persone: il coito, se umano, comincia di solito con un bacio. In quell’unione che vuol essere totale, come se fosse un pozzo (Prov 5,15) soffocato da tanti detriti, - quelli sedimentati dalla lussuria all’insegna dell’«ogni lasciata è persa» o «basta che respiri» -, si può riscontrare un desiderio, anzi una volontà di perennità e vitalità, per un sesso così unitivo ed espressivo da essere umanamente e serenamente procreativo. Certo, neppure nell’esercizio concreto del sesso c’è una unione totale di persone, che sarà data solo nel mondo dei corpi risorti, del cui anelito la verginità è segno particolare e «testimonianza dell’invisibile» (Paolo VI).
Eppure, la Chiesa contemporanea (da Pio XII a Benedetto XVI) e già patristica (Clemente di Alessandria, Metodio, Proba Faltona, il monaco Melezio), nella sua riflessione sull’eros, apprezza quell’atto, con espressivi e piacevoli annessi e connessi. E lo rispetta e stima di molto, a quelle condizioni di unità e fecondità coniugali. Tanto che verrebbe da dire: anche troppo, e troppa grazia in quel ben di Dio che richiede d’esser fatto e vissuto fin troppo bene!
Come si fa? Tanto più in un mondo afrodisiaco (Bergson) nei suoi richiami, stimoli, seduzioni, obblighi e illusioni. Non solo. Fino a quarant’anni or sono, quando ancora una puerpera si sentiva in dovere di «rientrare in santo», l’antico procreazionismo rigido (Agostino) del «non lo fo per amor mio ma per dare figli a Dio» faceva chiaramente capire dov’erano la virtù e il vizio, castità e lussuria. Ora, l’apprezzamento cordiale del valore dell’eros e nel contempo la dottrina del suo significato inscindibilmente unitivo e strutturalmente procreativo suscitano non pochi problemi, per chi, s’intende, vuole avere un po’ di coscienza. Eppure, per non lasciare che la vita di affetti, sentimenti, sensi vada a finire in cenere umanamente infeconda, frutto deludente di lussuria illusoria, è da rendersi dove l’impudicizia si annida, come egoismo, disperazione e rivalsa.
Ancora. Proprio lì, - innanzi tutto nel cervello e poi nel cuore, e anche … tra il bellico e i ginocchi -, per un eros vissuto umanamente, è da scegliere, senza demordere, la sfida morale di un arduo cammino verso la fresca «purità di cuore» evangelica (Mt 5,8). Insomma, consapevolezza vissuta della bontà del sesso e limpidezza che, sola, conosce gratitudine e beatitudine.
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Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo. Tratto da: Toscana Oggi
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6. ACCIDIA: La tentazione di cedere allo scoraggiamento
di Stefano Grossi *
Accidia. Questa parola è probabilmente poco familiare alla maggior parte della cultura moderna, non così l’esperienza che descrive e sintetizza: il desiderio, accompagnato da una certa tristezza, di fuggire dal compito che in quel preciso momento siamo chiamati a svolgere. Ricordo una simpatica mattonella che, riportando il decalogo del pigro, al primo articolo recitava: «non fare oggi ciò che potresti fare domani» e «se ti viene voglia di fare qualcosa, fermati! Vedrai che ti passa». Ecco una semplice, anche se parziale, immagine dell’accidia.
Questo termine non proviene tanto dalla tradizione biblica quanto da quella monastica dei primi secoli del cristianesimo - tra i più importanti ricordo: Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico - per poi arricchirsi nelle successive riflessioni teologiche. Tuttavia anche se «accidia» non compare nella Scrittura non mancano riferimenti a questa difficoltà interiore; basti citare il Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri» (30,31) o anche s. Paolo che parla di una «tristezza secondo il mondo» che conduce alla morte (2Cor 7,10).
L’accidia appare prima di tutto come uno stato d’animo negativo intessuto di scoraggiamento, di noia, di pesantezza, in questo manifestarsi però essa non è ancora peccato, ma solo tentazione. Peccato vero e proprio è cedere a questo sentimento e fuggire, fisicamente o con la mente, dall’attività intrapresa o che si dovrebbe intraprendere di lì a poco. L’accidia dice la difficoltà di fare oggetto del nostro pensiero e della nostra volontà un bene che non è ancora presente; è un segno del conflitto che può nascere in noi per dover scegliere tra cercare una soddisfazione materiale immediata, pur piccola, e impegnarsi per raggiungerne una più grande, spirituale, ma posta nel futuro.
Sentimento per sua natura oscuro, confuso, sfuggente, l’accidia è capace di molteplici manifestazioni talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite da una medesima radice: l’annebbiamento della gerarchia del valore delle diverse situazioni, per cui tutto sembra farsi grigio ed omogeneo. Da un lato, infatti, troviamo gli atteggiamenti caratterizzati dal rimandare scelte e azioni; dallo sminuire l’importanza dei compiti affidatici; dallo svalutare l’urgenza di affrontare le situazioni che ci si presentano; dal non prendere sul serio responsabilità e doveri; dalla leggerezza e superficialità nell’operare che non fa differenza tra il portare a compimento qualcosa o lasciarla a mezzo. Dall’altro lato - con un aspetto meno evidente da collegare all’accidia - stanno gli atteggiamenti opposti: l’attivismo che vuole riempire ogni momento del tempo con qualcosa per paura di doversi fermare a riflettere; la frenesia del consumare novità di ogni genere con la scusa che più esperienze si fanno - non importa quali - più la vita si arricchisce; il dilettantismo del passare da continuamente da un impegno all’altro per timore di coinvolgersi troppo con persone e situazioni; l’irrequietezza di cambiare sbandierando la pretesa di inseguire un mai precisato «meglio». In modo più sottile e ipocrita, perché si ammantano di dinamicità e apertura, anche questi ultimi in fondo dicono che non esiste nulla di realmente importante a parte se stessi e le proprie sensazioni, che nulla e nessuno è in se stesso degno di fedeltà, sacrificio e dedizione.
Accanto a queste forme individuali, il card. Martini, appena prima di iniziare il Giubileo, in un discorso nella vigilia di s. Ambrogio centrava l’attenzione sulla manifestazione sociale di questo male oscuro. Esiste anche una «accidia pubblica o politica» fatta di esaltazione della moderazione come mediocrità e di chi se ne fa ad ogni livello unico portabandiera; di una piatta neutralità; di un’incapacità timida e impaurita, ma elevata a virtù, di valutare oggettivamente ed eticamente le situazioni; di incapacità di proporre qualcosa di diverso da una convivenza fiacca, opaca, frammentata, che genera una società senza forma e tuttavia, attraverso l’adulazione dei media, capace di addormentare le coscienze dei singoli e dei gruppi.
Contro un nemico così sfuggente e multiforme, quasi fatto d’ombra, la tradizione spirituale cristiana individua le armi più efficaci nella resistenza e nella costanza amorosa - per dirla in una parola nella virtù della fortezza, dono dello Spirito Santo - applicate a tutti gli atti dell’esistenza: da quelli spirituali a quelli materiali.
Diviene così fondamentale imparare a mantenersi vigili e coscienti del presente; imporsi metodo e disciplina nelle azioni; esercitare con costanza ed esigenza la veracità verso se stessi e gli altri; vivere la speranza attiva e paziente del costruire giorno per giorno. Infine, visto che l’accidia pretende di prendersi troppo sul serio e ingigantisce l’importanza della propria tristezza, ottimo antidoto è una buona dose di autoironia che con una risata sappia farci riportare le cose che ci coinvolgono alla loro giusta proporzione.
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Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, vi tiene corsi di antropologia e di etica. Tratto da: Toscana Oggi
di Stefano Grossi *
Accidia. Questa parola è probabilmente poco familiare alla maggior parte della cultura moderna, non così l’esperienza che descrive e sintetizza: il desiderio, accompagnato da una certa tristezza, di fuggire dal compito che in quel preciso momento siamo chiamati a svolgere. Ricordo una simpatica mattonella che, riportando il decalogo del pigro, al primo articolo recitava: «non fare oggi ciò che potresti fare domani» e «se ti viene voglia di fare qualcosa, fermati! Vedrai che ti passa». Ecco una semplice, anche se parziale, immagine dell’accidia.
Questo termine non proviene tanto dalla tradizione biblica quanto da quella monastica dei primi secoli del cristianesimo - tra i più importanti ricordo: Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico - per poi arricchirsi nelle successive riflessioni teologiche. Tuttavia anche se «accidia» non compare nella Scrittura non mancano riferimenti a questa difficoltà interiore; basti citare il Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri» (30,31) o anche s. Paolo che parla di una «tristezza secondo il mondo» che conduce alla morte (2Cor 7,10).
L’accidia appare prima di tutto come uno stato d’animo negativo intessuto di scoraggiamento, di noia, di pesantezza, in questo manifestarsi però essa non è ancora peccato, ma solo tentazione. Peccato vero e proprio è cedere a questo sentimento e fuggire, fisicamente o con la mente, dall’attività intrapresa o che si dovrebbe intraprendere di lì a poco. L’accidia dice la difficoltà di fare oggetto del nostro pensiero e della nostra volontà un bene che non è ancora presente; è un segno del conflitto che può nascere in noi per dover scegliere tra cercare una soddisfazione materiale immediata, pur piccola, e impegnarsi per raggiungerne una più grande, spirituale, ma posta nel futuro.
Sentimento per sua natura oscuro, confuso, sfuggente, l’accidia è capace di molteplici manifestazioni talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite da una medesima radice: l’annebbiamento della gerarchia del valore delle diverse situazioni, per cui tutto sembra farsi grigio ed omogeneo. Da un lato, infatti, troviamo gli atteggiamenti caratterizzati dal rimandare scelte e azioni; dallo sminuire l’importanza dei compiti affidatici; dallo svalutare l’urgenza di affrontare le situazioni che ci si presentano; dal non prendere sul serio responsabilità e doveri; dalla leggerezza e superficialità nell’operare che non fa differenza tra il portare a compimento qualcosa o lasciarla a mezzo. Dall’altro lato - con un aspetto meno evidente da collegare all’accidia - stanno gli atteggiamenti opposti: l’attivismo che vuole riempire ogni momento del tempo con qualcosa per paura di doversi fermare a riflettere; la frenesia del consumare novità di ogni genere con la scusa che più esperienze si fanno - non importa quali - più la vita si arricchisce; il dilettantismo del passare da continuamente da un impegno all’altro per timore di coinvolgersi troppo con persone e situazioni; l’irrequietezza di cambiare sbandierando la pretesa di inseguire un mai precisato «meglio». In modo più sottile e ipocrita, perché si ammantano di dinamicità e apertura, anche questi ultimi in fondo dicono che non esiste nulla di realmente importante a parte se stessi e le proprie sensazioni, che nulla e nessuno è in se stesso degno di fedeltà, sacrificio e dedizione.
Accanto a queste forme individuali, il card. Martini, appena prima di iniziare il Giubileo, in un discorso nella vigilia di s. Ambrogio centrava l’attenzione sulla manifestazione sociale di questo male oscuro. Esiste anche una «accidia pubblica o politica» fatta di esaltazione della moderazione come mediocrità e di chi se ne fa ad ogni livello unico portabandiera; di una piatta neutralità; di un’incapacità timida e impaurita, ma elevata a virtù, di valutare oggettivamente ed eticamente le situazioni; di incapacità di proporre qualcosa di diverso da una convivenza fiacca, opaca, frammentata, che genera una società senza forma e tuttavia, attraverso l’adulazione dei media, capace di addormentare le coscienze dei singoli e dei gruppi.
Contro un nemico così sfuggente e multiforme, quasi fatto d’ombra, la tradizione spirituale cristiana individua le armi più efficaci nella resistenza e nella costanza amorosa - per dirla in una parola nella virtù della fortezza, dono dello Spirito Santo - applicate a tutti gli atti dell’esistenza: da quelli spirituali a quelli materiali.
Diviene così fondamentale imparare a mantenersi vigili e coscienti del presente; imporsi metodo e disciplina nelle azioni; esercitare con costanza ed esigenza la veracità verso se stessi e gli altri; vivere la speranza attiva e paziente del costruire giorno per giorno. Infine, visto che l’accidia pretende di prendersi troppo sul serio e ingigantisce l’importanza della propria tristezza, ottimo antidoto è una buona dose di autoironia che con una risata sappia farci riportare le cose che ci coinvolgono alla loro giusta proporzione.
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Don Stefano Grossi, docente di filosofia alla Facolta Teologica dell’Italia Centrale, vi tiene corsi di antropologia e di etica. Tratto da: Toscana Oggi
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7. INVIDIA: Quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione
di Guglielmo Borghetti *
«Per cosa sono da meno di lui? Per intelligenza? Per ricchezza interiore? Per sensibilità? Per forza? Per importanza? Perché devo subire la sua superiorità?» Così s’interroga Nicolaj Kavalerov, protagonista del romanzo Invidia (1928) di Jurij Olesa, scrittore sovietico, meditando rancore sul suo nemico personale Babicev, che rappresenta ai suoi occhi un concentrato di negatività assolute.
Come tutti i vizi capitali l’invidia è antica come l’uomo; a differenza della superbia, della gola della lussuria, l’invidia è forse l’unico vizio che non procura piacere; evidentemente le sue radici nascoste affondano nel nucleo profondo di noi stessi dove si raccoglie la nostra identità che per costituirsi e crescere ha bisogno del riconoscimento; quando questo manca, l’identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza ed entra in scena l’invidia che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro; oltre ad essere un vizio è un meccanismo di difesa, disperato tentativo maldestro di recuperare la fiducia e la stima di se stessi impedendo la caduta del proprio valore svalutando l’altro; questa è la strategia dell’invidioso: svalutare le persone percepite come «migliori» di sé non solo in pensieri e parole, ma anche danneggiando il malcapitato invidiato considerato colpevole di farsi apprezzare e stimare dagli altri più del dovuto, più di quanto non lo sia l’invidiante. Non confondiamo invidia e gelosia: la prima è risentimento verso qualcosa che qualcuno ha, ma che non mi appartiene; la seconda è la paura che qualcuno mi porti via ciò che già ho; l’invidia è figlia della frustrazione e di un senso di impossibilità a realizzarsi che si riflette in un odio distruttivo verso l’altro; l’invidioso «è un carnefice di se stesso» (S. Pier Crisologo) e di chi gli è vicino.
Nella società della competizione, del successo e della nuova ricchezza l’invidia cresce a dismisura, è proporzionale all’esibizione esagerata di pochi contro il disagio e la delusione di molti. Il sociologo Paolo De Nardis parla dell’invidia nel suo L’Invidia. Un rompicapo per le scienze sociali (2000) e avanza l’interrogativo se l’invidia non sia un peccato capitale della nostra società: così Helmut Schoeck nel suo L’invidia e la società (1974) dimostra che l’invidia è uno dei più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitalistiche e c’è anche chi annota che l’invidia è stata considerata una pecca della democrazia già dal mondo greco, dalle Vespe di Aristofane fino alle acute analisi di Tocqueville. In una società in cui tutti sono uguali ci si chiede perché tizio è più ricco o più famoso di me. Anche per F. Nietzsche è tipico di tutti i movimenti egualitari - cristianesimo, socialismo, democrazia -, avere uno spirito gregario: il gregge si difende odiando e invidiando chi sta sopra e sostiene che l’inferno è un’invenzione dei cristiani che si trovano al fondo della classe sociale. Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite. Mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale o prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia veste i panni della virtù e si trasforma in istanza di giustizia.
L’invidia è un sentimento che non sopporta il limite naturale in forza di una pressione sociale, perché è la società a decidere il valore degli individui, e nella società contemporanea il criterio di decisione è il successo. Il sentirsi limitati e impotenti ha un carattere costitutivamente relazionale nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale; quando la società fa mancare il riconoscimento produce la metamorfosi dell’impotenza in invidia e aumenta al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo senza riuscire a valorizzare chi lo prova; è proprio questa la ragione per cui l’invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza.
L’invidia in questa prospettiva oltre un vizio capitale è un indotto sociale, e, fatta salva l’istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento «inutile» perché non approda alla valorizzazione di sé, «doloroso» perché rabbuia e impoverisce il mondo e per giunta è un sentimento da tenere «nascosto» senza neppure il conforto che può venire dal parlarne con qualcuno; pochissimi, infatti, parlano chiaramente e volentieri dell’invidia che provano: parlarne apertamente inibisce perché è come mettersi a nudo, svelare la parte più meschina e vulnerabile di sé; parlare della persona che si invidia e spiegare il perché significa parlare della parte più profonda di se stessi, delle aspirazioni e dei fallimenti personali, delle difficoltà e dei limiti che si trovano in noi stessi.
Nel libro della Sapienza si ricorda che «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap. 2,24); il testo sacro collega il limite dell’umanità ad un peccato d’invidia e Satana è l’invidioso per eccellenza. Percorrendo la Sacra Scrittura emerge un filo sapienzale, da Caino a Saul che mostra come l’invidia nasca dalla grandezza dell’altro non accolta e diventata elemento di confronto e rivela un senso di sconfitta. Chesterton dice che l’uomo che non è invidioso vede le rose più rosse degli altri, l’erba più verde e il sole più abbagliante, mentre l’invidioso le vive con disperazione. Uno sguardo purificato aiuta a cogliere il valore delle cose, la loro intima bellezza e non riduce tutto all’oggetto da catturare e possedere ad ogni costo.
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Don Guglielmo Borghetti è Preside dello Studio Teologico Interdiocesano «Mons. E. Bartoletti» di Camaiore. È docente di atropologia filosofica ed etica e di psicologia della religione. Tratto da: Toscana Oggi
di Guglielmo Borghetti *
«Per cosa sono da meno di lui? Per intelligenza? Per ricchezza interiore? Per sensibilità? Per forza? Per importanza? Perché devo subire la sua superiorità?» Così s’interroga Nicolaj Kavalerov, protagonista del romanzo Invidia (1928) di Jurij Olesa, scrittore sovietico, meditando rancore sul suo nemico personale Babicev, che rappresenta ai suoi occhi un concentrato di negatività assolute.
Come tutti i vizi capitali l’invidia è antica come l’uomo; a differenza della superbia, della gola della lussuria, l’invidia è forse l’unico vizio che non procura piacere; evidentemente le sue radici nascoste affondano nel nucleo profondo di noi stessi dove si raccoglie la nostra identità che per costituirsi e crescere ha bisogno del riconoscimento; quando questo manca, l’identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza ed entra in scena l’invidia che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro; oltre ad essere un vizio è un meccanismo di difesa, disperato tentativo maldestro di recuperare la fiducia e la stima di se stessi impedendo la caduta del proprio valore svalutando l’altro; questa è la strategia dell’invidioso: svalutare le persone percepite come «migliori» di sé non solo in pensieri e parole, ma anche danneggiando il malcapitato invidiato considerato colpevole di farsi apprezzare e stimare dagli altri più del dovuto, più di quanto non lo sia l’invidiante. Non confondiamo invidia e gelosia: la prima è risentimento verso qualcosa che qualcuno ha, ma che non mi appartiene; la seconda è la paura che qualcuno mi porti via ciò che già ho; l’invidia è figlia della frustrazione e di un senso di impossibilità a realizzarsi che si riflette in un odio distruttivo verso l’altro; l’invidioso «è un carnefice di se stesso» (S. Pier Crisologo) e di chi gli è vicino.
Nella società della competizione, del successo e della nuova ricchezza l’invidia cresce a dismisura, è proporzionale all’esibizione esagerata di pochi contro il disagio e la delusione di molti. Il sociologo Paolo De Nardis parla dell’invidia nel suo L’Invidia. Un rompicapo per le scienze sociali (2000) e avanza l’interrogativo se l’invidia non sia un peccato capitale della nostra società: così Helmut Schoeck nel suo L’invidia e la società (1974) dimostra che l’invidia è uno dei più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitalistiche e c’è anche chi annota che l’invidia è stata considerata una pecca della democrazia già dal mondo greco, dalle Vespe di Aristofane fino alle acute analisi di Tocqueville. In una società in cui tutti sono uguali ci si chiede perché tizio è più ricco o più famoso di me. Anche per F. Nietzsche è tipico di tutti i movimenti egualitari - cristianesimo, socialismo, democrazia -, avere uno spirito gregario: il gregge si difende odiando e invidiando chi sta sopra e sostiene che l’inferno è un’invenzione dei cristiani che si trovano al fondo della classe sociale. Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite. Mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale o prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia veste i panni della virtù e si trasforma in istanza di giustizia.
L’invidia è un sentimento che non sopporta il limite naturale in forza di una pressione sociale, perché è la società a decidere il valore degli individui, e nella società contemporanea il criterio di decisione è il successo. Il sentirsi limitati e impotenti ha un carattere costitutivamente relazionale nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale; quando la società fa mancare il riconoscimento produce la metamorfosi dell’impotenza in invidia e aumenta al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo senza riuscire a valorizzare chi lo prova; è proprio questa la ragione per cui l’invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza.
L’invidia in questa prospettiva oltre un vizio capitale è un indotto sociale, e, fatta salva l’istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento «inutile» perché non approda alla valorizzazione di sé, «doloroso» perché rabbuia e impoverisce il mondo e per giunta è un sentimento da tenere «nascosto» senza neppure il conforto che può venire dal parlarne con qualcuno; pochissimi, infatti, parlano chiaramente e volentieri dell’invidia che provano: parlarne apertamente inibisce perché è come mettersi a nudo, svelare la parte più meschina e vulnerabile di sé; parlare della persona che si invidia e spiegare il perché significa parlare della parte più profonda di se stessi, delle aspirazioni e dei fallimenti personali, delle difficoltà e dei limiti che si trovano in noi stessi.
Nel libro della Sapienza si ricorda che «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap. 2,24); il testo sacro collega il limite dell’umanità ad un peccato d’invidia e Satana è l’invidioso per eccellenza. Percorrendo la Sacra Scrittura emerge un filo sapienzale, da Caino a Saul che mostra come l’invidia nasca dalla grandezza dell’altro non accolta e diventata elemento di confronto e rivela un senso di sconfitta. Chesterton dice che l’uomo che non è invidioso vede le rose più rosse degli altri, l’erba più verde e il sole più abbagliante, mentre l’invidioso le vive con disperazione. Uno sguardo purificato aiuta a cogliere il valore delle cose, la loro intima bellezza e non riduce tutto all’oggetto da catturare e possedere ad ogni costo.
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Don Guglielmo Borghetti è Preside dello Studio Teologico Interdiocesano «Mons. E. Bartoletti» di Camaiore. È docente di atropologia filosofica ed etica e di psicologia della religione. Tratto da: Toscana Oggi
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CONCLUSIONE
Esiste ancora il senso del peccato?
Si conclude il nostro viaggio tra i «vizi capitali»
La nostra inchiesta di questa settimana sulla confessione e il senso del peccato conclude il «viaggio» che Toscanaoggi ha proposto ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima. Un percorso che ha avuto al centro quelli che la tradizione cristiana ha catalogato come i «sette peccati capitali»: i vizi a cui si possono ricondurre tutti i peccati umani.
Un elenco antico, ma ancora attuale: accompagnati da illustri teologi, canonisti e moralisti, abbiamo potuto sperimentarecome questi peccati sono stati interpretati nel corso della storia, ma soprattutto vedremo come ancora oggi tanti nostri comportamenti quotidiani possono essere giudicati secondo queste categorie.
Il percorso è iniziato sul numero 9 con una introduzione generale e la scheda sull’avarizia. Sul numero 10 gli articoli relativi a ira e superbia; sul numero 11 un unico articolo ha preso in esame insieme gola e lussuria. Sul numero 12, le ultime due schede su accidia e invidia. Tra gli autori don Carlo Nardi, docente di patristica; don Stefano Grossi, docente di antropologia e di etica; mons. Andrea Drigani, docente di diritto canonico; don Guglielmo Borghetti, docente di antropologia filosofica, etica e di psicologia della religione.
di Nicoletta Benini
«Il peccato è un’offesa a Dio»: così nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1850). E ancora al Salmo 51: «Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto». Il problema del male e di conseguenza del peccato nasce insieme al mondo; Sant’Agostino si chiedeva: «Quaerebam unde malum et non erat exitus» («Mi chiedevo donde il male, e non sapevo darmi risposta»), e ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo (412) «Ma perché Dio non ha impedito all’uomo di peccare?» Risponde, tra gli altri, San Tommaso d’Aquino: «Nulla si oppone al fatto che la natura umana sia destinata ad un fine più alto dopo il peccato. Dio permette, infatti, che ci siano i mali per trarne da essi un bene più grande. Da qui il detto di San Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”».
Nelle nostre giornate così rumorose, affogate tra fretta e ansie di ogni tipo dove trova posto il peccato? O meglio, ha ancora senso parlare di peccato, di colpa verso Dio? L’uomo di oggi ha voglia e tempo di soffermarsi a riflettere su questo, magari nell’ombra quieta di un confessionale? Voci unanimi dicono di no per la maggior parte, anche se per alcuni ci sono delle eccezioni. Abbiamo cercato di approfondire l’argomento con chi, in materia, se ne intende ed è tutti giorni a contatto con tante persone e con i loro problemi di vita.
Per don Leopoldo Genovesi, della Cattedrale di Pitigliano, «c’è una diminuzione del senso di Dio con un pericoloso smarrimento d’identità dell’uomo e di conseguenza una totale perdita di senso del peccato. Nel periodo del dopo-cresima si nota una diffusa disaffezione da parte dei giovani, con un rapido e massiccio allontanamento dai sacramenti. Le persone non si confessano, ma a volte è colpa anche di noi sacerdoti poco attenti alle loro vite stressanti; la tendenza del Cristianesimo è stata quella di ridursi ad un piano comunitario e sociale trascurando l’aspetto personale di una vita in Grazia di Dio. In passato s’insisteva su un Dio giudice che castiga l’uomo peccatore, oggi coloro che, per esempio, si recano a Collevalenza, alla Chiesa dell’Amore Misericordioso, hanno subito la certezza di trovarsi di fronte ad un Dio buono, compassionevole che cerca l’uomo con un amore instancabile. Dio è un Padre che perdona, che dimentica le offese, questo è quanto dico continuamente ai miei fedeli: il momento della confessione deve essere vissuto come un tempo di festa e di riconciliazione». «In questo tempo - aggiunge don Leopoldo - di “relativismo etico e soggettivismo morale” come ha sottolineato Papa Benedetto XVI ognuno crede di poter fare da solo, anche di giustificare un peccato come tale, mentre metro per giudicare quando un peccato è tale, sono i dieci Comandamenti, la Legge di Dio. Il peccato è il nostro no a questa Legge di Dio. C’è un abuso oggi della frase: “secondo la mia coscienza”, ma questa coscienza per essere usata come ago della bilancia, deve avere un punto di riferimento, dev’essere retta e guidata da Dio e dal Magistero della Chiesa; invece purtroppo oggi la gente è disorientata e nell’incertezza si preferisce non avvicinarsi al confessionale: comportamenti troppo sbagliati, situazioni troppo difficili portano le persone sempre più lontane dalla confessione vissuta solo come un ostacolo troppo grande da superare; non si è più attenti al peccato e al peccato verso Dio, ma solo verso gli altri il che non è sbagliato di per sé, ma non è tutto».
Per mons. Simone Giusti, Direttore dell’Ufficio Catechistico Regionale e parroco a Cascine di Buti: «Oggi il senso del peccato si radica in grandi sensi di colpa, preludio comunque di una ricerca spirituale. Le persone vivono grandi fallimenti e grandi desideri di riscatto. Durante il periodo della benedizione delle famiglie ho avuto modo di ascoltare tante persone, le quali desideravano molto dialogare e alleggerirsi di questi personali sensi di colpa. Da questo si può comunque partire per arrivare ad una riflessione più profonda sul significato del peccato, attraverso una maggiore conoscenza di Dio e della sua redenzione: penso a persone che si sentono in colpa perché hanno abortito, o perché il loro matrimonio è fallito, o a una madre il cui figlio ha scoperto essere una prostituta; queste persone hanno bisogno di essere cercate e di sapere di essere perdonate da Dio. Dobbiamo fare l’evangelizzazione del senso di colpa liberandocene, per far riscoprire l’autentico senso del peccato e della redenzione».
«Seguo da tempo coppie in crisi - racconta ancora mons. Giusti - e cerco insieme a loro di evangelizzare la rabbia, il dolore, la sofferenza per portarli a comprendere che attraverso il loro peccato, può iniziare un percorso nuovo di fede che li porti a Dio. Certo quando nel Vangelo di Giovanni leggiamo le parole che Gesù disse alla donna adultera: “Va e non peccare più” ,capiamo anche che non si tratta di un Dio superficiale, ma di un Dio che comunque chiede una conversione. La confessione allora dev’essere vissuta come un’opportunità e sono contento di poter dire che da quando nella mia parrocchia ho rimesso la figura del ’confessore straordinario’, per una volta la settimana, e che chiaramente non è il parroco, sono molte le persone che si confessano; inoltre, una volta al mese, nell’incontro per i giovani c’è da parte loro una ripresa fortissima di questo sacramento. Si devono quindi anche creare le occasioni, le opportunità; per esempio io, non molto favorevole ai pellegrinaggi, mi sono ricreduto e durante degli Esercizi Spirituali itineranti a Fatima ho potuto notare quanto, in questo tempo particolare, le persone si siano avvicinate alla confessione e quindi alla riconciliazione con Dio».
Anche per padre Massimo Maria, Priore della Fraternità Monastica di Gerusalemme, presso la Badia Fiorentina a Firenze: «Oggi è molto più diffuso il senso di colpa, ma non il senso del peccato; non si può però avere il senso del peccato se non si è incontrato Dio. Il senso di colpa tipico della società contemporanea evidenzia un ripiegamento dell’uomo su stesso, mentre il senso del peccato è una mancanza di amore verso Dio. Dobbiamo aiutare la gente ad entrare con fiducia nel sacramento della confessione, molti oggi confondono la confessione come l’incontro da uno psicologo, ma la vita spirituale è molto più profonda di un colloquio di analisi psicologica. C’è un forte bisogno di ascolto e noi attraverso questi tempi dedicati agli altri, possiamo portare la gente a scoprire il vero volto di Dio, volto di amore e di perdono».
«Verso i 45 /50 anni - conclude padre Massimo Maria - noto che le persone s’interrogano di più sulla vita e su cosa veramente è importante, su dov’è l’essenziale, dobbiamo quindi cercare di distogliere il loro sguardo da se stessi e dai loro sensi di colpa per aiutarli a volgere lo sguardo verso il Signore sperimentando la sua misericordia. Troppo spesso il Cristianesimo viene visto sotto una luce puramente moralistica, come un insieme di cose che si possono o non possono fare, invece il Cristianesimo è prima di tutto un incontro, un incontro con Dio e con il suo Amore».
Tratto da: Toscana Oggi
(Gv 16,29-33) Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!
VANGELO
(Gv 16,29-33) Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, dissero i discepoli a Gesù: «Ecco, ora parli apertamente e non più in modo velato. Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno t’interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio».Rispose loro Gesù: «Adesso credete? Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me.Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!».
Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
dalla preghiera di colletta
Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo, perché aderiamo pienamente alla tua volontà, per testimoniarla con amore di figli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Come siamo ingenui a volte, proprio come i discepoli... crediamo di aver capito tutto, di poter essere capaci di seguire Gesù, ma poi alla minima difficoltà ci facciamo prendere dal panico o dalla nostra natura umana umana.
Ma Gesù che ci conosce bene ci avverte, non sarà facile, perchè tutto ci remerà contro. Il principe della terra è scatenato nella sua lotta per dividerci da Dio, conosce le nostre debolezze e si insinua da tutte le parti.
Dobbiamo essere forti e non cedere, non pensare a noi e la nostro amor proprio, ma solo al progetto di Dio per noi.
Non siamo soli, lo Spirito Santo ci segue e ci assiste ogni giorno. Nell' angoscia del getzemani, Gesù era solo, gli amici lo avevano abbandonato, ma Lui stesso afferma di aver sentito il conforto del Padre in quei momenti, e ci promette di essere con noi anche nei momenti della nostra angoscia. Se ci sembra lontano, siamo noi che ci stiamo allontanando, se ci sembra di non sentirlo... diciamo come Gesù, non la mia volontà, ma la Tua sia fatta... e lo ritroveremo.
Nella 1° lettura troviamo delle parole che dicono molto a chi vuole capire. Essere battezzati con lo Spirito della fede, significa che dopo aver ricevuto il battesimo con acqua bisogna aderire alla fede in Gesù Cristo, annunciato da Giovanni. Ma aderire a Gesù, è una scelta, una decisione, che Dio non ci impone, ma ci chiede. Vivere sulla terra così piena di lustrini, fa brillare gli occhi, abbaglia e fa perdere il senso della vita stessa. Anche gli apostoli hanno tardato a capire che Gesù non gli parlava di una felicità terrena, ma di una fede terrena. E’ questo che ci chiede, di credere in Lui nonostante le apparenze, di credere che Non saremo abbandonati a noi stessi, come non è abbandonato Lui dal Padre:- ma io non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!». Chi ha fatto l’ esperienza del Signore nella sua vita, sa che è vivo, che è qui e che ci dà un gran sostegno con la grazia dello Spirito Santo, ma chi ancora non sente questa comunione, come può cominciare a capire? A volte ci si limita a dire “scegli”, ma come scegliere? Oggi è questo che lo Spirito ci vuole insegnare, come scegliere Gesù! Comincerò col dire che avvicinarsi a Gesù richiede poche cose iniziali, ma una cosa ci deve essere per forza: la sincerità. Non possiamo avvicinarci ad un Dio di verità se non ci accostiamo con sincerità. Siamo qui, con i nostri dubbi e le nostre imperfezioni, siamo peccatori, ma non ce ne rendiamo neanche conto, e quindi chiediamo a Lui di farci capire i nostri peccati, di darci una luce nuova, attraverso la quale poterci riconoscere, peccatori e chiedere perdono. E’ stato Gesù che ci ha detto chiedete e vi sarà dato e allora facciamolo, chiediamogli il dono della conversione, della fede, chiediamogli di iscriverci alla scuola di Maria, quella dove Lui stesso ha studiato, alla scuola dell’ umiltà. Lei c’insegnerà a dire “SI”, ci afferrerà per mano e ci dirà: ascoltatelo e fate quello che Lui vi dirà. Da qui in poi abbiamo fiducia, la Mamma terrena ci può abbandonare, il Padre terreno ci può rinnegare, Il fratello terreno può essere geloso di noi…. ma una cosa che vi posso garantire, è che la nostra famiglia celeste, non lo farà mai… Parola di Dio! E Dio ce l’ha assicurato attraverso Gesù che è VERITA’.
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