L’amicizia
spirituale
di
AELREDO DI RIEVAULX
LIBRO
PRIMO
La
natura e l’origine dell’amicizia e il motivo per cui ho scritto
questo libro
Quando, ancora ragazzo,
frequentavo la scuola, mi dava moltissima gioia la compagnia dei miei
coetanei, così, tra le abitudini e le debolezze che solitamente
rendono problematica quell’età, mi diedi con tutto me stesso
all’affetto e mi consacrai all’amore: niente mi sembrava tanto
dolce, tanto gioioso, tanto appagante quanto essere amato e amare. Il
mio animo si trovò così a fluttuare fra tanti affetti e amicizie,
come fosse trascinato in più direzioni: non sapevo cosa fosse la
vera amicizia, e spesso mi lasciavo ingannare da ciò che ne era solo
l’apparenza.
Finalmente mi capitò
un giorno tra le mani il libro di Cicerone sull’amicizia, e subito
mi sembrò utile per la profondità delle idee, e gradevole per la
dolcezza dello stile. Benché non mi sentissi ancora maturo per
l’ideale che proponeva, ero felice di aver trovato un certo modello
di amicizia che mi permetteva di porre un certo ordine fra i miei
sentimenti così dispersivi. Quando piacque al mio buon Signore
rettificare le mie deviazioni, rialzarmi da terra, purificarmi con il
suo tocco salutare dai miei errori, lasciai i progetti di carriera
mondana ed entrai in monastero. Mi buttai subito nella lettura dei
libri sacri: prima infatti i miei occhi infiammati e assuefatti al
buio delle cose del mondo non riuscivano neanche a sfiorarne la
superficie. Così, mentre il gusto delle sacre Scritture diventava
sempre più dolce, e al loro confronto quel poco di scienza che mi
era venuto dal mondo andava perdendo valore, mi tornarono alla mente
le cose che avevo letto nell’opuscolo sull’amicizia di Cicerone,
e mi stupii che non avessero più lo stesso sapore di prima. In
effetti, a quel punto della mia vita, se una cosa non mi dava lo
stesso gusto di quel miele che è l’amicizia di Cristo, se non era
condita con il sale della Scrittura, non riusciva a coinvolgere
interamente il mio sentimento.
E pensando e
riflettendo continuamente su quelle idee, mi chiedevo se non fosse
possibile rafforzarle dando loro come fondamento l’autorità delle
Scritture. Avendo già letto negli scritti dei santi Padri molte cose
riguardanti l’amicizia, volendo amare spiritualmente ma non
sentendomene capace, cominciai a scrivere degli appunti sull’amicizia
spirituale per offrire a me stesso le regole di un amore puro e
santo. Così è nato questo libro, che ho diviso in tre parti: nella
prima tratto della natura dell’amicizia e ne esamino l’origine o
la causa; nella seconda ne prospetto i frutti e la grandezza; nella
terza spiego, secondo le mie capacità, in che modo e fra quali
persone essa possa conservarsi intatta per sempre.
Se qualcuno trarrà una
qualche utilità da questa lettura, renda grazie a Dio e supplichi la
misericordia di Cristo per i miei peccati. Se qualcuno troverà
invece superfluo o inutile quanto ho scritto, abbia pazienza per la
mia situazione infelice che, caricandomi di numerosi impegni, mi ha
costretto a ridurre nello schema di questa meditazione il fiume dei
miei pensieri.
La
definizione pagana dell’amicizia
Aelredo: Eccoci qui, io
e te, e spero ci sia un terzo in mezzo a noi, il Cristo. Non c’è
nessuno che possa infastidirci, nessuno che possa interrompere il
nostro conversare da amici: nessuno che arrivi con chiacchiere o
fracasso a insinuarsi in questa nostra piacevole solitudine.
Coraggio, carissimo, apri il tuo cuore, versa quello che vuoi nelle
orecchie di chi ti è amico: accogliamo con gratitudine il luogo,
l’ora, la serenità del riposo. Poco fa, infatti, mentre stavo
seduto in mezzo a tanti fratelli che mi premevano da ogni parte
parlando ad alta voce, chi interrogando, chi discutendo della
Scrittura, chi della morale, chi dei vizi e chi delle virtù, solo tu
stavi zitto. A volte alzavi il capo, e pareva che volessi parlare,
poi, come se la voce ti morisse in gola, abbassavi la testa e tacevi;
a volte ti staccavi un po’ dal gruppo, poi tornavi, mostrando un
volto triste. E capivo da tutti questi segni che, per far uscire i
pensieri del tuo cuore, fuggivi dal gruppo e desideravi piuttosto la
riservatezza.
Giovanni: È proprio
cosi, e mi rende molto felice sapere che ti prendi cura di questo tuo
figlio e fratello, perché solo lo spirito di carità può averti
rivelato il mio stato d’animo e il mio desiderio. Vorrei che la tua
bontà mi concedesse, ogni volta che tu verrai a visitare i tuoi
fratelli che vivono qui, di stare a lungo con te, lontano dagli
altri, per poterti esporre con calma ciò che si agita nel mio cuore.
Aelredo: Certo che te
lo concedo, e volentieri. È questo proprio perché sono felice di
vederti assetato non di chiacchiere inutili, ma di parlare di ciò
che è necessario per la tua vita. Parla pure con tranquillità e
condividi con chi ti è amico le tue preoccupazioni e i tuoi
pensieri, così che in questo scambio tu possa imparare e insegnare,
dare e ricevere, versare e attingere.
Giovanni: Veramente io
sono pronto a imparare, non a insegnare; non a dare, ma a ricevere;
ad attingere, non a versare. Del resto sono più giovane di te, mi ci
costringe la mia inesperienza e me lo consiglia il mio essere
religioso. Ma per non sprecare inutilmente il tempo, vorrei che tu mi
insegnassi qualcosa sull’amicizia spirituale. Vorrei sapere di cosa
si tratta, come nasce e qual è il suo scopo. Può nascere tra
chiunque, e se no tra chi? Come può durare nel tempo? È possibile
raggiungere il traguardo della santità senza che alcun dissenso la
rovini?
Aelredo: Mi meraviglio
che tu chieda a me queste cose quando sai bene che illustri filosofi
dell’antichità hanno trattato con abbondanza di questi argomenti.
Oltretutto hai passato gli anni della tua giovinezza a studiare
quegli scritti, hai letto il libro di Cicerone sull’amicizia dove,
con uno stile davvero felice e con ricchezza di argomentazioni,
discute di tutto ciò che riguarda questa materia ed espone le norme
che la regolano.
Giovanni: Conosco quel
libro, anzi tempo fa lo leggevo con molto piacere; ma da quando ho
cominciato a gustare la dolcezza delle Scritture e ho conosciuto
Cristo che ha avvinto a sé il mio affetto, tutto ciò che non ha il
gusto della parola di Dio, o non ha la stessa dolcezza, per me non ha
né sapore né luce. Anche se si trattasse di cose scritte in modo
molto raffinato non avrebbero pere me alcun interesse. Per questo
vorrei che tutto ciò che è stato detto in passato, sempre che sia
conforme alla ragione, e quello che nascerà utilmente da questa
nostra discussione, sia provato con l’autorità della Scrittura.
Vorrei anche che tu mi spiegassi come l’amicizia che deve esserci
tra noi nasce in Cristo, cresca grazie a Lui, e trovi in Lui il fine
e la perfezione. Credo, infatti, che Cicerone non conoscesse la vera
forza dell’amicizia, visto che non conosceva in alcun modo colui
che ne è il principio e il fine: Cristo.
Aelredo: Hai ragione
tu. Anzi, visto che non so bene quali siano le mie capacità, non mi
metterò certo a farti da maestro, piuttosto voglio conversare con
te, dal momento che sei stato tu a trovare la via giusta. Proprio tu
hai acceso quella luce fantastica che ci permetterà di non smarrirci
lungo strade insicure, ma ci condurrà certamente a raggiungere
l’obbiettivo che ci siamo proposti. Cosa si può dire, infatti, di
più bello sull’amicizia, di più vero, di più utile se non
dimostrare che essa nasce in Cristo, progredisce con Cristo, e da
Cristo è portata a perfezione? Parla, allora, e dimmi qual è
l’argomento che secondo te dobbiamo considerare per primo.
Giovanni: Mi pare che
si debba ragionare prima di tutto su cosa sia l’amicizia perché,
se ignoriamo il principio su cui fondare e sviluppare la nostra
discussione, rischiamo di sembrare persone che costruiscono i
castelli in aria.
Aelredo: Non ti basta
quello che ha detto Cicerone: “L’amicizia è l’accordo, pieno
di benevolenza e carità, sulle cose umane e divine”?
Giovanni: Se questo
basta a te, sono soddisfatto anch’io.
Aelredo: Allora diciamo
che tutti coloro che sulle cose divine e umane si trovano in perfetta
sintonia e vivono un’unità fatta di benevolenza e carità, hanno
raggiunto la perfezione dell’amicizia.
Giovanni: E perché no?
Non riesco però a vedere cosa potessero significare in bocca a un
pagano parole come “benevolenza” e “carità”.
Aelredo: Forse col
termine “carità” voleva riferirsi all’affetto interiore,
mentre con quello di “benevolenza” voleva significare il suo
tradursi in opere concrete. Infatti nelle cose umane e divine la
sintonia dei due cuori deve essere cara a entrambi, cioè amabile e
preziosa; invece nelle cose esterne l’agire deve essere pieno di
benevolenza e di gioia.
Giovanni: Ammetto che
questa definizione mi piace abbastanza, ma ho l’impressione che
vada bene per i pagani e per gli ebrei, anzi anche per i cattivi
cristiani. Sono convinto però che tra quelli che sono senza Cristo
non può sussistere la vera amicizia.
Aelredo: Nel seguito
del discorso vedremo con chiarezza se la definizione manca di qualche
cosa o se pecca per esagerazione, cosi che potremo respingerla o
accettarla come sufficiente e non viziata da alcun elemento estraneo.
Da questa definizione, infatti, anche se forse non ti sembra
adeguata, puoi comunque capire cosa sia l’amicizia.
Giovanni: Non
prendertela, per favore, se ti dico che così non mi basta, a meno
che tu non mi spieghi per bene il significato della parola stessa.
La
definizione di amore, di amico, di amicizia e la definizione della
carità
Aelredo: Lo farò
volentieri, purché tu abbia comprensione per la mia ignoranza e non
mi costringa a insegnarti quello che io stesso non so. Mi sembra che
il termine “amico” venga da “amore”, e “amicizia” da
“amico”. L’amore è un sentimento dell’anima per cui essa,
spinta dal desiderio, cerca qualcosa e desidera goderne, ne gode con
una certa dolcezza interiore, abbraccia poi l’oggetto di questa
ricerca, e conserva nella memoria quello che ha trovato. La natura e
la dinamica di questo sentimento le ho studiate con molta diligenza
nel mio scritto intitolato “Specchio della carità” che tu
conosci bene. Io dico che l’amico è come un custode dell’amore,
o, come ha detto qualcuno, “un custode dell’animo stesso”,
perché l’amico, come lo intendo io, deve essere il custode
dell’amore vicendevole, o meglio del mio stesso animo: deve
conservare in un silenzio fedele tutti i segreti del mio animo;
curare e tollerare, secondo le sue forze, quanto vi trova di
imperfetto; gioire quando l’amico gioisce; soffrire quando soffre;
sentire come proprio, tutto ciò che è dell’amico. L’amicizia
dunque è quella virtù che lega gli animi in un patto così forte di
amore e di dolcezza che quelli che prima erano tanti ora sono una
cosa sola. Per questo i grandi filosofi hanno posto l’amicizia non
tra le realtà casuali e passeggere, ma tra le cose eterne. È quanto
lo stesso Salomone sembra dire nel libro dei Proverbi quando scrive:
“Un amico vuol bene sempre” (Pr 17,17), affermando così
con chiarezza che l’amicizia è eterna se è vera; se invece cessa
di esistere, vuol dire che non è vera, anche se lo sembrava.
Giovanni: Com’è
allora che si dice che anche tra grandi amici sorgono gravi
inimicizie?
L’amicizia:
un ideale da perseguire anche con il sacrificio
Aelredo: Di questo, se
Dio vorrà, parleremo a suo tempo. Voglio subito che tu sappia che
non è mai stato vero amico uno che ha potuto offendere un altro dopo
averlo accolto nella sua amicizia. E nemmeno può dirsi che abbia
gustato la gioia della vera amicizia chi, una volta offeso, cessa di
amare colui che prima amava. Infatti chi è amico, ama sempre. Se
anche fosse rimproverato, insultato, dato alle fiamme, messo in
croce, chi è amico ama sempre; e, come dice san Gerolamo:
“Un’amicizia che può spegnersi non è mai stata una vera
amicizia!” (Epist. 41, ad Ruffin.).
Giovanni: Se la
perfezione della vera amicizia è così grande, non mi stupisco più
che siano cosi rari quelli che sono stati riconosciuti come veri
amici. Cicerone dice addirittura che, in tanti secoli che lo hanno
preceduto, si possono contare “appena tre o quattro” (Lib. de
Amic., n. 15) veri amici che per la loro virtù e bontà abbiano
raggiunto la notorietà. Visto poi che anche nella nostra epoca
cristiana gli amici sono così rari, mi pare proprio di sudare per
niente nel tentativo di far mia questa virtù. È una grandezza che
mi spaventa, e che credo non raggiungerò mai.
Aelredo: È stato detto
che “già il solo tentativo di arrivare a cose grandi è grande”.
Per questo è tipico degli animi più grandi riflettere costantemente
sulle cose più sublimi, con il risultato che, o raggiungono quello
che desiderano, o conoscono con maggior chiarezza quale deve essere
il vero oggetto del loro desiderio: puoi star certo che ha già fatto
un grande passo in avanti chi, conoscendo la virtù, si rende conto
di quanto ne sia ancora lontano. Del resto, il cristiano non può mai
disperare di conquistare l’amore di Dio e del prossimo, visto che
sente ogni giorno nel Vangelo la voce divina che gli dice: “Chiedete
e otterrete” (Gv 16,24). Non ti devi stupire se tra i pagani
furono pochi i seguaci della virtù. Loro non conoscevano colui che è
il Signore e il datore della carità, del quale è scritto: “Il
Signore delle virtù è il Re della gloria” (Sal 23,10).
Infatti, posso portarti l’esempio non di tre o quattro, ma di
migliaia di amici che, per la fede in lui, erano pronti a “morire
l’uno per l’altro”, operando quel miracolo grandioso che gli
antichi celebravano o immaginavano si fosse realizzato nel caso di
Pilade e Oreste. Non erano forse veri amici secondo la definizione di
Cicerone quelli di cui è scritto: “La moltitudine dei credenti era
un cuor solo e un’anima sola; nessuno diceva sua proprietà quello
che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune” (At
4,32)? Come poteva non essere totale il “consenso nelle cose divine
e umane, unito a carità e benevolenza” tra coloro che avevano un
cuor solo e un’anima sola? Quanti martiri hanno dato la vita per i
loro fratelli, quanti non hanno badato a spese, a fatiche, alle
stesse torture. Penso che tu abbia letto la storia di quella ragazza
di Antiochia che un soldato, con astuzia, strappò dalla strada,
diventando poi suo compagno nel martirio dopo essere stato nella
strada custode della sua purezza.
Potrei portarti molti
altri esempi, se il loro numero non fosse eccessivo. Cristo Gesù
infatti ha annunziato e proclamato il Vangelo, ed essi si sono
moltiplicati oltre ogni misura. Ha detto: “Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv
15,13).
Giovanni: Allora tu
dici che tra l’amicizia e la carità non c’è nessuna differenza?
Aelredo: C’è invece,
e grande. Dio ha infatti voluto che siano molti di più quelli che
accogliamo con la carità di quelli che ammettiamo all’abbraccio
dell’amicizia. La legge della carità ci porta ad accogliere con
amore non solo gli amici, ma anche i nemici (cfr. Mt 5,44).
Noi però chiamiamo amici solo quelli cui non temiamo di affidare il
nostro cuore con tutto quello che ha dentro, e così fanno anche
loro, stringendosi a noi in un legame che ha la sua legge e la sua
sicurezza nella fiducia reciproca.
I
vari tipi di amicizia: carnale, mondana, spirituale.
Giovanni: Però ci sono di quelli che, seguendo il
mondo e avendo in comune certi vizi, si legano l’uno all’altro in
un patto del genere, vivendo in un vincolo amicale. Vorresti
spiegarmi quale, fra tante forme di amicizia, possa essere detta, a
differenza delle altre, “spirituale”? Mi pare, infatti, che
l’amicizia spirituale risulti in qualche modo oscurata dalle altre
forme, che per giunta sembrano più attraenti. Mi aiuterai così a
distinguerla da ciò che la accomuna alle altre, così risulterà più
chiara, e quindi più desiderabile. Così tutti opereremo con più
decisione per conquistarla e farla nostra.
Aelredo: Non hanno il
diritto di usare il nobilissimo nome dell’amicizia quelli che sono
uniti dalla connivenza nel vizio: chi non ama, infatti, non è un
amico, e non ama l’uomo colui che ama l’iniquità. Chi ama
l’iniquità non ama, ma odia la sua anima, e chi non ama la sua
anima tanto meno può amare quella di un altro. Questa gente si vanta
di un’amicizia che è tale solo di nome: sono ingannati da qualcosa
che ne è solo la scimmiottatura, non la possiedono nella realtà. Se
poi, in un’amicizia del genere, cioè sporcata dall’avarizia o
disonorata dalla lussuria, si può sperimentare il sentimento, pensa
a quanta gioia in più si riversa su un’amicizia che quanto più è
onesta tanto più è sicura, quanto più è pura tanto più è
gioiosa, quanto più è libera tanto più è felice. Comunque, dal
momento che a livello di sentimenti si avverte una certa somiglianza,
lasciamo pure per un momento che in base a questo fatto vengano
chiamate amicizie anche quelle che non sono vere, purché però esse
vengano distinte con segni chiari e certi da quella che è
spirituale, e dunque vera.
Diciamo che l’amicizia
può essere: carnale, mondana, spirituale. Quella carnale nasce dalla
sintonia nel vizio; quella mondana sorge per la speranza di un
qualche guadagno: quella spirituale si consolida fra coloro che sono
buoni, in base ad una somiglianza di vita, di abitudini, di gusti e
aspirazioni .
L’amicizia carnale
nasce dal solo sentimento, cioè da quel tipo di emotività che, come
una prostituta, allarga le gambe davanti a tutti quelli che le
passano accanto, seguendo il vagare di occhi e orecchi verso
l’impurità. Da queste porte si intrufolano nella mente immagini
voluttuose, e si pensa che la felicità stia nel goderne a piacere, e
che il divertimento sia maggiore se si trova qualcuno con cui
condividerlo. Si mettono allora in moto gesti, segni, parole e
adulazioni con cui un animo cerca di accattivare l’altro. L’uno
attizza il fuoco nell’altro fino a fondersi in una sola cosa. Una
volta raggiunto uno squallido accordo, arrivano a fare o a subire
l’uno per l’altro qualsiasi cosa e si convincono che non ci sia
niente di più dolce e di più giusto di una simile amicizia: “volere
le stesse cose, rifiutare le stesse cose”, ritenendo così di
obbedire alle leggi dell’amicizia. Un’amicizia del genere non
nasce da una scelta deliberata, non è messa alla prova dal giudizio,
non è diretta dalla ragione, ma è spinta qua e là sotto l’urgenza
disordinata del semplice sentimento. Una simile amicizia non osserva
misura alcuna, non cerca cose oneste, non si sforza di prevedere ciò
che è utile e ciò che non lo è, ma si butta su tutto in modo
sconsiderato, imprudente, superficiale ed eccessivo. Così, come
agitata dalle furie, si autodistrugge e, con quella stessa leggerezza
con cui era nata, prima o poi si spegne.
L’amicizia mondana,
invece, quella che nasce dal desiderio di cose o beni temporali, è
sempre piena di frodi e inganni. In essa niente è certo, niente è
costante, niente è sicuro, proprio perché tutto cambia col volgere
della fortuna e... della borsa. Per questo sta scritto: “C’è
infatti chi è amico quando gli fa comodo, ma non resiste nel giorno
della tua sventura” (Sir 6,8). Se togli la speranza di
guadagnare, subito sparirà anche l’amico. Questa amicizia è stata
ridicolizzata con versi eleganti: “Non della persona, ma della
prosperità è amico colui che la dolce fortuna trattiene, ma quella
amara mette in fuga”. Però, a volte, ciò che fa nascere questo
tipo di amicizia viziosa conduce alcuni a un certo grado di amicizia
vera: mi riferisco a quelli che all’inizio, in vista di un guadagno
comune, contraggono un legame di fiducia reciproca che resta sì
basato sul denaro iniquo, ma almeno nelle cose umane raggiungono una
grande sintonia. Però questa amicizia non può in alcun modo essere
ritenuta vera, dato che nasce e rimane fondata solo sulla base di un
vantaggio temporale.
L’amicizia
spirituale, infatti, quella che noi chiamiamo vera, è desiderata e
cercata non perché si intuisce un qualche guadagno di ordine
terreno, non per una causa che le rimanga esterna, ma perché ha
valore in se stessa, è voluta dal sentimento del cuore umano, così
che il “frutto” e il premio che ne derivano altro non sono che
l’amicizia stessa. Proprio come dice il Signore nel Vangelo: “Io
ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto”
(Gv 15,16), cioè perché vi amiate a vicenda (cfr. Gv
15,17). È infatti nell’amicizia stessa, quella vera, che si
progredisce camminando, e si coglie il frutto gustando la dolcezza
della sua perfezione. L’amicizia spirituale nasce tra i buoni per
una somiglianza di vita, di abitudini, di aspirazioni, ed è una
sintonia nelle cose umane e divine, piena di benevolenza e di carità.
Mi pare che questa definizione basti a esprimere l’idea di
amicizia, purché intendiamo il termine “carità” in senso
cristiano, cosicché si escluda dall’amicizia ogni vizio, e con
“benevolenza” si intenda lo stesso sentimento d’amore che
proviamo interiormente insieme a una certa dolcezza. Dove c’è
un’amicizia di questo genere, vi è certamente “il volere e il
rifiutare le stesse cose”; cioè un sentire che è tanto più dolce
quanto più è sincero, tanto più bello quanto più è sacro, al
punto che gli amici non possano neppure volere ciò che è male, o
non volere ciò che è bene. Un’amicizia così è guidata dalla
prudenza, è retta dalla giustizia, è custodita dalla fortezza, è
moderata dalla temperanza. Di questo però parleremo più avanti.
Adesso dimmi se ho risposto in modo adeguato alla tua prima domanda,
cioè cos’è l’amicizia.
Giovanni: Quello che
hai detto mi basta, e non mi sembra di avere altro da chiederti. Ma
prima di passare ad un altro punto, desidero sapere come nasce
l’amicizia tra di noi. Nasce dalla natura, o dal caso, o da una
qualche necessità? È una legge insita al genere umano? È la stessa
esistenza che ci spinge a ricercarla?
L’origine,
lo sviluppo dell’amicizia e la legge
Aelredo: Mi sembra che
il sentimento di amicizia sia stato anzitutto impresso nell’animo
umano dalla stessa natura; l’esperienza poi lo ha sviluppato e,
infine, l’autorità della legge ne ha stabilito le regole. Dio,
infatti, che è infinitamente buono e potente, è un bene che basta a
se stesso: è lui il proprio bene, la propria gioia, la propria
gloria, la propria beatitudine. Non ha bisogno di nient’altro
all’infuori di sé, né di un uomo, né di un angelo, né del
cielo, né della terra, né di alcuna delle cose che vi si trovano.
Davanti a lui ogni creatura riconosce: Sei tu il mio Dio, perché non
hai bisogno dei miei beni. Non solo Dio basta a se stesso, ma è
anche ciò che costituisce la pienezza di tutti gli esseri: ad alcuni
dà l’esistenza, ad altri la vita sensitiva, ad altri ancora
l’intelligenza, ed è lui la causa di tutto ciò che esiste, la
vita di tutto ciò che è sensibile, la sapienza di tutto ciò che è
intelligente. Lui, che è il sommo bene, ha stabilito tutte le cose,
le ha disposte con ordine e armonia, ciascuna al suo posto, e le ha
distinte e distribuite ciascuna nel suo tempo definito. Ma volle
pure, perché così stabilì la sua eterna sapienza, che tutte le sue
creature si armonizzassero nella pace, si unissero in società,
cosicché tutte traessero da lui, che è la perfetta unità, una
qualche unità. Per questo motivo non ha lasciato nella solitudine
nessuna specie creata, ma di ogni moltitudine ha saputo fare una
sorta di corpo solidale.
Se vogliamo cominciare
dalle cose insensibili, chiediamoci in quale terreno, o in quale
fiume, si trovi un’unica pietra di un solo tipo, o quale foresta
abbia un unico albero di una sola specie. Così, tra le stesse
creature insensibili si nota una sorta di amore della compagnia, dato
che nessuna di queste creature è sola, ma è creata e mantenuta in
società con qualche altra della sua specie. E come descrivere in
modo adeguato con quale bellezza risplende nelle creature sensibili
l’immagine dell’amicizia, della compagnia e dell’amore? In
molte cose le creature sensibili si rivelano irrazionali, ma sotto
questo aspetto imitano a tal punto l’animo umano da sembrare spinte
dalla ragione. Si inseguono, giocano tra di loro, esprimono e
manifestano l’affetto che le lega con movimenti e suoni, godono
della reciproca compagnia con tale avidità e tanta gioia da sembrare
che non si curino d’altro che di vivere l’amicizia.
Anche riguardo alle
creature spirituali, agli angeli, la divina sapienza ha agito in modo
che non ne fosse creato uno solo, ma moltitudini. Tra loro la
piacevole compagnia e l’amore perfetto creò una medesima volontà,
un medesimo affetto, al punto che nessuno poté sentirsi superiore o
inferiore all’altro, e la carità dell’amicizia tolse spazio
all’invidia. Così la moltitudine eliminò la solitudine e la
comunione della carità aumentò in tutti la gioia.
Infine, quando creò
l’uomo, per raccomandare con maggior forza il bene della compagnia
disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto
che gli sia simile” (Gen 2,18). E la divina bontà non formò
questo aiuto con una materia simile o uguale, ma per esprimere in
modo più chiaro la sua intenzione di favorire la carità e
l’amicizia, creò la donna dalla stessa sostanza dell’uomo. È
bello che il secondo essere umano venga tolto dal fianco del primo:
così la natura vuole insegnarci che tutti gli esseri umani sono
uguali, quasi collaterali, e che nelle cose umane non c’è né
superiore né inferiore, il che costituisce l’essenza stessa
dell’amicizia. Così, fin dal principio, la natura stessa ha
impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia e della
carità, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto
intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza.
Ma dopo la caduta del
primo uomo, quando con il raffreddarsi della carità subentrò nel
mondo l’avidità, che portò a preferire l’egoismo alla
solidarietà, l’avarizia e l’invidia offuscarono lo splendore
dell’amicizia e della carità, e introdussero nei costumi ormai
corrotti dell’umanità contese, rivalità, odi e sospetti. Allora
si cominciò a distinguere tra carità e amicizia, avvertendo che
l’amore era dovuto anche ai nemici e ai perversi, ma essendo anche
evidente che tra i buoni e i malvagi non poteva esserci alcuna
comunione di volontà e di propositi. L’amicizia, che all’inizio
era vissuta, come la carità, da tutti e con tutti, rimase confinata
per legge naturale a pochi. Questi, vedendo come molti violassero le
leggi della lealtà e della solidarietà, si legarono tra di loro in
un patto più stretto di amore e di amicizia così da trovare, in
mezzo ai mali che vedevano e pativano, ristoro e quiete nella grazia
dell’amore reciproco. Bisogna dire però che anche nelle persone in
cui la vita disonesta aveva cancellato ogni senso di virtù, la
ragione, che in essi non poteva spegnersi, lasciò in loro
l’inclinazione verso l’amicizia e la compagnia, al punto che le
ricchezze non potevano piacere all’avaro, o la gloria
all’ambizioso, o il piacere al lussurioso, se non c’era qualcuno
insieme al quale goderne. Anche tra le persone peggiori, infatti, si
strinsero legami detestabili, che vennero nascosti sotto il nome
dell’amicizia, ma che dovettero essere distinti da questa con
giuste regole, per evitare che, ingannati da una qualche somiglianza,
quelli che cercavano l’amicizia vera cadessero incautamente in
quella sbagliata. Così l’amicizia, insita nella natura e
rafforzata dall’esperienza, è stata alla fine regolata
dall’autorità della legge.
L’amicizia
e la sapienza
È chiaro quindi che
l’amicizia è naturale come la virtù, come la sapienza, e come
tutte quelle cose che, per la loro bontà naturale, sono da
desiderare e da praticare per se stesse. Tutti quelli che le
posseggono, poi, sanno farne un buon uso, e nessuno ne abusa.
Giovanni: Scusami, ma
non sono tanti quelli che abusano della scienza o ne traggono motivo
per vantarsi di fronte agli altri o si insuperbiscono o se ne servono
in modo affaristico e venale, così come altri usano la loro
apparente bontà per far soldi?
Aelredo: Qui potrà
risponderti sant’Agostino, che ha scritto: “Chi piace a se stesso
piace a uno stupido, perché è certamente uno stupido chi si
compiace di sé”. Chi è stupido non è sapiente, e chi non è
sapiente, non avendo la sapienza, non sa di niente. Come potrebbe
dunque usare male la sapienza colui che sapiente non è? Allo stesso
modo una castità piena di superbia non è una vera virtù, perché
la superbia, che è un vizio, rende conforme a sé quella che era
ritenuta una virtù, e perciò questa castità non è una virtù, ma
un vizio abilmente camuffato.
Giovanni: Ti dirò con
franchezza che non mi sembra logico che tu abbia collegato la
sapienza con l’amicizia, dato che non è possibile fare alcun
paragone tra le due.
Aelredo: Spesso le cose
piccole e le grandi, le buone e le migliori, le deboli e le forti,
anche se non coincidono, vengono accostate, soprattutto quando si
tratta di virtù: se è vero che sussistono fra loro differenze di
grado, ci sono però delle somiglianze che le avvicinano. Per
esempio, la vedovanza è vicina alla verginità, la castità
coniugale è vicina alla vedovanza, e anche se tra queste virtù c’è
una grande diversità, tuttavia, proprio perché sono virtù, si può
stabilire tra loro un qualche rapporto. La continenza coniugale non
cessa di essere una virtù per il fatto che la castità vedovile sta
su un gradino più alto, e anche se la verginità scelta per amore è
ancora migliore, non per questo viene eliminata la bontà delle altre
due.
Se fai bene attenzione
a quanto ho detto dell’amicizia, troverai che essa è così vicina
alla sapienza, e ne è così piena, che potrei affermare senza timore
che l’amicizia altro non è che la sapienza.
Giovanni: Ti confesso
che la cosa mi sorprende, e penso che non ti sarà facile convincermi
di quanto hai detto.
Aelredo: Hai
dimenticato quello che dice la Scrittura? “Un amico vuol bene
sempre” (Pr 17,17). E ti ricordi quello che dice il nostro
san Gerolamo: “Un’amicizia che può finire non è mai stata
un’amicizia vera”? Che poi l’amicizia non possa sussistere
senza la carità lo abbiamo dimostrato molto bene. Visto che
l’amicizia è eterna, è fondata sulla verità e vi si gusta la
dolcezza della carità, come pensi che sia possibile escludere da
queste tre cose la sapienza?
Giovanni: Che discorso
è questo? Allora posso dire dell’amicizia quello che l’apostolo
Giovanni, l’amico di Gesù, dice della carità, che cioè “Dio è
amicizia”?
Aelredo: Veramente non
si dice così. Questa espressione non la si trova nella Scrittura.
Però non esito ad applicare all’amicizia la frase dove l’apostolo
Giovanni parla della carità: “Chi sta nell’amore dimora in Dio e
Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). La cosa ti apparirà ancora
più chiara quando cominceremo a parlare dei frutti dell’amicizia.
Ora, se per quello che ha potuto fare la mia povera intelligenza, ho
detto abbastanza su cosa sia l’amicizia, rimandiamo ad altro
momento l’esame degli altri punti che mi hai chiesto di analizzare.
Giovanni: A dire il
vero, per il desiderio che ho di ascoltarti, questo rinvio mi fa
davvero soffrire. Concludiamo, visto che è l’ora della cena. È
poi non possiamo far attendere gli altri, visto che devi ancora
incontrarli.
LIBRO
SECONDO
Il
dialogo fra Aelredo e Marco
Aelredo: Vieni pure,
fratello, dimmi per quale motivo, mentre io parlavo con altre
persone, te ne stavi seduto tutto solo, lontano da noi. Ti ho visto,
guardavi da una parte e dall’altra, ti passavi una mano sulla
fronte, ti toccavi i capelli con le dita, a volte mostravi sul volto
il fastidio per qualcosa che non ti andava, manifestando chiaramente
la tua disapprovazione.
Marco: È vero. Come si
può rimanere in pace tutto il giorno vedendo che certi “esattori
del faraone” godono abbondantemente della tua compagnia, mentre
noi, a cui devi una particolare dedizione, non riusciamo ad avere
neanche un breve colloquio con te?
Aelredo: Dobbiamo
trattare con tutti, anche con quelli che possono procurarci dei
favori o crearci dei guai. Però, ora che finalmente se ne sono
andati, la serenità della solitudine mi è tanto più gradita quanto
più insopportabile era l’agitazione di prima. Si dice che “la
fame sia un ottimo condimento del cibo”! Il miele o qualsiasi altro
aroma non rendono il vino così gustoso quanto la sete rende
desiderabile l’acqua. Questo incontro sarà per te come un cibo o
una bevanda spirituale tanto più gradita quanto più forte è stato
il desiderio che l’ha preceduto. Coraggio, dunque, e non esitare a
dirmi tutto quello che poco fa ti preparavi a far uscire dal tuo
cuore agitato.
Marco: Certo che lo
faccio. Se infatti mi lamentassi perché il tempo che quelli ci hanno
lasciato è troppo breve, ne perderei ancora di più. Dimmi per
favore, se ancora lo ricordi quello che una volta tu e Giovanni vi
eravate detti a proposito dell’amicizia spirituale: quali domande
ti aveva fatto? A che punto eravate rimasti? Hai scritto qualcosa
sull’argomento?
Aelredo: Il ricordo del
carissimo Giovanni, anzi, l’abbraccio costante del suo affetto mi è
sempre così presente che, anche se ora ci è stato tolto, nel mio
cuore è più vivo che mai. Lui è sempre con me. Più mi vedo
splendere davanti l’intensità spirituale del suo volto; più mi
sorride la dolcezza dei suoi occhi; più le sue parole piene di gioia
mi danno un tale gusto che mi sembra di essere stato con lui in
paradiso, o che lui stia ancora conversando con me su questa terra.
Sai però che sono passati molti anni da quando ho perduto quel breve
scritto in cui avevo fissato le sue domande e le mie risposte a
proposito dell’amicizia spirituale.
Marco: Lo so. Ma, per
dir la verità, tutta la mia avidità e la mia impazienza nascono
proprio dal fatto che come mi ha detto qualcuno quello
scritto è stato ritrovato e ti è stato consegnato tre giorni fa. Ti
prego, fammelo vedere! Non mi darò pace finché, dopo averlo letto e
dopo aver visto ciò che manca, potrò sottoporre all’esame della
tua attenzione paterna ciò che o la mia mente o un’ispirazione
segreta mi suggeriranno di chiederti: così tu potrai dire se
dissenti da ciò che penso o se sei d’accordo, oppure approfondire
quei punti che lo richiedono.
I
frutti dell’amicizia
Aelredo: Farò come
desideri. Però voglio che tu legga da solo ciò che ho scritto, e
che non lo mostri in pubblico, perché ritengo che ci siano alcune
cose da togliere, altre da aggiungere, e sicuramente parecchi punti
da correggere.
Marco: Sono qui per
questo, tanto più avido di sapere quanto più dolce è stato il
gusto per le cose che ho letto sull’amicizia. Visto che ho già
letto quanto hai magnificamente esposto sulla natura dell’amicizia,
vorrei che mi dicessi quali vantaggi procura a chi la coltiva. Si
tratta, infatti, come tu hai saputo dimostrare, di una cosa di grande
importanza. Sarà dunque tanto più forte il desiderio che ci
spingerà a cercarla quanto meglio ne conosceremo il fine e i frutti.
Aelredo: Non pretendo
di riuscire a darti una spiegazione che sia all’altezza di un bene
così grande: nelle cose umane, infatti, non possiamo desiderare
niente di più santo e di più utile; niente è più difficile da
trovare, niente si può sperimentare di più dolce e niente è più
ricco di frutti. L’amicizia, infatti, porta i suoi frutti nella
vita presente e in quella futura. L’amicizia dà gusto, con la sua
soavità, a tutte le virtù, con la sua forza seppellisce i vizi,
addolcisce le avversità, modera la prosperità, così che senza un
vero amico quasi niente tra le cose umane può essere fonte di gioia.
Un uomo senza amici è come una bestia, perché non ha chi si
rallegri con lui quando le cose gli vanno bene; non ha chi condivida
la sua tristezza nei momenti di dolore; gli manca uno con cui
sfogarsi quando la mente è angustiata per qualche preoccupazione, o
qualcuno cui poter comunicare qualche intuizione geniale o più
luminosa del solito. Guai a chi è solo, perché se cade non ha chi
lo sollevi. Colui che è senza amici vive nella solitudine più
totale. E invece, quale felicità, quale sicurezza, quale gioia avere
uno “con cui tu abbia la libertà di parlare come a te stesso”,
uno cui poter confidare senza timore i tuoi sbagli, uno al quale
poter rivelare senza arrossire i tuoi progressi nella vita
spirituale, uno cui affidare tutti i segreti e tutti i progetti del
tuo cuore! Cosa può esserci di più gioioso dell’unione di un
animo con un altro, di due che diventano uno al punto che sparisce la
paura della prepotenza, o il timore indotto dal sospetto, e la
correzione di uno non fa soffrire l’altro, né la lode può essere
presa come adulazione? Un amico, dice il Sapiente, è una medicina
per la vita.
Eccellente, davvero!
Non c’è, infatti, in tutto quanto può capitarci in questa vita,
medicina migliore, più valida o più efficace per le nostre ferite,
che l’avere un amico che venga a dividere con noi i momenti di
sofferenza e i momenti di gioia, così che spalla a spalla, come dice
l’Apostolo, portiamo gli uni i pesi degli altri, meglio, uno
sopporta più facilmente i propri mali che quelli dell’amico.
L’amicizia, dunque, “rende più splendida la buona sorte e più
lievi le avversità condividendole e mettendole in comune”. L’amico
è veramente una medicina eccellente per la vita. Su questo
concordano anche i pagani, i quali dicevano: “molto spesso ci
serviamo più dell’amico che non dell’acqua o del fuoco” In
ogni azione, in ogni progetto, nelle certezze e nei dubbi, in
qualsiasi evenienza, in qualsiasi occasione, in segreto e in
pubblico, quando abbiamo bisogno di un consiglio, in casa e fuori,
dovunque, l’amicizia fa piacere, l’amico è necessario, il suo
aiuto è prezioso. Gli amici, come dice Cicerone, “sono presenti
anche se sono assenti, sono ricchi anche se poveri, sono forti anche
se deboli e, cosa ancor più difficile, anche se morti, vivono”.
L’amicizia, quindi, è la gloria di chi è ricco, la patria di chi
è in esilio, la ricchezza di chi è povero, la medicina di chi è
malato, la vita di chi è morto, la grazia di chi è sano, la forza
di chi è debole, il premio di colui che è forte. Questo è l’onore,
il ricordo, l’apprezzamento e il rimpianto che si accompagna agli
amici, a coloro la cui vita ci appare degna di lode, e la morte
preziosa. Ma c’è ancora una cosa che supera tutte le precedenti:
l’amicizia è a un passo dalla perfezione che consiste nell’amore
e nella conoscenza di Dio, cosicché un uomo, in virtù dell’amicizia
che ha verso un altro uomo, diventa veramente amico di Dio, secondo
quanto dice il Signore nel Vangelo: “Non vi chiamo più servi, ma
amici”.
Marco: Devo confessarti
che le tue parole mi commuovono e accendono nel mio animo un
desiderio di amicizia così grande da credere che non riuscirei a
vivere qualora mi mancasse la ricchezza di un bene così grande. Però
vorrei che tu mi spiegassi più ampiamente quest’ultima cosa che
hai detto, e che mi ha toccato a tal punto da strapparmi quasi dalla
realtà terrena, cioè che l’amicizia costituisce il gradino più
alto verso la perfezione. È una fortuna che sia entrato proprio in
questo momento Luca, lui che a ragione potremmo definire “discepolo
dell’amicizia”, visto che il suo impegno costante è quello di
“essere amato e di amare”. È un bene che sia qui, perché non
gli capiti che, avido com’è di amicizie, e ingannato da ciò che
ne è solo una parvenza, prenda per vera un’amicizia che è falsa,
oppure per solida una che è fragile o per spirituale un’amicizia
che è del tutto carnale.
Luca: Ti ringrazio per
la tua cortesia, fratello, dato che mi concedi di prender parte a
questo incontro spirituale, pur non essendo stato invitato. Anzi, a
dire il vero mi sono inserito nel vostro discorso senza neanche
chiedere il permesso. Devo ammettere che, se mi hai chiamato sul
serio, e non per scherzo, “discepolo dell’amicizia”, avrei
dovuto essere invitato qui fin dall’inizio della conversazione,
così non sarei stato costretto a tradire la mia avidità, vincendo
la mia riservatezza. Ma tu, padre, continua la tua esposizione, e
metti sulla tavola qualcosa per me: anche se non potrò “mangiare”
come Marco che, dopo aver divorato chissà quanti piatti, ora fa lo
schizzinoso e sembra volermi offrire solo i suoi resti, avrò almeno
qualche briciola.
L’amicizia:
un gradino verso Dio
Aelredo: Non avere di
questi timori, perché sul bene dell’amicizia abbiamo ancora tante
cose da dire che, se una persona saggia volesse proseguire il
discorso, ti accorgeresti che quanto ho detto fin qui è poca cosa.
Ora, in breve, in che
modo l’amicizia costituisce un gradino che porta all’amore e alla
conoscenza di Dio? Nell’amicizia, non può esserci niente di
disonesto, niente che sia finto o simulato, in essa tutto è puro,
spontaneo e vero. Questa è proprio la caratteristica della carità.
La qualità particolare dell’amicizia risplende nel fatto che fra
coloro che sono uniti nel vincolo dell’amicizia tutto è fonte di
gioia, tutto dà una sensazione di sicurezza e di dolcezza. In nome
della carità perfetta noi amiamo molti che ci sono di peso e ci
fanno soffrire: ci occupiamo di loro in tutta onestà, senza finzioni
o simulazioni, ma con sincerità e buona volontà, e però non li
ammettiamo nell’intimità della nostra amicizia. Nell’amicizia,
invece, si ricongiungono l’onestà e la dolcezza, la verità e la
gioia, l’amabilità e la buona volontà, il sentimento e l’azione.
Tutte queste cose vengono da Cristo, maturano grazie a lui, e in lui
raggiungono la perfezione. Dunque non è troppo impervio né
innaturale il cammino che, partendo da Cristo che ispira in noi
l’amore con cui amiamo l’amico, sale verso di lui che ci offre se
stesso come amico da amare: cosi si aggiunge meraviglia a meraviglia,
dolcezza a dolcezza, affetto ad affetto.
I
vari tipi di amicizia: i tre baci
L’amico, dunque, che
nello spirito di Cristo entra in sintonia con un altro amico, diventa
con lui un cuor solo e un’anima sola, e così, salendo insieme i
diversi gradini dell’amore fino all’amicizia di Cristo, diventa
un solo spirito con lui in un unico bacio. Questo era il bacio che
un’anima santa desiderava quando diceva: “Mi baci con il bacio
della sua bocca”. Consideriamo adesso le caratteristiche di questo
bacio carnale, per poter passare dalle cose carnali a quelle
spirituali, da quelle umane a quelle divine. La vita dell’uomo si
sostenta con due alimenti: il cibo e l’aria. Senza il cibo si può
sopravvivere per un po’, ma senza l’aria neanche un’ora. Per
vivere, con la bocca inspiriamo aria e la espiriamo. E ciò che viene
inspirato o espirato lo chiamiamo “spirito”, o “fiato”. Per
questo diciamo che in un bacio due fiati si incontrano, si mischiano
e si uniscono. Da qui nasce una sensazione gradevole che stimola il
sentimento di quelli che si baciano e li stringe l’uno all’altro.
C’è dunque un bacio corporale, un bacio spirituale e un bacio
intellettuale. Il bacio corporale si fa unendo le labbra, il bacio
spirituale unendo gli animi, il bacio intellettuale con l’infusione
della grazia mediante lo Spirito di Dio.
Il
bacio corporale
Il bacio corporale si
deve dare e ricevere solo a certe condizioni che lo rendono onesto:
per esempio, come segno di riconciliazione, quando due che prima
erano nemici ridiventano amici; come segno di pace, quando coloro che
stanno per ricevere l’Eucaristia esprimono esternamente col bacio
la pace che hanno nel cuore; come segno di amore, tra lo sposo e la
sposa, oppure tra amici che si incontrano dopo una lunga assenza;
come segno dell’unità cattolica, come si usa fare quando si riceve
un ospite. Ma come molti usano cose buone per natura come
l’acqua, il fuoco, il ferro, il cibo e l’aria per farne
strumento della propria cattiveria o della propria voluttà, così
persone perverse e turpi si servono di questo bene, voluto dalla
legge naturale per esprimere le cose di cui abbiamo parlato, per
addolcire in qualche modo i loro misfatti, sporcando il fatto stesso
del baciare in modo così vergognoso che un bacio del genere non è
che adulterio. Ogni persona onesta si rende conto di quanto sia
detestabile e odioso un simile bacio, che deve essere evitato e
rifiutato.
Il
bacio spirituale
Viene ora il bacio
spirituale, caratteristico di quegli amici che sono legati dalla vera
legge dell’amicizia. Non è un contatto della bocca, ma un
sentimento del cuore; non è un congiungere le labbra, ma un fondere
gli spiriti, e lo Spirito di Dio che rende pura ogni cosa infonde con
la sua presenza il gusto delle realtà celesti. Non troverei
sconveniente chiamare questo bacio il bacio di Cristo, perché in
realtà è lui che lo dà, non direttamente con la sua bocca, ma con
quella dell’amico, ed è lui che ispira in quelli che si amano
quell’infinito affetto che li fa sentire uniti al punto da sembrar
loro che in corpi diversi abiti una sola anima, fino a dire con il
Profeta: “Come è bello e gioioso stare insieme come fratelli”.
Il
bacio intellettuale
Allora l’animo
abituato a questo bacio, sapendo che tutta questa dolcezza viene da
Cristo, si trova a riflettere e a dire: “Se venisse lui, in
persona!”, e così desidera il bacio intellettuale, e con tutto la
forza del desiderio dice: “Baciami con i baci della tua bocca”, e
allora, calmati gli affetti terreni, e assopiti gli affanni e i
desideri di questo mondo, troverò la mia gioia solo nel bacio di
Cristo, e mi riposerò nel suo abbraccio, e dirò al colmo della
felicità: “La sua sinistra mi sostiene il capo, e la sua destra mi
abbraccia”.
Luca: Mi pare che
un’amicizia così non sia comune, né assomiglia a quella che noi
di solito immaginiamo e vediamo. Non so cosa ne pensi Marco; per
conto mio ho sempre ritenuto che l’amicizia non sia altro che
un’identità di vedute tra due persone, così che uno non voglia
quello che non vuole l’altro, ma ci sia una tale sintonia nella
buona e nella cattiva sorte che quello che uno possiede, vita,
ricchezza, onore o qualsiasi altra cosa, sia condiviso con l’altro
perché ne usi secondo il suo desiderio.
Marco: Ricordo di aver
imparato cose molto diverse dal primo dialogo: è stata proprio la
definizione dell’amicizia che là è stata data che ha suscitato in
me il grande desiderio di riesaminare tutto con maggiore profondità,
per vedere quali frutti produca. Visto che su questo sappiamo già
abbastanza, dobbiamo proporci di determinare quali siano i limiti
dell’amicizia e fin dove possa arrivare, anche perché ci sono
pareri diversi in proposito. Ci sono alcuni che ritengono di dover
aiutare l’amico anche contro la lealtà, contro l’onestà e
contro il bene comune o privato. Altri ritengono che, fatta eccezione
per la lealtà, tutto il resto sia permesso. Altri ancora pensano
che, per l’amico, uno debba disprezzare il denaro, rifiutare gli
onori, subire l’inimicizia dei potenti, accettare anche l’esilio
se è il caso, perfino perdere la faccia in azioni turpi e disoneste,
purché non ne venga un danno alla collettività o non si rovini un
altro contro il lecito. C’è anche chi pone in questo la meta
dell’amicizia: provare per l’amico gli stessi sentimenti che uno
prova per se stesso. Altri credono di soddisfare alle esigenze
dell’amicizia ricambiando ogni volta il favore o il servizio
ricevuto dall’amico. Questa nostra conversazione mi ha fatto capire
che non si può accettare nessuna di queste opinioni. Quindi ti prego
di fissare per l’amicizia dei confini che siano certi, soprattutto
per il nostro Luca, perché non capiti che,
volendo fare il bene, finisca incautamente col comportarsi male.
Luca: Ti sono grato per
la sollecitudine che hai nei miei confronti; potrei anche restituirti
subito il favore, se non me lo impedisse la voglia di imparare.
Allora ascoltiamo insieme quale può essere la risposta alle tue
domande.
Aelredo: Un confine
preciso all’amicizia è stato posto da Cristo stesso, quando ha
detto: “Nessuno ha un amore più grande di chi offre la sua vita
per gli amici”. Ecco fino a dove deve tendere l’amore tra gli
amici: che siano disposti a morire l’uno per l’altro. Vi basta?
Luca: Dato che non può
esserci amicizia più grande, perché non dovrebbe bastare?
Marco: Diremo allora
che, se dei malviventi o dei pagani sono d’accordo nel perpetrare
crimini e malvagità e si amano a tal punto da essere disposti a
morire l’uno per l’altro, sono arrivati al vertice dell’amicizia?
Aelredo: Nemmeno per
sogno: non può esserci amicizia tra malviventi.
Luca: Allora, per
favore, spiegaci tra quali persone l’amicizia può nascere e durare
per sempre.
Tra
chi può nascere l’amicizia
Aelredo: Te lo dico
subito. Può nascere tra i buoni, progredire tra i migliori,
raggiungere la perfezione tra i perfetti. Fino a quando uno si
compiace volutamente nel fare il male, o propone a gente onesta cose
disoneste, finché preferisce il piacere alla purezza, la temerarietà
alla moderazione, l’adulazione alla correzione, come potrà costui
anche solo aspirare all’amicizia, dal momento che essa nasce dalla
stima per la virtù? Sarebbe difficile, anzi impossibile, gustarne
anche solo gli inizi se non se ne conosce l’origine. È un amore
sporco e indegno del nome di amicizia, quello in nome del quale si
esige qualcosa di turpe dall’amico che, non avendo ancora vinto le
sue debolezze, è spinto dalla necessità a fare qualsiasi cosa
illecita gli venga proposta o imposta. Per questo va decisamente
rifiutata l’opinione di quelli che ritengono si possa fare per
l’amico qualcosa che vada contro la lealtà e l’onestà. Non c’è
nessuna scusa per il peccato, anche se è stato fatto per amore di un
amico. Il nostro progenitore Adamo avrebbe fatto molto meglio a
rimproverare alla moglie la sua superbia piuttosto che assecondarla
nell’appropriarsi di ciò che era proibito.
I servi del re Saul
furono molto più fedeli al loro signore rifiutando di eseguire il
suo ordine di spargere sangue di quanto non lo fu Doeg l’Idumeo
che, fattosi interprete della crudeltà del re, uccise con mano
sacrilega i sacerdoti del Signore. Anche Ionadab, l’amico di Amon,
avrebbe fatto meglio a impedire all’amico l’incesto piuttosto che
indicargli come impadronirsi di ciò che desiderava. La virtù
d’amicizia non può scusare neppure gli amici di Assalonne che,
unendosi a lui nella rivolta, presero le armi contro la collettività.
E per parlare di cose a noi contemporanee, ha fatto molto meglio
Ottone, cardinale della Chiesa romana, ad allontanarsi da Guido, che
pure gli era molto amico, di quanto non abbia fatto Giovanni, che ha
aderito a uno scisma tanto grave per l’amicizia che lo legava a
Ottaviano. Vedete, dunque, che l’amicizia non può sussistere se
non tra chi è buono.
Marco: Ma allora noi
cosa abbiamo a che fare con l’amicizia, visto che proprio buoni non
siamo?
Aelredo: Quando dico
“buono” non intendo dare alla parola un senso assoluto come fanno
quelli che ritengono buono solo chi ha raggiunto la perfezione. Dico
che è buono quell’uomo che, secondo le capacità della nostra
comune natura, vivendo in questo mondo con sobrietà, giustizia e
pietà non chiede niente di disonesto ad alcuno né, se richiesto, si
presta a fare qualcosa di male. Tra persone così non esito a dire
che l’amicizia può nascere, conservarsi e giungere a perfezione.
Ma quelli che, purché sia rispettata la fedeltà all’amico e sia
evitato un danno alla collettività o una lesione dell’altrui
diritto, si prestano ad assecondare le voglie dei loro amici, non li
chiamerei sciocchi quanto piuttosto insensati: hanno riguardo per gli
altri, ma non per se stessi; si danno da fare per la reputazione
altrui, e mettono miseramente a repentaglio la propria.
L’amicizia
fra sollecitudini e preoccupazioni
Marco: Quasi quasi sono
d’accordo con quelli che dicono che bisogna guardarsi
dall’amicizia, perché comporta innumerevoli affanni e
preoccupazioni, non è priva di timori, e porta con sé molte
sofferenze. Abbiamo già tanti problemi per conto nostro, è
imprudente, dicono alcuni, legarsi agli altri al punto da essere
coinvolti in tanti affanni, afflizioni e fastidi. Inoltre ritengono
che niente sia più difficile del conservare per sempre l’amicizia,
e, d’altra parte, sarebbe molto brutto iniziare un’amicizia per
poi vederla tramutata in odio. Per questo pensano che sia meglio
legarsi ad una persona, mantenendo la libertà di poterla abbandonare
in ogni momento; insomma, “tenere sciolte le briglie dell’amicizia
in modo da poterle tirare o allentare a piacere”.
Luca: Avremmo proprio
faticato per niente allora, tu a parlare e noi ad ascoltare, se il
nostro desiderio di amicizia svanisse con tanta facilità, dopo che
tu in tanti modi ce l’hai raccomandata come cosa estremamente utile
e santa, tanto gradita a Dio e tanto vicina alla perfezione. Lasciamo
pure questa opinione a chi desidera amare oggi in modo tale da esser
libero di odiare domani; a chi vuole essere amico di tutti senza
essere fedele a nessuno; a chi oggi è pronto alla lode e domani
all’insulto; oggi a coccolare e domani a mordere; a chi un giorno
regala baci e il giorno dopo insulti: questa amicizia si compra per
pochissimo, e basta un’offesa da niente per farla svanire.
Marco: Credevo che le
colombe fossero prive di fiele. Comunque, spiegaci come si può
confutare questa opinione che dispiace tanto a Luca.
Aelredo: C’è una
magnifica risposta in Cicerone: “Tolgono il sole dal mondo quelli
che tolgono l’amicizia dalla vita, poiché non abbiamo da Dio
niente di meglio, niente che ci renda più felici”. Non è per
niente saggio rifiutare l’amicizia per evitare le sollecitudini e
gli affanni e liberarsi dal timore, quasi che ci sia una qualche
virtù che possa essere acquistata e conservata senza impegno. Forse
che in te la prudenza riesce a lottare contro gli errori, o la
temperanza contro l’impurità, o la giustizia contro la malizia
senza che tu debba fare una grande fatica? Dimmi chi, soprattutto
nell’adolescenza, riesce a custodire la sua purezza, o a frenare
l’istinto che fa follie dietro tante voglie, senza grande
sofferenza? Sarebbe stato stolto dunque l’apostolo Paolo, visto che
non volle vivere libero dalla sollecitudine per gli altri, ma, spinto
dalla carità, che era per lui la virtù più grande, si fece debole
con i deboli, e sofferente con chi soffriva. E in più aveva nel
cuore una grande tristezza, una pena continua per quelli che erano
suoi fratelli secondo la carne.
Avrebbe dovuto
abbandonare la carità se avesse voluto vivere senza tanti dolori e
paure, ora per partorire di nuovo quelli che aveva generato alla
fede; curando i suoi come una madre, rimproverando come un maestro;
ora con la paura che la loro mente si potesse corrompere e
allontanare dalla fede; ora lottando per la loro conversione con
tanto dolore e piangendo per quelli che non volevano convertirsi.
Vedete dunque come eliminano dal mondo le virtù quelli che vogliono
evitare la fatica che le accompagna. Forse fu stolto Cusai l’Archita
quando, fedele fino in fondo all’amicizia che aveva nei confronti
di Davide, preferì l’affanno alla tranquillità e scelse di
condividere la sofferenza dell’amico piuttosto che tuffarsi nelle
gioie e negli onori offerti dal parricida? Ritengo che non siano
uomini, ma bestie, quanti pensano che l’ideale sia vivere senza
dover consolare nessuno, senza essere di peso o causa di dolore per
gli altri; senza trarre gioia alcuna dal bene degli altri, né
amareggiarli con i propri possibili sbagli; stando bene attenti a non
amare nessuno né curandosi di essere amati da qualcuno. Non mi sogno
neanche di pensare che amino davvero quelli che reputano l’amicizia
un affare: dicono di essere amici, ma solo con le labbra, quando
hanno la speranza di qualche vantaggio materiale, oppure quando
cercano di fare dell’amico uno strumento per qualsiasi infamia.
Le
amicizie false e le amicizie autentiche
Marco: Visto che sono
molti quelli che si lasciano ingannare da quella che è solo
un’amicizia apparente, mostraci, per favore, quali amicizie
dobbiamo evitare, e quali invece desiderare, coltivare e conservare.
Aelredo: Una volta
chiarito che l’amicizia non può sussistere se non fra i buoni,
dovrebbe esserti facile capire che non si deve accettare alcuna
amicizia che non si addica a chi è buono.
Luca: Ma si dà il caso
che nel discernere ciò che conviene da ciò che non conviene noi ci
perdiamo nella nebbia.
Aelredo: Farò come
volete, e dirò in breve quali, fra le amicizie che ci si presentano,
si debbano evitare. C’è un’amicizia puerile, suscitata da un
sentimento capriccioso: si offre a chiunque le passi accanto, non
conosce ragione né equilibrio; non valuta né l’utilità che può
offrire né il danno che può arrecare. Questo sentimento per un po’
ti sconvolge, crea un legame fortissimo che attrae in modo seducente.
Ma il sentimento senza la ragione è un moto puramente istintivo,
pronto a qualsiasi manifestazione illecita, anzi incapace di
distinguere tra il lecito e l’illecito. E se è vero che per la
maggior parte di noi il sentimento precede l’amicizia, tuttavia lo
si deve seguire solo a patto che sia guidato dalla ragione, moderato
dall’onestà e dalla giustizia. Quindi, questa amicizia, che
abbiamo definito puerile perché è soprattutto nei ragazzi che
domina il sentimento, visto che è inaffidabile, instabile e
frammista ad affezioni impure, deve essere sempre evitata da quelli
che sono affascinati dalla bontà dell’amicizia spirituale.
Questa non è
un’amicizia, ma piuttosto il veleno dell’amicizia, dato che in
essa non si può mai conservare la giusta misura di quell’amore che
lega un animo all’altro, infatti, quella onestà di fondo che
anch’essa possiede è offuscata e corrotta dalla passionalità;
cosi, abbandonato lo spirito, si è trascinati verso desideri impuri.
Per queste ragioni l’amicizia spirituale deve avere come base
iniziale la purezza dell’intenzione, la guida della ragione e il
freno della temperanza. La gioia profonda che si aggiungerà ad esse
sarà certamente sperimentata come dolcezza, senza per questo cessare
di essere un affetto ordinato.
Un altro tipo di
amicizia è quello che unisce i malvagi per la somiglianza dei
comportamenti: di questa non parlo proprio, perché, come ho già
detto, non è neppure degna del nome di amicizia. C’è inoltre
un’amicizia che si accende per la speranza di un qualche guadagno,
e molti ritengono che proprio per questo motivo debba essere
desiderata, coltivata e conservata. Se questo fosse vero, quante
persone verrebbero escluse da un amore di cui pure sono veramente
degni, solo perché non hanno niente, non possiedono niente, e non
possono sperare di ottenere alcun vantaggio materiale. Se però metti
tra i vantaggi il consiglio quando sei nel dubbio, la consolazione
quando soffri per qualche avversità, e altre cose del genere, questo
è sicuramente quello che uno ha il diritto di aspettarsi da un
amico, ma sono cose che devono seguire l’amicizia, non precederla.
Davvero si può dire che non ha ancora imparato cosa sia l’amicizia
chi va alla ricerca di una ricompensa che non sia l’amicizia
stessa. Una ricompensa che sarà piena per chi ha coltivato
l’amicizia, quando essa, interamente trasfigurata da Dio, porterà
alla gioia della contemplazione di lui quelli che prima ha unito.
L’amicizia
come premio a se stessa
Anche se l’amicizia
fedele dei buoni porta con sé tante cose buone, sono sicuro che non
è dai vantaggi che nasce l’amicizia, ma il contrario. Non penso
che la generosità con cui Barzillai il galaadita accolse Davide che
fuggiva dal figlio parricida, gli diede assistenza e lo trattò da
amico, abbia fatto nascere l’amicizia fra quei grandi uomini.
Piuttosto questi favori manifestarono ciò che già c’era. Non c’è
nessuno, infatti, che osi pensare che prima di quell’occasione il
re possa aver avuto bisogno di quell’uomo. D’altra parte, che
lui, già molto ricco, non si aspettasse niente in cambio di quello
che aveva fatto per il re, risulta chiaro quando si considera che,
essendogli state offerte tutte le ricchezze della città, non volle
accettare niente, accontentandosi delle sue cose. Lo stesso possiamo
dire del legame stupendo fra Davide e Gionata, reso perfetto non
dalla speranza di un futuro vantaggio, ma dall’ammirazione per la
virtù, anche se poi ne venne una grande utilità ad entrambi, poiché
per l’impegno di uno fu risparmiata all’altro la vita e per la
bontà del primo non fu distrutta la discendenza del secondo.
Riepilogo
Poiché dunque nei
buoni è sempre l’amicizia che viene prima dei vantaggi, si può
dire con certezza che la nostra gioia non nasce tanto dal vantaggio
che ci viene procurato dall’amico, ma dal suo amore. Giudicate voi,
ora, se basta quanto ho detto sul frutto dell’amicizia, se sono
stato chiaro nel precisare tra quali persone essa può nascere,
conservarsi e giungere a perfezione, se sono riuscito a smascherare
quelle forme di adulazione che s’ammantano falsamente del nome di
amicizia e se sono stato preciso nell’indicare le mete cui deve
tendere l’amore tra gli amici.
Marco: Non mi pare che
tu abbia approfondito bene quest’ultimo punto.
Aelredo: Ricorderete,
credo, come ho confutato l’opinione di quelli che affermano che
l’amicizia possa congiungere le persone anche nel crimine, e anche
di quelli che ritengono si possa giungere fino all’esilio e a
qualsiasi nefandezza purché non ne vengano danni a terze persone. E
a dire il vero ho confutato anche quelli che misurano l’amicizia in
base ai vantaggi ottenuti. Invece non ho ritenuto neppure degne di
essere menzionate due delle opinioni riferite da Marco.
Non c’è infatti idea
più goffa che intendere l’amicizia come un rendere esattamente
all’amico il servizio e gli elogi ricevuti da lui, quando invece
tutto tra loro deve essere comune, dato che sono un cuor solo e
un’anima sola. Ed è anche brutta e sbagliata l’idea che uno
debba provare per l’amico gli stessi sentimenti che prova per sé,
quando invece ciascuno dovrebbe avere di sé un’umile opinione e
una stima altissima per l’amico. Dopo aver respinto come falsi
questi confini dell’amicizia, ho scelto di fissare il vero confine
ricavandolo dalle parole del Signore che dice che per gli amici non
si deve arretrare neppure davanti alla morte. Tuttavia, affinché non
si pensi che, se dei malvagi arrivassero a morire l’uno per l’altro
avrebbero per ciò stesso raggiunto la vetta dell’amicizia, ho
precisato tra chi essa può nascere e giungere alla perfezione.
Quanto a quelli che ritengono di doverla evitare per le molte
preoccupazioni che comporta, ho concluso che sono semplicemente
stolti. Infine ho mostrato in modo sommario da quali amicizie i buoni
devono stare lontani. Da ciò che si è detto appare chiaro quali
siano i confini certi e veri dell’amicizia spirituale: niente cioè
si deve negare all’amico, tutto si deve sopportare per l’amico,
anche la perdita della vita del corpo, che l’autorità del Signore
ha stabilito si debba offrire per chi si ama. D’altra parte, poiché
la vita dell’anima è di gran lunga più preziosa di quella del
corpo, ritengo che all’amico si debba assolutamente negare ciò che
può portare alla morte dell’anima, il che poi altro non è che il
peccato, che separa Dio dall’anima, e l’anima dalla vita. Per
quanto riguarda il resto, non c’è il tempo per spiegare quale
misura vada osservata, e con quale cautela ci si debba comportare in
ciò che si deve fare per l’amico o sopportare per lui.
Luca: Ammetto che Marco
mi è stato di grande aiuto. Provocato dalle sue domande, hai
riassunto in un breve sommario il succo di tutto il discorso e ce
l’hai tratteggiato perfettamente dinanzi agli occhi. Ora, per
favore, continua a spiegarci quale misura vada osservata nei servizi
che rendiamo agli amici e con quale cautela debba essere messa in
atto.
Aelredo: Queste, e
tante altre cose abbiamo da dire sull’amicizia. Però è tardi, voi
stessi vedete che quelli che sono appena arrivati ci aspettano con
impazienza perché hanno altri interessi.
Marco: Me ne vado, ma
di malavoglia. Sta sicuro che tornerò domani, non appena ne avrò
l’occasione. Spero che Luca venga presto domani mattina, così non
potrà accusarci di essere pigri e neppure noi dovremo rimproverargli
il ritardo.
LIBRO
TERZO
La
scelta degli amici e la pratica dell’amicizia
Aelredo: Tu da dove
vieni? E per cosa sei venuto qui?
Luca: Sai bene perché
sono qui.
Aelredo: C’è anche
Marco?
Luca: Questo è affar
suo. Oggi non potrà certamente accusarci di essere in ritardo.
Aelredo: Vuoi che
continuiamo il nostro discorso?
Luca: Sono certo che
Marco verrà. Credo anche che la sua presenza sia necessaria, perché
ha una sensibilità che ne rende l’intuito più acuto. E poi sa
fare domande intelligenti e ha una memoria migliore della mia.
Arriva Marco.
Aelredo: Hai sentito,
Marco? Luca ti stima più di quanto tu non pensassi.
Marco: E come non
potrebbe essere mio amico, lui che lo è di tutti? Bene, visto che
ora, memori della tua promessa, siamo qui tutti e due, non sprechiamo
tempo prezioso.
Aelredo: La fonte e
l’origine dell’amicizia è l’amore, poiché ci può essere
amore senza che ci sia amicizia, ma non ci può mai essere amicizia
senza amore. L’amore, a sua volta, nasce o dalla natura, o dal
dovere, o dalla sola ragione, o dal solo sentimento, o da queste cose
insieme. Per natura, ad esempio, la madre ama il figlio. Per dovere,
a motivo di qualche cosa che si dà o si riceve, ci si lega con un
affetto particolare. È in nome della ragione che amiamo i nemici,
non certo per una spontanea inclinazione del cuore; per obbedire a un
comandamento. Ci muove solo il sentimento, invece, quando siamo
attratti verso qualcuno solo per le qualità fisiche, come la
bellezza, la forza, la capacità nel parlare. C’è infine un amore
che trae origine dalla ragione e dal sentimento insieme, ed è
quando, persuasi dalla ragione ad amare qualcuno a motivo delle sue
virtù, ci sentiamo ancora più attratti verso di lui per l’amabilità
del comportamento e per la simpatia di una vitalità più ricca: così
la ragione si unisce al sentimento, e l’amore che ne deriva è reso
puro dalla ragione, dolce dal sentimento. Quale di queste forme di
amore vi sembra corrisponda meglio all’idea di amicizia?
Marco: Sicuramente
quest’ultima, che ha alla base la contemplazione delle virtù, e
come perfezionamento l’amabilità dei modi. Però vorrei sapere se
dobbiamo accogliere nel dolce segreto dell’amicizia tutti quelli
che amiamo in questo modo.
L’amore
di Dio è il fondamento della vera amicizia
Aelredo: Si deve prima
stabilire qual è il fondamento sicuro da cui l’amore spirituale
trae i principi che lo regolano. Così, chi vuol raggiungere in modo
diretto le vette di questo amore, userà la massima cautela per non
trascurare o andar oltre il fondamento stesso. Questo fondamento è
l’amore di Dio: ad esso bisogna riportare tutto quanto l’amore o
il sentimento suggeriscono, tutto quello che un’ispirazione ci
sussurra nel segreto o un amico propone apertamente; e si deve stare
molto attenti perché tutto ciò che si fa si trovi in sintonia con
il fondamento, e tutto ciò che se ne discosta venga ricondotto al
modello base e sia subito corretto a partire dalle caratteristiche
del modello stesso. Non siamo tenuti, comunque, ad accogliere nella
nostra amicizia tutti quelli che amiamo, perché non tutti ne sono
capaci. L’amico, infatti, è lo sposo dell’anima tua, e tu unisci
il tuo spirito al suo, coinvolgendoti al punto da voler diventare con
lui una cosa sola; a lui ti affidi come a un altro te stesso, niente
gli nascondi e nulla hai da temere da lui. Se si ritiene che qualcuno
sia adatto a tutto questo, bisogna prima sceglierlo, poi metterlo
alla prova e infine accoglierlo. L’amicizia, infatti, deve essere
stabile, quasi un’immagine dell’eternità stessa, e rimanere
costante nell’affetto. Per questo non dobbiamo seguire impressioni
vaghe, e in base ad esse mutare continuamente gli amici in modo
infantile Nessuno è più detestabile di colui che offende e
tradisce l’amicizia; niente tormenta tanto l’animo quanto
l’essere abbandonato o combattuto da un amico. Per questo bisogna
mettere la massima cura nello scegliere un amico, e usare un’estrema
cautela nel metterlo alla prova. Però una volta che lo si è
accolto, va tollerato, trattato e seguito in modo tale che, se non si
allontana in modo irrevocabile dal fondamento che noi conosciamo, lui
sia a tal punto tuo, e tu suo, nelle cose del corpo come in quelle
dello spirito, che niente venga a dividere gli animi, gli affetti, le
volontà e le idee.
I
quattro gradini
Dunque sono quattro i
gradini che ci fanno salire alla perfezione dell’amicizia: il primo
è la scelta, il secondo è la prova, il terzo è l’accoglienza, il
quarto è “l’accordo sommo nelle cose divine e umane accompagnato
da carità e benevolenza”.
Marco: Ricordo che nel
tuo primo discorso, quello con il tuo carissimo Giovanni, hai
spiegato bene questa definizione; ma siccome dopo hai discusso di
molti generi di amicizia, vorrei sapere se essa li comprende tutti.
Aelredo: Poiché la
vera amicizia può sussistere solo tra i buoni, coloro cioè che non
possono né vogliono fare alcunché contro la lealtà e l’onestà,
è chiaro che tale definizione non riguarda qualunque tipo di
amicizia, ma solo quella che può essere chiamata vera.
Luca: E perché non
accettare anche la definizione che, prima del dialogo di ieri, mi
piaceva molto, cioè l’amicizia come accordo nelle cose che si
vogliono o non si vogliono?
Aelredo: Certo, anche
questa può andar bene, purché essa unisca due persone che hanno
abitudini buone, una vita equilibrata e degli affetti ordinati.
Marco: Sarà Luca a
valutare se questi requisiti sono presenti sia in lui che nel suo
amico, così da poter vivere con lui in unione di volontà, non
concedendo a se stesso o all’altro niente che sia ingiusto, o
disonesto, o indecoroso. Però adesso ci interessa sentire la tua
opinione sui quattro gradini di cui hai parlato.
La scelta dell’amico e i
temperamenti difficili
Aelredo: Parliamo per prima cosa della scelta. Ci
sono certi difetti che impediscono, a chi vi si trova impegolato, di
osservare con costanza le regole e i diritti dell’amicizia. Chi è
così non deve essere scelto con leggerezza come amico. Se però ci
sono in queste persone altri aspetti della vita e del comportamento
che piacciono, allora si deve fare ogni sforzo per aiutarli così da
renderli idonei all’amicizia. Sto parlando di coloro che per
carattere sono irascibili, instabili, sospettosi e chiacchieroni.
Gli
irascibili
È
difficile infatti che uno, spesso sconvolto dall’ira, non se la
prenda un giorno o l’altro anche contro l’amico, come è scritto
nel Siracide: “C’è
anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i
vostri litigi” (Sir
6,9). Per cui la Scrittura dice: “Non
ti associare a un collericoe non praticare un uomo iracondo, per non
imparare i suoi costumi e procurarti una trappola per la tua vita”
(Pr
22,24 25). E Salomone dice: “L’ira
alberga in seno agli stolti” (Qo
7,9). E c’è forse qualcuno che spera di poter conservare a lungo
l’amicizia con uno stolto?
Marco: Eppure, se ben
ricordo, ti abbiamo visto coltivare con tanta bontà un’amicizia
con un uomo dall’ira terribile e abbiamo sentito che fino al
termine dei suoi giorni non è mai stato offeso da te, benché spesso
lui ti abbia offeso.
Aelredo: Ci sono alcuni
che sono irascibili per temperamento naturale, e che tuttavia sanno
reprimere e moderare così bene questo loro difetto da non cadere mai
in quelle cinque colpe che secondo la Scrittura rovinano l’amicizia
fino a distruggerla, anche se talvolta offendono l’amico con parole
o gesti sconsiderati, o con scene indiscrete di gelosia. Se abbiamo
accolto una persona così nella nostra amicizia dobbiamo sopportarla
con pazienza, e poiché siamo sicuri del suo affetto, dobbiamo
perdonarlo quando nelle parole o nelle azioni passa il segno.
Altrimenti lo si richiama senza farlo soffrire, magari usando un tono
scherzoso e amabile.
Luca: Quel tuo amico
che, come pare a molti, tu preferisci a tutti noi, qualche giorno fa,
spinto dall’ira, ha detto e fatto qualcosa che sapevamo benissimo
ti sarebbe dispiaciuto. Eppure ci sembra, e del resto lo vediamo, che
non ha perduto in alcun modo il tuo favore. Ci siamo meravigliati
tanto nel constatare che, mentre tu, quando parliamo insieme, stai
attento a non trascurare niente di quello che lui desidera, fosse
anche un’inezia, lui invece non è riuscito a sopportare, per amor
tuo, neanche una piccolezza.
Marco: Questo qui è
molto più audace di me. Anch’io sapevo queste cose, ma conoscendo
il tuo sentimento nei suoi confronti, non avrei mai osato parlartene.
Aelredo: Certo,
quell’uomo mi è molto caro, e una volta che l’ho accolto nella
mia amicizia, non posso non amarlo. È capitato che in
quell’occasione io fossi più forte di lui. Siccome non era
possibile far convergere le nostre due volontà, è stato più facile
per me adeguarmi che non per lui. Visto non era in questione l’onestà
e non era stata violata la fiducia è stato meglio cedere all’amico:
ho tollerato la sua ira, e poiché era in gioco la sua serenità, ho
preferito la sua volontà alla mia.
Marco: Va bene, poiché
però il tuo primo amico è già passato all’altra vita, e
quest’altro, anche se noi non lo sappiamo, ti avrà chiesto scusa,
spiegaci ora quali sono quelle cinque cose che rovinano l’amicizia
fino a distruggerla, così sapremo chi sono quelli che non si devono
scegliere come amici per nessun motivo.
Aelredo:
Non è me che dovete ascoltare, ma le parole della Scrittura: “Chi
offende un amico rompe l’amicizia. Se hai sguainato la spada contro
un amico, non disperare, può esserci un ritorno. Se hai aperto la
bocca contro un amico, non temere” (Sir 22,20 22).
Considera queste parole: se l’amico mosso dall’ira sfodera la
spada, se dice parole che fanno soffrire, se per un certo tempo non
si fa più vedere come se non ti amasse più, se preferisce fare da
sé piuttosto che seguire un tuo consiglio, se ha un’opinione
diversa dalla tua, o se in una discussione dissente da te, non devi
per questo sciogliere l’amicizia. Può esserci infatti, dice la
Scrittura “può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto
e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in
questi casi ogni amico scomparirà”. Esaminiamo bene quindi queste
cinque cose per evitare di stringere amicizia con persone che, o per
l’ira, o per qualche altra passione, sono abitualmente vittime di
questi vizi. L’ingiuria rovina il buon nome e spegne la carità. La
gente, infatti, è così maliziosa che se uno, spinto dall’ira,
scaglia un’ingiuria contro un suo amico, anche se le sue parole non
vengono prese sul serio, vengono propagate come parole dette da uno
che conosce i segreti della persona di cui parla.
Ci sono persone poi che
provano lo stesso gusto nel lodare se stessi come nel denigrare gli
altri. Cosa c’è di più malvagio dell’oltraggio che, anche se
falso, riesce però a far arrossire di vergogna un innocente?
L’arroganza poi è la cosa più difficile da sopportare, perché
toglie di mezzo l’unico rimedio che potrebbe ricostruire
un’amicizia rovinata, cioè l’umile riconoscimento del proprio
sbaglio, dato che rende l’uomo sfrontato nell’offendere e
presuntuoso nel correggere. Altra cosa grave è la rivelazione dei
segreti.
Niente
è più vile o più detestabile, perché toglie dagli amici ogni
amore, ogni grazia, ogni dolcezza, riempie tutto di amarezza,
contamina ogni cosa con il fiele dell’odio e del risentimento. Per
questo sta scritto: “Chi
svela i segreti perde la fiducia” (Sir
27,16). E poi, svelare i segreti di un amico equivale a portare alla
disperazione un’anima infelice. E chi è più infelice di colui che
perde la fiducia ed è prostrato dalla disperazione?
L’ultima causa che
distrugge l’amicizia è il colpo a tradimento, cioè la
denigrazione fatta di nascosto. Davvero questo colpo è come una
trappola, come il morso mortale di un serpente o di una vipera: se il
serpente morde silenziosamente, dice Salomone, non gli è da meno chi
denigra di nascosto. Sta’ dunque alla larga da chiunque è immerso
in questi vizi, non sceglierlo come tuo amico fino a che non ne sia
guarito. Evitiamo le ingiurie, perché di esse Dio stesso si vendica.
Il santo re Davide, fra le raccomandazioni lasciate in eredità al
figlio, ordina, con l’autorità dello Spirito santo, di uccidere
Semei che lo aveva insultato mentre fuggiva da Assalonne. Evitiamo
anche l’oltraggio. Il povero Nabal del Carmelo, che aveva
oltraggiato Davide trattandolo da schiavo fuggitivo fu colpito dal
Signore e ucciso. Se poi dovesse capitarci di venir meno a qualche
dovere che la legge dell’amicizia ci impone, guardiamoci
dall’arroganza, e cerchiamo invece la benevolenza dell’amico
facendogli l’omaggio della nostra umiltà. Il re Davide aveva
generosamente offerto ad Hanon la stessa amicizia che aveva avuto con
suo padre Naas, re di Amon, quello invece, ingrato e arrogante, la
rifiutò, aggiungendo all’affronto il disprezzo. Ne conseguì che
perirono lui e il suo popolo e le sue città furono messe a ferro e
fuoco.
Soprattutto
consideriamo come un sacrilegio svelare i segreti degli amici, perché
con questo si perde la fiducia e nell’anima che ne è vittima
subentra la disperazione. Questo si vede nel malvagio Achitofel, che
si era messo con il parricida Assalonne e gli aveva rivelato i piani
del padre: quando vide che il piano da lui suggerito per contrastare
quello del re, non era stato seguito, con una fine degna di un
traditore si impiccò.
Ricordiamo infine che
denigrare un amico è un vero e proprio veleno per l’amicizia. Fu
questo che coprì di lebbra il volto di Maria con la conseguenza di
essere espulsa dall’accampamento e privata per sei giorni della
comunione con il suo popolo.
Gli
instabili
Nella scelta non si
devono evitare solo gli irascibili, ma anche gli instabili e i
sospettosi. Il grande frutto dell’amicizia è infatti quella
sicurezza per cui ti metti con fiducia nelle mani di un amico; ma
come può esserci sicurezza nell’amore di uno che va dietro ad ogni
soffio di vento e dà ragione a tutti? Il suo affetto è come la
fanghiglia, che può essere modellata in forme diverse e opposte nel
giro di un giorno, secondo il capriccio di chi la lavora.
I
sospettosi
Cosa caratterizza
meglio l’amicizia della pace e della tranquillità del cuore? Sono
cose che il tipo sospettoso non possiede mai. È sempre in
agitazione, assalito dalla curiosità che, stuzzicandolo
continuamente, gli fornisce materiale che alimenta la sua
inquietudine e il suo turbamento. Se vede che l’amico si allontana
per parlare con qualcuno, pensa a un tradimento.
Se lo vede trattare
qualcuno con benevolenza e affabilità, si lamenterà dicendo che lui
è meno amato di quello. Se viene corretto dirà che l’amico lo
odia. Se invece viene lodato dirà che l’altro lo prende in giro.
I
chiacchieroni
Ritengo
che neanche il tipo troppo loquace debba essere scelto, perché
l’uomo dalla lingua lunga sarà sempre in torto. “Hai visto un
uomo precipitoso nel parlare?” dice il Saggio “C’è
più da sperare in uno stolto che in lui” (Pr 29,20). Quindi
prenditi come amico uno che non sia sconvolto dall’ira, che non sia
sbriciolato dall’instabilità, che non sia distrutto dal sospetto,
che non perda nella loquacità la serietà che si richiede. È
estremamente importante che tu ne scelga uno che sia in consonanza
con il tuo temperamento e con le tue qualità. “Dove i costumi sono
diversi”, dice sant’Ambrogio, “non ci può essere amicizia, e
dunque ciascuno deve essere in amabile consonanza con l’altro”.
Come
trattare le persone che hanno questi difetti
Marco: Dove si può
trovare uno che non sia né irascibile, né instabile, né
sospettoso? Quanto al chiacchierone, lo si vede subito, e non può
certo rimanere nascosto.
Aelredo: Sono d’accordo con te. Non è facile
trovare uno che non sia vittima di questi difetti, però ce ne sono
molti che li sanno superare: reprimono l’ira con la pazienza,
correggono la leggerezza con la serietà, eliminano i sospetti
concentrando l’attenzione sull’amore. Direi che soprattutto
questi bisognerebbe scegliere come amici, perché sono più
esercitati degli altri e, vincendo i vizi con la virtù, diventano
amici più sicuri quanto più sono abituati a resistere con energia
ai vizi che li assalgono.
Marco: Scusa se
insisto. Quel tuo amico che Luca ha ricordato poco fa, e che tu hai
accolto nella tua amicizia, a te non sembra una persona irascibile?
Aelredo: Certo che lo
è, ma nell’amicizia non lo è affatto.
Luca: Ma cosa vuol dire
non essere irascibile nell’amicizia?
Aelredo: Siete convinti
del fatto che c’è amicizia tra noi?
Luca: Sicuro.
Aelredo: Qualche volta
sono scoppiate tra noi risse, discordie, rivalità, contese?
Luca: Mai, ma questo
non è merito suo, ma della tua pazienza.
Aelredo: Vi sbagliate.
Un’ira che non è frenata dall’affetto non può in alcun modo
essere bloccata dalla pazienza di nessuno. Anzi, la pazienza, nella
persona colta dall’ira, scatena il furore, perché ciò che lo
consola anche solo un po’ è vedere che un altro si adira quanto
lui e gli è pari negli insulti. La persona di cui stiamo parlando
rispetta a tal punto l’amicizia che, quando talvolta si arrabbia e
sta per esplodere con parole incontrollate, con un semplice cenno
riesco a frenarlo; mai esprime in pubblico cose spiacevoli, ma per
dare sfogo a quello che ha in mente aspetta sempre il momento in cui
siamo soli. Se questo comportamento gli venisse suggerito dalla
natura, e non dall’amicizia, non lo considererei né virtuoso né
degno di lode. Se invece, come può capitare, mi accade di dissentire
da lui, è tale il rispetto che abbiamo l’uno per l’altro che
qualche volta lui rinuncia alla sua idea e, più spesso, io alla mia.
Come
sciogliere un’amicizia rovinata
Marco: Penso che Luca
possa essere soddisfatto. Vorrei che tu mi dicessi cosa si può fare
quando incautamente si stringe un’amicizia con quelli che tu ci hai
detto di evitare, o quando qualcuno di quelli che tu hai giudicato
idonei cade in quei vizi o in altri peggiori. Fino a che punto si
deve conservar loro la fiducia mostrando benevolenza?
Aelredo: Queste cose,
per quanto possibile, devono essere considerate attentamente nello
stesso momento della scelta, o anche nel periodo della prova, per
evitare di offrire troppo in fretta la nostra amicizia a chi non ne è
minimamente degno. “Sono degni di amicizia quelli che hanno in se
stessi il motivo per cui sono amati”. Tuttavia, anche in quelli che
sono stati messi alla prova e ritenuti degni “esplodono spesso vizi
che fanno male o agli stessi loro amici, o ad altri, la cui vergogna
però ricade comunque sugli amici”. Bisogna usare ogni cura perché
questi amici guariscano. Se questo si rivela impossibile, non ritengo
che l’amicizia debba essere rotta immediatamente ma, come qualcuno
ha detto con finezza “deve essere piuttosto scucita a poco a poco,
a meno che non ci sia un’offesa intollerabile, al punto che la
giustizia e l’onestà richiedono che si giunga a un’immediata
separazione”. Se infatti l’amico trama qualcosa, o contro i
propri cari o contro la collettività, per cui si esige una
correzione rapida e senza indugi, non si offende certo l’amicizia
se si smaschera un traditore o un nemico pubblico.
Ci sono altri vizi che
consigliano di non rompere l’amicizia, come si è detto, ma di
scioglierla a poco a poco, cercando però di non provocare
addirittura un’inimicizia da cui verrebbero poi litigi, ingiurie e
insulti. È quanto mai vergognoso, infatti, fare la guerra proprio
con colui con il quale si è vissuto in intimità. Può anche
succedere che tu venga assalito con tutte queste offese da uno che
avevi accolto nella tua amicizia, uno di quelli che hanno
l’abitudine, se capita loro qualcosa di storto, di rovesciare tutta
la colpa sull’amico, quando invece sono stati loro a comportarsi in
modo da meritare di non essere amati. Allora dicono che l’amicizia
è stata offesa, considerano sospetto ogni consiglio che vien loro
dall’amico, e quando è evidente che la colpa del tradimento è
loro, non sapendo più come difendersi, riversano sull’amico odio e
maledizioni, lo calunniano dappertutto, sparlano di nascosto, trovano
false scuse per se stessi, e accuse bugiarde per gli altri.
Se, dunque, dopo che
hai sciolto l’amicizia, vieni aggredito con tutte queste ingiurie,
sopportale fin che puoi: così tu rendi onore alla vecchia amicizia.
La colpa è di chi fa l’offesa, non di chi la subisce. L’amicizia,
infatti, è eterna, per cui sempre ama chi è amico. Se ti offende
colui che tu ami, tu continua ad amarlo. Se si comporta in modo da
dovergli togliere l’amicizia, non togliergli mai l’amore. Pensa a
quanto puoi fare per la sua salvezza, preoccupati del suo buon nome,
e non rivelare mai i segreti della sua amicizia, anche se lui ha
svelato i tuoi.
Marco: Dimmi, per
favore, quali sono quei vizi per cui l’amicizia va sciolta pian
piano?
Aelredo: Quei cinque di
cui abbiamo appena parlato, soprattutto la rivelazione dei segreti, e
il morso occulto della denigrazione. Ne aggiungo un sesto: se l’amico
offende quelli che tu sei tenuto ugualmente ad amare e se, dopo
essere stato corretto, continua a offrire motivo di vergogna e di
rovina a quelli che sono affidati alla tua responsabilità,
soprattutto se la vergogna di questi vizi ricade su di te. L’amore
non deve infatti prevalere sulla religione, sulla fede, sull’amore
per la collettività o sul bene dei cittadini. Il re Assuero condannò
a morte il superbissimo Aman, che era il primo fra i suoi ministri,
preferendo la salvezza del popolo e l’amore della moglie
all’amicizia che quello aveva offeso con consigli fraudolenti.
Giaele, la moglie di
Aber Cineo, sebbene ci fosse pace fra Sisara e la casa di Aber,
anteponendo a questa amicizia la salvezza del popolo, con un chiodo e
un martello fece dormire per sempre lo stesso Sisara. Il santo
profeta Davide secondo le leggi dell’amicizia avrebbe dovuto
perdonare la parentela di Gionata; quando udì dal Signore che per
colpa di Saul e della sua casa sanguinaria, che aveva ucciso i
gabaoniti, il popolo aveva patito per tre anni la fame, consegnò ai
gabaoniti, perché li punissero, sette uomini della famiglia di
Gionata. Non dovete però dimenticare che, quando due amici perfetti,
dopo una scelta sapiente e un accurato periodo di prova, si uniscono
in un’amicizia vera e spirituale, non può sorgere tra loro alcun
dissidio. Questo perché l’amicizia fa di due una cosa sola: come
non si può dividere l’unità, così l’amicizia non può essere
separata da se stessa. È chiaro dunque che quell’amicizia che
subisce una lacerazione non è mai stata vera in quanto è stata
causa della rottura, perché “l’amicizia che può cessare non è
mai stata vera”. In questo caso, tuttavia, l’amicizia appare più
evidente e dimostra in modo più chiaro di essere una virtù per il
fatto che, in chi è offeso, non viene meno l’amore che c’era
prima. Ama chi non lo ama più, onora chi lo disprezza, benedice chi
lo maledice, fa del bene a chi trama rovina contro di lui.
Luca: Come puoi dire
che l’amicizia viene sciolta se colui che la interrompe deve avere
ancora tutti questi riguardi per colui che viene escluso?
Aelredo: Quattro sono
gli elementi che qualificano in modo particolare l’amicizia:
l’amore e l’affetto, la sicurezza e la gioia. L’amore si
manifesta nell’offrire favori e servizi con animo benevolo;
l’affetto nasce da una gradevole sensazione interiore; la sicurezza
sta nel poter rivelare senza timore o sospetto tutti i segreti e i
pensieri del proprio animo; la gioia nasce dallo scambio dolce e
amichevole di tutto ciò che capita, bello o brutto che sia; di tutto
ciò che si pensa, sia esso utile o inutile; di tutto ciò che si
insegna o si impara. Vedi ora in quali cose l’amicizia si dissolve
in coloro che non ne sono degni? Certamente se ne va quella
soddisfazione interiore che era attinta abbondantemente dal cuore
dell’amico; se ne va la sicurezza che ci faceva confidare a lui i
nostri segreti; se ne va la gioia che nasceva dalla conversazione
amichevole. Gli si deve dunque negare quella familiarità che si
esprimeva in tutte queste cose, ma l’amore deve rimanere, con
misura e rispetto, al punto che, se l’offesa non è stata troppo
grande, si possano sempre notare i segni dell’antica amicizia.
Luca: Mi piace
moltissimo quello che hai detto.
Aelredo: Ditemi se
possiamo ritenere concluso il discorso sulla scelta.
Marco: Vorrei che tu ci
riassumessi in breve, per concludere, le cose che hai detto.
Riepilogo
Aelredo: Volentieri.
Abbiamo detto che la fonte dell’amicizia è l’amore. Non un amore
qualsiasi, ma quello che procede insieme alla ragione e al
sentimento. Un amore che la ragione rende puro, e il sentimento fa
dolce. Abbiamo detto poi che occorre dare all’amicizia un
fondamento, e questo è l’amore di Dio, a cui bisogna ricondurre
tutte le cose che abbiamo proposto, verificando la loro convergenza o
divergenza rispetto al fondamento. Abbiamo poi fissato quattro
gradini che portano alla vetta dell’amicizia: si deve cioè prima
scegliere l’amico, poi metterlo alla prova, infine accoglierlo, e
quindi comportarsi con lui nel migliore dei modi. Parlando della
scelta abbiamo escluso gli irascibili, gli instabili, i sospettosi, i
chiacchieroni: non tutti però, ma solo quelli che non riescono o non
vogliono moderare questi difetti.
Molti infatti sono
colpiti da questi disturbi, ma si comportano in maniera tale che non
solo non viene minimamente lesa la loro perfezione, ma nel dominarli
la loro virtù sì rafforza in modo magnifico. Quelli invece che,
come cavalli senza freno, sono continuamente spinti dai loro vizi
sull’orlo dell’abisso, inevitabilmente scivolano e sprofondano in
quei difetti che, al dire della Scrittura, rovinano l’amicizia fino
a distruggerla: cioè l’invettiva, l’oltraggio, la rivelazione
dei segreti, l’arroganza e il tradimento.
Se tuttavia ti capita
di soffrire tutte queste cose da parte di colui che avevi accolto
nella tua amicizia, non devi rompere subito il rapporto, ma
scioglierlo con gradualità, conservando pure un tale rispetto per
l’antica amicizia che, anche se non gli confidi più i tuoi
segreti, non gli togli però né l’amore né l’aiuto, e neppure
gli neghi il consiglio. Se poi la sua follia dovesse spingerlo a
proferire bestemmie e oltraggi, tu rispetta il patto, rispetta la
carità, così la colpa sarà tutta di chi lancia l’ingiuria, non
di chi la subisce.
Se invece scopri che
può essere pericoloso per i suoi familiari, la collettività, i
cittadini e gli amici, si deve rompere subito il vincolo di
familiarità, perché non si deve anteporre l’amore per una persona
al rischio di rovinarne tante altre. È nel momento stesso della
scelta che si deve stare attenti a che questo non accada. Si deve
scegliere cioè uno che non sia mosso dall’ira, fuorviato dalla
superficialità, trascinato dalla loquacità o condotto dal sospetto
a fare ciò che non si deve fare.
Soprattutto scegli uno
che non abbia un temperamento o un carattere e troppo diverso dal
tuo. Poiché parliamo dell’amicizia vera, che non può sussistere
se non tra i buoni, non abbiamo neppure nominato quelli che sono
sicuramente da scartare come gli infami, gli avari, gli ambiziosi, i
calunniatori. Se quanto abbiamo detto sulla scelta vi basta, possiamo
parlare di un altro argomento, di come si prova un amico.
Marco: Mi pare
opportuno. Sto sempre con un occhio alla porta nel timore che arrivi
qualcuno ad interrompere il nostro colloquio con qualche amarezza, o
con qualche sciocchezza.
Luca: C’è qui fuori
il custode, se lo fai entrare non riuscirai più a parlare. Sto io di
guardia alla porta. Tu, padre, continua pure.
La
verifica delle quattro caratteristiche del rapporto di amicizia
Aelredo: Sono quattro
le cose che devono essere messe alla prova nell’amico: la fedeltà,
l’intenzione, il criterio, la pazienza. La fedeltà, perché tu
possa affidargli con tranquillità e sicurezza te stesso e tutte le
tue cose. L’intenzione, perché egli non si aspetti dall’amicizia
niente se non Dio e il bene che le è proprio per natura. Il
criterio, perché sappia discernere cosa si deve dare all’amico,
cosa gli si può chiedere, in quali cose si deve soffrire per lui e
in quali rallegrarsi e siccome penso che talvolta l’amico
debba anche essere corretto comprendendo le ragioni per farlo,
senza ignorare il modo, il tempo e il luogo opportuni. La pazienza,
infine, perché quando viene corretto non si rattristi, non reagisca
con odio o disprezzo con chi lo corregge, e sia capace di sopportare
coraggiosamente per l’amico qualsiasi avversità.
La
fedeltà
Nell’amicizia niente
è più importante della fedeltà, che nutre l’amicizia la
custodisce. La fedeltà è sempre uguale a se stessa, nella buona e
nella cattiva sorte, nelle ore felici e in quelle tristi, nelle gioie
e nelle amarezze. La fedeltà guarda con lo stesso occhio chi è
umile e chi è sublime, il povero e il ricco, il forte e il debole,
il sano e il malato. L’amico fedele non vede nulla all’infuori
del cuore dell’amico: va ad abbracciare la virtù là dove la
trova, tutto il resto rimane all’esterno, se ci sono altre cose non
vi dà molto peso, se non ci sono non si affanna ad esigerle. La
fedeltà tuttavia può restare nascosta quando le sorride la fortuna,
invece emerge veramente nelle avversità. Qualcuno ha detto che
l’amico si prova quando si è nella necessità. Sono molti gli
amici di chi è ricco. Ma se siano poi dei veri amici lo si vede
quando sopraggiunge la povertà. Un amico, dice Salomone, vuol bene
sempre, ed è nella sventura che si dimostra fratello (Pr
17,17). E altrove, rimproverando chi manca di fedeltà, dice: “Chi
spera nell’aiuto dell’amico infedele nel giorno della sventura, è
come se avesse un dente cariato o un piede slogato” (Pr
25,19).
Luca: E se tutto va
sempre bene, e non interviene mai alcuna difficoltà, come si può
provare la fedeltà di un amico?
Aelredo: Ci sono molti
altri modi per mettere alla prova la fedeltà dell’amico, anche se
è vero che la verifica migliore è data dalle avversità. Ho già
detto, per esempio, che niente rovina l’amicizia quanto la
rivelazione delle confidenze dell’amico. È scritto nel Vangelo:
Chi è fedele nel poco è anche fedele nel molto (Lc 16,10).
Ne consegue che agli amici per i quali crediamo sia necessario un
ulteriore periodo di prova non dobbiamo affidare tutti i nostri
segreti né quelli più intimi. È bene cominciare da cose piuttosto
superficiali o di poco conto, che non è molto importante nascondere
o rivelare, facendo però molta attenzione a far capire che il
rivelarle comporterebbe un grave danno, mentre sarebbe un grosso
vantaggio tenerle nascoste. Se lo trovi fedele in questo impegno, non
esitare a metterlo alla prova su cose di maggiore importanza. Se poi
capita che si diffondano voci sgradevoli sul tuo conto, o se la
cattiveria di qualcuno rovina la tua reputazione, e lui non sarà
indotto da alcuna insinuazione a credere a tali cose, non sarà
turbato da alcun sospetto, né scosso da alcun dubbio, allora non è
più il caso di tenere sospeso il giudizio sulla sua fedeltà. Sarà
davvero grande la tua gioia per aver trovato in lui un amico sicuro e
stabile.
Luca: Mi viene ora in
mente quel tuo amico venuto dalla Francia, di cui ci hai parlato
molto spesso. Ti sei accorto che era davvero un amico fedelissimo e
assolutamente sincero quando non solo non credette a chi riportava
cose false sul tuo conto, ma neppure fu scosso dalla benché minima
esitazione. Un atteggiamento del genere non te lo saresti aspettato
neppure da quel tuo amico carissimo, il vecchio sacrista di
Chiaravalle! Ma ora, visto che abbiamo già parlato a sufficienza su
come si metta alla prova la fedeltà, spiegaci i punti che rimangono.
L’intenzione
Aelredo: Ho detto che
si deve provare anche l’intenzione. Questo è assolutamente
necessario.
Ci sono infatti molti
che nelle cose umane ritengono buono solo ciò che dà un guadagno
visibile nel tempo.
Sono persone che amano
i loro amici come amano i loro beni terreni, dai quali sperano di
ricavare sempre un qualche vantaggio. Sono persone che non sanno
neppure cosa sia l’amicizia genuina e spirituale, quella che va
cercata per Dio e per il valore che ha in se stessa; persone che non
riflettono seriamente sul modello naturale dell’amore che hanno in
sé, dove potrebbero scoprire facilmente quale e quanto grande sia la
forza dell’amicizia. Lo stesso Signore ci ha offerto il modello
della vera amicizia quando ha detto: “Ama il tuo prossimo come te
stesso” (Mt 22,39). Ecco lo specchio: tu ami te stesso. Si,
certo, però solo se ami Dio, se cioè corrispondi a colui che
abbiamo descritto come degno di essere scelto per amico. Mi chiedo:
forse perché vuoi bene a te stesso esigi che questo ti venga
ricompensato? Sicuramente no, perché è nella natura delle cose
voler bene a se stessi. Ne consegue che, se non trasferirai questo
stesso affetto in un altro, amando l’amico gratuitamente solo
perché ti è caro per se stesso, non potrai gustare il sapore della
vera amicizia. Colui che ami sarà come un altro te stesso quando
avrai trasfuso in lui l’amore con cui ti ami. “L’amicizia”,
come dice sant’Ambrogio, “non è un dazio o una rendita, ma è
piena di bellezza e di grazia. È infatti una virtù, non un affare,
perché non è generata dal denaro, ma dalla grazia; non si acquista
contrattando sul prezzo, ma è il frutto di una gara d’affetto”.
Devi quindi esaminare con acume l’intenzione di chi hai scelto come
amico, perché non pensi di unirsi in amicizia con te nella speranza
di ottenere un qualche vantaggio, quasi che si trattasse di un bene
commerciabile, e non invece di un dono. Spesso le amicizie tra chi è
povero o bisognoso sono più sicure di quelle tra i ricchi: la
povertà, infatti, elimina l’attesa di un qualche guadagno, e non
solo non diminuisce, ma piuttosto accresce la carità nell’amicizia.
Ai ricchi si dona per cortigianeria; verso i poveri nessuno agisce
per finzione. Tutto quanto si dà al povero è dono sincero, perché
l’amicizia del povero non conosce l’invidia.
Ho detto questo perché
negli amici si metta alla prova il comportamento, e non se ne valuti
invece la ricchezza. Ed ecco come si verifica l’intenzione. Guarda
se è più avido dei tuoi beni che di te; se è sempre in attesa che
tu gli procuri qualcosa con i tuoi sforzi, come onori, ricchezze,
successo, libertà. Ti accorgerai facilmente di quali erano le sue
intenzioni quando si è legato a te se in tutte queste cose viene
preferito uno più degno di lui, o se tu non hai la possibilità di
fargli avere ciò che desidera.
Il
criterio
Consideriamo adesso il
criterio. “Alcuni, con animo maligno, per non dire sfacciato,
vogliono un amico che sia tutto quello che essi non riescono ad
essere”. Sono quelli che si spazientiscono per le mancanze anche
lievi dei loro amici, li rimproverano aspramente e, mancando di
criterio, non vedono le cose grosse e si scagliano contro le piccole;
confondono tutto, e non sanno dove, quando, e a chi convenga rivelare
o nascondere le cose. Per questo si deve verificare se la persona che
scegli ha criterio, perché unirsi in amicizia con uno che è
imprevidente e imprudente significa andarsi a cercare litigi e
discussioni a non finire. È abbastanza facile dimostrare che
nell’amicizia questa virtù è necessaria: se uno ne è privo, è
come una nave senza timone che, sotto la spinta del vento, è
sballottata in un movimento frenetico e capriccioso.
La
pazienza
Avrai anche molte
occasioni per mettere alla prova la pazienza di chi desideri farti
amico, poiché ti troverai a dover correggere colui che ami: dovrai
usare a volte di proposito un tono più duro, per
provare e tenere in esercizio la sua capacità di sopportazione. Devi
anche stare attento a un’altra cosa: se trovi in uno che stai
mettendo alla prova qualcosa che offende il tuo animo, come
l’imprudente rivelazione di un segreto, il desiderio di qualche
vantaggio materiale, una critica fatta con poco criterio o una
mancanza di amorevolezza, non devi per questo rinunciare subito alla
scelta e all’amicizia che ti eri proposto, se non altro fino a
quando c’è una speranza di correzione. Non stancarti mai di curare
con sollecitudine la scelta e la prova degli amici: il frutto di
questo lavoro sarà una benedizione per la tua vita e un fondamento
solidissimo per la tua vita eterna. Ci sono molti che sono abbastanza
esperti quando si tratta di far soldi, di investire, di scegliere e
acquistare mezzi e beni, e conoscono molto bene i criteri con cui
condurre queste operazioni: è da dementi non usare la stessa
capacità nel farsi degli amici, nel metterli alla prova,
nell’imparare a utilizzare quei segni che ci permettono di
verificare se coloro che abbiamo scelto come amici sono all’altezza
all’amicizia. Bisogna inoltre stare attenti da certi slanci
dell’affetto che stravolgono il giudizio, e compromettono la
possibilità di una verifica oggettiva. È proprio dell’uomo
prudente interporre una pausa, frenare questi slanci, mettere dei
confini alla benevolenza, procedere pian piano nell’affetto, fino a
che, terminata la prova, ci si possa dare e affidare completamente
all’amico.
L’amicizia
come anticipo della felicità celeste
Marco: Devo ammettere
che continua a fare effetto su di me l’idea di quelli che pensano
che si viva più tranquilli senza amici.
Aelredo: Mi meraviglio!
Nessuna vita può essere felice senza amici, nel modo più assoluto.
Marco: Perché?
Spiegamelo.
Aelredo: Supponiamo
che... tutto il genere umano scompaia dal mondo, e che tu sia l’unico
superstite. Davanti a te hai tutte le delizie e le ricchezze del
mondo, oro, argento, pietre preziose, grandi città, ville, edifici
grandiosi, sculture, pitture. Immagina di essere ritornato indietro
alle origini, con tutte le cose a tua disposizione: tutti i greggi,
gli armenti, tutte le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e
i pesci del mare, che percorrono le vie del mare. Dimmi, dunque:
forse che, se non avessi un amico, tutte queste cose potrebbero farti
felice?
Marco: No.
Aelredo: E se ci fosse
vicino a te qualcuno di cui non conosci né la lingua né il
carattere, che non sai se ti vuol bene né com’è il suo cuore?
Marco: Se non
riuscissi, almeno con qualche segno, a farmelo amico, preferirei non
avere nessuno piuttosto che uno cosi.
Aelredo: Se invece ci fosse uno che tu ami come te
stesso, dal quale sai con certezza di essere ugualmente amato, non è
forse vero che tutte quelle cose che prima sembravano amare
diventerebbero dolci?
Marco: Sicuro!
Aelredo: E se di
persone così ce ne fossero tante? Non è forse vero che ti
sentiresti tanto più felice?
Marco: Verissimo.
Aelredo: È proprio
questa la meravigliosa felicità che aspettiamo, quando Dio stesso
diffonderà tra sé e le sue creature che ha esaltato, fra i vari
ordini e gradi in cui ha distinto le cose, fra le singole persone che
ha scelto, tanta amicizia e tanta carità che ciascuno amerà l’altro
come se stesso è potrà gioire dell’altrui felicità come della
propria. Così la gioia dei singoli sarà di tutti, e la gioia di
tutti apparterrà al singolo. Non ci saranno più pensieri nascosti e
amori finti. Questa è l’amicizia vera ed eterna, che comincia qui
e si perfeziona lassù; che qui è di pochi, perché pochi sono i
buoni; là invece sarà di tutti, perché tutti saranno buoni. Qui è
necessaria la prova, perché i saggi e gli stolti stanno assieme; là
non ci sarà bisogno di prova, perché tutti saranno resi santi da
una perfezione soprannaturale e quasi divina. Questo è il modello
cui possiamo paragonare quegli amici che amiamo come noi stessi, di
cui conosciamo tutto come un libro aperto, ai quali confidiamo tutti
i nostri segreti, che sono sicuri, stabili e costanti in tutto. Pensi
forse che ci sia qualche essere umano che non desideri essere amato?
Marco: Credo proprio di
no.
Aelredo: Se tu
conoscessi qualcuno che vive in mezzo a molte persone, ma sospetta di
tutti, che ha paura che tutti tramino contro la sua vita, che non ama
nessuno e pensa che nessuno lo ami, non pensi che sarebbe
disperatamente infelice.
Marco: Infelicissimo.
Aelredo: E allora non
puoi negare che straripa di felicità chi riposa nei cuori di coloro
con cui vive, pieno d’amore per tutti e da tutti amato, in uno
stato di dolcissima serenità da cui non lo allontana il sospetto né
la paura”.
Marco: Si, è
assolutamente vero.
Aelredo: Ma forse è
difficile nella vita presente trovare queste cose in tutti, visto che
ci attendono per quella futura. Però, proprio per questo, quanto più
numerosi saranno quelli che ci amano così, tanto più saremo felici.
L’altro giorno passeggiavo per il chiostro del monastero, dove
stavano seduti gli altri fratelli, e quasi fossi in un giardino di
delizie ammiravo le foglie, i fiori e i frutti di ogni singolo
albero. Non c’era nessuno in quella moltitudine che io non amassi,
nessuno da cui non mi sentissi amato. Mi ha inondato una gioia così
grande da superare tutti i piaceri di questo mondo. Sentivo che il
mio spirito si era riversato in tutti loro, e in me era entrato il
loro affetto, proprio come dice il Profeta: “Come è bello e come è
gioioso vivere insieme da fratelli (Sal 132,1)”.
Luca: Dobbiamo dunque
pensare che hai accolto nella tua amicizia tutti quelli che in questo
modo tu ami e dai quali ti senti amato?
La
specificità dell’amicizia spirituale
Aelredo: Sono molti
quelli che abbracciamo con il nostro affetto, senza però introdurli
nell’intimità dell’amicizia, che consiste soprattutto nella
rivelazione di tutti i nostri segreti e progetti. Come dice
il Signore nel Vangelo: “Non vi chiamo più servi”, “ma amici”.
Poi aggiunge la ragione per cui ritiene di chiamarli amici: “Perché”,
dice, “tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a
voi” (cfr. Gv 15,15). E poco prima dice: “Voi siete miei
amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15,14).
Con queste parole, come
dice sant’Ambrogio, “ci ha dato un modello di amicizia da
seguire: fare la volontà dell’amico, confidargli i nostri segreti
e tutto quanto abbiamo nel cuore, non ignorare le sue cose più
intime. Apriamoci a lui, e che egli ci apra il suo cuore. L’amico,
infatti, non nasconde niente. Se è sincero, rivela il suo animo,
come il Signore Gesù rivelava i misteri del Padre”. Questo scrive
Ambrogio. Sono dunque molti quelli che noi amiamo, però non a tutti
conviene esporre in questo modo il nostro animo, né rivelare il
nostro cuore, perché non hanno ancora un’età, o una
sensibilità, o un criterio tale da renderli capaci di accogliere
queste confidenze.
Marco: Non riesco
neppure ad aspirare ad un’amicizia talmente grande e perfetta. A me
e ad Luca basta quella che ci ha descritto Agostino: parlare e ridere
insieme, scambiarsi con affetto dei favori; leggere e discutere
insieme, scherzare insieme e fare cose serie; dissentire quando è il
caso, senza rancore, come uno fa con se stesso, servirsi anche dei
rarissimi contrasti per addolcire le molte cose su cui si è
d’accordo; essere l’uno per l’altro maestro e discepolo;
desiderare impazientemente chi è assente, accogliere con gioia chi
arriva. Con questi e con altri segni che procedono dal cuore di chi
ama ed è riamato, con il volto, con la parola, con gli sguardi e con
mille altre espressioni di affetto si ravviva il fuoco che fonde gli
animi e che di tanti ne fa uno solo. Questo ci sembra si debba amare
negli amici. La nostra coscienza si sentirebbe in colpa se non
amassimo chi risponde al nostro amore, e se non rispondessimo con
l’amore a chi ci ama.
Aelredo: Un’amicizia
così è puramente materiale, ed è tipica soprattutto dei giovani,
com’era allora sant’Agostino e l’amico di cui parlava. Non è
da rifiutare, tranne gli scherzi e le bugie, e nel caso non ci sia
alcun comportamento disonesto. Un’amicizia del genere può portare
ad una grazia più grande ed è come il principio di un’amicizia
santa. Una volta cresciuti nell’amore e nel comune impegno nelle
cose dello spirito, diventati con l’età più maturi e più seri e
con i sensi spirituali più illuminati, questi amici potranno con un
affetto purificato salire verso un traguardo più alto, partendo da
una buona base. Del resto, non abbiamo già detto ieri che si può
passare più facilmente dall’amicizia umana a quella per Dio, vista
la somiglianza che esiste tra le due?
Come
coltivare la vera amicizia
Adesso cominciamo a
considerare come si coltiva l’amicizia. Il fondamento della
stabilità e della costanza nell’amicizia è la fiducia: niente
infatti è stabile se non è fondato sulla fiducia. Gli amici devono
essere tra loro semplici, aperti, sensibili alle stesse cose, in
sintonia: tutto questo riguarda la fedeltà. Non può essere degno di
fiducia un carattere complicato e tortuoso. Anche quelli che non sono
sensibili alle stesse cose, o non sono d’accordo su cose identiche,
non possono essere stabili né fidati. Soprattutto si deve evitare il
sospetto, che è il veleno dell’amicizia: non dobbiamo mai pensare
male dell’amico, né credere o dare ragione a chi ne parla male. A
questo dobbiamo aggiungere un parlare cordiale, un volto lieto, la
dolcezza dei modi, la serenità dello sguardo, tutte cose che aiutano
molto l’amicizia. L’espressione austera, severa, ha un suo
decoro, conferisce solennità, però l’amicizia deve essere in
qualche modo più rilassata, più libera e amabile, più disponibile
alla serenità e all’indulgenza, senza però che questo si
trasformi in superficialità o leggerezza.
La forza dell’amicizia
sta anche nel mettere alla pari l’inferiore e il superiore. Spesso
capita che una persona eminente accolga nella sua amicizia chi gli è
inferiore per grado, ordine, dignità, o scienza. In questo caso
bisogna disprezzare e stimare come inutile tutto ciò che non
appartiene strettamente alla natura, tenendo costantemente fisso lo
sguardo sulla bellezza dell’amicizia in sé, che non si addobba con
vestiti preziosi o con gioielli, non cresce con l’aumentare dei
possedimenti, non ingrassa nei piaceri, non si dilata con le
ricchezze e non sale in dignità con gli onori. Così, tornando
continuamente al principio e alle origini, dobbiamo considerare con
intelligenza acuta l’uguaglianza che la natura ha stabilito, non i
supplementi e le bardature che l’avidità ci offre. Quindi
nell’amicizia, che è il dono migliore offerto insieme dalla natura
e dalla grazia, chi sta in alto deve scendere, e chi sta in basso
deve salire; il ricco deve sentire necessità, e il povero deve
sentire la ricchezza; ciascuno deve scambiare con l’altro la
propria condizione. È così che si realizza l’uguaglianza, come
sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò, e colui che
raccolse poco non ebbe di meno” (2Cor 8,15). Non metterti
quindi mai davanti all’amico, ma, se ti riconosci superiore in
qualche cosa, hai un motivo in più per abbassarti subito davanti a
lui, per dargli la tua fiducia, per lodarlo se è timido. E tanto più
lo devi onorare quanto meno la sua condizione o la sua povertà lo
richiederebbero.
L’esempio
di Davide e di Gionata
Il magnifico giovane
Gionata, senza tener conto né della gloria regale né del suo
diritto al trono, fece un patto con Davide: l’amicizia rese il
servo uguale al padrone, ed egli lo preferì a sé quando fu
costretto a fuggire da Saul, suo padre, quando dovette nascondersi
nel deserto perché condannato a morte e destinato ad essere ucciso.
Umiliando se stesso per esaltare lui, disse: “Tu sarai re e io sarò
secondo dopo di te”. Che splendido esempio di vera amicizia! Che
incredibile meraviglia! Il re s’infuriava contro il servo e gli
scatenava dietro tutto il paese quasi fosse un pretendente
usurpatore; in base ad un semplice sospetto accusa di tradimento i
sacerdoti e li fa trucidare; perlustra i boschi, fruga le valli,
assedia con il suo esercito monti e rupi; tutti si impegnano a
vendicare l’ira del re; soltanto Gionata, l’unico che aveva tutti
i motivi per essere geloso di Davide, decise di resistere al padre,
di mettersi dalla parte dell’amico, di offrirgli nella sventura il
suo consiglio, e, preferendo l’amicizia al regno gli disse: “Tu
sarai re, io sarò secondo dopo di te”.
È noto come il padre
cercava di scatenare la gelosia del giovane contro l’amico,
attaccandolo con insulti e spaventandolo con la minaccia di privarlo
del regno e della dignità. Quando poi il re pronunciò la sentenza
di morte contro Davide, Gionata non abbandonò l’amico. Perché,
disse, Davide deve morire? In cosa ha peccato? Che ha fatto? Mettendo
a rischio la sua vita ha sconfitto il Filisteo, e tu ne sei stato
contento. Perché dunque deve morire? All’udire queste parole, al
colmo dell’ira, il re tentò con la lancia di inchiodare Gionata al
muro, aggiungendo alle minacce gli insulti: Figlio d’una donna
perduta, non so io forse che tu prendi le parti del figlio di Iesse,
a tua vergogna e a vergogna della nudità di tua madre? Quindi vomitò
tutto il veleno che aveva dentro per infonderlo nel cuore del
giovane, aggiungendo parole che avrebbero dovuto scatenare la sua
ambizione, la gelosia, l’invidia e il rancore amaro: fino a quando
vivrà il figlio di Iesse sulla terra, non avrai sicurezza né tu né
il tuo regno.
Chi non sarebbe stato
scosso da queste parole? Chi non avrebbe provato invidia? Quale
amore, quale grazia, quale amicizia poteva resistere parole come
queste senza esserne intaccata o sminuita o cancellata? Quel giovane
pieno d’amore, fedele al patto dell’amicizia, forte di fronte
alle minacce, paziente davanti agli insulti, disprezzò il regno e
preferì l’amicizia, non si curò della gloria perché gli stava a
cuore la grazia. Tu sarai re, disse, io sarò secondo dopo di te.
Dice Cicerone che si
trovano persone che “ritengono ignobile preferire il denaro
all’amicizia”, ma che è impossibile trovare “chi antepone
l’amicizia alle cariche pubbliche, a quelle politiche, ai
comandi militari, al potere e alle ricchezze così che quando vengono
offerte loro da una parte queste cose e dall’altra il bene
dell’amicizia, pochi scelgono quest’ultima. La natura infatti è
troppo debole per disprezzare il potere. Dove si troverà”, dice,
“chi anteponga l’onore dell’amico al suo”? Ecco, abbiamo
trovato Gionata che ha vinto la natura, ha disprezzato la gloria e il
potere, ha preferito al proprio l’onore dell’amico. Tu sarai re,
disse, e io sarà secondo dopo di te.
Questa è l’amicizia
vera, perfetta, stabile ed eterna: non la corrompe l’invidia, non
la riduce il sospetto, non la dissolve l’ambizione. Questa amicizia
messa alla prova non cadde; assalita non crollò; colpita da tanti
insulti rimase inflessibile, provocata da tante ingiurie restò
irremovibile. Va, dunque, e anche tu fa lo stesso. Se però pensi che
sia duro o perfino impossibile preferire colui che ami a te stesso,
cerca almeno di metterlo sul tuo stesso piano se ci tieni ad essere
un amico. Chi infatti non mantiene l’uguaglianza con l’altro non
pratica l’amicizia in modo giusto.
“Sii rispettoso verso
l’amico come con un tuo eguale”, dice Ambrogio, “e non aver
vergogna ad anticiparlo nel rendere un servizio. L’amicizia infatti
non conosce la superbia. L’amico fedele è davvero una medicina per
la vita, una grazia d’immortalità”.
L’amicizia
e lo scambio dei favori
Vediamo ora come si
deve coltivare l’amicizia riguardo ai benefici, e qui ruberò
qualcosa dagli altri. Qualcuno ha detto: “Si stabilisca
nell’amicizia questa legge: chiediamo agli amici cose oneste,
facciamo cose oneste per gli amici senza aspettare la loro richiesta;
non deve mai esserci indugio ma sempre premura”. Se per l’amico
si deve essere disposti a perdere del denaro, tanto più si deve
essere pronti ad usarlo per venire incontro alle sue necessità. Ma
non tutti possono fare tutto. C’è chi ha molto denaro, chi è
invece ricco di terreni e di case; uno è più bravo nel dare
consigli, un altro lo è nel rendere onori. Considera con prudenza
come devi comportarti con l’amico riguardo a queste cose. Sul
denaro la Scrittura ha detto quanto basta: “Perdi pure, dice, il
denaro per un amico (Sir 29,10)”. Ma poiché gli occhi del
saggio sono nel suo capo (cfr. Qo 2,14), se noi siamo le
membra e Cristo è il capo, facciamo quello che dice il Profeta: I
miei occhi sono sempre rivolti al Signore, per ricevere da lui la
legge della vita, della quale è scritto: “Se qualcuno di voi manca
di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza
rinfacciare, e gli sarà data” (Gc 1,5). E allora regala ciò
che hai all’amico senza farglielo pesare, senza aspettarti una
ricompensa, senza corrugare la fronte, senza voltare la faccia, senza
abbassare lo sguardo; ma con aspetto sereno, con un volto raggiante,
con parole amabili. Non aspettare neanche che termini la sua
richiesta, va’ incontro a lui con benevolenza, così da sembrare
che sia tu a dargli quanto ha bisogno senza che neppure te lo chieda.
Un animo sensibile sa che niente fa arrossire quanto il dover
chiedere. Poiché tu formi con il tuo amico un cuor solo e un’anima
sola, sarebbe gravemente offensivo non mettere in comune anche il
denaro.
Osserva dunque tra gli
amici questa regola: ciascuno deve dare sé e le sue cose in modo che
chi dà conservi il sorriso, e chi riceve non perda la sua
tranquillità. Quando Booz si accorse dell’indigenza di Rut la
Moabita, le parlò mentre raccoglieva le spighe dietro ai mietitori,
la consolò, la invitò alla mensa dei suoi servi e, avendo riguardo,
con cuore nobile, per la sua timidezza, ordinò ai mietitori di
lasciar cadere apposta delle spighe perché lei le potesse
raccoglierle senza sentirsi umiliata. Così anche noi dobbiamo
indovinare con delicatezza le necessità degli amici, anticipare con
il nostro dono una richiesta, e usare in questo uno stile che dia a
chi riceve l’impressione che sia lui a fare un favore, non colui
che offre il dono.
Marco: E noi religiosi,
che avendo un voto di povertà non abbiamo il permesso né di
ricevere né di dare alcunché, come possiamo vivere in questo senso
la grazia dell’amicizia spirituale?
La
reciprocità nel rapporto fra amici
Aelredo: “Gli
uomini”, dice il Saggio, “farebbero una vita felicissima se
togliessero di mezzo queste due parole: mio e tuo”. L’amicizia
spirituale riceve certo un fondamento molto solido dalla scelta della
povertà, che è santa proprio perché è volontaria. L’avidità
rovina mortalmente l’amicizia, ed è certamente più facile
conservare un’amicizia già iniziata quanto più l’animo è
immune da questa peste. Però nell’amicizia spirituale ci sono
altri benefici con cui gli amici possono far sentire la loro presenza
e il loro aiuto. Prima di tutto devono essere solleciti l’uno per
l’altro; devono pregare l’uno per l’altro; sentire ciascuno
come propria l’umiliazione dell’altro, e gioire dell’altrui
gioia. Ognuno deve piangere come proprio lo sbaglio dell’altro e
considerare come suo il progresso dell’altro. Dobbiamo usare tutto
quanto è in nostro potere per incoraggiare l’amico se è timido,
per sostenerlo se è debole, per consolarlo se è triste, per
sopportarlo se è irritato. Dobbiamo avere inoltre un tale rispetto
dello sguardo dell’amico da non osare alcunché di disonesto o di
sconveniente. Infatti, ogni sbaglio che uno fa ricade sull’amico,
al punto che non è solo chi sbaglia ad arrossire e soffrire, ma
l’amico che vede o sente quanto ha fatto l’altro se la prende con
se stesso, come se fosse stato lui a sbagliare; e allora, se uno non
ha ritegno per sé, deve averlo almeno per l’amico.
Il rispetto è il
miglior compagno dell’amicizia; e dunque “toglie all’amicizia
il massimo ornamento chi la priva del rispetto”. Quante volte l’ira
che mi si è accesa dentro e che stava per esplodere all’esterno è
stata soffocata e spenta da un semplice cenno del mio amico; quante
volte una parola sconveniente che era già nelle labbra è stata
repressa dalla severità di un suo sguardo. Quante volte, trovandomi
a ridere in modo scomposto, o perso in inutili sciocchezze, ho
ritrovato al suo solo avvicinarsi la dovuta serietà!
I
consigli e la correzione fraterna
Inoltre, quando ci si
deve persuadere di qualcosa, si accetta più facilmente il parere di
un amico e lo si ricorda meglio, perché la forza di persuasione di
un amico è davvero grande. Non abbiamo nessun dubbio, infatti, sulla
sua lealtà, e non c’è alcun sospetto di adulazione. L’amico
dunque deve consigliare all’amico ciò che è onesto, con fermezza,
con chiarezza e libertà. Gli amici, poi, non vanno solo ammoniti, ma
se è il caso devono anche essere rimproverati.
A qualcuno, infatti, la
verità dà fastidio, e può anche darsi che il dirla susciti
risentimento, come sta scritto: “L’adulazione genera amici, la
verità genera l’odio; l’adulazione tuttavia è molto più
dannosa perché, essendo indulgente con gli errori, permette che
l’amico precipiti nella rovina”. Un amico è gravemente
colpevole, e quindi soprattutto in questo va rimproverato, se
disprezza la verità e si lascia indurre da adulazioni e attrattive a
commettere cose gravi. Non è che sia proibito accontentare con
dolcezza gli amici, e spesso anche di lodarli, ma in tutto va
rispettata la moderazione, cosicché l’ammonizione deve essere
priva di asprezza, e il rimprovero non deve diventare un insulto.
Nell’accondiscendenza e nei complimenti deve sempre esserci
un’affabilità dolce e onesta. Invece si devono eliminare con
decisione le moine, che sono fonte di vizi e indegne non solo di un
amico, ma anche di un uomo libero.
Se poi uno ha proprio
le orecchie chiuse alla verità, da non poterla ascoltare neppure da
un amico, allora si deve temere per il bene della sua anima. Per cui,
come dice sant’Ambrogio, “se scopri qualche difetto nell’amico,
correggilo in privato; se non ti ascolta, correggilo in pubblico. Le
correzioni, infatti, sono buone, e spesso sono meglio di un’amicizia
troppo silenziosa. Anche se l’amico si sente offeso, tu correggilo
lo stesso. Anche se l’amarezza della correzione gli ferisce
l’animo, tu correggilo lo stesso. È meglio sopportare le ferite
inflitte dagli amici, che i baci degli adulatori. Correggi, dunque,
l’amico che va fuori strada”.
Nel correggere si
devono evitare soprattutto l’ira e il risentimento acido, perché
non sembri che, più che correggere un amico, uno voglia dar sfogo ad
un eccesso d’ira. Ho visto infatti alcuni che nel correggere gli
amici facevano passare per zelo e per sincerità la loro amarezza e
il ribollire dell’esasperazione. Questo modo di correggere, che
segue l’istinto e non la ragione, non ha mai fatto bene a nessuno,
anzi, ha fatto spesso molti danni. Fra gli amici non c’è nessuna
giustificazione possibile per questo vizio. L’amico deve infatti
entrare in simpatia con il proprio amico, essere condiscendente,
sentire come suo il difetto dell’altro, correggere in modo
discreto, facendo propri i sentimenti dell’altro. Lo deve
correggere con la tristezza del volto, con parole che sanno di
afflizione, anche con il pianto che interrompe le parole. L’altro
non deve solo vedere, ma anche sentire che la correzione sgorga
dall’amore, e non dal rancore. Se l’amico rifiuta una prima
correzione, accoglierà almeno la seconda. Tu intanto prega, piangi,
mostra un volto rattristato, ma conserva un affetto pieno di carità.
Devi anche scrutare
come è fatto il suo animo. Ci sono infatti quelli che si piegano più
volentieri alle amorevolezze, altri che non ci fanno alcun caso, e si
correggono più facilmente con la disciplina o con le parole. L’amico
dunque si deve adattare all’amico, regolandosi secondo il suo
carattere. E visto che deve stargli vicino nelle avversità che lo
colpiscono da fuori, deve affrettarsi ancor più ad andargli incontro
nelle difficoltà che affliggono il suo intimo. “Se dunque è
proprio dell’amicizia ammonire ed essere ammoniti, fare una cosa
con libertà ma senza asprezza, sopportare l’altro con pazienza, ma
senza risentimento, dobbiamo star certi che nelle amicizie non c’è
una peste più grande dell’adulazione e del servilismo. Queste cose
sono tipiche di persone superficiali e bugiarde, che dicono sempre
quello che vuole l’altro, ma mai la verità”.
Non
deve esserci dunque nessuna esitazione tra gli amici, nessuna
simulazione, cosa che più di qualsiasi altra ripugna all’amicizia.
L’amico ha diritto alla “verità, senza la quale lo stesso nome
di amicizia non ha alcun valore”. Dice il santo re Davide: “Mi
percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l’olio dell’empio
non profumi il mio capo” (Sal 141,5). Chi fa il furbo e
agisce con finzione provoca l’ira di Dio. Per cui il Signore dice
per mezzo del Profeta: “Il mio popolo! Un fanciullo lo tiranneggia
e le donne lo dominano. Popolo mio, le tue guide ti traviano,
distruggono la strada che tu percorri” (Is 3,12).
Perché, come dice
Salomone, il simulatore con le sue parole inganna l’amico. Si deve
dunque praticare l’amicizia in modo che, se talvolta, per motivi
precisi, si può ammettere la dissimulazione, non deve mai esserci
posto per la simulazione.
Marco: Ma dimmi, come è
possibile che la dissimulazione sia necessaria, visto che è sempre,
almeno mi sembra, un vizio?
Aelredo: Ti sbagli,
carissimo. Si dice infatti che Dio dissimula i peccati di chi
sbaglia, non volendo la morte del peccatore, ma che si converta e
viva.
Marco: Allora fammi
capire che differenza c’è tra la simulazione e la dissimulazione.
La
dissimulazione come forma di rispetto
Aelredo:
La simulazione, direi, è un consenso ingannevole, contrario al
giudizio della ragione. Terenzio ha espresso con molta eleganza il
concetto nel personaggio di Gnatone: “Qualcuno dice di no. Dico di
no. Dice di si? Dico di si. Alla fine mi sono imposto di dar ragione
a tutti”. Può darsi che questo pagano abbia attinto dal nostro
tesoro, esprimendo con le sue parole quanto pensa un nostro profeta.
Infatti è chiaro che il profeta intende la stessa cosa quando fa
dire al popolo perverso: “Non fateci profezie sincere, diteci cose
piacevoli, profetateci illusioni” (Is 30,10). E altrove: “I
profeti predicono in nome della menzogna e i sacerdoti governano al
loro cenno; eppure il mio popolo è contento di questo” (Ger
5,31). Questo vizio è sempre detestabile, sempre e ovunque da
evitare. La dissimulazione invece è una forma di sospensione, per
cui la pena o la correzione vengono rimandate, senza per questo
approvare interiormente l’errore, ma tenendo conto del luogo, del
momento, della persona. Se infatti il tuo amico commette uno sbaglio
in pubblico, non lo devi rimproverare subito e davanti a tutti; ma,
considerato il luogo, devi dissimulare, anzi, per quanto è
possibile, salva restando la verità, devi scusare quello che ha
fatto, e aspettare di trovarti in un luogo privato e familiare per
fargli il rimprovero che merita. Così, quando una persona è
occupata in molte cose, e si trova meno disposta ad ascoltare, oppure
per un qualche motivo è emotivamente turbata e piuttosto agitata, è
necessario dissimulare, fino a quando, finita l’agitazione, sia
capace di accettare il rimprovero con più serenità. Quando il re
Davide, spinto dalla sensualità, aggiunse all’adulterio un
omicidio, il profeta Natan, rispettoso della dignità del re, non
andò subito né con l’agitazione nel cuore a rinfacciare a una
persona così importante il crimine commesso, ma dissimulando tutto
per un tempo conveniente, riuscì con la prudenza a strappare allo
stesso re la sentenza che lo condannava (cfr. 2Sam 12,1 13).
L’amicizia
e l’attribuzione degli incarichi
Marco: questa
distinzione mi piace molto. Però vorrei sapere se un amico che gode
di un certo potere, ed è in grado di conferire onori e cariche a chi
vuole, deve preferire in queste promozioni quelli che ama e che lo
amano, e se tra questi deve anteporre quelli che ama di più a quelli
che ama di meno.
Aelredo: È utile
esaminare come si deve coltivare l’amicizia su questo punto. Ci
sono alcuni che ritengono di non essere amati se non vengono promossi
a qualche carica, e si lamentano di essere trascurati se non vengono
scelti per qualche funzione di prestigio.
Questo modo di pensare
lo sappiamo bene ha provocato grandi discordie tra
persone che si ritenevano amiche. Alla rabbia è seguita la
separazione e alla separazione gli insulti. Per questo, nel
distribuire onori e incarichi, soprattutto ecclesiastici, bisogna
osservare molta cautela: non devi guardare a quello che tu puoi
offrire, ma se l’altro è in grado di sostenere quello che tu gli
offri. Sono molte le persone che meritano di essere amate, ma non per
questo meritano di essere promosse; come sono molti quelli che
possiamo onestamente abbracciare con la dolcezza del nostro affetto,
ma, se affidassimo loro un incarico o un ufficio, faremmo un grave
peccato noi, e metteremmo anche loro in grave pericolo. In queste
cose si deve sempre seguire la ragione, non il sentimento. Non
dobbiamo imporre onori o pesi sulle spalle di coloro che ci sono più
amici, ma di quelli che sono più idonei a portarli. A parità di
capacità però non mi sentirei di disapprovare una scelta in cui, in
qualche modo, l’affetto si intrufola nella decisione.
Nessuno, quindi, deve
sentirsi disprezzato se non riceve una promozione, dato che anche il
Signore Gesù in un caso simile preferì Pietro a Giovanni, e dando a
Pietro il comando non tolse certo a Giovanni l’affetto. A Pietro
affidò la sua Chiesa, a Giovanni affidò la sua carissima madre. A
Pietro diede le chiavi del suo regno, a Giovanni aprì i segreti del
suo cuore.
Pietro, quindi, sta più
in alto, ma Giovanni è più al sicuro. Pietro, benché costituito in
autorità, quando Gesù dice: “Uno di voi mi tradirà”, trema
come gli altri e ha paura; Giovanni invece, fatto audace dalla sua
intimità con Gesù, sul cui petto stava reclinato, visto il cenno di
Pietro che vuol sapere chi è il traditore, ha il coraggio di
interrogare. Pietro, quindi, viene lanciato nell’azione, ma
Giovanni è riservato per l’affetto, perché “Così”, dice,
“voglio che lui rimanga fino al mio ritorno” (cfr. Gv
21,22). Ci ha dato un esempio, infatti, perché anche noi facciamo
così.
Diamo all’amico tutto
quanto è in nostro potere in amore, grazia, dolcezza, carità; diamo
invece gli onori futili e gli oneri a quelli che ci vengono suggeriti
dalla ragione, sapendo che uno non amerà mai veramente un amico se
non gli basta l’amico così com’è, e vuole in più da lui queste
cose vili e spregevoli.
Però si deve anche
stare molto attenti a negare un grande vantaggio perché ostacolati
da un affetto troppo tenero. Questo accade quando, presentandosi la
possibilità di impiegare meglio persone a cui siamo legati da un
grande affetto, non vogliamo separaci da loro né gravarle di pesi.
Nell’amicizia ben ordinata la ragione deve governare il sentimento,
e si deve guardare non tanto al gradimento dell’amico, quanto
piuttosto al bene comune.
Il
ricordo di due amici di Aelredo
Ora mi vengono in mente
due miei amici che, se anche non sono più in questo mondo, per me
sono e saranno sempre vivi. Il primo me l’avevo incontrato agli
inizi della mia conversione, quando ero ancora molto giovane, ed
eravamo diventati amici per una certa somiglianza di carattere e
d’interessi. L’altro l’avevo scelto io quando era ancora
giovanissimo, e dopo averlo messo alla prova in tanti modi, quando
ormai cominciavo ad avere un po’ di grigio sui capelli, lo accolsi
in una profondissima amicizia.
Il primo l’avevo
scelto come compagno per condividere con lui le gioie della vita
religiosa e le dolcezze dello spirito che allora cominciavo a
gustare. Non ero ancora oppresso da alcun incarico pastorale né
distratto da preoccupazioni materiali. Non chiedevo né davo altro
che affetto, come vuole la carità.
L’altro,
che avevo scelto ancora giovane, come assistente, lo ebbi come
collaboratore nelle presenti fatiche. Facendo, con l’aiuto della
memoria, un confronto fra queste due amicizie, direi che la prima
poggiava soprattutto sul sentimento, la seconda sulla ragione, anche
se non mancarono né l’affetto nella seconda, né la ragione nella
prima. Il primo, perse la vita agli inizi della nostra amicizia,
quindi potei solo sceglierlo, non metterlo alla prova, come abbiamo
detto che si deve fare; l’altro, che mi fu lasciato, l’ho sempre
amato dalla giovinezza all’età matura. Salì con me tutti i gradi
dell’amicizia, per quanto fu possibile alla nostra imperfezione.
La prima cosa che
attrasse il mio sentimento verso di lui fu l’ammirazione per le sue
virtù. Venne dal sud, lo condussi in questa solitudine nordica, e
fui il primo a formarlo nella disciplina della vita religiosa. Da
allora, vittorioso sulle sue debolezze, capace di sopportare la
fatica e la fame, fu per moltissimi un esempio e, suscitando
l’ammirazione di molti, divenne per me fonte di vanto e di
soddisfazione. Ritenni allora di coltivare la sua amicizia secondo i
migliori principi, come era naturale fare con uno che non era di peso
a nessuno, ma risultava simpatico a tutti. Obbediva sempre con
docilità, sempre umile, mansueto, serio nel comportamento, di poche
parole, ignaro di cosa fossero la rabbia, il pettegolezzo, il
rancore, la denigrazione.
Camminava come un sordo
che non sente, e come un muto che non apre la sua bocca (cfr. Sal
37,14). Lavorava senza temere la fatica, ossequiente all’obbedienza,
portando instancabilmente, nella mente e nel corpo, la severità
della disciplina ascetica. Una volta, ancora giovanissimo, essendosi
ricoverato nell’infermeria, fu rimproverato dal santo abate mio
predecessore perché ancora così giovane si era abbandonato troppo
presto al riposo e all’inerzia. Divenne tutto rosso per la
vergogna, e, uscito immediatamente, si sottopose con tanto fervore
alla severità della disciplina che per molti anni, anche quand’era
stremato da una grave malattia, non si permise mai di allentare il
rigore consueto. Queste cose l’avevano fatto entrare in modo
eccezionale nel più intimo del mio cuore, e l’avevano a tal punto
introdotto nel mio animo che da inferiore mi divenne compagno, da
compagno amico, da amico... amicissimo.
Quando m’accorsi che
nella grazia e nella virtù aveva ormai raggiunto diversi fratelli
più anziani di lui, udito il loro consiglio, gli affidai l’incarico
di vice superiore. Non era certo questo il suo desiderio, ma,
poiché si era votato interamente all’obbedienza, accettò
docilmente. Tuttavia, parlandomi in privato, cercò in molti modi di
farmi accettare le sue dimissioni, portando come ragioni l’età,
l’inesperienza, e anche l’amicizia che allora stava spuntando tra
noi: temeva che in quella carica avrebbe avuto meno possibilità di
amare e di essere amato. Ma poiché, nonostante tutti questi
tentativi, non riusciva a ottenere niente, cominciò con piena
libertà, anche se con umiltà e moderazione, a rivelare i timori che
nutriva per tutti e due, e a dire tutte quelle cose che in me gli
piacevano di meno, sperando, come mi confidò in seguito, che questa
sua presunzione mi avrebbe offeso, e così mi sarei piegato più
facilmente nel concedergli quanto mi chiedeva.
Questa sua libertà di
cuore e di parola invece ebbe solo l’effetto di portare al vertice
la nostra amicizia: lo volevo come amico, e non come uno qualsiasi.
Si rese conto che quello che aveva detto mi rendeva felice e che
avevo risposto umilmente ad ogni singola osservazione, dandogli
soddisfazione in tutto, e che non solo non avevo trovato motivo
alcuno di offendermi, anzi, ne avevo tratto frutti più abbondanti.
Allora cominciò anche lui ad amarmi più di prima, a manifestarmi il
suo affetto, a riversarsi interamente nel mio cuore. Tutto questo
dimostrò a me la sua sincerità e a lui la mia pazienza. Anch’io,
dandogli il contraccambio, quando si presentò l’occasione, ritenni
di doverlo riprendere con maggior severità, non risparmiandogli
parole che sembravano insulti, ma questa mia sincerità non lo rese
né impaziente né ingrato. Allora cominciai a rivelargli i miei
propositi più intimi, e lo trovai fedele.
Così tra noi si
perfezionò l’amore, si accese l’affetto, si rafforzò la carità,
fino a che si giunse ad avere un cuor solo e un’anima sola, a
volere o non volere le stesse cose in un amore che non conosceva
paure, che ignorava l’offesa, era privo di sospetti, detestava
l’adulazione.
Non c’erano fra noi
finzioni o simulazioni, nessun sentimentalismo, nessuna asprezza
sconveniente, nessuna tortuosità e nessuna falsità. Tutto era
chiaro e aperto, al punto che talvolta mi sembrava che il mio cuore
fosse il suo, e il suo il mio, e questa era anche la sua
consapevolezza. Procedendo così, per la via diritta dell’amicizia,
la correzione non suscitava indignazione, né il consenso diventava
compiacenza. Per cui, dimostrandosi amico in tutto, egli mi offriva,
per quanto poteva, pace e serenità. Era lui a esporsi ai pericoli e
ad affrontare gli ostacoli sul nascere. A volte, quando era già
malato, desideravo dargli un po’ di sollievo; lui però me lo
proibiva, dicendo che dovevamo stare attenti a che il nostro amore
non fosse misurato in base a un vantaggio materiale, o che il gesto
fosse attribuito più al mio affetto umano che alla sua reale
necessità, cosa che avrebbe svalutato la mia autorità. Era come la
mia mano, il mio occhio... il bastone della mia vecchiaia.
Era il cuscino su cui
si riposava il mio spirito, il sollievo delle mie sofferenze. Quando
ero stremato dalle fatiche, mi accoglieva nel suo amore; se ero
immerso nell’abbattimento e nella tristezza, le sue parole mi
ridavano fiducia. Se ero agitato mi riportava alla calma; se ero
adirato mi riportava alla serenità. Se capitava qualcosa di triste,
lo riferivo a lui, per poter sostenere più facilmente, unito a lui,
quello che da solo non riuscivo a sopportare. Che altro posso dire?
Non è stato forse un pregustare la felicità del cielo questo modo
di amare e di essere amato, di aiutare e di essere aiutato; questo
prendere slancio dalla dolcezza della carità fraterna per volare in
quel luogo altissimo dove brilla lo splendore dell’amore di Dio e,
sulla scala della carità, ora salire verso l’abbraccio di Cristo
stesso, ora scendere all’amore del prossimo per una dolce pausa di
riposo? Se in questa nostra amicizia, di cui ho parlato per mostrarvi
un esempio, trovate qualcosa da imitare, servitevene per il vostro
vantaggio.
CONCLUSIONE
Ora per concludere
questo nostro colloquio, anche perché il sole sta tramontando, credo
che siete convinti che l’amicizia nasce dall’amore. Se uno però
non ama se stesso non può neanche amare un altro, perché l’amore
del prossimo si costruisce sul modello dell’amore con cui uno ama
se stesso. Ma non ama se stesso colui che esige da sé o si propone
qualcosa di turpe e di disonesto.
Il primo passo dunque
consiste nel purificare se stessi, non indulgendo a niente che sia
indegno, né togliendo nulla di quanto può essere utile. Chi ama se
stesso in questo modo, può amare anche il prossimo, seguendo la
stessa regola. Ma dal momento che questo amore abbraccia molte
persone, dobbiamo scegliere tra queste chi possiamo ammettere con un
vincolo più familiare nell’intimità dell’amicizia riversando
abbondantemente il nostro affetto, aprendo il nostro cuore fino a
mettere a nudo, i suoi pensieri e i suoi desideri più profondi.
La scelta va fatta però
non dietro l’impulso instabile del sentimento ma con l’acutezza
della ragione, in base alla somiglianza dei temperamenti e tenendo
conto delle virtù. Offriamoci generosamente per l’amico quindi,
evitando ogni superficialità. Tutto deve portare alla gioia, né
devono mancare l’aiuto, il rispetto e la cortesia che nascono da
una benevolenza e da una carità ben ordinate.
Mettiamo alla prova la
fedeltà dell’amico, la sua onestà, la sua pazienza. Quindi
passiamo gradualmente alla comunione dei pensieri, all’impegno
costante nei comuni interessi, arrivando fino ad una certa
conformazione nell’aspetto. Gli amici, infatti, devono essere così
conformi che, appena uno vede l’altro, anche l’aspetto del volto
di uno si riflette in quello dell’altro, sia quando è triste e
abbattuto, sia quando è sereno e gioioso.
Dopo
averlo scelto e messo alla prova, accertati che non voglia chiederti
niente di sconveniente, né, se richiesto, accordartelo. Verifica se
ritiene l’amicizia una virtù, e non un affare redditizio, se
rifugge dall’adulazione e detesta le lusinghe, se è sincero e
discreto nel parlare, se accetta con pazienza la correzione, se è
costante e saldo nel voler bene. Solo allora gusterai quella dolcezza
spirituale che fa dire: come è bello e quanta gioia dà vivere
insieme, da fratelli (cfr. Sal
132,1). Allora vedrai quanto ci si guadagna a soffrire l’uno per
l’altro, a faticare l’uno per l’altro, a portare l’uno i pesi
dell’altro, quando ciascuno trova dolce dimenticare se stesso a
favore dell’altro, preferire la volontà dell’altro alla propria,
andare incontro alle necessità dell’altro prima di pensare alle
proprie, esporsi e opporsi alle avversità per risparmiare l’amico.
E nello stesso tempo quanta dolcezza nel parlarsi, nel raccontarsi
progetti e pensieri, esaminando tutto insieme, e in tutto convergendo
su uno stesso parere.
Oltre a questo poi c’è
il pregare l’uno per l’altro, una preghiera che, venendo da un
amico, è tanto più efficace quanto più carica di affetto si eleva
a Dio insieme alle lacrime, generate dal timore o dall’affetto o
dal dolore. Così, un amico che prega Cristo per conto dell’amico,
e desidera essere esaudito da Cristo per amore dell’amico, finisce
per dirigere su Cristo il suo amore e il suo desiderio. Succede
allora che rapidamente, in modo impercettibile, si passi da un
affetto all’altro e, con la sensazione di toccare da vicino la
dolcezza di Cristo stesso, l’amico cominci a gustare e a
sperimentare quanto egli è dolce è amabile.
In questo
modo, da quell’amore santo con cui si abbraccia il proprio amico,
si sale a quello con cui abbracciamo Cristo stesso: si afferra così,
nella gioia, a piene mani, il frutto dell’amicizia spirituale,
nell’attesa di una pienezza che si realizzerà nel futuro quando,
eliminato quel timore che ora ci tiene in ansia e ci fa preoccupare
l’uno per l’altro, vinte tutte quelle avversità che ora dobbiamo
sostenere l’uno per l’altro, distrutto insieme alla morte il suo
pungiglione (cfr. 1Cor
15,54 55), che ora spesso ci sfianca e ci costringe a soffrire
l’uno per l’altro, raggiunta la sicurezza, godremo per l’eternità
del sommo bene. Allora questa amicizia, alla quale ora ammettiamo
solo pochi, sarà trasfusa in tutti, da tutti rifluirà su Dio, e Dio
sarà tutto in tutti (1Cor
15,28).
La
traduzione dai testi latini presi in esame ha richiesto un impegno
non indifferente e, considerata l’importanza e la perenne attualità
del tema, si è optato per una traduzione dinamica, cioè
particolarmente rispondente alla mentalità e al linguaggio odierni.
Questa scelta, senza dubbio, ha imposto un certo distacco
dall’originale, tuttavia ha reso possibile la stesura di un testo
più comprensibile e scorrevole e, almeno in linea teorica,
immediatamente recepibile dal lettore comune. Sono state eliminate,
per esempio, le ridondanze e i pleonasmi tipici della lingua antica;
sono stati sostituiti - per quanto possibile - i modi di dire tipici
dell’epoca con quelli attuali; gli stessi nomi di persona - eccetto
quelli storicamente noti - sono stati sostituiti con nomi più
attuali. Indubbiamente è un’operazione che si presta a non poche
critiche, soprattutto dal punto di vista del rigore letterario, per
cui è doveroso invitare il lettore alla consultazione del testo
latino (Migne
PL
195, 659-702). L’auspicio è che questo lavoro risponda al fine che
si era proposto il nostro amico Aelredo. Nonostante questo sforzo di
semplificazione e di attualizzazione il lettore deve tenere presente
la statura spirituale e culturale del testo che rimane sempre ad un
livello tutt’altro che "comune". È facile cadere nel
rischio di grossolane banalizzazioni o di vuoti sentimentalismi. La
comprensione dell’amicizia spirituale, cioè della vera amicizia,
richiede una grande profondità d’animo e un serio livello di vita
spirituale. Un’amicizia che non si radica in una solida vita
spirituale e in un’autentica esperienza di fede non potrà mai
essere una vera amicizia. L’amicizia di cui parla Aelredo è una
delle esperienze più alte che una persona possa fare nella sua vita:
è Cristo stesso che si rende visibile e presente attraverso il
nostro amico e ci accompagna per tutta la vita. Pochi decenni dopo,
nel 1223, Francesco d’Assisi nella sua Regola bollata scriverà:
“Ovunque sono e si troveranno i frati, si mostrino familiari tra
loro. E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità,
poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più
affetto uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?” (RegB
6,7-9: FF
91).
P. Antonio
Atzeni
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