mercoledì 19 marzo 2014

SANTI é BEATI :

Beato Francesco di Gesù Maria Giuseppe (Francisco Palau y Quer) Sacerdote carmelitano
Aytona, Spagna, 29 dicembre 1811 - Tarragona, Spagna, 20 marzo 1872
Francisco Palau y Quer nacque il 29 dicembre 1811 ad Aytona (Spagna). Nel 1828 entrò nel seminario di Lèrida. Completato il triennio di studi filosofici e concluso il primo corso di teologia, nel 1832 passò nell'Ordine dei Carmelitani Scalzi dove l'anno successivo emise i voti. Costretto da circostanze politiche a vivere da exclaustrato, potè ricevere l'Ordinazione Sacerdotale a Barbastro nel 1836. Dopo un lungo periodo di permanenza in Francia (1840 - 1851), ritornò in Spagna e si dedicò al ministero della predicazione e delle missioni popolari, specialmente a Barcellona e nelle Isole Baleari. Fu lì che negli anni 1860 - 1861 si occupò dell'organizzazione di alcuni gruppi femminili dando origine a quelle che oggi si chiamano le Suore Carmelitane Missionarie Teresiane e le Suore Carmelitane Missionarie. Fondò anche una famiglia di Fratelli della Carità, oggi estinta. Morì a Tarragona il 20 marzo 1872.
Martirologio Romano: A Tarragona in Spagna, beato Francesco di Gesù Maria Giuseppe Palau y Quer, sacerdote dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, che durante il suo ministero sostenne atroci vessazioni e, accusato ingiustamente, fu relegato nell’isola di Ibiza, dove morì abbandonato a se stesso.

Prima di andare a morire in croce Gesù predisse agli Apostoli che nel mondo avrebbero avuto tribolazioni e persecuzioni a causa del suo nome (Gv 15,20). Questa profezia si verificò alla lettera nella vita e nell'opera di questo Beato spagnuolo, che visse in un secolo ricco di eminenti personalità sacerdotali e religiose, catalane come lui: S. Antonio Claret y Calarà (11870), fondatore dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria; B. Francesco Coll OP. (+1875), fondatore delle Suore Domenicane dell’Annunziata; S. Maria Rosa Molas y Vallvé (+1876), fondatrice delle Suore di Nostra Signora della Consolazione; B. Enrico de Osso y Cervello (+1896), fondatore della Compagnia di S. Teresa di Gesù; S. Teresa Jornet Ibars (+1897), fondatrice delle Piccole Suore degli Anziani abbandonati e pronipote carnale del B. Francesco di Gesù, Maria e Giuseppe; B. Giuseppe Mananet y Vives (+1901), fondatore dei Figli della S. Famiglia e delle Missionarie Figlie della S. Famiglia di Nazareth; B. Emmanuele Domingo y Sol (+1903), fondatore dell'Istituto Secolare dei Sacerdoti Operai Diocesani del S. Cuore.
Il nostro Beato nacque il 29-12-1811 ad Aytona, nella diocesi di Lèrida (Catalogna), settimo dei 9 figli che Giuseppe Palau, modesto contadino ebbe da Antonia Quer, entrambi molto fedeli alla religione e alla monarchia. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Francesco. Sotto la guida dei genitori egli crebbe pio, amante dello studio e dei poveri. Fu il maestro delle scuole elementari che suggerì loro di fare continuare gli studi al figlio per le spiccate doti intellettuali che in lui aveva scorto. Tuttavia fu la sorella Rosa che lo mise in condizione di frequentare come esterno, a 14 anni, il seminario, dandogli ospitalità a Lérida nella casa di campagna in cui si era stabilita dopo le nozze con il marito. In seguito, non volendo sfruttare la generosità della sorella e desiderando vivere nel seminario come interno per attendere meglio alla propria formazione, il Beato moltiplicò gli sforzi nello studio in modo da essere in grado di concorrere per una borsa di studio e vincerla.
In seminario Francesco rimase soltanto 4 anni, durante i quali si distinse per il profitto, l’obbedienza e lo spirito di penitenza. A 21 anni, al termine del primo anno di teologia, rinunciò alla borsa di studio e si fece carmelitano nonostante l'opposizione dei genitori e dei superiori del seminario, che vedevano in lui un soggetto di grande utilità per la diocesi. Pare che, al termine di una novena fatta in onore di S. Elia, Francesco abbia visto il profeta nel gesto di ricoprirlo con il mantello dei Carmelitani, come segno della volontà di Dio nei suoi riguardi. Quando entrò nel noviziato dell'Ordine a Barcellona con il nome di Fra Francesco di Gesù, Maria e Giuseppe, e vi fece la solenne professione (15-11-1833), era già fermamente deciso a osservarne gli obblighi benché i tempi che correvano fossero molto tristi. In Spagna, difatti, alla morte del re Ferdinando VII (+1833), era scoppiata una guerra civile tra sua figlia Isabella II (+1904), sostenuta dai liberali e lo zio Don Carlos, pretendente al trono in forza della legge salica, sostenuto dai conservatori e dal clero. Sedici anni più tardi confesserà nel suo libro La Vita Solitaria: "Quando feci la mia professione religiosa la rivoluzione teneva già nella sua mano la torcia incendiaria per bruciare tutte le case religiose e il temibile pugnale per assassinare gli individui che si erano rifugiati in esse. Non ignoravo il pericolo opprimente al quale mi esponevo... ciò nonostante mi impegnai con voti solenni in uno stato, le cui regole credevo di poter praticare fino alla morte, indipendentemente da qualsiasi umano avvenimento".
A Barcellona il Beato continuò a studiare teologia benché non sentisse attrattiva per il sacerdozio. Pur di vivere la vita carmelitana sarebbe rimasto volentieri nell'Ordine anche come semplice fratello laico. Il 25-7-1835 il suo convento fu assalito e incendiato dai rivoluzionari liberali. Trovò rifugio con altri confratelli in una casa vicina, ma dopo alcuni giorni fu condotto nella cittadella, spogliato dell'abito religioso e mandato a Lérida munito di un passaporto. L'esclaustrato, che amava di più la vita solitaria che quella attiva, stabilì la sua residenza tra i monti di Vich. Soltanto dopo diversi mesi si ricongiunse ad Aytona con i suoi familiari, dove, più per obbedienza al suo Patrovinale che per intima aspirazione, si preparò al sacerdozio, che ricevette il 2-4-1836 dal vescovo di Barbastro.
Nel paese nativo P. Francesco rimase due anni vivendo in una grotta distante due chilometri dal paese, svolgendo sporadicamente le veci del parroco e rifiutando qualsiasi offerta da parte dei fedeli per le sue prestazioni. In seguito, in considerazione delle necessità delle diocesi della Catalogna, rimaste quasi tutte senza pastori, decise di uscire dal suo isolamento per darsi con ardore alla predicazione, vestito da carmelitano, un po' ovunque, anche nelle caserme dei soldati in armi, tra i quali diffuse l'abitino del Carmine e combattè la bestemmia. Quando però Berga, quartiere generale delle truppe di Don Carlos, cadde nelle mani dei sostenitori di Isabella II, il Beato cercò rifugio a Perpignan (Francia) con suo fratello Giovanni e i resti dell'esercito sconfitto.
Durante il suo esilio P. Francesco occupò il tempo nello scrivere la sua prima opera intitolata La lotta dell'anima con Dio standosene solo in una grotta dei dintorni, accanto a quella del fratello, immerso nella meditazione, nella preghiera e nei digiuni continuati. Verso la fine del 1842 il Beato si trasferì nel comune di Caylus, appartenente alla diocesi di Montauban, ospite del visconte del castello di Mondésir, facente parte della parrocchia di St. -Pierre Livron. Non è improbabile che abbia conosciuto il suo benefattore in Spagna in qualche campo di carlisti. Nell'interno del bosco che attorniava il castello, il Beato visse da eremita per cinque anni in una grotta trasformata in cappella nella quale, con il permesso della curia di Montauban, celebrava la Messa e confessava coloro che accorrevano a lui attratti dalla fama della sua vita penitente. A Mondésir egli divenne l’"oracolo" del paese. Ogni tanto lo percorreva tenendo in mano una croce e predicando a tutti con grande vigore le verità eterne. Dalla sua grotta, però, non sarebbe uscito mai, tanto amava stare solo con Dio. Soleva dire che gli era stata lasciata in eredità dal profeta Elia. L'ordinario del luogo, Mons. Giovanni Doney, il 24-9-1844 gli volle fare visita per dargli a intendere quanto lo stimasse.
A partire dal mese di aprile 1846 il P. Francesco stabilì la sua dimora in un terreno che comperò vicino al santuario di Notre-Dame di Livron, che sorgeva presso la chiesa parrocchiale, con l'evidente intento di fondare un'istituzione stabile di indole eremitico-ascetica con l'aiuto di Teresa Christià, ex-clarissa di Perpignan, che aveva abbandonato il monastero per motivi di salute e che, in seguito ai suggerimenti del P. Palau, aveva deciso di vivere dedita al servizio del Santuario in compagnia di due signorine. Maria Bois e Giovanna Gracias.
Dopo l'acquisto del terreno il Beato volle fare un viaggio in Spagna con l'intento di riunirsi alla sua famiglia. Portò con sé l'ultima sua opera intitolata Quidditas Ecclesiae, in quattro libri, che non riuscì a fare stampare e che in seguito andò perduta. In Francia tornò in compagnia del padre, del cognato e di un nipote, ma il vescovo di Montauban non gli fu più favorevole come prima perché le sue discepole, con il loro genere di vita, suscitarono riserve e critiche da parte tanto delle autorità civili quanto di quelle ecclesiastiche. Il Beato, dal comune di Claylus si trasferì allora in quello di Loze con il fratello Giovanni e si stabilì sopra un terreno vasto e selvaggio che aveva comprato a Cantayrac, evidentemente per conservare la propria libertà d'azione. Mons. Doney, però, continuò ad essergli ostile per l'austerità di vita che conduceva nelle grotte umide e buie, l'abito carmelitano che continuava a portare e, soprattutto, per le numerose persone che accorrevano a prendere parte alle sue Messe con discapito di quelle parrocchiali. Nella regione tutti sapevano che dormiva sulla paglia, che pregava e meditava buona parte della notti inginocchiato per terra, che si nutriva quasi esclusivamente di pane acqua, erbe, patate lesse e qualche frutto della regione e che, all'opposizione del vescovo rispondeva soltanto con la "pazienza e la preghiera". Di tutti era quindi considerato un eremita "straordinario".
P. Francesco un bel giorno decise di trasferirsi a St.-Paul-de-Fenouillet, nella diocesi di Perpignan, dove comperò un campo alberato nell'intento di consolidare il suo piano di vita solitaria per sé e per i gruppi maschili e femminili che si andavano costituendo. Frattanto, poiché Mons. Doney persisteva a negargli la facoltà di celebrare la Messa nella diocesi e la situazione politico-religiosa in Spagna era migliorata, in seguito al concordato stipulato il 16-3-1851 tra il governo e la Santa Sede, il Beato prese la decisione di abbandonare per sempre la Francia. Avrebbe voluto stabilirsi nella sua diocesi di origine, Lérida, ma il vescovo Mons. Cirillo Uriz y Labayru, il quale personalmente era contrario ai "beateri" e ai fratelli esclaustrati, gli fece sapere che la sua presenza in diocesi non era gradita a causa dei vari gruppi di discepole che vi contava e che egli aveva già dissolti il 2-4-1852. Il suo successore, Mons. Mariano Puiglatt, non si dimostrò più tenero nei riguardi del Beato. Difatti, nel 1863 gli proibì di predicare in una chiesa della sua diocesi, il mese di Maggio. Invece di protestare, il perfetto carmelitano gli rispose: "Essendo V. Ecc. mio prelato... può con autorità, libertà e senza raggiri, avvisare, correggere, castigare, tagliare e bruciare, certo che i suoi avvisi, correzioni e castighi saranno ricevuti sempre come pegno del suo amore e della sua sollecitudine pastorale verso questo suo suddito sacerdote".
Respinto dalla sua diocesi, P. Francesco si trasferì a Barcellona dove Mons. Domingo Costa y Borràs, che ben lo conosceva e apprezzava, essendo stato vescovo di Lérida, lo chiamò a lavorare per la ricristianizzazione della sua turbolenta diocesi. Le zone di periferia rigurgitavano infatti, di operai provenienti da varie regioni della Spagna, ed erano privi di una solida e continuata formazione catechetica. Il Beato, oltre a dedicarsi alla predicazione e farsi animatore della costruzione di nuove chiese, fondò una vera e propria scuola di catechismo per adulti con programma, metodo d'insegnamento e statuto propri. La chiamò Scuola delle Virtù e fu frequentata da oltre 2000 adulti. Dopo 3 anni, però, in concomitanza con gli scioperi ad oltranza di molti operai, fu sciolta dalle autorità civili, pressate dai nemici della Chiesa. Il fondatore, nonostante le sue energiche proteste orali e scritte, fu confinato nell'isola Ibiza, nelle Baleari, con il falso pretesto che fomentava idee sovversive.
P. Francesco non si perse d'animo, anzi, continuò a dirigere le sue figlie spirituali residenti a Lérida, Aytona e Balaguer, le quali, nonostante l'ordine di chiusura delle loro case, avevano trovato la maniera di continuare di fatto il loro genere di vita. Dall'esilio coatto l’8-5-1854 scrisse ad alcuni suoi amici: "Non vedrò per tutta la vita se non persecuzioni, giacché il mio spirito disprezza il mondo e per conservare il mio benessere non devierò mai dal mio cammino... Io non sogno altro che sofferenze, contraddizioni e lotte, ne desidero per questo altra via che quella della croce". Con la loro collaborazione si preoccupò di mettere in salvo quello che apparteneva alla soppressa Scuola delle Virtù e riuscì a farsi mandare nell'isola l'immagine della SS. Vergine in essa venerata, in onore della quale fece costruire una cappella tuttora meta di pellegrinaggi.
Per due anni P. Francesco visse in una grotta di Es Cubells nella parrocchia di S. Giuseppe, che un signore gli aveva messo a disposizione con un pezzo di terra da cui trarre gli alimenti necessari. In seguito, avendo scoperto nell'isolotto chiamato Vedrà, una grotta ancora più solitaria e inaccessibile, vi si trasferì perché la solitudine costituiva "il suo cielo". Per potersi dedicare a pieno titolo all'attività pastorale in tutte le isole Baleari, egli sollecitò e ottenne, dalla S. Congregazione di Propaganda Fide, il titolo e la facoltà di missionario apostolico benché fosse ritenuto inabile a disimpegnare incarichi stabili di ministero perché, a furia di vivere in grotte buie e umide, era diventato sordo e aveva contratto una malattia cronica. Ciò nonostante, quando lasciava la solitudine per predicare nei paesi di Ibiza, Maiorca e Minorca, le chiese erano insufficienti a contenere la gente che accorreva a udirlo o a prendere parte alle Messe, che celebrava con straordinaria devozione. Con la sua voce possente, la sua statura bassa e tarchiata, agli occhi dei fedeli assumeva l'aspetto di un profeta. Infatti di solito non riusciva a terminare le sue prediche senza che la sua voce non fosse affogata dal loro pianto.
Dopo tre anni di confino il Beato inviò successivamente due suppliche alla regina Isabella II per ottenere che fosse revocata l'ingiusta sentenza di cui era stato vittima. Ottenne fortunatamente la libertà soltanto quando, il 1-5-1860, essa fu concessa ai confinati politici. Nel frattempo a Madrid era stata trattata giudizialmente la sua vicenda ed era stata trovata immune da qualsiasi colpevolezza. A chiarire la sua posizione aveva giovato anche la pubblicazione nella capitale del suo scritto intitolato La Scuola della Virtù Vendicata (1859).
Il P. Francesco invece di ritornare a vivere nelle grotte, si sentì spinto a mettersi al completo servizio della Chiesa, che divenne da quel momento la sua "amata", mediante la predicazione per tutta la Catalogna, gli esorcismi, gli scritti e la fondazione di Associazioni maschili e femminili del Terz'Ordine Carmelitano. Per le sue opere impegnava gli aiuti che riceveva dai benefattori nonché la piccola pensione che il governo concedeva a tutti gli esclaustrati. Grande fu la ripugnanza che provò nel seguire il nuovo genere di vita che Dio esigeva da lui. Lo confidò egli stesso il 27-10-1860 a Giovanna Gracias, sua discepola, nella lettera che le scrisse da Madrid dove stava predicando nella chiesa di S. Isidoro: "Riesce orribile al mio spirito e al mio corpo viaggiare senza punto fisso, abbandonato alle attenzioni degli amici... Tuttavia... quando Dio mi chiama, non c'è niente di quello che mi si pone davanti che non assalti e calpesti per quanto terribile e sgradevole esso sia". Alla stessa persona scrisse nell'agosto del 1861: "La mia unione, le mie nozze spirituali con la Chiesa costituiscono l'oggetto unico e principale che occupa i miei esercizi. Di questo ho piena la testa e il cuore e non so pensare altra cosa e assorbe talmente le mie potenze e i miei sensi, che in cinque giorni sono riuscito a stento a consumare un pane. Ciò nonostante sto bene e non sento il bisogno di mangiare".
E’ in questo contesto di profonda unione mistica con il mistero della Chiesa che il Beato si sentì chiamato a lottare contro i demoni e a fondare gruppi di Terziari e Terziarie Carmelitani, per l'insegnamento religioso all'infanzia e la cura degli infermi a domicilio, viventi insieme di propria volontà in forma privata, senza fisionomia giuridico-canonica e tanto meno civile. Essi non potevano prefiggersi altri fini perché la Chiesa e lo Stato il 25-8-1859 avevano convenuto che in Spagna gli istituti di stampo contemplativo non avessero diritto di cittadinanza. Il P. Francesco l'8-l-1867 fu nominato direttore dei Terziari e delle Terziarie Carmelitani, dal Procuratore Generale e Commissario dei Carmelitani Scalzi, il P. Pasquale di Gesù e Maria. Tale nomina lo mise in grado di conferire una strutturazione formale e giuridica a tutte le comunità esistenti in Spagna. Le costituzioni che redasse per loro furono stampate a Barcellona un mese prima della sua morte.
Dal 1860 al 1872 il Beato fondò 6 comunità di Fratelli, i quali praticamente cessarono di esistere con la guerra civile del 1936, e 6 comunità di Sorelle le quali, dopo la sua morte, diedero origine a due congregazioni riconosciute dalla S. Sede: le Carmelitane Missionarie Teresiane di Tarragona e le Carmelitane Missionarie di Barcellona. Verso la fine del 1864 fino alla morte, il P. Francesco si convinse di essere chiamato da una forza interna irresistibile, sconvolgente, a guarire gli ossessi. Per questa sua vera o presunta missione egli operò e redasse il settimanale El Ermitano per ottenere che fosse rimesso in auge nella Chiesa l'esorcistato, ma fu osteggiato, punito e perfino carcerato. Teatro degli esorcismi da lui praticati, fu la casa di Santa Cruz di Vallcarca, presso Barcellona e, più precisamente, la cappella che vi aveva fatto costruire per la Messa festiva, appartenente alla comunità dei Fratelli, nota poi con il nome di Els Penitens. Quando il Beato iniziò pubblicamente la sua attività di esorcista, il centro di Vallcarca divenne inevitabilmente una specie di ricovero privato per i numerosi malati che, di loro iniziativa, accorrevano a lui per essere curati ed eventualmente anche esorcizzati. Il 13-4-1866 Mons. Pantaleone Montserrat, vescovo di Barcellona, gli proibì di continuare gli esorcismi ed egli ubbidì. Da quel giorno si limitò soltanto a pregare per coloro che continuavano ad accorrere a lui e a consolarli, ma, nello stesso tempo, sentì più forte che mai, in sé, la spinta a fare intervenire nella questione l'autorità suprema della Chiesa.
In Spagna, nel settembre del 1868 si verificarono luttuosi eventi che culminarono nella detronizzazione e nella cacciata della regina Isabella II. In quella circostanza il P. Francesco si radicò ancora di più nella persuasione che era necessario rimettere in auge il ministero permanente dell'esorcismo, per contrastare l'azione del demonio nella società. Si servì per diffondere la sua idea ancora di El Ermitano come pure per elevare, a più riprese, la sua energica protesta contro la giunta provinciale di Barcellona, perché aveva ordinato la chiusura della residenza di Santa Cruz di Vallcarca. Nel frattempo raccolse in quaderni i casi di ossessi che riteneva di avere liberati dal demonio e li fece pervenire a Pio IX. Nella segreteria papale furono letti, ma si pensò che il P. Palau fosse "o un illuso o un malizioso". Nel 1870 si recò personalmente a Roma per presentare ai Padri Conciliari di lingua spagnuola il suo proclama riguardo all’esorcistato, ma non ebbe seguito. Lo stesso S. Antonio M. Claret riteneva che di ossessi nel mondo ce ne fosse uno sparuto numero.
Appena il Beato ottenne dalle autorità la licenza di riaprire il complesso di Santa Cruz di Vallcarca, escogitò il sistema di adattare una parte dell'edificio, diretto da suo fratello Giovanni e dal suo discepolo Gabriele Brunet, a ospedale, ma il 28-10-1870 l'autorità civile, sostenuta dal vicario capitolare di Barcellona, fece arrestare il P. Francesco che fungeva da cappellano e viveva in una grotta sotterranea, i dirigenti e 39 ricoverati. Lo stabilimento era di natura strettamente privata, non in contravvenzione con le leggi dello stato. L'autorità ecclesiastica aveva soltanto autorizzato la celebrazione della Messa nell'attigua cappella, e il P. Francesco non faceva altro che pregare in essa per gli ospitalizzati che si ritenevano posseduti dal demonio, leggere loro brani del Vangelo e aspergerli con l'acqua benedetta. Dopo la liberazione dal carcere egli intentò causa contro i suoi persecutori. Di fronte alle storture, il sangue gli saliva alla testa. Il processo si concluse il 9-10-1871 con sentenza pienamente assolutoria da parte del Tribunale di Prima Istanza, confermata in seguito anche dal Tribunale di Appello quando l'interessato stava ormai per morire.
P. Francesco Palau aveva sortito da natura un fisico molto robusto, ma le lunghe dimore nelle grotte, i digiuni pressoché costanti, le prolungate vigilie, le continue incomprensioni delle autorità civili e religiose glielo avevano a poco a poco fiaccato. L'ultimo e più grave colpo alla sua salute egli lo ricevette nel febbraio del 1872 quando, nell'ospedale di Calasanz, assistette con alcune sue discepole gli appestati. Recatesi successivamente a visitare la casa delle Sorelle di Tarragona contrasse la polmonite, che lo portò alla tomba il 20 marzo dello stesso anno. Fino all'ultimo respiro egli aveva dato segno di grande pietà. Il direttore di El Ermitano scrisse di lui: "Con l'ardire dell'apostolo, la chiaroveggenza del profeta e la fortezza del martire, né il carcere, né l'esilio, né le privazioni... furono sufficienti ad abbatterlo e a farlo retrocedere un solo istante dalla via che aveva imboccato fino dal momento in cui si era consacrato al servizio di Dio". Giovanni Paolo II ne riconobbe l'eroicità delle virtù il 10-11-1986 e lo beatificò il 24-4-1988.
La Chiesa lo ricorda il 20 Marzo, mentre i Carmelitani Scalzi ne fanno memoria il 7 Novembre.

Autore:
Guido Pettinati

(Lc 16,19-31) Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.

VANGELO
 (Lc 16,19-31) Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’ acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA

Vieni o Santo spirito e aiutami a capire il desiderio di Dio, aiutami a non sbagliare strada e a non perdermi nelle tentazioni della vita, aiutami a seguire solo i lumini che portano al regno di Dio e a non farmi abbagliare dalle luci sfavillanti del mondo che illude.
Quante volte Gli apostoli ci hanno riportato le parole di Gesù che dicevano di non cercare le ricchezze nel mondo. Sembrano un poco discorsi per stolti, come si fa a non esserne attirati, tutto è così sfavillante, basta un pochino di corruzione, bastano le amicizie giuste, uno scambio di voti, e si aprono tante possibilità, che chi è” fuori dal giro” se le scorda. Bei vestiti, cene e feste, e il mondo cammina in quel senso, senza curarsi dei poveri cui manca tutto, degli ammalati che sono soli e abbandonati alle loro famiglie spesso in gran difficoltà. Quando qualcuno vive nella più completa indigenza e non riesce a mettere un pasto al giorno sulla tavola, molti fingono di non vedere, o peggio ancora, li criticano per la loro condizione, accusandoli di non saper darsi da fare per migliorare la propria condizione. Un terzo del mondo ha fame, ma noi non vogliamo saperlo, tanto che possiamo fare? Ancora queste faccine di bambini denutriti e pieni di mosche mentre stiamo mangiando? Che schifo! Ma se non ci sono i soldi per nutrirli perché fanno i figli? Ed una parte di mondo soffre ed è costretta dal nostro egoismo a soffrire anche in silenzio, per non darci fastidio.
Dov’ è Gesù? Perché Dio non interviene? Gesù è proprio lì che puoi trovarlo, lì dove noi non vogliamo guardare, tra gli ultimi della terra, là dove il dolore non ha voce, dove si muore in silenzio. Andando a fare una passeggiata nei centri commerciali, vediamo i nostri bambini fare i capricci in continuazione per l’ultimo gioco alla moda, per lo zainetto firmato, e per tutte quelle cose che vogliono avere, e per quanto in difficoltà, i genitori oggi non sono capaci di negargli niente. Stiamo creando dei mostri d’ egoismo, potremmo insegnare loro che con i soldi di un gelato, potremmo adottare un bambino a distanza e garantirgli il diritto di mangiare e studiare, ma non siamo capaci di dirglielo, perché preferiamo non sapere, non vederlo!! Non domandiamo allora dov’ è Gesù, perché Dio non fa niente… noi siamo le mani e gli occhi di Dio, quello che faremo al più piccolo dei nostri fratelli ci sarà restituito da Gesù. Decidiamo finché siamo in vita di fare qualcosa per gli altri e per la nostra anima, perché verrà per tutti il giorno in cui dovremo rendere conto di quello che NON ABBIAMO FATTO.
In questo brano, Luca, ci racconta una parabola che Gesù racconta ai farisei, ma che potrebbe raccontare anche a noi nei giorni nostri.
Noi che siamo presi da mille progetti, da mille traguardi da raggiungere per migliorare la nostra posizione sociale, per avere la macchina più bella, la casa più bella, la vacanza più esotica.. e non pensiamo che con il nostro lusso, o addirittura con quello che noi definiamo normalità, potremmo sfamare chi MUORE DI FAME.
Non è solo una questione di ricchezza materiale, ma di indifferenza totale delle disgrazie altrui.
A volte una parola buona , un pò di pazienza, un pò di fiducia, possono salvare una persona dalla disperazione, ma sembra che il mondo vada troppo di fretta per perdere tempo in queste piccole e banali cose, neanche il tempo di un sorriso, di chiedere come stai? Di saper ascoltare, di saper porgere una spalla su cui piangere.
Troppo tardi ci renderemo conto di aver sbagliato, perchè se non entriamo da subito in contatto vero con la parola di Dio, non capiremo, che non basta non sbagliare, ma che a volte è proprio la nostra indifferenza il peccato peggiore. Non aspettiamo di trovarci davanti al giudizio di Gesù per sapere se abbiamo dato da mangiare all'affamato, vestito l'ignudo, confortato la vedova o l'afflitto. Apriamo gli occhi al nostro prossimo, a quello che è più vicino a noi, a quello che il Signore ci manda davanti, a quello che non conosciamo, ed in questo modo, con le opere di misericordia e carità, salveremo la nostra anima.
Beati i poveri e gli afflitti,perchè di essi sarà il regno dei cieli.
Non è la ricchezza che ci condanna, ma l'indifferenza. 

martedì 18 marzo 2014

VOCE DI SAN PIO :

- " La Vergine Addolorata ci ottenga dal suo santissimo Figliuolo di farci penetrare sempre più nel mistero della croce. "

SANTI é BEATI :

Beata Sibillina Biscossi Domenicana
Pavia 1287 - 1367
La Beata Sibillina Biscossi, nata a Pavia nel 1287 e morta nel 1367, era orfana di padre e di madre. Appena ebbe la forza di sfaccendare, venne messa a servizio. Ma a 12 anni divenne cieca. Fu allora raccolta dalle Terziarie domenicane di Pavia. Nei primi anni la bambina infelice pregò a lungo, con la speranza che san Domenico le concedesse il miracolo della vista. Poi capì che la sua cecità poteva essere luce e orientamento per gli altri. Accettò la privazione e si fece reclusa in una celletta attigua alla chiesa, dove restò dai 15 agli 80 anni, nella più severa penitenza, vestita d'estate e d'inverno col medesimo saio, mangiando scarsamente e dormendo sopra una tavola di legno, senza né pagliericcio né copertura. Visitata da prelati e da potenti, da devoti e da dubbiosi, ella fu la Sibilla cristiana, che rispondeva a tutte le richieste di consiglio e di conforto. Era l'occhio luminoso di tutta la città di Pavia, che riconosceva nella cieca veggente una maestra di spirito. (Avvenire)
Etimologia: Sibillina (diminut. di Sibilla) = che fa conoscere la volontà di Dio, dal greco
Martirologio Romano: A Pavia, beata Sibillina Biscossi, vergine, che, rimasta cieca dall’età di dodici anni, visse per sessantacinque anni in clausura presso la chiesa dell’Ordine dei Predicatori, illuminando con la sua luce interiore i molti che ricorrevano a lei.

Sibillina nacque dalla onorata famiglia Biscossi, e fin dai primissimi anni mostrò grande inclinazione alla pietà. A dodici anni, colpita da una dolorosa infermità, rimase del tutto cieca. Sebbene la santa fanciulla accettasse con rassegnazione la dolorosa prova, non cessò però di chiedere a Dio di volerle ridare la vista, tanto necessaria a lei che doveva trarre dal lavoro delle mani il pane d’ogni giorno. Un giorno, mentre così pregava, le apparve il Santo Patriarca Domenico, il quale le mostrò una luce tanto meravigliosa, che le tolse per sempre il desiderio della luce e d’ogni altra cosa di questo mondo. E così, a quindici anni, vestita dell’Abito del Terz’Ordine, e accesa da cosi santo amore, si ritirò in un angusto romitorio, accanto alla chiesa dei Frati Predicatori, iniziando una vita che possiamo definire eroica. Più eroico ancora fu il perseverarvi per 67 anni, senza mai abbandonare la sua cella. Con cuore di martire sopportò le tenebre della cecità, la solitudine completa, i rigori di una severa penitenza. Ma il segreto di tanto coraggio essa l’attinse nell’amorosa contemplazione del Crocifisso. Qui attinse anche la celeste sapienza che la rese maestra e consolatrice di innumerevoli anime che accorrevano a lei, riportandone luce e conforto. Le fu rivelata l’ora della sua morte, avvenuta il 19 marzo 1367, alla veneranda età di ottant'anni, attorniata dai religiosi dell’Ordine, che l’assistettero nell’ora suprema. Fu illustre per miracoli. Il suo corpo è sepolto nella cattedrale di Pavia. Papa Pio IX il 17 agosto 1854 ha confermato il culto.
L'Ordine Domenicano la ricorda il 18 aprile.

Autore:
Franco Mariani
Beata Sibillina Biscossi Domenicana
Pavia 1287 - 1367
La Beata Sibillina Biscossi, nata a Pavia nel 1287 e morta nel 1367, era orfana di padre e di madre. Appena ebbe la forza di sfaccendare, venne messa a servizio. Ma a 12 anni divenne cieca. Fu allora raccolta dalle Terziarie domenicane di Pavia. Nei primi anni la bambina infelice pregò a lungo, con la speranza che san Domenico le concedesse il miracolo della vista. Poi capì che la sua cecità poteva essere luce e orientamento per gli altri. Accettò la privazione e si fece reclusa in una celletta attigua alla chiesa, dove restò dai 15 agli 80 anni, nella più severa penitenza, vestita d'estate e d'inverno col medesimo saio, mangiando scarsamente e dormendo sopra una tavola di legno, senza né pagliericcio né copertura. Visitata da prelati e da potenti, da devoti e da dubbiosi, ella fu la Sibilla cristiana, che rispondeva a tutte le richieste di consiglio e di conforto. Era l'occhio luminoso di tutta la città di Pavia, che riconosceva nella cieca veggente una maestra di spirito. (Avvenire)
Etimologia: Sibillina (diminut. di Sibilla) = che fa conoscere la volontà di Dio, dal greco
Martirologio Romano: A Pavia, beata Sibillina Biscossi, vergine, che, rimasta cieca dall’età di dodici anni, visse per sessantacinque anni in clausura presso la chiesa dell’Ordine dei Predicatori, illuminando con la sua luce interiore i molti che ricorrevano a lei.

Sibillina nacque dalla onorata famiglia Biscossi, e fin dai primissimi anni mostrò grande inclinazione alla pietà. A dodici anni, colpita da una dolorosa infermità, rimase del tutto cieca. Sebbene la santa fanciulla accettasse con rassegnazione la dolorosa prova, non cessò però di chiedere a Dio di volerle ridare la vista, tanto necessaria a lei che doveva trarre dal lavoro delle mani il pane d’ogni giorno. Un giorno, mentre così pregava, le apparve il Santo Patriarca Domenico, il quale le mostrò una luce tanto meravigliosa, che le tolse per sempre il desiderio della luce e d’ogni altra cosa di questo mondo. E così, a quindici anni, vestita dell’Abito del Terz’Ordine, e accesa da cosi santo amore, si ritirò in un angusto romitorio, accanto alla chiesa dei Frati Predicatori, iniziando una vita che possiamo definire eroica. Più eroico ancora fu il perseverarvi per 67 anni, senza mai abbandonare la sua cella. Con cuore di martire sopportò le tenebre della cecità, la solitudine completa, i rigori di una severa penitenza. Ma il segreto di tanto coraggio essa l’attinse nell’amorosa contemplazione del Crocifisso. Qui attinse anche la celeste sapienza che la rese maestra e consolatrice di innumerevoli anime che accorrevano a lei, riportandone luce e conforto. Le fu rivelata l’ora della sua morte, avvenuta il 19 marzo 1367, alla veneranda età di ottant'anni, attorniata dai religiosi dell’Ordine, che l’assistettero nell’ora suprema. Fu illustre per miracoli. Il suo corpo è sepolto nella cattedrale di Pavia. Papa Pio IX il 17 agosto 1854 ha confermato il culto.
L'Ordine Domenicano la ricorda il 18 aprile.

Autore:
Franco Mariani

SAN GIUSEPPE (VANGELO)

VANGELO
 (Mt 1,16.18-21.24) Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore. 
+ Dal Vangelo secondo Matteo

Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore. 

Parola del Signore. 

oppure (Lc 2,41-51 - Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo):

Dal Vangelo secondo Luca 

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. 

Parola del Signore
SAN GIUSEPPE
SAN GIUSEPPE

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni su di me o Santo spirito di Dio e illuminami con la Tua sapienza. Fa che quello che Tu mi vuoi far conoscere, fluisca generosamente in me direttamente dal Tuo cuore.
Povero uomo Giuseppe direbbero alcuni, ed anche io per un certo periodo ho pensato a lui come ad un povero credente sfortunato, cui era stato tolto tutto quello che aveva ed in cui credeva. Poi ho cercato di capire e di conoscerlo meglio, attraverso le scritture ed ho scoperto che non parla mai, ma in silenzio agisce. Gli angeli intervengono nella sua vita e lui obbedisce, per questo gli appellativi con i quali è definito sono d’uomo giusto, mite, obbediente. I vangeli apocrifi forniscono altre notizie, che tuttavia sono generalmente ritenute leggendarie. Secondo il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe era molto anziano quando sposò Maria, e fu scelto tra gli altri pretendenti perché il suo bastone, posto fra gli altri sull'altare, fiorì miracolosamente. Per questo motivo, san Giuseppe è tradizionalmente raffigurato con Gesù bambino in braccio e con in mano un bastone dal quale sbocciano dei fiori (generalmente un giglio bianco)."Uomo obbediente"Nei Vangeli non è riportata alcuna parola di Giuseppe; sono riportate solamente le sue azioni. E queste sono compiute in obbedienza a Dio. Conosciuto il volere di Dio attraverso un sogno, Giuseppe si appresta ad eseguirlo. E così sposa Maria anche se lei aspetta un figlio che non è suo; fugge in Egitto con Maria ed il bambino Gesù per sfuggire alla persecuzione d’Erode; torna a Nazaret alla morte d’Erode."Uomo giusto"L'evangelista Matteo parla di Giuseppe come uomo «giusto». Il termine non significa soltanto correttezza, fare ciò che è dovuto e che noi diciamo giusto. In senso biblico, «giusto» è il timorato di Dio, l'obbediente ai suoi progetti. Giuseppe è giusto perché cerca di adeguarsi al piano di Dio nella vita di Maria. Non rinuncia al suo amore per Maria, glielo dichiara anzi, «prendendola con sé». In ogni vocazione che si rispetti, alla chiamata Dio ci lascia sempre rispondere in libertà, giacché il Signore non violenta mai l’intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio. Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “fece come l’Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé” . Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della redenzione. Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio. Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’amore, mostrandosi accogliente verso il mistero dell’Incarnazione del Verbo.  Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: san Giuseppe è senz’ ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei con tutte le sue forze. Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria. Ecco che visto sotto quest’aspetto, ci accorgiamo che a Giuseppe non fu tolto niente, ma anzi fu dato di partecipare al progetto di Dio come custode di Maria e di Gesù.
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lunedì 17 marzo 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Se soffri con rassegnazione al suo volere tu non l’offendi ma lo ami. E il tuo cuore avrà grande conforto se pensi che nell’ora del dolore Gesú stesso soffre in te e per te. Egli non ti ha abbandonato quando fuggivi da lui; perché dovrebbe abbandonarti ora che nel martirio dell’anima tua gli dài prove d’amore?" (GF, 174).

SANTI é BEATI :

 
San Salvatore da Horta Professo Francescano
18 marzo
Santa Coloma de Farnés, 1520 - Cagliari, 18 marzo 1567
Nacque nel dicembre 1520 a Santa Coloma de Farnés, in Catalogna (Spagna). Rimasto orfano molto presto, dopo un periodo di prova nell'abbazia benedettina di Montserrat, scelse definitivamente la via della povertà entrando nel convento francescano di Barcellona, dove fece la professione religiosa nel 1542. Trasferito a Tortosa cominciò a essere conosciuto per i suoi poteri di taumaturgo. Malgrado l'umiltà con cui lo viveva, questo dono gli causò incomprensione da parte dei confratelli. Per anni peregrinò da un convento all'altro e ovunque si ripeteva lo stesso copione: prodigi e nuove inimicizie. Fu persino denunciato all'Inquisizione che non trovò nulla contro di lui. Conobbe un po' di pace nel convento di Santa Maria di Gesù a Cagliari dove giunse nel 1565. Morì il 18 marzo 1567. Pio XII l'ha canonizzato il 17 aprile 1938. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Cagliari, san Salvatore Grionesos da Horta, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, che si fece umile strumento di Cristo per la salvezza dei corpi e delle anime.

Ecco un santo che a causa del carisma di operare troppi miracoli, passò parecchi guai nella sua vita. Salvatore nacque del dicembre 1520 a Santa Coloma de Farnés nella Catalogna (Spagna), i genitori di cui si conosce solo il cognome Grionesos, lavoravano assistendo gli ammalati del piccolo ospedale della zona e di cui in seguito ne ebbero la direzione.
Rimasto orfano giovanissimo, andò a Barcellona dove si mise a fare il calzolaio per sostenere la sorella minore Blasia. Non appena questa sorella si sposò, Salvatore poté così in piena libertà, scegliere la vita religiosa da sempre desiderata; lasciata Barcellona andò nella famosa abbazia benedettina di Montserrat per un periodo di prova, ma la sua vocazione di umiltà e povertà ebbe la sua attuazione, dopo l´incontro con i francescani, entrando il 3 maggio 1541 nel loro convento di Barcellona.
Si distinse subito per le sue virtù e pietà, fece la professione religiosa nel maggio del 1542 e trasferito poi a Tortosa dove fu impiegato in tutti i servizi più faticosi, che espletò con prontezza e diligenza; ma cominciarono pure i guai per lui; dotato di poteri taumaturgici, operava prodigi su prodigi e la sua fama di dispensatore di miracoli, che lo rendevano oltremodo popolare, suscitò l´incomprensione dei confratelli e l´ostilità dei superiori, i quali infastiditi da tanto clamore lo ritennero un indemoniato e presero a trasferirlo da un convento all´altro.
Dovunque arrivasse i prodigi proseguivano, i frati si mettevano le mani nei capelli e giocoforza si armavano di pazienza con quel confratello laico professo, che faceva perdere la loro pace. Da Tortosa, fu inviato prima a Belipuig e verso il 1559 ad Horta nella provincia di Tarragona in Catalogna, dove restò per quasi 12 anni, compiendo anche qui numerosi miracoli, gli fu mutato anche il nome in fra´ Alfonso, nel tentativo di allontanarlo dai fedeli, ma alla fine fu trasferito anche da qui.
Giunto a Reus lo attendevano ulteriori persecuzioni e un altro allontanamento a Barcellona, che era sede della famigerata Inquisizione spagnola e a cui Salvatore venne perfino denunziato, uscendone comunque trionfante con l´umiltà e la carità dei santi.
Infine ultima tappa del suo doloroso calvario itinerante, fu il convento di S. Maria di Gesù a Cagliari in Sardegna, giungendovi nel novembre del 1565, trovando finalmente qui un´oasi di pace, pur continuando i fatti straordinari che l´avevano accompagnato per tutto quel tempo, procurandogli dolori, sofferenze, incomprensioni; in altre parole beneficando la vita degli altri e avvelenandosi la sua.
Colpito da una violenta malattia, fra´ Salvatore da Horta, morì a Cagliari il 18 marzo 1567 fra il dolore di tutta la città, che ancora oggi ne venera le reliquie nella Chiesa di S. Rosalia; il corpo del santo è custodito in una preziosa urna di bronzo dorato, arricchita di pregiati cristalli. L´urna è sistemata visibile, sotto la mensa dell´altare maggiore al centro del presbiterio, attorniata da quattro angeli oranti in marmo bianco.
Da qui, il culto per il taumaturgo, laico professo dei Frati Minori Francescani, crebbe e si estese in tutta la Spagna e Portogallo; il 15 febbraio 1606 dietro richiesta del re Filippo II di Spagna, il papa Paolo V gli accordò il titolo di beato, confermato il 29 gennaio 1711 da papa Clemente XI.E il 17 aprile 1938, papa Pio XI lo canonizzò, stabilendo la festa liturgica per l´umile santo, perseguitato perché troppo miracoloso, al 18 marzo.

Il nome Salvatore è molto diffuso nell´Italia Meridionale e in particolare in Sicilia, anche nelle varianti Turi, Turiddu; bisogna però dire che il nome Salvatore più che al santo di cui abbiamo parlato, si riferisce almeno in Campania, a Gesù Salvatore e la cui festa della "Trasfigurazione di Gesù" è al 6 agosto.
Il santo spagnolo di Horta è molto venerato anche nel Comune di Orta di Atella, in provincia di Caserta, che per puro caso ha il nome come la città spagnola, che identifica il santo francescano.

Autore: Antonio Borrelli

(Mt 23,1-12) Dicono e non fanno.

VANGELO
 (Mt 23,1-12) Dicono e non fanno. 
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

Parola del Signore
(Mt 23,1-12) Dicono e non fanno.
(Mt 23,1-12) Dicono e non fanno.


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito  e guida la mia mente ed il mio cuore verso il mio Signore!

Gesù vede tante cose che non vanno come dovrebbero, scribi e farisei, che occupavano i posti più importanti del tempio, non si comportavano come avrebbero dovuto, come si dice oggi, predicavano bene e razzolavano male.
Quindi già duemila anni fa c' era nel tempio chi diceva di fare e non faceva.Quello che però più colpisce è come anche oggi ci sia chi pensa di doversi preoccupare più di dettare le leggi al posto di Dio che di rispettarle. 
La parola di Dio è legge, che non è stata dettata per intimidire, ma per insegnare a vivere in modo corretto e leale, ma molti la usano per essere trattati da capi, da maestri, ma Gesù ammonisce gli apostoli dicendo di non fare come loro, perché uno solo è il maestro da seguire ed è il Cristo, uno solo è il Padre ed è Dio, e come il Cristo è venuto per servire, così gli uomini devono imitarlo e servire i fratelli.
In questo momento si avverte fortemente la crisi di una Chiesa in cui molti uomini hanno pensato più al potere della terra che a rispettare la parola di Dio. Non dobbiamo giudicarli, perchè fondamentalmente tutti siamo uguali a loro. La fede che non trema, che manda avanti il Signore prima di noi stessi, è un dono grande, è una grazia dello Spirito Santo, e noi uomini, tendiamo spesso a negare anche i miracoli.  L'uomo abbandona la vera parola di Dio, per farsi una  propria fede, che gli fa più comodo, incapace di rendersi conto di quanto sia grave tutto questo. Ma Dio ha fatto un patto con gli uomini, e non lo infrangerà; nonostante le nostre insane scelte di peccato. Torniamo a credere nello Spirito Santo, a offrire al Signore una fede fragile si, ma sincera, una volontà di convertirci veramente, non come ci fa comodo, ma come si deve. Non soffermiamoci a giudicare ma, per seguire un vero atteggiamento cristiano, impegniamoci sul serio a pregare per noi e per tutti coloro che sono lontani o avversi a Dio e alla Chiesa, perchè dove il maligno porta confusione, lo Spirito di Dio riporta la sapienza. 

domenica 16 marzo 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Non temere le avversità perché esse mettono l’anima ai piedi della croce e la croce la mette alle porte del cielo, dove troverà colui che è il trionfatore della morte, che la introdurrà negli eterni gaudi." (ASN, 42).

SANTI é BEATI :

San Corrado di Baviera (di Chiaravalle) Monaco e eremita
m. 17 marzo 1154
Attratto dalla santità di San Bernardo, entrò nel monastero di Chiaravalle. Ottenuto il permesso, si ritirò a vita eremitica in Terra Santa.
Patronato: Molfetta
Etimologia: Corrado = audace nel consiglio
Emblema: Cappa, Bordone, Cilicio, Corona e scettro, Prospetto del duomo di Molfetta

Martirologio Romano: A Modugno vicino a Bari in Puglia, beato Corrado, che condusse vita eremitica in Palestina, abitando fino alla morte in una misera grotta.

Corrado naque a Ravensburg, in Svevia, attorno al 1105, da Enrico IX di Welf detto il Nero e Wulfilde di Sassonia. Enrico divenne nel 1120 duca di Baviera, succedendo al fratello Guelfo V. Gli successe nel 1126 il primogenito Enrico X il Superbo, mentre il secondogenito Guelfo VI divenne duca di Spoleto. Le figlie Giuditta, Matilde e Wulfilde contrassero importanti matrimoni, e da Giuditta, sorella maggiore di Corrado, nacque l’imperatore Federico Barbarossa. Tra gli avi di Corrado bisogna annoverare S. Corrado di Costanza.
Essendo il minore tra i figli maschi, educato negli studi letterari, fu avviato dai genitori alla carriera ecclesiastica presso Colonia con l’intento di farlo succedere all’Arcivescovo Federico, suo cugino paterno. In questo periodo il giovane si ornò di virtù tali da essere considerato degno di sommo onore, suscitando ammirazione tra il clero e il popolo. Si istruì negli studi superiori e nella disciplina ecclesiastica, in diritto canonico e civile.
Ma in quel periodo il suo animo si infervorò ascoltando la predicazione di Arnoldo, abate cistercense di Morimond. Comprese che la sua vocazione era quella monastica e, trasgredendo alle aspettative della famiglia, abbandonò gli onori del proprio rango per abbracciare, ancora adolescente, la severa regola dell’Ordine Cistercense presso Morimond.
Poco dopo Arnoldo avviò una spedizione in Terra Santa per la fondazione di un monastero, coinvolgento i monaci di Morimond e suscitando la disapprovazione di S. Bernardo di Chiaravalle, colonna dell’Ordine, convinto che in quel periodo in Palestina fossero necessari soldati piuttosto che monaci. In due epistole, una inviata al canonico Brunone dei conti di Berg e Altena, e l’altra inviata a Papa Callisto II, egli cercò un appoggio per impedire la spedizione, dato che tra i monaci coinvolti vi era Corrado, il nobile giovane trascinato via da Colonia qualche anno addietro con grande scandalo.
All’inizio del 1125 Arnoldo morì all'improvviso, e l’impresa fallì. Ma Corrado proseguì da solo il pellegrinaggio, attratto dal fascino mistico della terra di Gesù. Varcò le Alpi e, raggiunta la Puglia, visitò i Santuari di S. Michele sul Gargano e di S. Nicola a Bari, tappe obbligate per i pellegrini diretti in Palestina. Tuttavia, sfinito dal viaggio intrapreso con mezzi di fortuna, si ammalò prima di imbarcarsi, e trovò rifugio presso la comunità benedettina di S. Maria ad Cryptam nell’agro di Modugno, nella diocesi di Bari. Corrado visse gli ultimi mesi della sua breve vita in una grotta adiacente alla cappella, facendo esperienza di monachesimo eremitico, pregando, digiunando e dormendo sulla roccia nuda. Egli suscitò grande ammirazione nella gente del posto, che cominciò subito a ricorrere alla sua intercessione. Morì probabilmente nell’inverno tra il 1125 ed il 1126, poco più che ventenne. La tradizione fissa il giorno della morte al 17 marzo. Il suo corpo venne inumato nella cappella di S. Maria ad Cryptam, e la tomba divenne meta di pellegrinaggi.
Nel 1309 quella comunità benedettina venne soppressa, ed i molfettesi, il 9 febbraio di un anno imprecisato, si impossessarono del corpo. Col gesto di inumarne i resti nella Cattedrale, Corrado veniva riconosciuto Santo Patrono di Molfetta, ed un messale del XIV secolo testomonia che già in quel periodo al 9 febbraio era fissata la festa della “Traslatio Sancti Corradi Confessoris”, celebrata con una messa propria.
Più volte S. Corrado ha manifestato la sua potente intercessione. Ad esempio nei periodi di siccità portando in processione la reliquia del suo cranio si è ottenuta spesso la pioggia.
Famoso è un episodio del 1529 quando, essendo di notte la città assaltata di sorpresa dalle truppe francesi del conte Caracciolo, i cittadini si sentirono chiamare nel sonno da un guerriero che li andava avvertendo del pericolo imminente. Essi, raggiunte le mura, videro nel mezzo di un bagliore la Madonna dei Martiri, S. Corrado, nel quale riconobbero il misterioso guerriero, e S. Nicola. L’esercito francese, atterrito, fuggì.
Molfetta fu immune per sua intercessione da molte epidemie, tra cui la pestilenza del 1657, e per riconoscenza fu raccolto dell’argento per far scolpire un busto in cui conservare il suo cranio.
Gli è stato attribuito anche il potere di placare tempeste, alluvioni e terremoti.
Con lo spostamento della sede episcopale, il 10 luglio 1785 le reliquie vennero trasferite nella nuova Cattedrale, e il Duomo Vecchio, prima intitolato all’Assunta, venne a lui dedicato.
Il 7 aprile 1832, sotto il pontificato di Gregorio XVI, si concluse a Roma il processo di canonizzazione equipollente. Corrado fu proclamato Santo, e nel 1834 giunse la messa propria, la cui preghiera di colletta, tradotta in italiano nel 1967, esclama:
“O Dio, tu hai voluto che il Santo Confessore ed Eremita Corrado divenisse cittadino della patria celeste, concedi benigno che, nella sua solennità, disprezzando gli affetti disordinati delle cose terrene, siamo infiammati dal desiderio delle realtà celesti”.

Dal 1893 il corpo è custodito in una teca mobile d’argento e cristallo, spostata nel 1981 nella cappella dei SS. Pietro e Paolo della Cattedrale. In una cassaforte si conserva il busto argenteo contenente il teschio, ed il reliquiario della terza vertebra cervicale, portato un tempo al capezzale dei moribondi. Frammenti delle ossa sono sparsi nelle varie chiese della città. A Modugno si conservano le falangi del pollice destro nella Cattedrale, ed un frammento osseo presso il Santuario di S. Maria ad Cryptam.
Per secoli si ritenne che Corrado fosse morto anziano, e come tale fu rappresentato, con barba bianca, cappa e bordone da pellegrino. Compaiono spesso il cilicio e il teschio, simboli dell’automortificazione, e corona e scettro abbandonati al suolo, segno delle origini nobili.
La festa liturgica cade il 9 febbraio, giorno della traslazione. Il 17 marzo si commemora il transito. La seconda domenica di luglio si festeggia il trasferimento delle reliquie nella nuova Cattedrale.

Autore: Pietro Angione



Figlio di Enrico il Negro, duca di Baviera, fu mandato giovanetto a Colonia per essere istruito da quei dotti canonici nelle scienze sacre e profane, e vi compì progressi tali da lasciar presagire unbrillante, avvenire. Egli, invece, attratto dalla fama di s. Bernardo, si portò a Chiaravalle, dove vestì l'abito religioso, ottenendo poco dopo il permesso di recarsi in Palestina per consacrarsi, nella terra di Gesù, a vita eremitica. Vi rimase alcunianni in compagnia di un vecchio solitario cui, nella sua umiltà, faceva da servitore. Aumentando poi, a cagione dell'infelice riuscita della seconda crociata, il pericolo islamico e avendo appreso che lasalute di s. Bernardo declinava, decise di tornare a Chiaravalle. Raggiunta Bari, dopo una malattia durante il viaggio per mare, e appreso, sembra, che s. Bernardo era ormai deceduto, Corrado, dopo aver venerato il sepolcro di s. Nicola, si ritirò nel territorio di Modugno. in una grotta dedicata alla Madonna, dove morì il 17 marzo 1154 (o 1155), famoso per santità e miracoli.
Il suo corpo fu portato a Molfetta, di cui è patrono, e deposto nell'antica cattedrale, che gli fu dedicata. Il 10 luglio 1785 fu trasferito nella nuova, in un altare a destra di chi entra ornato di una tela di Corrado Giaquinto. Il suo capo, però, è custodito in un reliquiario che viene portato in processione in certe circostanze. È festeggiato il 9 febbraio (dies natalis), il 17 marzo (patrocinio) e il 10 luglio (traslazione). Il suo culto fu confermato da Gregorio XVI il 6 aprile 1832 e posto definivamente al 17 marzo dal Nuovo Martirologio Romano.

Autore:
Balduino Bedini

(Lc. 6,36-38) Perdonate e sarete perdonati

VANGELO 
(Lc 6,36-38) Perdonate e sarete perdonati. 
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Parola del Signore
(Lc 6,36-38) Perdonate e sarete perdonati. ( Gesù-e-il-buon-ladrone)
(Lc 6,36-38) Perdonate e sarete perdonati. ( Gesù-e-il-buon-ladrone)

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Spirito del Signore,ti prego,donami la libertà dal mio io,e fa che io possa diventare come spugna per il mio Dio.


Dare per avere, ogni cosa ci verrà restituita ,dice Gesù, per come l'avremo concessa, nella stessa misura.
L'invito è a misurare con la stessa misura di Dio, ossia senza misura, all'infinito.C'è molto in queste poche righe, oserei dire che c'è tutto quello che ci dovrebbe interessare per vivere in comunione con Dio, proprio perchè è Gesù stesso che ci conduce passo passo nel cuore del mistero dell'amore assoluto. Dio è quello che ama senza misura,che perdona al minimo accenno,che prova per noi tanto di quell'amore da non saperne fare a meno.
Per capire questo bisogna entrare seriamente in contatto con Lui, non farci un'idea, ma vivere una realtà.Tutto quello che ci unisce a Dio, non può essere idealizzato e basta, perchè ci lascerebbe distanti dall'originale, in tutto, anche nella pratica.C'è un momento,prima della morte di Gesù sulla croce, che oggi mi balza continuamente davanti agli occhi, un momento che sembra non avere nulla in comune con il vangelo di oggi, ma come io spesso ripeto,questa mia riflessione, non vuole essere un'omelia, nè una spiegazione del brano evangelico, ma un esempio di come il Signore ci parla attraverso la scrittura, e di come comunica con noi attraverso le scritture.
Il momento in questione è quello in cui ci presenta i due ladroni che stavano in croce accanto a Gesù.Il primo rifiutò Gesù fino all'ultimo, lo scherniva e lo insultava: " Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!  "
L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».Bastò questo a Gesù, bastò che il peccatore riconoscesse che lui era punito giustamente e che Gesù che era giusto,  veniva invece crocifisso senza colpa,per dire allo sventurato che la corsa della sua vita, cambiava direzione, che sarebbe stato accolto in paradiso. L'ultima occasione per il ladrone, l'ultima tentazione per Gesù, infatti le parole del primo ladrone ricordano quelle di satana nelle tentazioni,e Gesù non risponde alla tentazione,ma risponde al desiderio di giustizia per lui.A volte il nostro sentirci colpevoli ci fa schierare dalla parte sbagliata e ci fa rinunciare alla salvezza, ma con Dio tutto è molto più semplice di come noi lo giudichiamo,tutto è dono, tutto è grazia infinita.La liberazione nasce da un semplice riconoscimento di giustizia , il  Dio che si manifesta in Gesù non è il Dio che guarda i meriti, non abbiamo nessun merito, non è un Dio che guarda le virtù, non abbiamo molte virtù, ma è il Dio che guarda i bisogni e le necessità, un Padre che  concede la salvezza, non come un premio, ma come un regalo, così come fa Gesù.Oggi il Signore mi ha portato sotto alla croce e ve l'ho raccontato con semplicità, per farvi capire come ogni volta è diverso,metto il link della precedente riflessione sullo stesso brano: http://bricioledivangelo.blogspot.it/2013/02/lc-636-38-perdonate-e-sarete-perdonati.html

sabato 15 marzo 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Il dolore è stato amato con voluttà dalle anime grandi. Esso è l’ausiliario della creazione dopo la sventura della caduta; è la leva piú potente per rialzarlo; è il secondo braccio dell’amore infinito per la nostra rigenerazione." (ASN, 42).

SANTI é BEATI :

Beata Benedetta di Assisi

16 marzo

m. 1260

Entrata nelle Clarisse di S. Damiano nel 1214, si ritiene che sia stata badessa a Siena e a Vallegloria presso Spello. Fece in tempo ad assistere alla costruzione della basilica in onore di S. Chiara, e al trasferimento delle Clarisse nei locali annessi alla vecchia chiesa di S. Giorgio. Nella medesima fu seppellita, oltre a S. Chiara anche s. Benedetta. Oggi riposa anch’essa nella basilica di S. Chiara di Assisi.

Etimologia: Benedetta = che augura il bene, dal latino

Entrata fra le Clarisse di Assisi nel 1214, successe a s. Chiara nel governo del monastero di S. Damiano, rimanendo in quell'ufficio fino al 1260. Quasi sicuramente è la stessa che troviamo badessa nel 1227 a Siena e dal 1240 al 1248 a Vallegloria presso Spello.
Fu presente al processo di canonizzazione di s. Chiara nel novembre del 1253, in cui però non depose, forse per essere stata molto tempo assente da Assisi. A lei frate Leone e frate Angelo, dopo la morte di Chiara, affidarono il breviario usato da s. Francesco. Assisté all'inizio della costruzione della basilica di S. Chiara (1257), al trasferimento delle Clarisse da S. Damiano ai locali annessi alla vecchia chiesa di S. Giorgio e forse anche al trasferimento del corpo di s. Chiara dalla chiesa: di S. Giorgio alla nuova basilica, se si accetta, con i Bollandisti, come data della morte il 19 ottobre anziché il 16 marzo 1260. Il Martirologio Francescano afferma che la sua vita splendette per singolare prudenza e per grande fama di virtù e miracoli. Fu sepolta nella chiesa di S. Giorgio. Nel 1602 il vescovo di Assisi, Crescenzi, fece riporre le sue reliquie con quelle della beata Amata e di s. Agnese nella cappella dedicata a quest'ultima nella basilica di S. Chiara. In essa si venera, sopra l'altare maggiore, una grande croce sagomata, con ai lati dipinte s. Chiara e la beata Benedetta, e con la seguente leggenda in caratteri gotici: "Domina Benedicta post Sanctam Claram prima Abbatissa me fecit fieri" ('Donna Benedetta, prima badessa dopo santa Chiara, mi fece dipingere').

Autore: Aldo Brunacci

(Mt 17,1-9) Il suo volto brillò come il sole

VANGELO
(Mt 17,1-9) Il suo volto brillò come il sole
+ Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni vicino a me o Santo Spirito, ed aiutami a comprendere il senso della lettura d’oggi, e saperla applicare alla mia vita.
In questo brano, Matteo ci porta con Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor.
Gli apostoli non comprendevano bene il perché di questa scelta di Gesù di sottoporsi volontariamente a tanta sofferenza, ricordiamo che Pietro che non voleva andare a Gerusalemme con Gesù, dopo che questi aveva detto a lui e agli altri, quello che l’aspettava e lo esortava a non sottoporsi a tale supplizio. Gesù allora propone ai suoi discepoli di salire sul monte e una volta giunti si misero a pregare. Non volle spiegare a parole, ma volle che potessero condividere con Lui quel momento di preghiera, per aiutarli a capire, gli mostra come questa accettazione poteva diventare la loro trasfigurazione. Notate la differenza tra il pregare di Gesù, che trasfigura davanti ai loro occhi, e quello assonnato degli apostoli. Apparve ai loro occhi, riflesso di luce e parlava con Mosè ed Elia era una visione meravigliosa che li fece restare svegli anche se cadevano dal sonno.Ad un tratto furono avvolti da una nube ed udirono una voce: -ecco il mio Figlio, l’eletto, ascoltatelo- La voce di Dio confermava quello che disse al battesimo nel Giordano, riporre la propria fede in Gesù Cristo Figlio di Dio, non è un optional, ma è un preciso comando di Dio stesso, e non riconoscerlo come tele vuol dire disobbedire a Dio, opporsi al volere di Dio. I discepoli erano colpiti da questa manifestazione di Gesù e vedere Elia e Mosè li aveva riempiti di una nuova consapevolezza, che ancora non comprendevano fino in fondo, ma che apriva il loro cuore alla speranza e faceva intravedere che la fede è andare oltre la nostra umanità, e che diventa un connubio con Dio. Dio aveva detto ascoltatelo e avevano visto i patriarchi defunti nella gloria con Gesù, avevano ancora tanta confusione e stettero tre giorni prima di capire bene il senso di quello che era successo, conservando tutte quelle cose in silenzio nel loro cuore.
Rispetto a questo brano io posso aggiungere, per esperienza, che quando il Signore ci concede una sua grazia, anche noi rimaniamo esterrefatti e stupiti, anche se non è la trasfigurazione, ma in ogni modo è sempre un qualcosa che ci lascia senza parole e senza spiegazione, allora anche se al momento non capiamo a fondo, non realizziamo subito il senso dell'accaduto, viene automatico restare tre giorni senza dire nulla e poi pian piano si riesce a mettere a fuoco quello che è successo.
Quanto sarebbe bello poter essere trasfigurati in Gesù, riuscire a fare della nostra preghiera e della nostra vita una ricerca intensa di comunione con il regno dei cieli, il nostro desiderio sarebbe legittimo, come lo è stato per gli apostoli, che hanno chiesto di poter fare tre capanne.
Legittimo voler restare con Gesù, ma ancora non era risorto dai morti, e gli chiese di tacere, fino a che tutto fosse compiuto; ed oggi che senso dare a queste parole?
Gesù è risorto, è con noi, possiamo vivere con lui la nostra esperienza di vita sulla terra, possiamo dimostrare di aver compreso almeno in parte il suo messaggio, possiamo chiedergli di trasformarci in uomini e donne nuove, ma per farlo, dobbiamo credere che Gesù è il figlio che Dio ci chiede di ascoltare ed affidarci a Lui.

venerdì 14 marzo 2014

VOCE DI SAN PIO :

-" Chi comincia ad amare deve essere pronto a soffrire." (CE, 25).

SANTI é BEATI :

Santa Luisa de Marillac Vedova e religiosa
Ferrieres, Francia, 1591 - Parigi, Francia, 15 marzo 1660
Luisa (Ludovica) nasce nel 1591 a Ferrieres e ha un'infanzia agiata. Dopo il 1604, morto il padre, viene tolta dal regio collegio e affidata a una «signorina povera» (forse sua madre), che l'avvia al lavoro. In questo periodo matura il proposito di farsi religiosa. Ma i parenti la danno in sposa nel 1613 allo scudiero e segretario di Maria de' Medici, Antonio Le Gras. I frequenti colloqui con Francesco di Sales, incontrato la prima volta a Parigi nel 1618, aiutano Ludovica a superare le proprie sofferenze. Poi nel 1624, grazie all'incontro con Vincenzo de' Paoli, diventa cofondatrice dell'Istituto delle Figlie della Carità. Poco dopo, nel dicembre 1625, morto il marito ed entrato in seminario il figlio Michele, accoglie in casa sua le prime giovani venute dal contado per mettersi al servizio dei poveri, in collaborazione con le Dame della Carità. Era il primo nucleo della nuova congregazione, dai lei guidata fino alla morte, avvenuta nel 1660. (Avvenire)
Patronato: Assistenti Sociali
Martirologio Romano: A Parigi in Francia, santa Luisa de Marillac, vedova, che guidò con il suo esempio l’Istituto delle Figlie della Carità nell’assistenza ai bisognosi, portando a pieno compimento l’opera avviata da san Vincenzo de’ Paoli.
Ascolta da RadioVaticana:
  
Ascolta da RadioMaria:
  

Si racconta che Napoleone, in un giorno di quiete, si trovò ad ascoltare un gruppo di persone qualificate culturalmente che cominciarono a discettare di filosofia, di politica, di scienza e con entusiasmo esaltavano l’Illuminismo che aveva prodotto nella società un sentimento filantropico. L’imperatore li ascoltava ma si mostrava sempre più impaziente e anche infastidito da tutte quelle parole.
Ad un certo punto li interruppe dicendo: “Tutto questo è bello e buono, ma non farà mai una Suora Grigia!”. Si chiamavano così le Figlie della Carità, fondate, nel 1633, da Vincenzo de’ Paoli e da Luisa de Marrillac, da più di un secolo già famosissime e stimatissime in Francia per la loro opera di carità verso i più bisognosi e per i poveri rottami della società, che pure si fregiava dell’appellativo di illuminista, cioè illuminata dal lume della ragione.
Una seconda curiosità. Verso la metà del 1600, quando ormai le Suore Grigie operavano già da qualche decennio, alleviando tante sofferenze e salvando tante vite umane, viveva a Parigi, nella quiete e nella sicurezza, il filosofo inglese Thomas Hobbes.
Di lui è rimasta la teorizzazione filosofica dell’assolutismo dello Stato (il Dio mortale sulla terra) nella sua opera Il Leviathan (1651). Tutto doveva essere sottomesso allo Stato (anche l’autorità religiosa). Uno Stato assoluto con poteri assoluti sui singoli individui era necessario per evitare che gli uomini si sbranassero a vicenda alla ricerca inevitabile dei propri diritti. Sua è la famosa frase: “Homo homini lupus”, l’uomo è un lupo per l’altro uomo, pronto, pur di affermare i propri diritti alla sopravvivenza, a sbranarlo.
Le Figlie della Carità o Suore Grigie, sapendo che lo Stato non è tutto, erano dei veri angeli, che alleviavano il dolore in ogni angolo dove l’autorità politica e civile non entrava o ne ignorava il bisogno. E in questa loro opera così importante e socialmente così utile e illuminata seguivano le orme e gli esempi dei loro fondatori: San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac. Due grandi figure che hanno illuminato con la loro santità operante socialmente quel secolo francese grande anche per altre figure come Pascal e Cartesio, Richielieu e Mazzarino, Moliere e Corneille, card. De Berulle e Jacques Bossuet, San Giovanni Eudes e altri.
Avendo già parlato nel mese di settembre 2007 di San Vincenzo de’ Paoli, ora tocca a Santa Luisa, che per più di trenta anni lavorò con lui con lo stesso obiettivo: mostrare il volto misericordioso e buono di Dio verso i bisognosi, specialmente quelli più abbandonati e soli, e in questo erano ambedue mossi dallo stesso e unico grande amore a Gesù Cristo.

Il matrimonio sbagliato e per interesse


Louise de Marillac nacque nel 1591. Non ebbe come si dice un’infanzia e un’adolescenza serena. Il padre apparteneva ad una delle più importanti famiglie della Francia. Della madre non si sa niente: era quindi una figlia naturale, riconosciuta premurosamente dal padre ed anche aiutata da lui con una rendita che le assicurasse una certa sicurezza. Era una bambina intelligente e saggia. I suoi primi studi furono fatti nel convento delle domenicane di Poissy. L’atmosfera raccolta, devota e culturalmente stimolante le piacque da subito. Ma, forse, la spesa era eccessiva per lei. Venne infatti ritirata e affidata ad una maestra abile anche nell’insegnarle i lavori tipici femminili.
Perdette il padre all’età di 11 anni, e, fatto che complicò ancora il suo stato di orfana, la famiglia della matrigna e gli altri parenti (sembra) non si preoccuparono eccessivamente di lei e del suo destino.
La ragazza cresceva molto devota e aveva fatto voto di consacrarsi al Signore: all’età di 18 anni Luisa si preparava quindi ad entrare in un convento. Fu però sconsigliata e respinta in questo suo proposito a causa della sua salute non robusta. Se non poteva diventare suora allora bisognava maritarla. E così fu. Ecco quindi un matrimonio non voluto da lei ma combinato da altri, quindi solo di interesse.
Era il 1613 e Luisa aveva 22 anni. Il nome del marito Antoine Le Gras, senza alcun titolo nobiliare. Nacque ben presto anche un figlio. Luisa conduceva una vita di devota nel bel mondo che la portava a frequentare prelati, signori dell’ambiente dei Marillac e di Madame Acarie, il tutto mentre si prendeva cura del figlio, debole di salute. Sembrava tutto facile. Ma Luisa cresceva negli scrupoli, nei rimorsi per non essere potuta entrare in convento sempre oppressa da quelli che lei credeva peccati. Era in crisi, insomma. Aveva una buona formazione intellettuale e spirituale, ed una vita cristiana buona. E purtroppo il matrimonio non era diventato un sostegno per lei ma fonte di difficoltà e di ansietà. Cercava quindi la salvezza nell’ascesi, nell’umiltà, nell’abnegazione. Spesso anche in maniera esagerata. E in più aveva sviluppato un attaccamento verso suo figlio che qualche autore chiama addirittura di natura nevrotica. Era un’anima in difficoltà spirituale, in grande pena e dalla psicologia ferita profondamente.
Ebbe anche la possibilità di incontrare addirittura due santi (e anche grandi): il vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, e specialmente Vincenzo de’ Paoli. Avrà con quest’ultimo l’incontro decisivo e provvidenziale per la sua vita.
E veniamo all’anno 1623, anno importante per Luisa. Quello dell’illuminazione. Scrisse lei stessa: “Compresi che... sarebbe venuto un tempo in cui sarei stata nella condizione di fare i tre voti di povertà, castità e obbedienza, e questo assieme ad altre persone... Compresi che doveva essere in un luogo per soccorrere il prossimo, ma non riuscivo a capire come ciò si potesse fare, per il fatto che doveva esserci un andare e venire...”. Un segno dall’alto di avere un po’ di pazienza per coronare il suo sogno di diventare religiosa.
Luisa capì il messaggio e infatti cominciò ad aderire, con umiltà e serenità e nella pace interiore, alle circostanze della vita, che in quel momento significava stare a fianco del marito (dal quale pensava di separarsi). La malattia del marito intanto continuava e Luisa lo assistette con molta più dedizione e tenerezza di prima, per altri due anni, rimanendogli accanto fino alla morte santa (1626), della quale lei parlava come di una grande grazia del Signore.

L’incontro con Vincenzo de’ Paoli

Fu certamente la Provvidenza, che non lascia niente al caso per realizzare i propri progetti di salvezza, a far incontrare Luisa con Vincenzo (intravisto, senza capire di chi si trattasse, in quella famosa illuminazione del 1623).
Avvenne nel 1624, durante gli ultimi due anni della malattia del marito. Lei 33 anni, lui 43, famoso in tutta la Francia, che trattava con re, regine, ministri e grandi personaggi. Una coppia che avrebbe funzionato molto bene per il Regno di Dio e che sarebbe rimasta unita indissolubilmente e animata visibilmente dall’unico e indistruttibile e comune amore per il Signore Gesù.
Luisa sarebbe diventata la vera compagna di Vincenzo per le opere di carità sociale. Le fu vicino con molta discrezione, con molta saggezza e anche tenerezza spirituale, rasserenando il suo spirito col richiamo continuo all’amore di Dio per ciascuno di noi e quindi anche per lei (per farle vincere il suo moralismo, gli scrupoli e il ricordo dei propri errori). La invitava sempre ad esser lieta, semplice ed umile, le ricordava continuamente l’importanza della “santa indifferenza” davanti a quello che Dio avrebbe voluto per lei. Lei stessa avrebbe trovata la strada e la missione che Dio voleva. Un po’ di pazienza. Anche Dio ha i suoi tempi per agire e per far capire il suo progetto.
Il Cristo non era vissuto trent’anni nell’oscurità di Nazaret prima della missione? Anche Luisa poteva e doveva aspettare.
Intanto conosceva sempre di più l’opera e la metodologia di Vincenzo con i poveri. E il miracolo avvenne. Arrivò proprio il giorno in cui Luisa intuì il proprio compito o meglio la missione nella Chiesa.
Lei, Luisa de Marillac, di madre sconosciuta, orfana a 11 anni del padre, una suora mancata, una giovane donna maritata per interesse, madre di un figlio che dava e aveva problemi... sarebbe diventata la “Madre dei poveri”. Grazie a Dio (e a Vincenzo, mandato da Dio) una trasformazione totale. Naturalmente comunicò l’intuizione a Vincenzo. Era proprio quello che aspettava. Le rispose: “Sì che acconsento, mia cara damigella, acconsento sicuramente. Perché non dovrei volerlo io pure, se Nostro Signore vi ha dato questo santo sentimento?... Possiate essere sempre un bell’albero di vita che produce frutti d’amore!”. E così sarà veramente per Luisa, per tutta la vita e per tanti poveracci che incontrerà e aiuterà.
L’opera maggiore (che continua ancora oggi) che questa santa “coppia di Dio” ha fatto insieme è stata la fondazione delle Figlie della Carità, nel 1633. Un Istituto religioso, diretto da loro due insieme per 27 anni fino al 1660, quando morirono entrambi a poca distanza di mesi.
Fu una vera rivoluzione per la Chiesa (uscire fuori dai conventi e per di più donne), perché andava al di là dai soliti schemi mentali e gabbie organizzative ecclesiali vigenti fino a quel tempo. Vincenzo e Luisa a tutti chiedevano quello che potevano dare: ai re e regine, ai borghesi e alle dame dell’alta società francese, ai nobili ricchi e ai ricchi non nobili. Alle figlie chiedevano di essere “serve dei poveri”, come se essi fossero i veri padroni. Ma tutto questo Luisa lo chiedeva dicendo o scrivendo “In nome di Dio, sorelle... siate molto affabili e dolci con i vostri poveri. Sappiate che sono i nostri padroni...”. E questi poveri erano i derelitti, gli abbandonati, i senza dimora, i malati, i pazzi, i galeotti, bambini trovatelli, feriti di guerra e altre categorie affini a forte disagio sociale.
Era un’assistenza piena di amore e di carità, che nessuna ideologia o anche filosofia illuminista poteva inventare o giustificare ma solo l’amore di Dio. Ed era un lavoro che le Figlie della Carità, quelle suore grigie che Napoleone “sognava”, facevano, e sempre faranno, “in nome di Dio”.

Autore:
Mario Scudu sdb

(Mt 5,43-48) Siate perfetti come il Padre vostro celeste.

VANGELO
 (Mt 5,43-48) Siate perfetti come il Padre vostro celeste. 
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito e aiutami a vivere con tutte le mie contraddizioni il vangelo. Aiutami a cercare di essere migliore e a non accettare la mia umanità pensando di non poterla migliorare.

Sembra facile amare! Ci riempiamo la bocca di questa parola,ma non concediamo spazio all'amore.
Spesso viviamo come aiuole che non accettano di essere calpestate, dritte in difesa e pronte all'attacco, e questo mentre parliamo d' amore.
Amare i nemici poi...ignorarli forse,ma amarli e quasi impossibile.
Eppure vorremmo vivere in pace, ma non riusciamo a fare nulla per conquistare questa benedetta pace.
Se digitiamo la parola pace  interiore su google,ci appaiono subito siti in cui si parla di buddismo ,di zen ecc. come se loro che praticano queste filosofie avessero la ricetta per la pace interiore.... peccato che poi vediamo scene di monaci buddisti che si picchiano come forsennati.
La pace interiore non è una formula, non è una teoria, ma un continuo esercizio di umiltà che ci mette di fronte alle nostre piccolezze e alla nostra grande superbia.