sabato 21 marzo 2015

LETTERE DAL DESERTO ( di Carlo Carretto )

LETTERE DAL DESERTO
di Carlo Carretto

INTRODUZIONE
La chiamata di Dio è cosa misteriosa, perché avviene nel buio della fede.
In più essa ha una voce sì tenue e sì discreta, che impegna tutto il silenzio interiore per essere captata.
Eppure nulla è così decisivo e sconvolgente per un uomo sulla terra, nulla più sicuro e più forte.
Tale chiamata è continua: Dio chiama sempre! Ma ci sono dei momenti caratteristici di questo appello divino, momenti che noi segnano sul nostro taccuino e che non dimentichiamo più.
Tre volte nella mia vita intesi questa chiamata.
La prima determinò la mia conversione a 18 anni. Ero in un villaggio di campagna, maestro elementare.
Venne, in occasione della Quaresima, una missione per il popolo. Vi presi parte, e di essa mi rimase il ricordo di una predicazione antiquata e noiosa. Posso dire che non furono certo le parole a scuotere il mio stato d’indifferenza e di peccato. Ma quando mi inginocchiai dinanzi ad un vecchio missionario, di cui ricordo gli occhi chiari e semplici, per esporre la mia confessione, avvertii nel silenzio dell’anima il passaggio di Dio.
Da quel giorno mi sentii cristiano e constatai che la mia vita era cambiata.
La seconda volta fu a 23 anni. Pensavo a sposarmi; e nemmeno sapevo che poteva esistere qualche altra via per me.
Incontrai un medico che mi parlò della Chiesa e della bellezza di servirla con tutto il nostro essere, pur restando nel mondo. Non so che cosa avvenne in quei giorni e come avvenne; il fatto si è che, pregando in una chiesa deserta dov’ero entrato per sfogare il tumulto dei pensieri che agitavano la mia mente, sentii la stessa voce che avevo udito durante la confessione col vecchio missionario. “Tu non ti sposerai; tu mi offrirai la tua vita. Io sarò il tuo amore per sempre”.
Non fu difficile rinunciare al matrimonio e consacrarmi a Dio, perché tutto era cambiato in me; a me sarebbe parso strano innamorarmi di una ragazza, tanto Dio riempiva la mia vita.
Furono anni pieni di lavoro, di passioni, di incontri con anime, di grandi sogni. Gli stessi sbagli – e furono molti – erano dovuti alla violenza di ciò che bruciava dentro di me e che non era ancora purificato.
Passarono molti anni; e molte volte mi sorpresi in preghiera a domandare di risentire il suono di quella voce che tanta importanza aveva avuto per me.
Fu a 44 anni che ciò avvenne; e fu la chiamata più seria della mia vita: la chiamata alla vita contemplativa. Essa si determinò nel più profondo della fede, là dove il buio è assoluto e le forze umane non aiutano più.
Questa volta dovevo dire di sì senza nulla capire: “Lascia tutto, e vieni con me nel deserto. Non voglio più la tua azioni, voglio la tua preghiera, il tuo amore”.
Qualcuno, vedendomi partire per l’Africa, pensò ad una crisi di sconforto, di rinuncia. Nulla è più inesatto di ciò. Sono così ottimista per natura e ricco di speranza, che non conosco ciò che sia lo sconforto o la rinuncia alla lotta.
No; fu la chiamata decisiva. E mai la compresi come quella sera dei Vespri di S. Carlo del 1954, quando dissi di sì alla Voce.
“Vieni con me nel deserto”. C’è una cosa più grande della tua azione: la preghiera; c’è una forza più efficace della tua parola: l’amore!
E andai nel deserto.
Senza aver letto le Costituzioni dei Piccoli Fratelli di Gesù, entrai nella loro Congregazione; senza conoscere Charles de Foucauld mi misi alla sua sequela.
Mi bastava aver sentito la voce che mi aveva detto: “Questa è la tua strada”.
Fu camminando coi Piccoli Fratelli sulle piste del deserto che scoprii la bontà della via; fu seguendo il Padre de Foucauld che mi convinsi che proprio quella era la mia via.
Ma Dio me l’aveva già detto nella fede!
Ma faccio bene a scrivere queste cose?
Quando giunsi a El Abiod Sidi Seik per il noviziato, il mio maestro mi disse con la calma più perfetta d’un uomo che aveva vissuto vent’anni nel deserto: “Il faut faire une coupure, Carlo”.
Io capii cosa voleva dire quella frase e decisi di fare il taglio anche se doloroso.
Avevo nella mia sacca conservato un grosso quaderno su cui erano annotati gli indirizzi dei miei vecchi amici: ce n’erano migliaia.
Il Signore nella sua bontà non m’aveva mai lasciato mancare la gioia dell’amicizia e su un vero fiume d’amore aveva navigato la barca della mia vita.
Se restava in me una sofferenza nascosta era certamente quella di non poter – al momento della mia partenza per l’Africa – parlare a ciascheduno di loro, spiegare il motivo dell’abbandono, dire che obbedivo ad una chiamata chiara di Dio e che, anche se da un’altra trincea, avrei continuato a militare con loro nel campo dell’apostolato.
Ma bisognava fare la famosa “coupure”ed io la feci con coraggio e con una grande fiducia in Dio.
Presi l’indirizzario che era per me come l’ultimo legame al passato ed andai a bruciarlo dietro una duna durante una giornata di ritiro.
Rivedo ancora i resti anneriti del quaderno trasportati lontano dal vento del Sahara.
Ma bruciare un indirizzo non significa distruggere l’amicizia, né questo mi era richiesto; anzi…
Mai ho amato e pregato tanto per i miei vecchi amici come nella solitudine del deserto. Ne rivedevo i volti, ne sentivo i problemi, le sofferenze acuite dalla distanza.
Essi erano diventati per me come un gregge che mi sarebbe appartenuto per sempre e che io dovevo condurre con me ogni giorno alla fonte della preghiera.
Quasi fisicamente li sentivo attorno a me quando entravo nella chiesa di stile arabo a El Abiod o, più tardi negli eremitaggi famosi costruiti dallo stesso padre de Foucauld a Tamanrasset, all’Assekrem.
Pregare era diventato il mio maggiore impegno, la mia più dura fatica quotidiana e avevo per vocazione cosa significasse “portare gli altri” nella nostra preghiera.
Ebbene: a distanza di anni posso dire di aver mantenuto il mio impegno, mentre s’è fatta sempre più chiara la certezza che a pregare non si perde il proprio tempo e che non esiste forma più adatta per aiutare coloro che amiamo.
Rimane il problema dell’indirizzario che non posseggo più, ma questo non ha molta importanza perché esistono altri mezzi per raggiungere gli amici.
Ecco, vorrei dare a loro l’appuntamento in uno dei tanti angoli meravigliosi del Sahara verso la sera al calar del sole, e ritrovarci tutti come ci siamo trovati allora in quella sera famosa del settembre 1948 nella piazza di S. Pietro. Ricordate?
Qui non ci sarebbe bisogno di fiaccole, tanto il cielo è chiaro di stelle.
Ci sederemmo sulla sabbia e trascorreremmo la notte a raccontarci la vita di questi anni, le tappe compiute, le prove subite.
Penso che la stella del mattino ci troverebbe ancora a conversare.
Per conto mio, ho voluto annotare qui in queste “lettere dal deserto” le cose che direi, se mi fosse data una simile occasione, e che rappresentano certamente una parte di me stesso.
Niente di sistematico, niente di importante. Alcune idee maturate nella solitudine e gravitanti attorno ad un’attività che è stata senza alcun dubbio il più grande dono che mi ha fatto il Sahara: pregare.
Se ho fatto bene o male a scrivere, lo direte voi, i miei cari vecchi amici; ma sento che se non altro la cosa avrà servito a ripensare con esperienza nuova i problemi che sono stati alla base della nostra amicizia.
Vostro piccolo fratello
Carlo Carretto

I – Sotto la grande pietra

Sotto la grande pietra La pista, bianca di sole, si snodava dinanzi a me con tracciato incerto. I solchi nella sabbia, fatti dalle ruote delle grandi cisterne dei “petrolieri”, m’obbligavano ad una ginnastica continua per mantenere la direzione della jeep. Il sole era alto e mi sentivo stanco. Solo il vento che soffiava sul muso della macchina permetteva ancora alla jeep di procedere, benché la temperatura fosse infernale e l’acqua bollisse nel radiatore. Di tanto in tanto il mio sguardo si posava sull’orizzonte. Sapevo che nella zona c’erano grossi blocchi di granito emergenti dalla sabbia: ricercatissimi luoghi d’ombra per fare il campo e attendere la sera per proseguire il viaggio. Difatti, verso mezzogiorno, trovai ciò che cercavo. Grosse rocce apparvero sulla sinistra della pista; ed io mi avvicinai, sicuro che avrei trovato un po’ d’ombra. Non ne fui deluso. Sulla parete nord d’un gran macigno alto una decina di metri una lama d’ombra si proiettava sulla sabbia rossa. Misi la jeep contro vento per raffreddare il motore e scaricai il “ghess”, cioè l’indispensabile per fare il campo: una stuoia, il sacco dei viveri, due coperte e il treppiede per il fuoco. Ma, avvicinandomi alla roccia in ombra, mi accorsi che c’erano già ospiti: due vipere se ne stavano raggomitolate nella sabbia calda e mi sorvegliavano senza muoversi. Feci un salto indietro, m’avvicinai alla jeep senza perder di vista i due serpenti; e presi il fucile, un vecchio aggeggio che un indigeno m’aveva prestato per aiutarlo a liquidare gli sciacalli che attaccavano i suoi greggi, spinti dalla fame e dalla siccità. Misi una cartuccia con piombo medio; e mi allontanai, cercando di colpire le due vipere d’infilata per non sprecare un altro colpo. Tirai e vidi le due bestie saltare in aria tra un nuvolo di sabbia. Ripulendo la zona dal sangue e dai resti delle vipere, vidi che dal ventre squarciato di una di esse usciva un uccellino non ancora digerito. Stesi la stuoia, che nel deserto è tutto: cappella, sala da pranzo, camera da letto, salotto di ricevimento; e mi sedetti. Era l’ora sesta e presi il breviario. Recitai qualche salmo, ma con un certo sforzo, data la stanchezza e la faccenda di quelle due vipere che di tanto in tanto mi saltavano a pezzi sui versetti. Una vampa calda veniva dal sud e la testa mi doleva. Mi alzai; calcolai l’acqua che mi rimaneva prima di giungere al pozzo di Tit, e decisi di sacrificarne un po’. Ne attinsi dalla “gerba” di pelle di capra una ciotola di un litro e me la versai sulla testa. L’acqua imbibì il turbante, mi scese sul collo e sui vestiti; il vento fece il resto; e la temperatura, da 45 gradi, discese in pochi minuti a 27. Con quel senso di refrigerio mi stesi sulla sabbia per dormire, perché nel deserto la siesta precede il pranzo. Per star più comodo, cercai una coperta per mettermela sotto il capo. Ne avevo due, e ben lo sapevo. Una coperta rimase accanto a me, inutilizzata e, guardandola, non mi sentivo tranquillo. Ma se volete capire, dovete ascoltare la storia.

II – Sarete giudicati sull’amore

Ancora oggi non saprei dirvi se l’episodio della grande pietra sia stato un sogno e che genere di sogno. Ha esercitato così forte influenza sui miei pensieri, ha talmente cambiato le prospettive in cui si vedono le cose, che non l’ho mai potuto attribuire a ciò che comunemente intendiamo quando, svegliandoci, diciamo: “Ho fatto un sogno.” No, no: è stato qualcosa di più. Per me, quel tratto di deserto tra Tit e Silet rimane il luogo del mio purgatorio, l’ambiente dove si raccoglie volentieri la mia anima a meditare le cose di Dio e dove… probabilmente chiederò d’andare, dopo morte, a continuare la mia espiazione, se non sarò stato capace in vita di compiere un atto d’amore perfetto. Ecco la grande pietra sotto il sole accecante del Sahara, la lama d’ombra sulla sabbia calda, la distesa fino all’orizzonte dell’oued solcato dalle tracce dei camion e delle jeep dei petrolieri e dei geologi. “Sarete giudicati sull’amore” mi ripete sulla mia immobilità questo luogo; e i miei occhi bruciati dal sole guardano lontano il cielo senza nubi. Non mi voglio più ingannare; non mi posso più ingannare: la realtà è che non sono stato capace di dare la mia coperta a Kadà per paura della notte fredda; il che significa che io amo più la mia pelle di quella del mio fratello, mentre il comandamento di Dio mi dice: “Ama la vita degli altri come la tua.” E ciò appartiene ancora al Vecchio Testamento, alla prima rivelazione di Dio all’uomo: “Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso.” (Dt 6, 5). Che se veniamo al Nuovo e alla Rivelazione di Gesù, le cose si complicano. “Amatevi tra di voi come Io vi ho amato.” (Gv13, 34). Come Io! cioè non solo la coperta ma la vita stessa. In realtà l’atto d’amore perfetto consiste nell’essere disposto a fare ciò che fece Gesù: cioè a morire per Kadà, per me, per tutti. Sotto questa visuale, il Cielo è quel luogo dove ciascuno dei presenti dev’essere talmente “maturo all’amore”, da offrire la sua vita per tutti gli altri. È l’amore perfetto, universale, radicale, senza ombra d’avversità, d’antipatia, di limite, colati in esso come nel fuoco. Chi è pronto a ciò, alzi la mano! Per questo, dopo la visione della grande pietra, vedo il mio purgatorio lungo, terribilmente lungo, forse lungo come le epoche geologiche. Questa sabbia che tocco con le mani, che scorre tra le mie dita appartiene al “Primario”. Un qualunque geologo mi dice: è vecchia di 350 milioni d’anni. I grandi rettili che popolarono questi luoghi e di cui ho visto i resti nelle fosse sahariane appartengono al secondario: 130 milioni d’anni. Quei cammelli che portano il sale dal Niger e che mi passano dinanzi in carovane lunghe ed eleganti, annoverano i loro progenitori nel lontano terziario: 70 milioni d’anni. E l’uomo, questo uomo così grande e nello stesso tempo così piccolo, con quanta lentezza marcia sui cimiteri di animali che l’hanno preceduto! È del quaternario, di ieri: 500.000 anni. Dio non ha fretta nel fare le cose; e il tempo è suo e non mio. Ed io, piccola creatura, uomo, sono stato chiamato da essere trasformato in Dio per partecipazione. E ciò che mi trasforma è la carità, che Dio ha infuso nel mio essere. L’amore mi trasforma lentamente in Dio. E il peccato, è proprio qui: resistere a questa trasformazione, saper e poter dire di no all’amore. Vivere nel nostro egoismo significa fermarsi allo stato di uomo e impedirne la trasformazione nella carità divina. E fin tanto che non sarò trasformato “per partecipazione” in Dio, attraverso la carità, sarò di “questa terra” e non di “quel cielo”. Il Battesimo mi ha elevato allo stato soprannaturale; ma tale stato deve essere maturato, e tutta la vita ci è data per tale maturazione; ed è la carità, cioè l’amore di Dio, che ci trasforma. L’aver resistito all’amore, il non essere stato capace di accettare la sollecitazione di tale amore che mi aveva detto: “Da’ la coperta al tuo fratello”, è talmente grave, che crea, tra me e Dio, la porta del mio purgatorio. Che vale dire bene l’Ufficio divino, ascoltare la S. Messa e non accettare l’amore? Che vale aver rinunziato a tutto, l’essere venuto qua tra la sabbia e il caldo e resistere all’amore? Che vale difendere la verità, battersi per i dogmi coi teologi, scandalizzarsi di coloro che non hanno la stessa fede e p[oi restare per epoche geologiche sulla porta del purgatorio? “Sarete giudicati sull’amore”: ecco ciò che mi grida quel pezzo di deserto tra Tit e Silet. “Sarete giudicati sull’amore” mi dice la grande pietra sotto la quale trascorrerò il mio purgatorio in attesa di maturare in me la carità perfetta, quella che Gesù mi ha recato sulla terra e mi ha donato col prezzo del Suo Sangue, accompagnandolo col grido della grande speranza: “Io vi risusciterò nell’ultimo giorno! ” (Gv 6, 40). Che quel giorno non sia troppo lontano!

III – Sei nulla

La grande ricchezza del noviziato sahariano è senza dubbio la solitudine e la gioia della solitudine, il silenzio. Un silenzio, il vero, che penetra per ogni dove, che invade tutto l’essere, che parla all’anima con una forza meravigliosa e nuova, non certo conosciuta dall’uomo distratto. Quaggiù si vive sempre in silenzio e si impara a distinguerne le sfumature: silenzio della chiesa, silenzio della cella, silenzio del lavoro, silenzio interiore, silenzio dell’anima, silenzio di Dio. Per imparare a vivere questi silenzi, il maestro dei novizi ci lascia partire per qualche giorno “di deserto”. Una sporta di pane, qualche dattero, dell’acqua, la Bibbia. Una giornata di marcia: una grotta. Un sacerdote celebra la S. Messa; e poi parte lasciando nella grotta, su un altare di sassi, l’Eucaristia. Così per una settimana, si resterà soli con l’Eucaristia esposta giorno e notte. Silenzio nel deserto, silenzio nella grotta, silenzio nell’Eucaristia. Nessuna preghiera è così difficile come l’adorazione dell’Eucaristia. La natura vi si ribella con tutte le forze. Si preferirebbe trasportare sassi sotto il sole. La sensibilità, la memoria, la fantasia, tutto è mortificato. Solo la fede trionfa; e la fede è dura, è buia, è nuda. Mettersi dinanzi a ciò che ha l’aspetto di pane e dire: “Lì c’è Cristo vivo e vero”, è pura fede. Ma nulla nutre di più della pura fede; e la preghiera nella fede è vera preghiera. “Adorare l’Eucaristia non c’è gusto”, mi diceva un novizio. Ma è proprio questa mortificazione del gusto che rende salda e vera la preghiera. È l’incontro con Dio al di là della sensibilità, al di là della fantasia, al di là della natura. Ed è qui il primo aspetto dello spogliamento. Fin tanto che la mia preghiera resta ancorata al gusto, saranno facili gli alti e bassi; le depressioni seguiranno gli entusiasmi effimeri. Sarà sufficiente un mal di denti per liquidare tutto il fervore religioso dovuto ad un po’ di estetismo o a un moto di sentimento. “Occorre spogliare la tua preghiera”mi dice il maestro dei novizi. “Occorre semplificare, disintellettualizzare. Mettiti dinanzi a Gesù come un povero: senza idee, ma con fede viva. Rimani immobile in un atto di amore dinanzi al Padre. Non cercare di raggiungere Dio con l’intelligenza: non ci riuscirai mai; raggiungilo nell’amore: ciò è possibile”. La battaglia non è facile; perché la natura vuole la sua rivalsa, vuole la sua razione di godimento, e l’unione con Gesù crocifisso è tutt’altra cosa. Dopo qualche ora – o qualche giorno – di questa ginnastica, il corpo si placa. Visto che la volontà gli rifiuta il piacere sensibile, non lo cerca più; diventa passivo. Si addormentano i sensi. Il poco mangiare, il molto vegliare e il pregare con umile insistenza rendono la casa dell’anima una dimora silenziosa, pacificata. I sensi dormono. Meglio, come dice S. Giovanni della Croce, è la “notte dei sensi” che comincia. Allora la preghiera diventa una cosa seria, anche se dolorosa e arida. Così seria che non se ne può più fare a meno. L’anima entra nel lavoro redentivo di Gesù. Inginocchiato sulla sabbia, dinanzi al rudimentale ostensorio che conteneva Gesù, pensavo al male del mondo: odi, violenze, turpitudini, impurità, menzogne, egoismi, tradimenti, idolatrie, adulteri. Attorno a me la grotta era diventata vasta come il mondo; e i miei occhi interiori contemplavano Gesù oppresso sotto il peso di tanto male. L’Ostia non è forse, nella sua stessa forma, come pane schiacciato, tritato, cotto? E non conteneva essa forse l’Uomo dei dolori, il Cristo vittima, l’Agnello sgozzato per i nostri peccati? E qual era la mia posizione vicino a Lui? Per molti anni avevo pensato di essere “qualcuno”nella Chiesa. Avevo perfino immaginato questo sacro edificio vivente come un tempio sostenuto da molte colonne piccole e grandi e sotto ogni colonna la spalla di un cristiano. Anche sulle mie pensavo gravasse una sia pur piccola colonna. A forza di ripetere che Dio aveva bisogno degli uomini e che la Chiesa aveva bisogno di militanti, vi avevamo creduto. L’edificio gravava sulle nostre spalle. Iddio, dopo aver creato il mondo, s’era messo a riposo; il Cristo, fondata la Chiesa, era scomparso nel Cielo. Tutto il lavoro era restato a noi, alla Chiesa. Soprattutto noi dell’Azione Cattolica eravamo i veri facchini, che sostenevano il peso della giornata. Con questa mentalità non ero più stato capace d’andare in vacanza; anche la notte mi sentivo militante. Ed era tanto il lavoro, che, per espletarlo, il tempo non era più sufficiente. Si procedeva sempre di corsa da un impegno all’altro, da una adunanza all’altra, da una città all’altra. La preghiera era affrettata, i discorsi concitati, il cuore agitato. Siccome tutto dipendeva da noi e il tutto andava così male, si aveva ben ragione di essere inquieti. Ma chi si era accorto di ciò? Sembrava sì giusta e sì vera la via dell’azione! Già da piccoli s’era incominciato col ritornello: “Primi in tutto per l’onore di Cristo Re”; quindi, diventati giovani: “Tu sei guida”; diventati adulti: “Sei un responsabile, sei un capo, sei un apostolo”… A forza di essere “qualcosa” sempre, la piega dell’anima era stata presa; e le parole di Gesù: “Voi siete servi inutili”, “Senza di me non potete far nulla”, “Chi di voi vuol essere il primo sia l’ultimo” sembravano dettate per altra gente, per altri tempi; e scorrevano sulla pietra dell’anima senza più intaccarla, bagnarla, ammorbidirla. È caratteristica la parabola della mia vita. Il mio primo maestro mi aveva detto: “Primo in tutto per l’onore di Cristo Re”; e l’ultimo, Charles de Foucauld, mi aveva suggerito: “Ultimo di tutti per l’amore di Gesù Crocifisso”. Eppure può darsi che tutti e due avessero ragione e che il colpevole fossi io a non capire bene la lezione. In ogni caso ora ero là, in ginocchio, sulla sabbia della grotta che aveva preso le dimensioni della Chiesa stessa; e sentivo sulle mie spalle la famosa colonnina del militante. Forse era questo il momento di vederci chiaro. Mi trassi indietro di colpo, come per liberarmi da quel peso. Che cosa avvenne? Tutto rimase al suo posto, immobile. Non una scalfittura nella volta, non uno scricchiolio. Dopo venticinque anni mi ero accorto che sulle mie spalle non gravava proprio niente e che la colonna era falsa, posticcia, irreale, creata dalla mia fantasia, dalla mia vanità. Avevo camminato, corso, pedalato, organizzato, lavorato, credendo di sostenere qualcosa; e in realtà avevo sostenuto proprio nulla. Il peso del mondo era tutto su Cristo Crocifisso. Io ero nulla, proprio nulla. Ce n’era voluto a credere alle parole di Gesù che da duemila anni mi aveva già detto: “Voi, quando avete fatto tutto ciò che vi è stato comandato dite: Siamo servi inutili, perché abbiamo solo fatto il nostro dovere” (Lc 17, 10). Servi inutili !

IV – Chi guida le cose del mondo

La prima impressione che mi lasciò questa avventura fu quella della libertà. Una libertà nuova, ampia, autentica, gioiosa. L’aver scoperto che ero nulla, che non ero responsabile di nessuno, che non ero un uomo importante, mi diede la gioia di un ragazzino in vacanza. Venne la notte e non dormii. Mi allontanai dalla grotta e camminai sotto le stelle in pieno deserto. “Dio mio, ti amo; Dio mio, ti amo”, gridavo verso il cielo nello straordinario silenzio. Stanco di camminare, mi stesi su una duna di sabbia e immersi gli occhi nella volta stellata. Come mi erano care quelle stelle; e come il deserto me le aveva avvicinate! A forza di passare le notti all’addiaccio, ero stato spinto a saperne il nome, poi a studiarle, a conoscerle ad una ad una. Ora ne distinguevo il colore, la grandezza, la posizione, la bellezza. Sapevo orientarmi su di esse al primo colpo d’occhio; e dalla loro posizione deducevo l’ora senza bisogno di orologio. Ecco la costellazione del Cigno, che sembra in conversazione con Altair, chiara come un brillante. Saetta e il Delfino sembrano ascoltare, chiusi nella loro umile piccolezza. Pegaso sta montando ad oriente col suo quadrato di stelle, mentre Perla scompare ad occidente. Tra poco la rossa Angol mi condurrà l’eleganza di Perseo. Ritorno con gli occhi su Andromeda. Ed è così chiara la notte, che incomincio a scorgere la nebulosa che porta il nome della costellazione. È il corpo celeste più lontano dalla terra, visibile ad occhio nudo: 800 mila anni luce. Tra quella enorme distanza e la più piccola – quattro anni luce di Proxima, che mi apparirà tra due anni nella costellazione del Centauro – ci sono le distanze di tutto questo ammasso di 40 miliardi di stelle a cui ammonta la Galassia alla quale noi – piccolo granello di sabbia chiamato Terra – apparteniamo. E al di là della nebulosa di Andromeda, altri milioni di nebulose e miliardi di stelle che i miei occhi non vedono ma che Dio ha creato. Perché non mi è mai saltato in testa che una pur piccola colonna che regge il cosmo non gravi sulle mie spalle? Ed è forse il cosmo diverso dagli uomini? Ed io l’avevo pensato. È vero che Gesù aveva detto: “Andate e istruite tutte le genti” (Mt 28, 18), ma aveva aggiunto: “senza di me non potete far nulla”(Gv 15, 5). È vero che S. Ignazio aveva detto: “Fate come se tutto dipenda da voi”; ma aveva aggiunto: “però aspettate come se tutto dipenda da Dio”. Dio è il creatore del cosmo fisico, come è il creatore del cosmo umano. Dio è il reggitore delle stelle come è il reggitore della Chiesa. E se ha voluto, per amore, rendere gli uomini collaboratori suoi nella salvezza, il limite del loro potere è ben piccolo e determinato: è il limite del filo rispetto alla corrente elettrica. Noi siamo il filo, Dio è la corrente. Tutto il nostro potere sta nel lasciar passare la corrente. È certo: abbiamo il potere di interromperla, abbiamo il potere di dir di no; ma nulla di più. Non l’immagine, quindi, di colonna che sostiene, ma di filo che trasmette un potere. Ma altro è il filo, altro è la corrente; son di natura ben diversa; e il filo non può certo insuperbire, anche se è un filo che trasmette corrente ad alta tensione. Il pensare che le cose del mondo, come quelle degli astri, siano in mano a Dio – quindi in buone mani – , oltre ad essere la pura verità, è cosa che dovrebbe fare immenso piacere a chi ci tiene che le cose vadano bene. Dovrebbe essere fonte di fede serena, di speranza gioiosa e soprattutto di pace profonda. Che cosa posso temere, se il tutto è guidato e sorretto da Dio? Perché agitarmi tanto, come se tutti questi problemi dipendessero da me o dai miei colleghi, gli uomini; e non cercare, invece, di capire che ci sono altre vie più interessanti e più efficaci da battere? Eppure è così difficile credere radicalmente all’azione di Dio nelle cose del mondo! Ed è, penso, la tentazione più frequente e prolungata, a cui siamo sottoposti su questa povera terra. Tutta la Bibbia è là a testimoniare questo dramma; e, in fondo, la storia del popolo eletto non è altro che la storia d’un pugno d’uomini a cui Dio chiede continuamente e in ogni occasione: “Credi in me? Io sono il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Io sono il Dio che con mano forte ti ho tratto dalla schiavitù d’Egitto, t’ho guidato in una terra riarsa, t’ho nutrito di manna dal cielo e t’ho dato a bere l’acqua scaturita dalla roccia. Per te ho colpito i primogeniti d’Egitto, per te ho atterrato re potenti. E che hai fatto per ricompensarmi di questi prodigi, di questa assistenza continua? Ti sei costruito idoli di legno e d’argento e ha abbandonato ma, tuo Dio”. “Invece di adorare Colui che ti ha creato e salvato le mille volte dai tuoi nemici, su colli prominenti e in boschi sacri, hai bruciato incensi a dei stranieri; dei che nulla possono, nulla sanno; dei che hanno le mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, e nessun suono esce dalla loro bocca”(Sal 113, 5). Questa è la storia di sempre, storia d’Israele e storia nostra. Anche noi crediamo in Dio; ma poi ci fidiamo dei potenti, crediamo alle loro raccomandazioni e finiamo di pensare che le cose di questo mondo sono salde nelle loro mani e che a loro dobbiamo chiederle. Anche noi crediamo in Dio e lo preghiamo; ma poi ci convinciamo che sono i grandi predicatori a convertire le anime; e riduciamo la nostra preghiera per l’estensione del Regno a un qualche cosa di futile, come la petizione ad un ufficio da cui non speriamo quasi nulla. Così, sotto un cielo strano, in una penombra di fede e di sentimentalismo, in una equidistanza tra Dio e il mondo, trascorre la nostra povera vita religiosa mescolata di preghiere, di contraddizioni e di compromessi. Il pensare che le cose del mondo, come quelle degli astri, siano in mano a Dio – quindi in buone mani – , oltre ad essere la pura verità, è cosa che dovrebbe fare immenso piacere a chi ci tiene che le cose vadano bene. Dovrebbe essere fonte di fede serena, di speranza gioiosa e soprattutto di pace profonda. Che cosa posso temere, se il tutto è guidato e sorretto da Dio? Perché agitarmi tanto, come se tutti questi problemi dipendessero da me o dai miei colleghi, gli uomini; e non cercare, invece, di capire se ci sono altre vie più interessanti e più efficaci da battere? Eppure è così difficile credere radicalmente all’azione di Dio nelle cose del mondo! Ed è, penso, la tentazione più frequente e prolungata, a cui siamo sottoposti su questa povera terra. Tutta la Bibbia è là a testimoniare questo dramma; e, in fondo, la storia del popolo eletto non è altro che la storia d’un pugno di uomini a cui Dio chiede continuamente e in ogni occasione: “Credi in me? Io sono il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Io sono il Dio che con mano forte ti ho tratto dalla schiavitù d’Egitto, t’ho guidato in una terra riarsa, t’ho nutrito di manna del cielo e t’ho dato da bere l’acqua scaturita dalla roccia. Per te ho colpito i primogeniti d’Egitto, per te ho atterrato re potenti. E che hai fatto per ricompensarmi di questi prodigi, di questa assistenza continua? Ti sei costruito idoli di legno e d’argento e hai abbandonato me, tuo Dio.” “Invece di adorare Colui che ti ha creato e salvato le mille volte dai tuoi nemici, su colli prominenti e in boschi sacri, hai bruciato incensi a dei stranieri; dei che nulla possono, nulla sanno; dei che hanno le mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, e nessun suono esce dalla loro bocca.” (Sal 113, 5) Questa è la storia di sempre, storia d’Israele e storia nostra. Anche noi crediamo in Dio; ma poi ci fidiamo dei potenti, crediamo alle loro raccomandazioni e finiamo di pensare che le cose di questo mondo sono salde nelle loro mani e che a loro dobbiamo chiederle. Anche noi crediamo in Dio e lo preghiamo; ma poi ci convinciamo che sono i grandi predicatori a convertire le anime; e riduciamo la nostra preghiera per l’estensione del Regno a un qualcosa di futile, come la petizione ad un ufficio da cui non speriamo quasi nulla. Così, sotto un cielo strano, in una penombra irreale di fede e di sentimentalismo, in una equidistanza tra Dio e il mondo, trascorre la nostra povera vita religiosa mescolata di preghiere, di contraddizioni e di compromessi. Dio solo è, Dio solo sa, Dio solo può. Questa è la verità; e la mia fede me la fa scoprire di giorno in giorno più profondamente. Dio solo è reggitore del cosmo, Dio solo sa quando morrò, Dio solo può convertire la Cina. Perché assumersi responsabilità che non abbiamo, perché stupirci se l’Islam non ha ancora scoperto il Cristo e se il Buddismo regna senza inquietudini e crisi in milioni di fratelli? Verrà l’ora; ma questa non dipende da me. C’è o non c’è una geografia di Dio, una storia sacra per tutti i popoli, un procedere nel tempo verso una maturità? Abramo non conobbe il Cristo, se non nella speranza della promessa; ma non per questo andò perduto o fu dimenticato dal Padre. Non era giunto il tempo dell’Incarnazione; e se Gesù quando venne, e non prima, ha seguito certamente le indicazioni della Saggezza Eterna. Ci sono i piani di Dio, e questi contano; ci sono i piani umani, e questi non contano, o almeno contano in rapporto al loro sincronizzarsi con i primi. Ma è Dio che precede, non l’uomo. Maria stessa poteva morire nell’attesa senza vedere il Cristo, se Dio non decideva esser giunta l’ora dell’Incarnazione. Gli uomini di Galilea avrebbero continuato a pescare nel lago e a frequentare la sinagoga di Cafarnao, se non fosse venuto Lui a dire: “Venite”. Ecco la verità che dobbiamo imparare nella fede: l’attesa di Dio; e questo non è un piccolo sforzo come atteggiamento dell’anima. Questo “attendere”; questo “non preparare piani”; questo “scrutare il cielo”; questo “far silenzio” è la cosa più interessante che compete a noi. Poi verrà anche “l’ora della chiamata”; l’ora in cui si deve parlare, in cui la mano sarà stanca di battezzare; l’ora della messe, insomma. Ma ciechi, ciechi noi se in tale ora penseremo di essere gli attori di tali meraviglie; la meraviglia, semmai, è che Dio si serva di noi così miserabili e così poveri. Non volevo giungere a questo punto, perché già sento nell’aria la tristezza di una domanda. E il solo fatto di porre una domanda è un errore o una mancanza di fede. “Pregare o agire? Attendere o partire? Scendere in piazza o entrare in Chiesa?” Ed eccoci da capo; là dove l’uomo trasforma tutto in problematica senza mai saziarsi, tanta è la brama di curiosità più che la buona volontà di realizzare la parola di Dio. Ma oggi non entro più in polemica; non voglio più discutere, non credo più al potere di convincere un uomo con la forza delle parole. Mi taccio sotto queste stelle d’Africa e preferisco adorare il mio Dio e Signore. Ma, cedendo all’insistenza vostra o giovani che mi avete scritto fin quaggiù, dico solo una parola che mi pare esatta e, in più, sofferta. Ricordatevi che al mondo tutto è problema, meno una cosa: la carità, l’amore. L’amore solo non è un problema per chi lo vive. Ebbene vi dico: vivete l’amore, cercate la carità. Essa vi darà la risposta volta per volta a ciò che dovete fare. La carità, che è Dio in noi, vi suggerirà la strada da percorrere; vi dirà: “ora inginocchiati” oppure “ora parti”. È la carità che dà valore alle cose, che giustifica “l’inutilità di restare ore e ore in ginocchio a pregare mentre tanti uomini hanno bisogno della mia azione, e la inutilità della mia povera azione dinanzi alla considerazione che la morte distruggerà tutte le civiltà”. È la carità che gerarchizza le intenzioni degli uomini e che uniforma ciò che è diviso. La carità è la sintesi della contemplazione e dell’azione, è il punto di sutura tra il cielo e la terra, tra l’uomo e Dio. Ripeto ancora, dopo aver conosciuto l’azione più sfrenata e la gioia della vita contemplativa nel quadro più sfolgorante del deserto, le parole di S. Agostino: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Non preoccuparti, fratello, di che cosa fare; preoccupati di amare. Non interrogare il Cielo con ripetuti e inutili: “Qual è la mia strada?”; studiati invece di amare. Amando, scoprirai la tua strada; amando ascolterai la Voce; amando, troverai la pace. È l’amore la perfezione della legge e la regola di ogni vita, la soluzione di ogni problema, lo stimolo di ogni santità. “Ama e fa’ ciò che vuoi”. No; non è più possibile fare ciò che voglio quando amo. Quando amo devo fare la volontà dell’amato. Quando amo sono prigioniero dell’amore; e l’amore è tremendo nelle sue esigenze, specie quando questo amore ha per oggetto Dio e un Dio Crocifisso. Non posso più fare la volontà mia; debbo fare la volontà di Gesù, che è volontà del Padre. E quando avrò imparato a fare questa volontà, avrò realizzato pienamente la mia vocazione sulla terra e raggiunto il grado della mia perfezione. La volontà di Dio: ecco ciò che regge il mondo, ciò che muove gli astri, ciò che converte i popoli, ciò che chiama alla vita e dona la morte. La volontà di Dio ha suscitato Abramo, padre della fede, ha chiamato Mosè, ispirato Davide, preparato Maria, sorretto Giuseppe, incarnato il Cristo e chiesto il suo sacrificio, fondato la Chiesa. E sarà ancora la volontà di Dio a continuare l’opera di redenzione fino alla fine dei tempi. Essa chiamerà i popoli ad entrare ad uno ad uno nel corpo visibile della Chiesa nel momento giusto della loro maturità dopo appartenuto a motivo della loro retta intenzione e volontà “buona” alla sua Anima invisibile. Che tu sia sulla sabbia in ginocchio ad espiare, ad adorare o che tu sia sulla cattedra ad insegnare, che conta se non lo fai nella volontà di Dio? E se la volontà di Dio ti spinge a cercare i poveri o a donare i tuoi averi o a partire per terre lontane, che conta tutto il resto? O se ti chiama a fondare una famiglia, a prendere un impegno nella città terrena, perché dubitare? “In la sua volontade è nostra pace” dice Dante; ed è forse l’espressione più riassuntiva di tutta la nostra dolce dipendenza da Dio.

V – Purificazione del cuore

Che noi siamo fatti per amare è evidente. Il difficile però è stabilire che cosa amare e come amare. Penso che non sia sbagliato e contrario al nostro fine “amare la creatura”. Ed è certamente secondo il nostro fine “amare Dio”. Quindi dovremmo amare la creatura e dovremmo amare il Creatore. Ma perché nella tradizione cristiana questi due amori si sono posti in contraddizione, in antagonismo, quasi che amando l’una non sia più possibile amare l’Altro? La causa risiede in noi, va ricercata in noi. È il nostro cuore che non è più capace di amare, che è come uno strumento deteriorato e che funziona male. Il cuore, questo benedetto cuore, quando ama la creatura, troppo facilmente perde l’equilibrio. Si lancia su di essa, la vuole fare sua, esclusivamente sua; aderisce ad essa con tale passione, da perdere di vista l’insieme. In più, avvelena la creatura con rapporti sregolati; la rovina, la fa schiava, o, meglio, si fa schiavo di essa. Caratteristico in tal senso, perché più violento, è l’amore esclusivo del sesso, con tutta la serie orribile di gelosie ed egoismi. Non meno caratteristica è la cosiddetta “amicizia particolare”, nella quale il cuore umano si attacca all’amico perdendo la pace, la serenità, la visione equilibrata delle cose; nel peggiore dei casi, anche la purezza. Che diremmo poi dell’amore del denaro? Della schiavitù in cui tiene l’uomo l’amore della ricchezza? Perfino l’amore del lavoro diventa pericoloso, tanto più se ammantato di virtù! Quanti contadini non sono più capaci di riposarsi la domenica, dominati dalla passione che, come frenesia, li sospinge nei campi! E quanti industriali trasformano la loro vita in un inferno, ingoiati dalla macchina degli impegni. E più si sale peggio è: l’amore allo studio può creare mostri di egoismo; e la passione della ricerca, collezionisti pazzi e ciechi come termiti nella loro galleria oscura. In tale situazione è evidente che l’amore della creatura è in opposizione all’amore di Dio. Questo – l’amore di Dio – è per sua natura universale, casto, equilibrato, santo. Chi è sotto il suo dominio, vive in una pace profonda, ha la visione gerarchizzata delle cose, sa che cos’è la libertà. Ma anche l’amore di Dio, passando nel cuore dell’uomo, deve essere lavorato, coltivato, potato, fecondato; e Dio stesso ne è l’abile e intransigente agricoltore. Soprattutto tale amore deve essere purificato. Che cosa significa purificare l’amore?Significa purificarlo dalle pastoie della sensibilità, dal vischio del gusto; in altri termini, significa renderlo “gratuito”. Rendere gratuito l’amore! Quale difficile impresa per creature come noi, ripiegate dal peccato su se stesse, chiuse il più delle volte nel loro onnipossente egoismo! Sovente non ci rendiamo conto della profondità del male, che è abissale. Non parlo solo dell’egoismo del ricco che accumula per sé; del violento che sacrifica tutto al proprio godimento; del dittatore che respira l’incenso dovuto solo a Dio. Parlo dell’egoismo dei buoni, delle anime pie, di coloro che son riusciti, a forza di ginnastica spirituale e di rinunce, a poter dire dinanzi all’altare dell’Onnipotente la superba professione: “Signore, non sono come gli altri uomini” (Lc 18, 11). Sì, abbiamo avuto il coraggio – in certi periodi della nostra vita – di crederci diversi dagli altri uomini. E qui sta la menzogna più radicale, dettata dall’egoismo più pericoloso: quello dello spirito. E su tale menzogna il nostro egoismo fa la sua costruzione babelica, riuscendo a servirsi della stessa pietà, della stessa preghiera per soddisfarsi. È il momento dell’assalto all’altare, è il momento in cui lo stesso desiderio di santità è rovesciato: non è amore e imitazione di Cristo Crocifisso, è desiderio di gloria; non è carità, è egoismo. Non dubito nel dire che un’alta percentuale dei desideri che spingono l’anima a cercare Dio è inquinata di egoismo. Si può giungere al punto di consacrarsi a Dio per egoismo, di farci religiosi per egoismo, di costruire ospedali per egoismo, di fa penitenza per egoismo. Non c’è limite a tale menzogna. E la via, una volta infilata, è così sdrucciolevole e pericolosa, da obbligare Dio, per salvarci, a trattarci male; direi apparentemente, a diventare crudele con noi. Ma non c’è altra via per aprirci gli occhi. È la via del dolore. All’anima che dà l’assalto al Cielo per egoismo, Dio sbarra il cammino col freddo, con l’aridità, con la notte. Le consolazioni si trasformano in amarezze, le gioie in assenzio, le spine crescono per ogni dove. le nubi sembrano fatte per arrestare la preghiera. Ma sovente non basta. Rovesci, malattie, disillusioni, vecchiaia si abbattono come uccelli di rapina sulla povera carcassa che aveva avuto il coraggio di affermare a se stessa: “Signore, non sono come gli altri uomini”. Rimane ben poco per sostenere la tesi di essere diverso dagli altri, quando ci si accorge che si grida, che si piange, che si ha paura, che si è deboli, si è vili proprio come gli altri uomini. Ecco la voce dell’uomo nel Salmo 87: Signore mio Dio tutto il giorno io ti chiamo e la notte gemo davanti a Te. La mia anima è abbeverata di mali, la mia vita è un bordo dell’inferno. Io sono già come colui che discende nella tomba, come l’uomo stremato di forze. Tu mi hai gettato nella fossa profonda, nelle tenebre, nell’abisso. Su di me s’è appesantito il tuo furore; sulla cresta dell’onda Tu mi schiacci. È la purificazione dell’amore, è il fuoco che brucia le scorie per metterci a nudo. E Dio stesso, che è l’Amore, non può far nulla. Anzi, perché è l’Amore appesantisce la mano. Se l’anima non si libera attraverso la croce, non potrà esser liberata. È la tremenda operazione chirurgica che il Padre stesso compie sulle carni del figlio pur di salvarlo. Ed è dogma di fede che senza croce “non fit remissio”. È un mistero ma è così. Il dolore purifica l’amore; lo rende vero, autentico, puro; e, in più, elimina ciò che non è amore. Distacca l’amore dal gusto che come maschera lo falsa; lo rende gratuito. Quando il diluvio del dolore è passato sull’anima, ciò che resta di vivo può considerarsi autentico. È certo che non resta molto. Sovente è ridotto ad un arbusto esile, esile; ma su di esso la colomba dello spirito può posarsi per portare i suoi doni; è ridotto a un “sì” mormorato tra le lacrime e le angosce, ma ad esso fa eco il “sì” onnipotente di Gesù agonizzante; è ridotto a un bimbo che ha cessato di fare polemiche con Dio e con gli uomini, ma al quale soccorre l’abbraccio del Padre. In questo stato, l’uomo è capace di amore gratuito; anzi non può più sopportarne d’altro timbro: prova nausea dinanzi al sentimentalismo, ha ribrezzo delle cose amate per calcolo. È entrato finalmente nella logica di Dio, spesso illogica all’uomo di questa terra. Ecco la logica della più famosa parabola sulla gratuità dell’amore. Sentiamola: Il Regno dei Cieli infatti è simile a un padre di famiglia il quale uscì di primo mattino per assoldare lavoratori per la sua vigna. Accordatosi coi lavoratori per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito verso la terza ora, vide altri che stavano in ozio sulla piazza e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna ed io vi darò ciò che è giusto. E quelli vi andarono. Uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece altrettanto. Uscito poi verso l’undicesima ora, ne trovò altri che se ne stavano là; e dice loro: “Perché ve ne state qui tutta la giornata in ozio?”. Gli dicono: “Perché nessuno ci ha assoldati”. Dice loro: “Andate anche voi alla vigna”. Fattasi sera, il padrone della vigna dice al fattore: “Chiama i lavoratori e paga loro il salario a cominciare dagli ultimi fino ai primi. Vennero quelli dell’undicesima ora e presero un danaro ciascuno. Quando vennero i primi, credettero di prendere di più; ma anch’ essi ricevettero un danaro ciascuno. Mentre lo prendevano, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto; e tu li hai trattati come noi che abbiamo portato il peso della giornata e il caldo”. Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, non ti fò torto. Non hai pattuito con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene. Voglio dare a quest’ultimo come a te. “O non mi è permesso di fare quel che voglio della mia roba?Non posso fare delle mie cose quello che voglio? “Oppure il tuo occhio è maligno perché io sono buono?” (Mt 20, 1ss). Capire questa parabola, per noi che abbiamo “l’occhio maligno”, non è facile. Fortunato colui che la capisce qualche giorno prima di morire. Significa che il suo occhio vede ora giusto e quindi può entrare nel regno della gratuità, che è il regno del vero amore.

venerdì 20 marzo 2015

(Gv 7,40-53) Il Cristo viene forse dalla Galilea?

VANGELO 
 (Gv 7,40-53) Il Cristo viene forse dalla Galilea? 
+ Dal Vangelo secondo Giovanni 

In quel tempo, all’udire le parole di Gesù, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: “Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo”?». E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». E ciascuno tornò a casa sua.

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Spirito d Dio, di assistermi nella comprensione di questo testo, perché attraverso la tua
luce , tutto sia apra davanti ai miei occhi e al mio cuore. Ti amo!

Chi sei Gesù, come riconoscerti, come non farsi ingannare dalle voci che circolano ancora, da ormai duemila anni sul tuo conto? Eppure non sei venuto per parlare di odio, ma d' amore; non hai portato parole di guerra, ma di pace; e allora? Perché gli uomini non riescono ad accettarti, a seguirti? Perché vogliono essere liberi? Liberi di che cosa, di perdere la vita?
Aprite gli occhi fratelli lontani, solo le parole di Gesù, sono parole di vita eterna, perché seguendole, non saremo condannati a morire e a finire tra le fiamme dell'inferno, e non pensate stupidamente che l'inferno non esiste, che satana è una favoletta, e che la vostra vita è piena così... è piena di vuoto, perché vi porterà solo negli abissi della perdizione.
Gesù è venuto anche per voi, per chi ha sbagliato, come tutti, per potervi abbracciare con il suo amore e riempire la vostra vita. Non ascoltate le voci del mondo che non sa riconoscere Gesù, perché non sa riconoscere l'amore, mettetevi alla prova, e fidatevi di Dio. Fate come i bambini, chiamate la nostra mamma celeste, la Madonna, e chiedete a lei di accompagnarvi da suo figlio, vi ci porterà volando, ma per volare, dovete lasciare a terra la vostra zavorra, tutte quelle ancore che vi tengono attaccati ai vizi, al potere e al denaro, a tutti i falsi dei che vi siete creati per vivere una vita agiata, e seguire le orme di un semplice uomo che è stato capace di donare la sua vita per noi. Solo quando avrete intrapreso questo cammino, vi renderete conto che con Cristo si entra in una dimensione nuova che è Chiesa, intesa come comunità di esseri umani. È attraverso di noi che chi non va mai in chiesa può incontrare il Signore, attraverso il nostro amore, la nostra disponibilità ad essere con Cristo, in Cristo, per Cristo.Molti pensano che la nostra religione sia qualcosa che ci rende schiavi e che impedisce di divertirsi e di trasgredire, con una serie infinita di regole, ma questa idea è del tutto inesatta, proprio perchè non c'è nessuno che vuole che la nostra vita sia libera da tutti i condizionamenti che è il mondo che abbiamo sviluppato intorno a noi che ci invita a seguire.

giovedì 19 marzo 2015

(Gv 7,1-2.10.25-30) Cercavano di arrestare Gesù, ma non era ancora giunta la sua ora.

VANGELO
(Gv 7,1-2.10.25-30) Cercavano di arrestare Gesù, ma non era ancora giunta la sua ora.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. Alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora.
Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Rinnova il mio cuore Signore, guarisci i miei occhi che si fermano davanti agli ostacoli, portami oltre con Te, portami nel Tuo cuore.
Quanto so di Gesù non mi basta, non mi basta mai!
Il Papa ci invita a leggere il Vangelo ed ha ragione, perchè per me è vitale, è come l'aria, è come un bacio tra innamorati, una carezza nella sofferenza, un contatto spirituale che si fa fisico.
È un amore che sboccia ,germoglia, fiorisce ed ogni giorno mi fa nuova.
Chi crede di conoscerlo, chi pensa di aver capito tutto, magari perchè ha studiato teologia, chiude gli occhi davanti a quello che meraviglia, e si scandalizza davanti all'amore per il nemico, per il peccatore, per il reietto.
Leggendo questo brano, cerco di capire quello che accade tra Gesù e gli altri e mi sembra che mentre loro cercano lo scontro quasi fisico, Gesù lo evita.
Non è paura la sua, e Giovanni ce ne spiega la ragione, non è ancora giunta la sua ora, perchè quando il tempo a disposizione sarà finito, non si potranno più cambiare le cose.
Gli uomini non ne sono coscienti, anche se pensano di sapere tutto, e cercano di ucciderlo per non sentire altra voce che la loro, ma per nostra fortuna, per amore nostro, da quella croce a cui per amore si lascerà inchiodare, salirà in un sospiro, l'ultimo anelito d' amore per noi, che sarà come un grido disperato:
"Padre,perdona loro,perchè non sanno quello che fanno!" 

mercoledì 18 marzo 2015

(Mt 1,16.18-21.24) Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.(Lc 2,41-51) - Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo

VANGELO
 (Mt 1,16.18-21.24) Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore. 

Parola del Signore. 


oppure
(Lc 2,41-51) - Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo

Dal Vangelo secondo Luca 

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. 

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni su di me o Santo spirito di Dio e illuminami con la Tua sapienza. Fa che quello che Tu mi vuoi far conoscere, fluisca generosamente in me direttamente dal Tuo cuore.

Povero uomo Giuseppe direbbero alcuni, ed anche io per un certo periodo ho pensato a lui come ad un povero credente sfortunato, cui era stato tolto tutto quello che aveva ed in cui credeva.
Poi ho cercato di capire e di conoscerlo meglio, attraverso le scritture ed ho scoperto che non parla mai, ma in silenzio agisce.
Gli angeli intervengono nella sua vita e lui obbedisce, per questo gli appellativi con i quali è definito sono di uomo giusto, mite, obbediente.  I vangeli apocrifi forniscono altre notizie, che tuttavia sono generalmente ritenute leggendarie. Secondo il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe era molto anziano quando sposò Maria, e fu scelto tra gli altri pretendenti perché il suo bastone, posto fra gli altri sull'altare, fiorì miracolosamente. Per questo motivo, san Giuseppe è tradizionalmente raffigurato con Gesù bambino in braccio e con in mano un bastone dal quale sbocciano dei fiori (generalmente un giglio bianco).
 " Uomo obbediente " Nei Vangeli non è riportata alcuna parola di Giuseppe; sono riportate solamente le sue azioni. E queste sono compiute in obbedienza a Dio. Conosciuto il volere di Dio attraverso un sogno, Giuseppe si appresta ad eseguirlo. E così sposa Maria anche se lei aspetta un figlio che non è suo; fugge in Egitto con Maria ed il bambino Gesù per sfuggire alla persecuzione di Erode; torna a Nazaret solo alla morte di quest'ultimo.
" Uomo giusto " L'evangelista Matteo parla di Giuseppe come uomo « giusto  ». Il termine non significa soltanto correttezza, fare ciò che è dovuto e che noi diciamo giusto. In senso biblico, « giusto » è il timorato di Dio, l' obbediente ai suoi progetti.  Giuseppe è giusto perché cerca di adeguarsi al piano di Dio nella vita di Maria. Non rinuncia al suo amore per Maria, glielo dichiara anzi, « prendendola con sé ».  In ogni vocazione che si rispetti, alla chiamata Dio ci lascia sempre rispondere in libertà, giacché il Signore non violenta mai l’ intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio.
Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “ fece come l’ Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé ” .
Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della  redenzione.  Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio.  Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’ amore, mostrandosi accogliente verso il mistero dell’ Incarnazione del Verbo.  Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: San Giuseppe è senza ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei con tutte le sue forze.  Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria.  Ecco che visto sotto quest’aspetto, ci accorgiamo che a Giuseppe non fu tolto niente, ma anzi fu dato di partecipare al progetto di Dio come custode di Maria e di Gesù.Per andare invece alla seconda pagina del vangelo, quella di Luca, mi piace pensare alla vita quotidiana della Santa Famiglia, Gesù aveva oramai 12 anni, cioè era nell’anno in cui sarebbe diventato adulto, l’anno in cui si diventava Bar-Mitzwa, Figlio della Legge, del precetto. Lo studio della Legge era oramai per lui un obbligo.  La vita spirituale si legava a quella sociale, come per tutti i giudei. Leggendo" Il vangelo come mi è stato rivelato",di Maria Valtorta, vivo la scena e ammutolisco davanti alla sapienza di Gesù, che ogni volta che nomina il nome del Signore, si inchina devotamente. E' sotto esame dei sacerdoti del tempio e questi restano colpiti e gli chiedono chi gli ha insegnato così bene:-Tu fai onore al tuo maestro....- La sapienza di Dio era raccolta nel suo cuore giusto-Ma sentilo, te felice padre di tal figlio-Giuseppe in fondo alla sale,sorride e s'inchina.

martedì 17 marzo 2015

Mi arrendo al tuo amore .mpg

(Gv 5,17-30) Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. + Dal Vangelo secondo Giovanni

VANGELO
(Gv 5,17-30) Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato.In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
O Padre, che dai la ricompensa ai giusti e non rifiuti il perdono ai peccatori pentiti, ascolta la nostra supplica: l’umile confessione delle nostre colpe ci ottenga la tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...Il Padre ed il Figlio uniti in un solo alito di vita...
Stamattina parlavo con una persona di come è cambiata la nostra vita dal momento in cui abbiamo accettato che Gesù la trasformasse...
il tempo volava, noi avevamo tante cose da fare, ma stavamo così bene...era come se avessimo costruito la nostra tenda accanto al Signore, e non avevamo nessuna voglia di tornare nel mondo.L’umiltà è «la regola d’oro»: per il cristiano «progredire» vuol dire «abbassarsi». Ed è proprio sulla strada dell’umiltà, scelta da Dio stesso, che passano amore e carità. Lo ha ricordato anche Papa Francesco a Santa Marta l'8 aprile.Dio ha scelto un'umile capanna, una piccola fanciulla (Maria), un povero falegname (Giuseppe), un umile balbuziente (Mosè), degli umili pastori...ed ancora tanti sono gli esempi che potremmo fare, ma quello che conta è che questo serve per capire una cosa importantissima:Non si è scelti per sapienza, non ci si salva per bravura, ma tutto accade semplicemente per opera di Dio, per la sua misericordia e l'unica cosa che possiamo fare è accettare di farci trasformare dalla sua parola che entra in noi , in umile sottomissione alla sua volontà, annullando noi stessi per rinascere come uomini e donne nuove, si radica, fa frutto e poi con il soffio dello Spirito sparge nuovi semi.

lunedì 16 marzo 2015

(Gv 5,1-16) All’istante quell’uomo guarì.

 VANGELO
(Gv 5,1-16) All’istante quell’uomo guarì. 
+ Dal Vangelo secondo Giovanni

Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”». Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: “Prendi e cammina”?». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.

Parola del Signore



LA MIA RIFLESSIONE
 PREGHIERA
Ti prego Spirito Santo, di guidare i miei pensieri e le mie mani sulla tastiera, per poter capire a pieno la tua parola, e saperla vivere e spiegare secondo quello che tu mi consigli.

Gesù chiede: vuoi guarire? La risposta tocca a noi.
Siamo noi che possiamo scegliere di affidarci a Lui, alla fonte della salvezza, oppure rimanere ai margini  a guardare.
Spesso neanche ce ne accorgiamo, e pensiamo di fare il nostro dovere, di essere buoni, solo perchè andiamo a messa, diamo una mano in una qualche attività... immobili, paralizzati  nelle nostre convinzioni.
I poveri continuano a passarci accanto, gli ammalati a restare soli, gli affamati a vivere di stenti...e noi a sentirci migliori.
Quante volte Dio mi ha chiamato ad aprire gli occhi sulle mie povertà spirituali...e quanto ancora lo fa; mi presta i suoi occhi per vedere, le sue orecchie per sentire e il suo cuore per amare.
Molti vedono in questo racconto tanti simboli che richiamano all'antico testamento, io vedo un segno che è sempre uguale, l'amore  perdona.
Papa Francesco, ha indetto il giubileo della misericordia,e spero veramente con tutta me stessa di saperlo vivere e di essere testimone di quanta misericordia ha usato con me.
Anche oggi come ai tempi di Gesù, c'è chi vuole fissare alla misericordia di Dio dei paletti, chi parla contro il Papa, come chi parlò contro Gesù che  è venuto per farci capire che l' unica regola che conta è quella dell' amore.
Anche in questo c' è la guarigione dalle regole dei farisei, degli scribi e dei pagani e dagli integralisti moderni. 
Spesso ci troviamo a contestare la Chiesa, e anche le altre religioni, proprio perché tutti mettono dei paletti e fissano delle regole, escludono alcuni, respingendo altri, ma questi paletti, devono essere tolti, perché l' unico paletto che c' è,  è il nostro no alla grazia di Dio.
Siamo sempre noi che abbiamo l'ultima parola... vuoi essere guarito? Rispondiamo con fede ed umiltà,:- Si mio Signore, ho bisogno di Te!