13.
Mi sembra che la vita solitaria contemplativa sia una imitazione e una
realizzazione in noi delle parole di Gesù “Il Figlio non può fare nulla da sé, ma
solo quello che vede fare dal Padre, lo fa parimenti il Figlio. Perché il Padre ama il
Figlio e gli mostra quanto Egli fa” (Gv 5,19-20). Questa imitazione consiste
nell’essere e nell’agire nei confronti di Gesù come Egli fece nei confronti del
Padre (Gv 5,24). “Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato,
ha la vita eterna.” Il Padre ci attira a Gesù (Gv 6,37; 6,44-45). “Chiunque ha
udito il Padre ed ha appreso, viene a me.” Ascoltiamo meglio il Padre nella
solitudine. Gesù è il Pane di vita che ci vien dato nella solitudine (Gv 6,58).
“Come il Padre, che vive, ha inviato me, ed io vivo per il Padre, così chi mangia
me, vivrà per me.”
La vita solitaria è quindi la vita di uno che il Padre ha tratto nel deserto ove non
sarà nutrito da altro cibo spirituale all’infuori di Gesù. Perché in Gesù il Padre si
dà a noi e ci nutre con la sua vita inesauribile. La vita di solitudine deve essere
quindi una continua comunione ed un continuo ringraziamento in cui
contempliamo per
fede tutto quello che passa nelle profondità di Dio e perdiamo il gusto per ogni
altra vita e per qualsiasi altro cibo spirituale.
Mi sembra anche che la vita solitaria realizzi il testo suddetto con l’abbandono
del salmista: “Io son misero e poverello, ma il Signore si prende cura di me” (Sal
139,18).
Viviamo in continua dipendenza da questa misericordiosa bontà del Padre, e così
tutta la nostra vita è una vita di gratitudine — una continua risposta al suo aiuto
che viene a noi in ogni momento. Penso che ciascuno lo scopra nella sua
vocazione, se è veramente la sua. La vita solitaria è una vita nella quale
rimettiamo a Dio le nostre preoccupazioni e godiamo soltanto dell’aiuto che da
Lui ci viene. Tutto quel ch’Egli fa è la nostra gioia. Riproduciamo in noi la sua
bontà mediante la gratitudine. (O meglio, la nostra gratitudine è il riflesso della
sua misericordia. È ciò che ci rende simili a Lui). La vita veramente solitaria
differisce completamente da quella solitudine parziale che possiamo godere di
tanto in tanto negli intervalli permessi dalle consuetudini sociali. Quando
riceviamo la nostra solitudine a periodi, ne gustiamo il valore per contrasto con
un altro valore. Quando viviamo veramente soli, non esiste contrasto. Non devo
andare nella solitudine per immobilizzare la mia vita, per ridurre ogni cosa a una
gelida concentrazione su qualche esperienza interiore. Allorché si alterna alla
vita comune, la solitudine può prendere questo carattere di una sosta, di un
momento di quiete, di un intervallo di concentrazione. Dove essa non è un
periodo, ma un tutto continuo, possiamo ben rinunciare e al senso di
concentrazione e alla quiete spirituale. Tutta la nostra vita può sfociare
nell’incontro dell’Essere e del Silenzio dei giorni in cui siamo immersi, e possiamo
operare la nostra salvezza con un’azione quieta e continua. È anche possibile che
nella solitudine ritorni agli inizi e riscopra il valore e la perfezione della semplice
preghiera vocale — e trovi maggior gioia in essa che nella contemplazione.
Così che il cenobita può avere un’alta contemplazione, mentre l’eremita ha
soltanto il suo Pater e la sua Ave Maria. In tal caso scelgo la vita di un eremita
nella quale vivo sempre in Dio, parlandogli con semplicità, piuttosto che una vita
discontinua sublimata da momenti di fuoco e di esaltazione.
Il solitario è necessariamente uno che fa quello che vuole. Difatti non ha niente
altro da fare. Ecco perché la sua vocazione è pericolosa e disprezzata insieme.
Pericolosa, perché, in effetti, deve diventare santo facendo quello che vuole,
invece di fare quello che non vorrebbe. È molto difficile essere santi facendo
quello che ci piace. Significa che ciò che ti piace è sempre volontà di Dio. Vuol
dunque dire che non può piacerti ciò che non è volontà di Dio e che Iddio stesso
coprirà i tuoi sbagli accettandoli in buona parte, come “sua volontà”.
Questa vocazione è grandemente disprezzata da quelli che hanno paura di fare
ciò che desiderano, ben sapendo che quel che desiderano non è volontà di Dio.
Ma il solitario deve essere un uomo che ha il coraggio di far la cosa che
maggiormente desidera in questo mondo — vivere in solitudine. Ciò richiede
umiltà eroica ed eroica speranza la folle speranza che Dio lo proteggerà contro se
stesso, che Dio lo ama tanto da accettare una tale scelta come se fosse fatta da
Lui. Questa speranza è un segno che la scelta della solitudine è una scelta che
viene da Dio. Che il desiderio di solitudine è probabilmente una vocazione divina,
che implica la grazia di piacere a Dio prendendo le nostre decisioni nella
umiliante incertezza di un perpetuo silenzio che mai approva o disapprova una
singola scelta da noi fatta.
Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che
non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il
luogo il cui silenzio ha generato una vita interiore a nessun altri nota fuori che a
Dio solo.
14. Preghi meglio quando lo specchio della tua anima è vuoto di ogni immagine
all’infuori di quella del Padre invisibile. Questa immagine è la Sapienza del Padre,
il Verbo del Padre, Verbum spirans amorem, la gloria del Padre.
Glorifichiamo il Padre nella speranza, attraverso la oscurità della sua immagine
che esclude ogni altra somiglianza dall’anima nostra, facendoci vivere di una
pura amicizia e dipendenza dal Padre. Questa vita di dipendenza, perfezionata
nella fede pura, è la sola vita che si accorda con il nostro carattere sacramentale
di figli del Padre in Cristo.
Escludendo le immagini.
Soltanto il puro amore può svuotare perfettamente l’anima di ogni immagine
delle dose create ed elevarti al di sopra del desiderio. Nel disporci a ciò, non
dobbiamo intraprendere da noi stessi il vano compito di svuotarci di ogni
immagine: dobbiamo cominciare col sostituire le buone alle cattive, rinunciando
poi anche a quelle buone che sono inutili o che ci portano inutilmente alla
passione e all’emozione. Il paesaggio è molto adatto a liberare da tutte queste
immagini, perché calma e pacifica la fantasia e le emozioni e lascia libera la
volontà di cercare Iddio nella fede.
La delicata azione della grazia in un’anima viene profondamente disturbata da
qualsiasi violenza umana. La passione, quando è disordinata, fa violenza allo
spirito e la violenza più pericolosa è quella nella quale ci sembra di trovare la
pace. La violenza non è del tutto fatale se non quando cessa di disturbarci.
La pace prodotta dalla grazia è una stabilità spirituale troppo profonda per la
violenza — è incrollabile, a meno che non facciamo entrare la forza della passione
nel nostro santuario. L’emozione può turbare la superficie del nostro essere, ma
non ne muoverà le profondità se queste sono occupate e possedute dalla grazia.
La violenza spirituale è più pericolosa quando è più spirituale ossia meno
emotiva. La violenza che opera nelle profondità della volontà senza nessun
turbamento superficiale, rende schiavo tutto il nostro essere senza una lotta
apparente. Tale è la violenza del peccato deliberato e al quale non si resiste e che
sembra non essere violenza, ma pace.
Esiste anche una violenza del desiderio disordinato a cui si consente,
generalmente non peccaminosa, ma che impedisce l’opera della grazia e rende
più facile che per carità siamo tratti completamente al di fuori di noi. Un tale
consenso ci implica a fondo nelle decisioni della passione e può anche farlo col
pretesto del servizio di Dio. La più pericolosa violenza spirituale è quella che
trascina la nostra volontà con un falso entusiasmo che sembra venga da Dio, ma
che in realtà è ispirato dalla passione.
Parecchi dei nostri piani che ci sono più cari per la gloria di Dio non sono altro
che disordinate passioni travestite. E la prova se ne ha nell’eccitazione che
producono. Il Dio della pace non è mai glorificato dalla violenza.
Vi è un solo genere di violenza che s’impadronisce del regno dei cieli — quella
violenza che impone pace alle profondità delle anime nel bel mezzo della
passione. Questa violenza è ordine in se stessa ed è prodotta in noi dall’autorità
e dalla voce del Dio della pace, che parla dal suo luogo santo.
Eppure nel santuario tu risiedi, lode d’Israele! (Sal 21,4).
15.
Non appena sei davvero solo, tu sei con Dio.
Alcuni vivono per Dio, alcuni con Dio, altri in Dio. Quelli che vivono per Dio, vivono in mezzo agli altri e nell’attività propria della
loro comunità. La loro vita è ciò che fanno. Quelli che vivono con Dio vivono
anche per Lui, ma non vivono in ciò che fanno per Lui, bensì in quello che essi
sono dinanzi a Lui. Loro vita è rifletterlo nella loro semplicità e nella perfezione
del suo essere che si riflette nella loro povertà.
Quelli che vivono in Dio non vivono con gli altri o in se stessi e ancor meno in ciò
che fanno, perché Egli compie in essi ogni cosa. Sedendo sotto questo stesso
albero posso vivere per Dio o con Lui o in Lui. Se stessi scrivendo per Lui, non
basterebbe. Per vivere con Lui è necessario trattenersi di continuo dal parlare e
frenare il desiderio di comunicare con gli uomini, anche parlando di Dio.
Eppure non è difficile comunicare contemporaneamente con gli altri e con Lui, se
li troviamo in Lui. Vita solitaria — essenzialmente la più semplice. La vita comune
ci prepara a essa in quanto troviamo Dio nella semplicità di tale vita — poi lo
cercheremo di più e lo troveremo meglio nella maggior semplicità della
solitudine.
Ma se la nostra vita di comunità è assai complicata — (per colpa nostra) —
diventeremo certamente ancor più complicati nella solitudine.
Non fuggire alla solitudine dalla comunità. Trova prima Dio in comunità e poi Egli
ti condurrà alla solitudine.
Non si può comprendere il vero valore del silenzio se non si ha un sincero
rispetto per la validità del linguaggio: perché nel silenzio ci si trova faccia a
faccia, senza nessun intermediario, con la realtà che si esprime nel linguaggio. E
non potremmo neppure trovarla in se stessa, vale a dire nel suo stesso silenzio,
se non vi siamo prima portati dal parlare.
Parole del Vangelo:
1. Gesù adempie le parole dei profeti (Gv 12,32) e di Mosè in particolare (Gv
5,47),I suoi miracoli erano «parole» — essi non credettero alle sue parole. “Chi
ha creduto a quel che ha udito da noi?” (Is 53,1). Le parole di Gesù
giudicheranno il mondo (Gv 12,41; Gv 15,22).
2. Le parole di Gesù sono le parole del Padre (Gv 12,49; Gv 17,8).
3. Le sue parole ci santificano (Gv 15,3).
4. Specialmente in quanto sono o implicano dei precetti che ci mantengono
nell’amor suo (Gv 15,10-11. 12) e ci portano attraverso Lui al Padre (Gv 17,6-
10). Parole nella Genesi (Gen 2,19-20). Adamo dà il nome agli animali (23). Dà il
nome alla donna (3,20). La chiama Eva. Parole in san Paolo. “Che il Verbo di
Cristo abiti in voi con pienezza”
(Col 3,16). Vedi la ragione per non mentire. Confronta la parabola del
seminatore. «Il seme è la parola di Dio» (Lc 8).
16.
Troviamo Iddio nel nostro essere che è lo specchio di Dio.
Ma come troviamo il nostro essere?
Le azioni sono le porte e le finestre dell’essere. Se non agiamo, non abbiamo
nessun mezzo per conoscere ciò che siamo. E l’esperienza della nostra esistenza
è impossibile senza una qualche esperienza del conoscere e una qualche
esperienza dell’esperienza.
Non possiamo quindi scoprire le profondità del nostro essere rinunciando a ogni
attività.
Se rinunciamo all’attività spirituale, possiamo cadere in una certa oscurità e in
una certa pace, ma sono l’oscurità e la pace della carne. Sentiamo di esistere, ma l’essere di cui facciamo esperienza è l’essere carnale e se ci addormentiamo in
questa oscurità e ci innamoriamo della sua dolcezza, ci sveglieremo per compiere
le opere della carne.
Per scoprire il nostro essere spirituale dobbiamo quindi percorrere il sentiero
tracciato dalla nostra attività spirituale.
Ma quando operiamo secondo la grazia, i nostri atti non sono soltanto nostri,
appartengono a Dio. Se li seguiamo sino alla loro sorgente, diventeremo capaci in
potenza di una esperienza di Dio. Perché il suo agire in noi ci rivela il suo essere
in noi.
Tutto il vivere consiste nello spiritualizzare le nostre attività per mezzo
dell’umiltà e della fede, nell’imporre silenzio alla nostra natura per mezzo della
carità.
“Uscire da se stessi” vuol dire operare alla sommità del nostro essere, mossi non
dalla natura, ma da Dio, che è infinitamente al di sopra di noi e ciò nondimeno
dimora nelle profondità dell’anima nostra.
Riposarsi da ciò, ossia gustare il frutto di un tale atto — vuol dire riposare
nell’essere stesso di Dio al di sopra di noi. Dov’è il tuo tesoro ivi è anche il nostro
cuore.
Consideriamo allora che tutto il pregio (tesoro) dei nostri atti spirituali viene da
Dio e il nostro cuore riposa alla sorgente da cui promana tutto ciò che vi è di
buono in noi. Non possediamo il nostro essere in noi, ma soltanto in Colui dal
quale il nostro essere scaturisce. Per la fede trovo in Dio il mio vero essere.
Un atto perfetto di fede dovrebbe essere in pari tempo un perfetto atto di umiltà.
Iddio non dice i suoi più puri segreti a quelli che sono pronti a rivelarli.
Ha sì dei segreti che dice a quanti ne diranno qualche cosa agli altri. Ma tali
segreti sono proprietà comune di parecchi. Ne ha poi altri che non possono dirsi e
che il semplice desiderio di dirli ci rende incapaci di riceverli.
Il più grande dei segreti di Dio è Dio stesso.
Egli è pronto a comunicarsi a me in una maniera che io non potrò mai esprimere
ad altri e neppure pensare tra me con una certa coerenza. Devo desiderarlo nel
silenzio. Ed è per questo che devo lasciare tutte le cose.
17.
Il grande compito della vita solitaria è la gratitudine. L’eremita è uno che
conosce meglio degli altri la misericordia di Dio perché tutta la sua vita dipende
completamente, nel silenzio e nella speranza, dalla segreta bontà del nostro
Padre celeste.
Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose.
Per poter vivere con gioia in solitudine devo avere una conoscenza piena di
comprensione della bontà degli altri, una conoscenza piena di riverenza della
bontà di tutta la creazione ed una umile conoscenza del mio corpo e della mia
anima. Come potrò vivere in solitudine se non scorgo dovunque la bontà di Dio,
mio Creatore e Redentore e Padre di ogni bene?
Che cosa è che mi ha reso cattivo e odioso a me stesso? È la mia follia, la mia
cecità, che, per il peccato, mi ha posto contro la luce che Dio ha messo nella mia
anima perché sia riflesso della sua bontà e testimonianza della sua misericordia.
Scaccerò dunque il male dalla mia anima lottando contro la mia cecità? Non è
questo che Dio ha disposto per me. Basta che mi distolga dalla mia tenebra e
volti verso la luce. Non devo fuggire da me stesso: basta che mi ritrovi non come
mi sono fatto da me, per la mia sciocchezza, ma come mi ha fatto Lui nella sua sapienza e mi ha rifatto nella sua misericordia infinita. Perché è sua volontà che
il mio corpo e la mia anima siano il tempio del suo santo Spirito, che la mia vita
rifletta il fulgore del suo amore e tutto il mio essere riposi nella sua pace.
Allora lo conoscerò davvero, perché io sono in Lui ed Egli è realmente in me.
18.
I Salmi sono il vero giardino del solitario e le Scritture sono il suo Paradiso. Essi
gli rivelano i loro segreti perché egli, nella sua estrema povertà ed umiltà, non ha
null’altro di cui vivere se non dei loro frutti.
Per il vero solitario il leggere la Scrittura non è più un “esercizio” tra gli altri, un
mezzo di “coltivare” l’intelletto o “la vita spirituale” o di “apprezzare la liturgia”.
A chi legge la Scrittura in un modo accademico o da un punto di vista estetico o
puramente devozionale la Bibbia offre veramente un gradito sollievo e buoni
pensieri. Ma per apprendere gl’intimi segreti della Scrittura dobbiamo fare di
essa il nostro pane veramente quotidiano, trovarvi Dio quando siamo in maggiore
necessità — e sempre allorché non riusciamo a trovarlo in nessun’altra parte e
non abbiamo dove cercarlo!
Nella solitudine ho finalmente scoperto che Tu, o mio Dio, hai desiderato l’amore
el mio cuore, l’amore del mio cuore così com’è — l’amore di un cuore di uomo. Ho
scoperto ed ho conosciuto, per tua grande misericordia, che ti piace tanto e attira
lo sguardo della tua pietà l’amore di un cuore di uomo fiducioso contrito povero,
e che è tuo desiderio e tua consolazione, o mio Signore, essere vicinissimo a chi
Ti ama e Ti invoca su di sé come suo Padre. Che Tu non hai forse maggior
«consolazione» (se così posso dire) di quella di consolare i tuoi figli doloranti e
tutti coloro che vengono a Te poveri e con le mani vuote, senz’altra cosa
all’infuori della loro umanità, della loro limitatezza e di una grande fiducia nella
tua misericordia.
Soltanto la solitudine mi ha insegnato che per piacerti non devo essere un dio o
un angelo, non devo divenire un puro spirito senza sentimento e senza
imperfezioni umane perché Tu ascolti la mia voce.
Tu, per essere con me, per ascoltarmi, udirmi e rispondermi, non aspetti che io
diventi qualcosa di grande. Sono state la mia bassezza e la mia umanità che Ti
hanno spinto a rendermi uguale a Te, facendoti scendere fino al mio livello e
vivere in me per la tua sollecitudine misericordiosa.
E ora è tuo desiderio non che io Ti dia il ringraziamento e la lode che ricevi dai
tuoi angeli eccelsi, ma l’amore e la gratitudine che vengono da un cuore di
fanciullo, un figlio di donna, il tuo figlio.
Padre mio, so che mi hai chiamato a vivere solo con Te e ad apprendere che se
non fossi una semplice creatura umana, capace di ogni errore e di ogni male e
capace altresì di un affetto umanamente fragile e fluttuante nei tuoi riguardi, non
potrei essere tuo figlio. Tu desideri l’amore di un cuore d’uomo perché anche il
tuo Figlio divino Ti ama con cuore d’uomo ed Egli si è fatto uomo perché il mio
cuore ed il suo potessero amarti di un unico amore, che è un amore umano
nato e mosso dal tuo santo Spirito.
Allora, se non Ti amo con amore e semplicità di uomo e con l’umiltà di voler
essere me stesso, non gusterò mai tutta la dolcezza della tua paterna
misericordia, e il Figlio tuo, per quanto riguarda la mia vita, sarà morto invano.
È necessario che sia uomo e uomo rimanga perché la Croce di Cristo non sia
vana. Gesù non è morto per gli angeli, ma per gli uomini. Ecco ciò che apprendo
dai Salmi nella solitudine, perché essi sono pieni della semplicità umana di uomini come David, che conobbero Dio da uomini, e da uomini Lo amarono e
conobbero Lui, l’Unico vero Dio, che avrebbe mandato il suo Unigenito agli
uomini sotto sembianze umane perché essi, pur rimanendo uomini, potessero
amarlo con amore divino.
Ed è questo il mistero della nostra vocazione: non che cessiamo di essere uomini
per diventare angeli o dei, ma che l’amore del mio cuore di uomo possa diventare
amore di Dio per Dio e per gli uomini, e le mie lacrime umane possano cadere dai
miei occhi come lacrime di Dio, perché sgorganti dal moto del suo Spirito nel
cuore del suo Figlio incarnato. Ecco perché il dono della pietà cresce nella
solitudine, alimentato dai Salmi.
Quando si impara questo, l’amore che portiamo agli altri uomini si fa puro e forte.
Possiamo avvicinarci a essi senza vanità e senza compiacenza, amandoli con un
po’ della purità, delicatezza e segretezza che sono nell’amore di Dio per noi.
Ecco il vero frutto e il vero scopo della solitudine cristiana.