sabato 29 dicembre 2012

(Lc 2,41-52) Gesù è ritrovato dai genitori nel tempio in mezzo ai maestri.


VANGELO
 (Lc 2,41-52) Gesù è ritrovato dai genitori nel tempio in mezzo ai maestri.
+ Dal Vangelo secondo Luca 

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
 PREGHIERA
Spirito d’amore, abbracciami, e fammi comprendere il senso delle scritture, ma ancor di più che cosa tu vuoi che io comprenda, e sarò serena tra le tue braccia ad ascoltare la tua parola.Mi affido a te, illuminami!

Gesù cresce e dal fanciullo che era affidato alle cure di Maria e Giuseppe, sta diventando un uomo. Possibile che Gesù si perda? Che Maria e Giuseppe dimentichino questo loro figlio e se ne rendano conto solo a sera, quando la carovana aveva già percorso molta strada?
Sì forse si, ma io ho sempre pensato che non doveva essere un bambino facile da crescere, eppure se guardiamo bene, ci vediamo il segno di quello che sarebbe accaduto qualche anno dopo. Maria e Giuseppe sono angosciati, preoccupati e oserei dire arrabbiati con Gesù, se non avessi imparato leggendo i vangeli che né Maria né Giuseppe non si fanno mai prendere dall’ ira. Forse cominciano a capire i poveri genitori che questo bambino non gli appartiene già più, perché cresce in lui la consapevolezza di appartenere a Dio più che a loro, e anche se non riescono ad afferrare bene il senso della cosa, intuiscono che c’è una verità che va oltre la loro comprensione. Riprendono il cammino cercando di essere guida di quel figlio che già non gli apparteneva più, e lui stava loro sottomesso. Mi vengono in mente tante cose… che i figli sono prima di Dio e poi nostri, che la vita è dono di Dio, ce l’ affida per un tratto di strada, perché possiamo attraverso questa vita che ci affida, contemplare il suo amore. Siamo tutti figli, belli e brutti, sani e malati, giusti e peccatori, siamo entrati nel mondo e siamo con Gesù, tra i dottori della legge, per parlare del nostro Padre celeste. Gesù li ascoltava e li interrogava, e li stupiva con la sua intelligenza e le sue risposte…. Noi cosa facciamo amici? I nostri maestri che fanno? Forse è vero che i sacerdoti sono pochi, ma diventa sempre più difficile trovarne uno che ti dedichi un po’ del suo tempo per parlare… ricordo che quando ero bambina la chiesa era sempre aperta, ed un sacerdote sempre pronto per confessare ed aiutare… ci fermavamo dopo la messa e il prete ci faceva fare colazione con lui dalle suore, che preparavano il latte e la cioccolata calda d’inverno. Si parlava del vangelo che era stato spiegato a messa, e così anche per i grandi, c’era chi chiedeva un consiglio, una parola buona, una preghiera. Oggi le donne preparano l’ altare, il sacerdote arriva, in genere 5 minuti prima della messa, fortunati quelli che hanno a disposizione due sacerdoti, ma poi, arrivano insieme e, o senti la messa o ti confessi; e poi dopo la messa? Tutti via di corsa, saluti e baci e si va via… e mi dispiace dirlo, ma i sacerdoti sono quelli che hanno più fretta… dove sono finiti i pastori? Prima camminavi dietro a loro, ora devi quasi rincorrerli.
Maria, Madre della Chiesa, non capisce e piange, piange sulla Chiesa, sui suoi figli, su quello che vede e sente. Nelle nostre famiglie poi non va meglio…dove stiamo portando questi  nostri figli? Siamo talmente allo sbando noi che non sappiamo neanche guidarli e loro vanno dove il mondo li porta, seguono il progresso; l’ ultimo dei loro pensieri è andare a messa la domenica, perché avrebbero dovuto impararlo da noi, ma noi ci andiamo? Dopo una settimana di lavoro siamo troppo stanchi per il Signore….. Piange Maria e ci invoca di convertirci, di tornare sui nostri passi, il suo cuore immacolato, provato dal dolore, continua a soffrire per noi, e mi sembra di sentirla dire: figli perchè fate così? Se sapeste quanto vi amiamo, piangereste di gioia!

venerdì 28 dicembre 2012

(Lc 2,22-35) Luce per rivelarti alle genti.


VANGELO DI SABATO 29 DICEMBRE
(Lc 2,22-35) Luce per rivelarti alle genti.
+ Dal Vangelo secondo Luca

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola,perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,preparata da te davanti a tutti i popoli:luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

Parola del Signore

(Lc 2,22-35) Luce per rivelarti alle genti.
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Degnami o Santo Spirito della tua presenza, concedimi la tua grazia, accogli la mia preghiera, perchè solo grazie a te, potrò conoscere il verbo del Signore. Amen.

Come Simeone, dopo tanta attesa, anche noi vedremo Gesù e potremo conoscere la salvezza che Dio ha preparato per noi.
A volte ci sentiamo stanchi e sfiduciati , ma dentro di noi permane una voce che ci induce a sperare, nonostante le amarezze della vita, sappiamo che seguendo Gesù saremo salvati. Ma che vuol dire seguire Gesù? Amare come Dio comanda vuol dire, uscire dal nostro io e lasciare posto a Lui, al suo modo di amare, non al nostro, che è un amore di comodo, fatto di simpatie e antipatie, un amore condizionato che nulla ha a che vedere con l’ amore di Dio.
Quanti credono di vivere secondo la luce e vivono nelle tenebre, perché vogliono farsi una religione di comodo. Gesù non ci ha portato un vangelo comodo, ma ci ha promesso la salvezza, poi , è chiaro, che sta sempre a noi la scelta.
Simeone era definito un uomo pio e giusto e guidato dallo Spirito Santo, ma quello che è semplicemente stupendo di quest' uomo, è che era in attesa. Voleva conoscere il Salvatore, dopo di che poteva anche morire.
Molte persone incontrano Gesù nella loro vita, ma non lo riconoscono come il Salvatore, erroneamente pensando che la salvezza non esiste, che alla nostra morte tutto finisce, o, peggio ancora , che non hanno bisogno di essere salvati.Io credo che molte delle nostre idee vadano rivedute alla luce del Vangelo e che molto del Vangelo vada letto coerentemente alla nostra vita; Dio ci è molto più vicino di quanto noi siamo vicini a Lui.

giovedì 27 dicembre 2012

(Mt 2,13-18) Erode mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme.


VANGELO 
(Mt 2,13-18) Erode mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremìa:«Un grido è stato udito in Rama,un pianto e un lamento grande:Rachele piange i suoi figlie non vuole essere consolata,perché non sono più».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Signore mio ti prego, inondami del tuo Spirito di sapienza, fa che io possa trarre da questa lettura tutto quello che vuoi concedermi di sapere. Io non merito nulla per me, sono la più stupida dei tuoi fratelli, ma sto cercando di fare quello che tu vuoi, sto cercando di testimoniare la tua parola, aiutami o mio tutto a non essere me ma a lasciare che tu prenda il mio posto. Annullami, ti amo tanto!

Sappiamo che Erode aveva cercato di corrompere i re Magi, che avrebbero dovuto tornare da lui e dirgli dove si trovava il Bambino Gesù, ma alla vista del piccolo questi avevano capito ed erano ripartiti per un' altra strada. Ma il persecutore non si arrende e, ancora più adirato, senza alcuna pietà decide di far uccidere tutti i neonati al di sotto dei due anni. Il Signore mandò un angelo ad avvisare Giuseppe di prendere la moglie ed il bambino e di fuggire in Egitto fino alla morte di Erode, che compie con quel gesto una strage immane di bambini innocenti. Le madri piangono i loro figli, la profezia si avvera. Le lotte, le divisioni, il potere, tutte cose che fanno vittime, e le prime vittime di tutto questo sono i bambini; quelli che muoiono di fame, quelli che vengono rapiti per farne dei soldati, quelli che vengono utilizzati nelle miniere, quelli che vengono abbandonati nell’ indigenza , quelli che vendono usati dagli adulti per la pornografia, per la prostituzione, uccisi per rubargli gli organi, violentati, quelli che vengono mutilati nelle guerre, quelli che vengono abortiti…..
Quanti Erodi oggi uccidono in nome del potere, del progresso, della loro libidine; quanti uomini e donne rifiutano di riconoscere Gesù come loro Signore e distruggono tutto quello che intorno gli parla di Lui, quanti vogliono avere potere di vita e di morte, decidere se far nascere o no un bambino, quanti si ingozzano ed hanno il superfluo, mentre tanti bambini muoiono di fame. E noi cosa facciamo di concreto per non essere come Erode?
Ci scandalizziamo facilmente guardando la crudeltà degli altri, ma nel nostro piccolo, in tutti noi c'è un Erode che cerca di soffocare Gesù e di non fargli gridare il suo amore per tutti!Saremo giudicati in base a quanto avremo amato,aiutato e perdonato, ma noi a volte siamo talmente presi da noi stessi che neanche li vediamo gli altri. La gente muore nel mondo,ma questo sembra non toccarci ; ogni 3,6 secondi una persona muore di fame. Ventiquattromila al giorno. La maggior parte bambini, disidratati o malnutriti. Un olocausto permanente. Intorno a me sento sempre lamentarci della crisi economica, ma ai nostribambini non manca l'ultimo giocattolo,  l' ultimo telefonino moderno.... I ristoranti sono sempre pieni! 

mercoledì 26 dicembre 2012

IO e un po' di briciole di Vangelo: MUSETTA DI LELLA MINGARDI

IO e un po' di briciole di Vangelo: MUSETTA DI LELLA MINGARDI: C'era una volta, una bambina gracile,bruttina e tanto sola....era circondata da tanta gente,ma nessuno la vedeva; era vivace e come tutti i...

(Gv 20,2-8) L’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.


VANGELO 
(Gv 20,2-8) L’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

Parola del Signore

(Gv 20,2-8) L’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito e riempi di te il mio cuore e la mia mente. Fa che ogni cosa mi venga da te e che non sprechi neanche una briciola della tua sapienza. 
La pagina di oggi, sembra non entrarci per niente con quelle di questi giorni, che ci sono proposte dalla Chiesa, eppure a ben guardare, non è così sbagliato parlare del sepolcro di Gesù, dei primi discepoli che non lo trovano più e che debbono cominciare da questo momento a fare da soli. E' la realtà dello scontro tra la fede ed il mondo.
I primi cristiani dovettero fare subito i conti con la crudeltà dei romani, con l' ipocrisia dei farisei e dei sadducei, e molti furono uccisi per difendere la loro fede.
In questo passo ritroviamo gli apostoli Giovanni e Pietro, che corrono al sepolcro e sicuramente non per caso, Giovanni che è più giovane, arriva prima di Pietro, ma si ferma e aspetta che sia quello che Gesù aveva eletto come il capo della nuova chiesa ad entrare per primo. C'è tanto rispetto in questo atteggiamento, e mi fa un po' pensare al rispetto che si deve alla Chiesa come istituzione di Gesù Cristo e non per quello che spesso, purtroppo, lascia trasparire attraverso i suoi uomini, che come noi, sono appunto "uomini."
Pietro vide le fasce che avevano avvolto il corpo di Gesù ed il sudario ripiegato, ( notiamo che anche in Luca 24:12 Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto. ) mentre Giovanni vide e credette.
Il rapporto speciale che univa Gesù a Giovanni, continuava anche dopo la sua morte, non a caso era a lui che Gesù aveva affidato la Madre e alla stessa il discepolo che Lui amava.
Quanta meraviglia in quel sepolcro vuoto, e quanta fede nel piccolo Giovanni che ricordando le parole del Messia, sulla sua resurrezione, si fidò completamente di Lui.Possiamo essere come Pietro, avere dubbi e paure, o essere come Giovanni, credere sempre ed oltre le apparenze, o magari anche come Tommaso, che chiede dei segni, delle prove.Quello che conta è non avere dei preconcetti, non mettere il nostro io tra noi e Dio stesso come un ostacolo, ma appoggiare la nostra testa sul cuore di Gesù, come Giovanni, lasciandoci trasportare dallo Spirito Santo.

martedì 25 dicembre 2012

ReginaPacis: La sètta segreta dei neocatecumenali

ReginaPacis: La sètta segreta dei neocatecumenali: La sètta segreta dei neocatecumenali Testimonianza di un’esperienza vissuta dal Sig. Augusto Faustini Ho 53 anni, cultura medi...

(Mt 10,17-22) Non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro.


VANGELO
 (Mt 10,17-22) Non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro.
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato».

Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito e inebria la mia mente ed il mio cuore. A te mi affido per capire,per vivere e per seguire il volere di Dio, non lasciarmi mai.


Con quanto amore Gesù avverte i suoi discepoli di quello che li aspetta.  Sa che saranno proprio gli stessi uomini a rendergli difficile il loro compito di evangelizzatori.  Quello che hanno fatto a lui lo faranno ai suoi...  perché sia gli uomini di potere che gli scribi e i farisei,  non avevano nessuna voglia di sottostare a chicchessia.  C'erano infatti degli ebrei che volevano si rispettassero più le leggi che loro avevano messo,  che quelle dei comandamenti dati da Dio a Mosè,  si attenevano al Talmud, che è il libro più sacro dell'antico ebraismo http://youtu.be/N662BLgyh_8  e non vedeva certo di buon occhio Gesù che li riprendeva e li accusava. Sicuramente per i primi apostoli fu difficile  e pericoloso diffondere il cristianesimo in un ambiente così ostile.  Molti morirono martiri,  ma Gesù dimostrò loro che la morte del corpo,  non era la cosa che dovevano temere, ma quella dello Spirito invece doveva mettergli paura, perché li avrebbe condannati all' inferno, privandoli della vista di Dio. Guardando a Cristo, vedremo che spesso anche nelle stesse famiglie,  ci sarà divisione e disaccordo,  ma solo restando saldi nella fede, saremo salvati, Dio non abbandona i suoi figli. E’ di questi giorni la notizia di una nuova strage di persone che facevano la fila per il pane,in un paese torturato da una guerra,che può anche sembrare di religione,ma che è solo di potere. Ogni 5 minuti nel mondo muore un cristiano ,le notizie si susseguono ormai nell’indifferenza di molti…. Noi siamo liberi di vivere la nostra fede , ma non ci rendiamo neanche conto di quanto questo sia importante. Intorno a noi c'è la fame, la guerra, e la povertà avanza sotto all'indifferenza di molti. Se non impariamo a vivere secondo lo Spirito,difficilmente ci renderemo conto che ci sono fratelli che soffrono, che non possiamo essere indifferenti a questo,e state tranquilli,che questo attirerà su di noi,molti giudizi negativi,cominciando dalle nostre stesse parrocchie.
Oggi l' essere umano nel mondo, conta per quello che rende, non per quello che costa, ma in fondo anche ai tempi di Gesù,  forse era così,niente cambia se non cambia il nostro cuore! 

giovedì 20 dicembre 2012

Pensieri nella solitudine (Thomas Merton )PARTE 2 DA13 A18





13.
Mi sembra che la vita solitaria contemplativa sia una imitazione e una
realizzazione in noi delle parole di Gesù “Il Figlio non può fare nulla da sé, ma
solo quello che vede fare dal Padre, lo fa parimenti il Figlio. Perché il Padre ama il
Figlio e gli mostra quanto Egli fa” (Gv 5,19-20). Questa imitazione consiste
nell’essere e nell’agire nei confronti di Gesù come Egli fece nei confronti del
Padre (Gv 5,24). “Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato,
ha la vita eterna.” Il Padre ci attira a Gesù (Gv 6,37; 6,44-45). “Chiunque ha
udito il Padre ed ha appreso, viene a me.” Ascoltiamo meglio il Padre nella
solitudine. Gesù è il Pane di vita che ci vien dato nella solitudine (Gv 6,58).
“Come il Padre, che vive, ha inviato me, ed io vivo per il Padre, così chi mangia
me, vivrà per me.”
La vita solitaria è quindi la vita di uno che il Padre ha tratto nel deserto ove non
sarà nutrito da altro cibo spirituale all’infuori di Gesù. Perché in Gesù il Padre si
dà a noi e ci nutre con la sua vita inesauribile. La vita di solitudine deve essere
quindi una continua comunione ed un continuo ringraziamento in cui
contempliamo per
fede tutto quello che passa nelle profondità di Dio e perdiamo il gusto per ogni
altra vita e per qualsiasi altro cibo spirituale.
Mi sembra anche che la vita solitaria realizzi il testo suddetto con l’abbandono
del salmista: “Io son misero e poverello, ma il Signore si prende cura di me” (Sal
139,18).

Viviamo in continua dipendenza da questa misericordiosa bontà del Padre, e così
tutta la nostra vita è una vita di gratitudine — una continua risposta al suo aiuto
che viene a noi in ogni momento. Penso che ciascuno lo scopra nella sua
vocazione, se è veramente la sua. La vita solitaria è una vita nella quale
rimettiamo a Dio le nostre preoccupazioni e godiamo soltanto dell’aiuto che da
Lui ci viene. Tutto quel ch’Egli fa è la nostra gioia. Riproduciamo in noi la sua
bontà mediante la gratitudine. (O meglio, la nostra gratitudine è il riflesso della
sua misericordia. È ciò che ci rende simili a Lui). La vita veramente solitaria
differisce completamente da quella solitudine parziale che possiamo godere di
tanto in tanto negli intervalli permessi dalle consuetudini sociali. Quando
riceviamo la nostra solitudine a periodi, ne gustiamo il valore per contrasto con
un altro valore. Quando viviamo veramente soli, non esiste contrasto. Non devo
andare nella solitudine per immobilizzare la mia vita, per ridurre ogni cosa a una
gelida concentrazione su qualche esperienza interiore. Allorché si alterna alla
vita comune, la solitudine può prendere questo carattere di una sosta, di un
momento di quiete, di un intervallo di concentrazione. Dove essa non è un
periodo, ma un tutto continuo, possiamo ben rinunciare e al senso di
concentrazione e alla quiete spirituale. Tutta la nostra vita può sfociare
nell’incontro dell’Essere e del Silenzio dei giorni in cui siamo immersi, e possiamo
operare la nostra salvezza con un’azione quieta e continua. È anche possibile che
nella solitudine ritorni agli inizi e riscopra il valore e la perfezione della semplice
preghiera vocale — e trovi maggior gioia in essa che nella contemplazione.
Così che il cenobita può avere un’alta contemplazione, mentre l’eremita ha
soltanto il suo Pater e la sua Ave Maria. In tal caso scelgo la vita di un eremita
nella quale vivo sempre in Dio, parlandogli con semplicità, piuttosto che una vita
discontinua sublimata da momenti di fuoco e di esaltazione.
Il solitario è necessariamente uno che fa quello che vuole. Difatti non ha niente
altro da fare. Ecco perché la sua vocazione è pericolosa e disprezzata insieme.
Pericolosa, perché, in effetti, deve diventare santo facendo quello che vuole,
invece di fare quello che non vorrebbe. È molto difficile essere santi facendo
quello che ci piace. Significa che ciò che ti piace è sempre volontà di Dio. Vuol
dunque dire che non può piacerti ciò che non è volontà di Dio e che Iddio stesso
coprirà i tuoi sbagli accettandoli in buona parte, come “sua volontà”.
Questa vocazione è grandemente disprezzata da quelli che hanno paura di fare
ciò che desiderano, ben sapendo che quel che desiderano non è volontà di Dio.
Ma il solitario deve essere un uomo che ha il coraggio di far la cosa che
maggiormente desidera in questo mondo — vivere in solitudine. Ciò richiede
umiltà eroica ed eroica speranza la folle speranza che Dio lo proteggerà contro se
stesso, che Dio lo ama tanto da accettare una tale scelta come se fosse fatta da
Lui. Questa speranza è un segno che la scelta della solitudine è una scelta che
viene da Dio. Che il desiderio di solitudine è probabilmente una vocazione divina,
che implica la grazia di piacere a Dio prendendo le nostre decisioni nella
umiliante incertezza di un perpetuo silenzio che mai approva o disapprova una
singola scelta da noi fatta.
Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che
non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il
luogo il cui silenzio ha generato una vita interiore a nessun altri nota fuori che a
Dio solo.
14. Preghi meglio quando lo specchio della tua anima è  vuoto di ogni immagine
all’infuori di quella del Padre invisibile. Questa immagine è la Sapienza del Padre,
il Verbo del Padre, Verbum spirans amorem, la gloria del Padre.
Glorifichiamo il Padre nella speranza, attraverso la oscurità della sua immagine
che esclude ogni altra somiglianza dall’anima nostra, facendoci vivere di una
pura amicizia e dipendenza dal Padre. Questa vita di dipendenza, perfezionata
nella fede pura, è la sola vita che si accorda con il nostro carattere sacramentale
di figli del Padre in Cristo.
Escludendo le immagini.
Soltanto il puro amore può svuotare perfettamente l’anima di ogni immagine
delle dose create ed elevarti al di sopra del desiderio. Nel disporci a ciò, non
dobbiamo intraprendere da noi stessi il vano compito di svuotarci di ogni
immagine: dobbiamo cominciare col sostituire le buone alle cattive, rinunciando
poi anche a quelle buone che sono inutili o che ci  portano inutilmente alla
passione e all’emozione. Il paesaggio è molto adatto a liberare da tutte queste
immagini, perché calma e pacifica la fantasia e le  emozioni e lascia libera la
volontà di cercare Iddio nella fede.
La delicata azione della grazia in un’anima viene profondamente disturbata da
qualsiasi violenza umana. La passione, quando è disordinata, fa violenza allo
spirito e la violenza più pericolosa è quella nella quale ci sembra di trovare la
pace. La violenza non è del tutto fatale se non quando cessa di disturbarci.
La pace prodotta dalla grazia è una stabilità spirituale troppo profonda per la
violenza — è incrollabile, a meno che non facciamo entrare la forza della passione
nel nostro santuario. L’emozione può turbare la superficie del nostro essere, ma
non ne muoverà le profondità se queste sono occupate e possedute dalla grazia.
La violenza spirituale è più pericolosa quando è più spirituale ossia meno
emotiva. La violenza che opera nelle profondità della volontà senza nessun
turbamento superficiale, rende schiavo tutto il nostro essere senza una lotta
apparente. Tale è la violenza del peccato deliberato e al quale non si resiste e che
sembra non essere violenza, ma pace.
Esiste anche una violenza del desiderio disordinato a cui si consente,
generalmente non peccaminosa, ma che impedisce l’opera della grazia e rende
più facile che per carità siamo tratti completamente al di fuori di noi. Un tale
consenso ci implica a fondo nelle decisioni della passione e può anche farlo col
pretesto del servizio di Dio. La più pericolosa violenza spirituale è quella che
trascina la nostra volontà con un falso entusiasmo che sembra venga da Dio, ma
che in realtà è ispirato dalla passione.
Parecchi dei nostri piani che ci sono più cari per la gloria di Dio non sono altro
che disordinate passioni travestite. E la prova se  ne ha nell’eccitazione che
producono. Il Dio della pace non è mai glorificato dalla violenza.
Vi è un solo genere di violenza che s’impadronisce del regno dei cieli — quella
violenza che impone pace alle profondità delle anime nel bel mezzo della
passione. Questa violenza è ordine in se stessa ed è prodotta in noi dall’autorità
e dalla voce del Dio della pace, che parla dal suo luogo santo.
Eppure nel santuario tu risiedi, lode d’Israele! (Sal 21,4).
15.
Non appena sei davvero solo, tu sei con Dio.
Alcuni vivono per Dio, alcuni con Dio, altri in Dio. Quelli che vivono per Dio, vivono in mezzo agli altri e nell’attività propria della
loro comunità. La loro vita è ciò che fanno. Quelli che vivono con Dio vivono
anche per Lui, ma non vivono in ciò che fanno per Lui, bensì in quello che essi
sono dinanzi a Lui. Loro vita è rifletterlo nella loro semplicità e nella perfezione
del suo essere che si riflette nella loro povertà.
Quelli che vivono in Dio non vivono con gli altri o in se stessi e ancor meno in ciò
che fanno, perché Egli compie in essi ogni cosa. Sedendo sotto questo stesso
albero posso vivere per Dio o con Lui o in Lui. Se  stessi scrivendo per Lui, non
basterebbe. Per vivere con Lui è necessario trattenersi di continuo dal parlare e
frenare il desiderio di comunicare con gli uomini, anche parlando di Dio.
Eppure non è difficile comunicare contemporaneamente con gli altri e con Lui, se
li troviamo in Lui. Vita solitaria — essenzialmente la più semplice. La vita comune
ci prepara a essa in quanto troviamo Dio nella semplicità di tale vita — poi lo
cercheremo di più e lo troveremo meglio nella maggior semplicità della
solitudine.
Ma se la nostra vita di comunità è assai complicata — (per colpa nostra) —
diventeremo certamente ancor più complicati nella solitudine.
Non fuggire alla solitudine dalla comunità. Trova prima Dio in comunità e poi Egli
ti condurrà alla solitudine.
Non si può comprendere il vero valore del silenzio  se non si ha un sincero
rispetto per la validità del linguaggio: perché nel silenzio ci si trova faccia a
faccia, senza nessun intermediario, con la realtà che si esprime nel linguaggio. E
non potremmo neppure trovarla in se stessa, vale a dire nel suo stesso silenzio,
se non vi siamo prima portati dal parlare.
Parole del Vangelo:
1. Gesù adempie le parole dei profeti (Gv 12,32) e  di Mosè in particolare (Gv
5,47),I suoi miracoli erano «parole» — essi non credettero alle sue parole. “Chi
ha creduto a quel che ha udito da noi?” (Is 53,1).  Le parole di Gesù
giudicheranno il mondo (Gv 12,41; Gv 15,22).
2. Le parole di Gesù sono le parole del Padre (Gv 12,49; Gv 17,8).
3. Le sue parole ci santificano (Gv 15,3).
4. Specialmente in quanto sono o implicano dei precetti che ci mantengono
nell’amor suo (Gv 15,10-11. 12) e ci portano attraverso Lui al Padre (Gv 17,6-
10). Parole nella Genesi (Gen 2,19-20). Adamo dà il nome agli animali (23). Dà il
nome alla donna (3,20). La chiama Eva. Parole in san Paolo. “Che il Verbo di
Cristo abiti in voi con pienezza”
(Col 3,16). Vedi la ragione per non mentire. Confronta la parabola del
seminatore. «Il seme è la parola di Dio» (Lc 8).
16.
Troviamo Iddio nel nostro essere che è lo specchio di Dio.
Ma come troviamo il nostro essere?
Le azioni sono le porte e le finestre dell’essere.  Se non agiamo, non abbiamo
nessun mezzo per conoscere ciò che siamo. E l’esperienza della nostra esistenza
è impossibile senza una qualche esperienza del conoscere e una qualche
esperienza dell’esperienza.
Non possiamo quindi scoprire le profondità del nostro essere rinunciando a ogni
attività.
Se rinunciamo all’attività spirituale, possiamo cadere in una certa oscurità e in
una certa pace, ma sono l’oscurità e la pace della carne. Sentiamo di esistere, ma l’essere di cui facciamo esperienza è l’essere carnale e se ci addormentiamo in
questa oscurità e ci innamoriamo della sua dolcezza, ci sveglieremo per compiere
le opere della carne.
Per scoprire il nostro essere spirituale dobbiamo quindi percorrere il sentiero
tracciato dalla nostra attività spirituale.
Ma quando operiamo secondo la grazia, i nostri atti non sono soltanto nostri,
appartengono a Dio. Se li seguiamo sino alla loro sorgente, diventeremo capaci in
potenza di una esperienza di Dio. Perché il suo agire in noi ci rivela il suo essere
in noi.
Tutto il vivere consiste nello spiritualizzare le nostre attività per mezzo
dell’umiltà e della fede, nell’imporre silenzio alla nostra natura per mezzo della
carità.
“Uscire da se stessi” vuol dire operare alla sommità del nostro essere, mossi non
dalla natura, ma da Dio, che è infinitamente al di sopra di noi e ciò nondimeno
dimora nelle profondità dell’anima nostra.
Riposarsi da ciò, ossia gustare il frutto di un tale atto — vuol dire riposare
nell’essere stesso di Dio al di sopra di noi. Dov’è il tuo tesoro ivi è anche il nostro
cuore.
Consideriamo allora che tutto il pregio (tesoro) dei nostri atti spirituali viene da
Dio e il nostro cuore riposa alla sorgente da cui promana tutto ciò che vi è di
buono in noi. Non possediamo il nostro essere in noi, ma soltanto in Colui dal
quale il nostro essere scaturisce. Per la fede trovo in Dio il mio vero essere.
Un atto perfetto di fede dovrebbe essere in pari tempo un perfetto atto di umiltà.
Iddio non dice i suoi più puri segreti a quelli che sono pronti a rivelarli.
Ha sì dei segreti che dice a quanti ne diranno qualche cosa agli altri. Ma tali
segreti sono proprietà comune di parecchi. Ne ha poi altri che non possono dirsi e
che il semplice desiderio di dirli ci rende incapaci di riceverli.
Il più grande dei segreti di Dio è Dio stesso.
Egli è pronto a comunicarsi a me in una maniera che io non potrò mai esprimere
ad altri e neppure pensare tra me con una certa coerenza. Devo desiderarlo nel
silenzio. Ed è per questo che devo lasciare tutte le cose.
17.
Il grande compito della vita solitaria è la gratitudine. L’eremita è uno che
conosce meglio degli altri la misericordia di Dio perché tutta la sua vita dipende
completamente, nel silenzio e nella speranza, dalla segreta bontà del nostro
Padre celeste.
Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose.
Per poter vivere con gioia in solitudine devo avere una conoscenza piena di
comprensione della bontà degli altri, una conoscenza piena di riverenza della
bontà di tutta la creazione ed una umile conoscenza del mio corpo e della mia
anima. Come potrò vivere in solitudine se non scorgo dovunque la bontà di Dio,
mio Creatore e Redentore e Padre di ogni bene?
Che cosa è che mi ha reso cattivo e odioso a me stesso? È la mia follia, la mia
cecità, che, per il peccato, mi ha posto contro la luce che Dio ha messo nella mia
anima perché sia riflesso della sua bontà e testimonianza della sua misericordia.
Scaccerò dunque il male dalla mia anima lottando contro la mia cecità? Non è
questo che Dio ha disposto per me. Basta che mi distolga dalla mia tenebra e
volti verso la luce. Non devo fuggire da me stesso: basta che mi ritrovi non come
mi sono fatto da me, per la mia sciocchezza, ma come mi ha fatto Lui nella sua sapienza e mi ha rifatto nella sua misericordia infinita. Perché è sua volontà che
il mio corpo e la mia anima siano il tempio del suo santo Spirito, che la mia vita
rifletta il fulgore del suo amore e tutto il mio essere riposi nella sua pace.
Allora lo conoscerò davvero, perché io sono in Lui ed Egli è realmente in me.
18.
I Salmi sono il vero giardino del solitario e le Scritture sono il suo Paradiso. Essi
gli rivelano i loro segreti perché egli, nella sua estrema povertà ed umiltà, non ha
null’altro di cui vivere se non dei loro frutti.
Per il vero solitario il leggere la Scrittura non è più un “esercizio” tra gli altri, un
mezzo di “coltivare” l’intelletto o “la vita spirituale” o di “apprezzare la liturgia”.
A chi legge la Scrittura in un modo accademico o da un punto di vista estetico o
puramente devozionale la Bibbia offre veramente un  gradito sollievo e buoni
pensieri. Ma per apprendere gl’intimi segreti della Scrittura dobbiamo fare di
essa il nostro pane veramente quotidiano, trovarvi Dio quando siamo in maggiore
necessità — e sempre allorché non riusciamo a trovarlo in nessun’altra parte e
non abbiamo dove cercarlo!
Nella solitudine ho finalmente scoperto che Tu, o mio Dio, hai desiderato l’amore
el mio cuore, l’amore del mio cuore così com’è — l’amore di un cuore di uomo. Ho
scoperto ed ho conosciuto, per tua grande misericordia, che ti piace tanto e attira
lo sguardo della tua pietà l’amore di un cuore di uomo fiducioso contrito povero,
e che è tuo desiderio e tua consolazione, o mio Signore, essere vicinissimo a chi
Ti ama e Ti invoca su di sé come suo Padre. Che Tu  non hai forse maggior
«consolazione» (se così posso dire) di quella di consolare i tuoi figli doloranti e
tutti coloro che vengono a Te poveri e con le mani  vuote, senz’altra cosa
all’infuori della loro umanità, della loro limitatezza e di una grande fiducia nella
tua misericordia.
Soltanto la solitudine mi ha insegnato che per piacerti non devo essere un dio o
un angelo, non devo divenire un puro spirito senza  sentimento e senza
imperfezioni umane perché Tu ascolti la mia voce.
Tu, per essere con me, per ascoltarmi, udirmi e rispondermi, non aspetti che io
diventi qualcosa di grande. Sono state la mia bassezza e la mia umanità che Ti
hanno spinto a rendermi uguale a Te, facendoti scendere fino al mio livello e
vivere in me per la tua sollecitudine misericordiosa.
E ora è tuo desiderio non che io Ti dia il ringraziamento e la lode che ricevi dai
tuoi angeli eccelsi, ma l’amore e la gratitudine che vengono da un cuore di
fanciullo, un figlio di donna, il tuo figlio.
Padre mio, so che mi hai chiamato a vivere solo con Te e ad apprendere che se
non fossi una semplice creatura umana, capace di ogni errore e di ogni male e
capace altresì di un affetto umanamente fragile e fluttuante nei tuoi riguardi, non
potrei essere tuo figlio. Tu desideri l’amore di un cuore d’uomo perché anche il
tuo Figlio divino Ti ama con cuore d’uomo ed Egli si è fatto uomo perché il mio
cuore ed il suo potessero amarti di un unico amore, che è un amore umano
nato e mosso dal tuo santo Spirito.
Allora, se non Ti amo con amore e semplicità di uomo e con l’umiltà di voler
essere me stesso, non gusterò mai tutta la dolcezza della tua paterna
misericordia, e il Figlio tuo, per quanto riguarda la mia vita, sarà morto invano.
È necessario che sia uomo e uomo rimanga perché la  Croce di Cristo non sia
vana. Gesù non è morto per gli angeli, ma per gli uomini. Ecco ciò che apprendo
dai Salmi nella solitudine, perché essi sono pieni  della semplicità umana di uomini come David, che conobbero Dio da uomini, e da uomini Lo amarono e
conobbero Lui, l’Unico vero Dio, che avrebbe mandato il suo Unigenito agli
uomini sotto sembianze umane perché essi, pur rimanendo uomini, potessero
amarlo con amore divino.
Ed è questo il mistero della nostra vocazione: non che cessiamo di essere uomini
per diventare angeli o dei, ma che l’amore del mio cuore di uomo possa diventare
amore di Dio per Dio e per gli uomini, e le mie lacrime umane possano cadere dai
miei occhi come lacrime di Dio, perché sgorganti dal moto del suo Spirito nel
cuore del suo Figlio incarnato. Ecco perché il dono della pietà cresce nella
solitudine, alimentato dai Salmi.
Quando si impara questo, l’amore che portiamo agli altri uomini si fa puro e forte.
Possiamo avvicinarci a essi senza vanità e senza compiacenza, amandoli con un
po’ della purità, delicatezza e segretezza che sono nell’amore di Dio per noi.
Ecco il vero frutto e il vero scopo della solitudine cristiana.

Pensieri nella solitudine (Thomas Merton )PARTE 2 DA 7 A12


7.
Quando il silenzio mi ha fatto libero, quando non sono più preso dalla valutazione
della vita, ma dal modo in cui viverla, riesco a scoprire una forma di preghiera
nella quale non vi è davvero alcuna distrazione. Tutta la mia vita diventa
preghiera. Tutto il mio silenzio è colmo di preghiera. Il mondo del silenzio in cui
mi trovo immerso contribuisce alla mia preghiera.
L’unificazione, che è opera della povertà nella solitudine, rimargina tutte le ferite
dell’anima e le risana. Finché rimaniamo poveri, finché siamo vuoti di tutto e non
ci interessiamo di altro all’infuori di Dio, non possiamo essere distratti. Perché la
nostra stessa povertà ci impedisce di «essere tratti da un’altra parte (distratti).
Se la luce che è in te è tenebra ... Supponiamo che la mia “povertà” sia una fame segreta di ricchezze spirituali:
supponiamo che pretendendo di svuotare me stesso, di essere silenzioso, non sto
in realtà facendo altro che tentare di adescare Iddio perché mi arricchisca di
qualche esperienza particolare — e che, allora? Tutto diventa in tal caso una
distrazione. Tutte le case create interferiscono con la mia ansia di qualche
esperienza particolare. Devo metterle alla porta, se no mi distrarranno. E quel
che è peggio — io stesso sono una distrazione. Ma, casa peggiore di tutte — se la
mia preghiera è incentrata su di me, se cerca soltanto un arricchimento del mio
essere, sarà la mia stessa preghiera la più grande distrazione in potenza. Pieno
della mia stessa curiosità, ho mangiato dell’albero della conoscenza e mi sono
distolto da me stesso e da Dio. Sono rimasto ricco e solo e nulla può Calmare la
mia fame: tutto quello che tocco si muta in una distrazione.
Che io cerchi allora il dono del silenzio, della povertà, della solitudine, dove tutto
quello che sfioro si muta in preghiera: dove il cielo è la mia preghiera, gli uccelli
sono la mia preghiera, il vento tra gli alberi è la mia preghiera, perché Dio è tutto
in tutto.
Perché ciò avvenga devo essere veramente povero. Non devo cercare nulla: ma
devo essere ben contento di tutto quello che ricevo da Dio.
La vera povertà è quella del povero che è felice di ricevere l’elemosina da
chiunque, ma specialmente da Dio. La falsa povertà  è quella di chi pretende di
possedere l’autosufficienza di un angelo. La vera povertà è quindi un ricevere ed
un ringraziare trattenendo per sé solo quello che si ha bisogno di consumare. La
falsa povertà pretende di non aver bisogno, di non  chiedere, si sforza di avere
tutto e rifiuta qualsiasi gratitudine.
8.
“Se dunque vi diranno: Eccolo nel deserto, non vi andate: eccolo nei luoghi più
nascosti (della casa), non credete. Perché come il  lampo esce dall’oriente e
guizza all’occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo” (Mt 24,26-28).
Cristo, che verrà improvvisamente alla fine dei tempi e nessuno può indovinare il
momento del suo arrivo — viene anche a coloro che sono suoi in ogni attimo del
tempo ed essi non sono in grado di vederlo o di indovinarne l’arrivo. Eppure dove
è Lui sono anche loro. Come aquile si radunano istintivamente non sapendo dove
e Lo trovano a ogni attimo.
Proprio come non vi è possibilità di dire con certezza dove e quando apparirà alla
fine del mondo, così non si può dire con certezza dove e quando si manifesterà
alle anime contemplative.
Vi sono parecchi che Lo hanno cercato nel deserto e non ve Lo hanno trovato e vi
sono molti che si sono nascosti con Lui come reclusi ed Egli si è a essi rifiutato.
Afferrarlo è facile come afferrare il lampo, e, al pari del lampo, Egli balena dove
vuole.
Tutti gli spiriti veramente contemplativi hanno questo in comune: non già che si
radunano esclusivamente nel deserto o che si chiudono in clausura, ma che dove
Egli è, sono anch’essi. E come Lo trovano? Con una tecnica? Non vi è un metodo
per trovarlo. Lo trovano nella sua volontà. E il suo volere, recando loro la sua
grazia e modellando all’esterno la loro vita, h porta infallibilmente al punto
preciso in cui possono trovarlo. Anche quando non sanno come vi sono arrivati o
cosa stiano realmente facendo.
Non appena uno è’ veramente disposto a essere solo con Dio, lo e dovunque si
trovi in campagna, nel monastero, nei boschi o in città. Il lampo balena da oriente a accidente, illuminando tutto l’orizzonte e guizzando dove vuole, e nello
stesso attimo la infinita libertà di Dio risplende  nelle profondità dell’anima
umana, ed essa ne è illuminata. Allora l’uomo vede che, pur essendo ancora alla
metà del cammino, è ormai giunto alla fine. Perché la vita di grazia sulla terra è
l’inizio della vita di gloria. Benché viaggiatore nel tempo i suoi occhi si sono
aperti, per un attimo, sull’eternità.
9.
È cosa più grande e preghiera migliore vivere in Colui che è infinito, e rallegrarsi
che sia così, anziché star sempre a lottare per racchiudere la sua infinità nello
stretto spazio del nostro cuore. Finché sono contento di conoscere che Egli è
infinitamente più grande di me e che non Lo posso conoscere se non mi si
mostra, avrò pace ed Egli sarà vicino a me e dentro di me, ed io avrò quiete in
Lui. Ma non appena desidero conoscerlo e goderlo per me, cerco di stendermi per
fargli violenza mentre Egli mi sfugge, e nel far ciò reco violenza a me stesso e
,ricado su di me nel dolore e nell’ansietà, riconoscendo ch’Egli è fuggito.
Nella vera preghiera, quantunque ogni attimo silenzioso rimanga lo stesso, pure
ogni momento è una nuova scoperta di un nuovo silenzio, una nuova
penetrazione in quella eternità nella quale tutte le cose sono sempre nuove.
Conosciamo, per una scoperta recente, la profonda realtà costituita dalla nostra
esistenza concreta hinc et nunc e nelle profondità di quella realtà riceviamo dal
Padre luce, verità, sapienza e pace. Sono questi i riflessi di Dio nelle anime nostre
fatte a sua immagine e somiglianza.
10.
Lascia che questa sia la mia sola consolazione: che dovunque io sono, Tu, o
Signore, sia amato e lodato.
Gli alberi invero Ti amano senza conoscerti. I gigli dei campi e i fiori del grano
sono là a proclamare che Tu li ami, senza essere consapevoli della tua presenza.
Le belle nuvole nere cavalcano lentamente per il cielo meditando su di Te come
fanciulli che non sanno che cosa sognano mentre giocano.
Ma in mezzo a tutte queste cose, io Ti conosco e sono consapevole della tua
presenza. In esse ed in me conosco l’amore che esse non conoscono e, quel che è
ancora più grande, mi vergogno per la presenza del  tuo amore in me. O amore
dolce e terribile, che Tu mi hai dato e che non potrebbe mai essere nel mio cuore
se Tu non mi amassi! Perché tra questi esseri che non Ti hanno mai offeso, io
sono da Te amato, e in apparenza più di tutti gli altri proprio perché Ti ho offeso.
Sono visto da Te sotto il cielo, e le mie offese sono state da Te dimenticate, ma io
non le ho dimenticate.
Chiedo soltanto una cosa: che il ricordo di esse non mi faccia temere di ricevere
nel mio cuore il dono dell’Amore che hai posto in me. Lo accoglierò perché ne
sono indegno. Nel far ciò Ti amerò sempre più e darò maggior gloria alla tua
misericordia.
Ricordando che sono stato un peccatore, voglio amarti malgrado quello che sono
stato, sapendo che il mio amore è prezioso perché è tuo, piuttosto che mio.
Prezioso ai tuoi occhi perché Viene dal Figlio tuo, ma ancor più prezioso perché
mi fa tuo figlio.
11.
Vocazione alla solitudine. Darsi, consegnarsi, affidarsi completamente al silenzio
di un vasto paesaggio di boschi e colline, o mare, o deserto: star fermo, mentre il
sole sale sulla terra e ne colma di luce i silenzi. Pregare e lavorare il mattino, lavorare e riposare il pomeriggio e fermarsi di nuovo a meditare alla sera quando
la notte cade su quel paesaggio e quando il silenzio si riempie di tenebra e di
stelle. Questa è una vocazione vera e speciale. Pochi sono disposti a immergersi
completamente in un tale silenzio, a lasciar che se ne impregnino le loro ossa, a
respirare solo silenzio, a nutrirsi di silenzio e a mutare la sostanza della loro vita
in un silenzio vivo e vigile.
Martire è chi ha preso una decisione così forte da  poter essere provata dalla
morte.
Solitario è chi ha preso una decisione così forte da poter essere provata dal
deserto: ossia dalla morte.
Perché il deserto e pieno di incertezza, di pericolo, di umiliazione e di timore, e il
solitario vive tutto il giorno di fronte alla morte.
È dunque evidente che il solitario è il fratello minore del martire. È lo stesso
Spirito Santo che prende la decisione di segregare in Cristo martiri e solitari.
La vocazione al martirio è carismatica e straordinaria. Così è anche in un certo
senso la vocazione alla solitudine.
Non si diventa martiri per un piano umano e non si diventa solitari per un nostro
disegno personale.
Persino il desiderio di solitudine dev’essere soprannaturale se si vuole che sia
effettivo e se è soprannaturale sarà probabilmente anche in contraddizione con
parecchi dei nostri piani e desideri. Possiamo sì studiare, prevedere e desiderare
il sentiero che ci porta al deserto, ma alla fine è Dio e non gli uomini che fa i
solitari.
Non importa se siamo chiamati alla vita di comunità o alla solitudine, la nostra
vocazione è quella di essere costruiti sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti,
e sulla pietra angolare, Cristo. Questo significa che siamo chiamati a compiere e
realizzare il grande mistero della potenza di Cristo in noi, di quella potenza che
Lo ha risuscitato dalla morte e che ci ha chiamato dagli estremi confini della terra
a vivere per il Padre in Lui. Qualunque sia la nostra vocazione, siamo chiamati a
essere testimoni e ministri della divina Misericordia.
Il solitario cristiano non cerca la solitudine soltanto come un’atmosfera o uno
stato propizio a una spiritualità speciale e superiore. E non la cerca neppure
come mezzo favorevole per ottenere quello che desidera la contemplazione. La
cerca come un’espressione del dono totale di se stesso a Dio. La sua solitudine
non è un mezzo per ottenere qualche cosa, ma un dono di sé. Come tale può
implicare rinuncia e disprezzo del «mondo» nel senso peggiorativo. Non è mai
una rinuncia alla comunità cristiana. Può invero esprimere la convinzione del
solitario di non essere abbastanza buono per la maggior parte delle pratiche
esteriori della comunità, la convinzione che suo compito è quello di adempiere
qualche funzione segreta nella cantina spirituale della comunità.
12.
La vita solitaria è soprattutto una vita di preghiera.
Non preghiamo per pregare, ma per essere ascoltati. Non preghiamo per udirci
pregare, ma perché Dio possa ascoltarci e risponderci. E anche non preghiamo
per ricevere una risposta qualsiasi: dev’essere la risposta di Dio.
Quindi un solitario sarà un uomo sempre in preghiera, sempre intento a Dio,
sempre sollecito della purezza di questa sua preghiera, attento a non sostituire le
sue risposte a quelle di Dio, attento a non fare della preghiera fine a se stessa,
attento a mantenerla segreta, semplice e pura. Così facendo può misericordiosamente dimenticare che la sua «perfezione» dipende dalla sua
preghiera: può dimenticare se stesso e la vita in attesa delle risposte di Dio.
Mi sembra che ciò non sia del tutto comprensibile se dimentichiamo che la vita di
preghiera si fonda sulla preghiera di supplica — qualunque sia, più tardi, il suo
sviluppo.
Lungi dal distruggere la purità della preghiera solitaria, la supplica ne conserva e
difende la purezza. Il solitario, più di ogni altro, è sempre consapevole della sua
povertà e dei suoi bisogni di fronte a Dio. Siccome dipende direttamente da Dio
per ogni cosa materiale e spirituale, deve tutto chiedere. La sua preghiera è
espressione della sua povertà. La domanda, per lui, può difficilmente diventare
una pura formalità, una concessione che si fa a consuetudini umane, come se non
avesse bisogno di Dio in tutto.
Il solitario, essendo uomo di preghiera, arriverà a conoscere Dio, riconoscendo
che la sua preghiera è sempre esaudita. Di lì può procedere, se Dio vuole, alla
contemplazione.
La gratitudine è quindi il cuore della vita solitaria come lo è della vita cristiana.
Dal primo giorno passato nella solitudine, l’eremita dovrebbe applicarsi a
comprendere come deve affliggere tutto il suo essere con lacrime e desideri di
fronte a Dio. Allora sarà come Daniele a cui l’Angelo portò la risposta di Dio (cf.
Dn 10,12): “Non temere, Daniele: perché dal primo giorno che, per ottenere
intelligenza, ti sei messo in cuore di darti alla penitenza nel cospetto del tuo Dia,
le tue parole sono state esaudite ...”
Qualità della preghiera:
1. Una fede incrollabile (Mt 21,21; Gc 1,6), che dipende dalla “semplicità” di
cuore e di intenzione.
2. Una fiducia perseverante (Lc 11).

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)SECONDA PARTE DA 1 A 6


Parte seconda
L’amore della solitudine
1.
Vivere nella solitudine e cercarla non vuol dire spostarsi continuamente da una
possibilità geografica a un’altra. Si diventa solitari nel momento preciso in cui,
non importa quale sia l’ambiente che ci circonda, si ha l’improvvisa percezione
della propria inalienabile solitudine e si vede che non si vuol essere mai altro che
un solitario. Da quell’istante la solitudine non è più in potenza — ma in atto. Però
la solitudine attuale ci pone sempre direttamente di fronte a una possibilità
irrealizzata e anche irrealizzabile di “solitudine  perfetta”. Ma questo bisogna
capirlo nel giusto senso: perché se cerchiamo con troppa ansietà di realizzare la
possibilità materiale di una maggior solitudine esteriore, che sembra sempre al di
là della nostra portata, perdiamo quella solitudine attuale che già possediamo.
Essa ha, come uno dei suoi elementi costitutivi, proprio la insoddisfazione e la
incertezza che derivano dal trovarsi faccia a faccia con una possibilità
irrealizzabile. Non è una folle ricerca di possibilità — è l’umile acquiescenza che si
stabilizza nella presenza di una realtà sconfinata, in un senso già posseduta, e in
un altro, pura «possibilità» — oggetto di speranza.
Soltanto quando muore e va in cielo, il solitario vede chiaramente che questa
possibilità era già attuata nella sua vita ed egli  non lo sapeva — perché la sua solitudine consisteva soprattutto nel “possibile” possesso di Dio e di nient’altro
che Dio, nella pura speranza.
2.
Mio Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada
che mi è davanti. Non posso sapere con certezza dove andrà a finire. E non
conosco neppure davvero me stesso, e il fatto che penso di seguire la tua volontà
non significa che lo stia davvero facendo. Ma sono  convinto che il desiderio di
piacerti, in realtà ti piaccia. E spero di averlo in tutte le cose. Spero di non far mai
nulla senza un tale desiderio. E so che se agirò così la tua volontà mi condurrà
per la giusta via, quantunque possa non saperne nulla. Però avrò sempre fiducia
in Te per quanto mi possa sembrare di essere perduto e avvolto dall’ombra di
morte. Non avrò paura, perché Tu sei sempre con me e non mi lascerai mai solo
di fronte ai pericoli.
3.
Nell’età nostra tutto deve costituire un «problema». Il nostro è un tempo di
ansietà perché siamo stati noi a volerlo così. L’ansietà non ci viene imposta da
una, forza che sia al di fuori di noi: siamo noi che dal nostro intimo la imponiamo
al nostro mondo e agli altri.
In una età come questa la santità significa senza dubbio un passaggio dal
dominio dell’ansietà a quello in cui non vi è ansietà, oppure può voler dire
imparare da Dio a esser privi di ansietà pur vivendo in mezzo a essa.
Sostanzialmente, come nota Max Picard, si giunge probabilmente a questo:
vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi in
modo tale, che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (dal Mondo
del silenzio).
Le contraddizioni sono sempre esistite nell’animo umano. Ma soltanto quando
preferiamo l’analisi al silenzio divengono un problema continuo e insolubile. Non
dobbiamo risolverle tutte, ma vivere con esse, innalzarci al disopra di esse e
vederle nella luce di valori esterni e oggettivi che, al confronto, li rendono banali.
Il silenzio allora fa parte della sostanza stessa della santità. Nel silenzio e nella
speranza si foggia la forza dei Santi (Is 30,15).
Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine.
Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già
e che potevo averla sempre posseduta. Eppure costituiva ancora un problema
perché sapevo dopo tutto che una solitudine puramente soggettiva ed interiore,
frutto di uno sforzo di interiorizzazione, non sarebbe mai bastata. La solitudine
deve essere oggettiva e concreta: bisogna che sia una comunione con qualche
cosa di più grande del mondo, grande come l’Essere  stesso, in modo da poter
trovare Dio nella sua pace profonda.
Mettiamo parole fra noi e le cose. Persino Iddio è  diventato un’altra irrealtà
concettuale in quella terra di nessuno che è il linguaggio, che non serve più come
mezzo di comunicazione con la realtà. La vita solitaria, essendo silenziosa,
dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose.
Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose.
Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di
paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e
questo silenzio è legato all’amore. Il mondo che le nostre parole hanno tentato di
classificare, di controllare e persino di disprezzare (perché non riuscivano a circoscriverlo), si fa presso di noi, perché il silenzio ci insegna a conoscere la
realtà rispettandola là dove le parole l’hanno disonorata.
Quando abbiamo vissuto abbastanza a lungo con la realtà che ci circonda, la
nostra venerazione ci insegnerà come trarre dal silenzio, che è la madre della
Verità, parecchie parole su di essa.
Le parole stanno tra silenzio e silenzio: tra il silenzio delle cose e quello del
nostro essere. Tra il silenzio del mondo e il silenzio di Dio. Quando davvero
incontriamo e conosciamo il mondo nel silenzio, le parole non ci separano più dal
mondo e dagli uomini, e neppure da Dio, né da noi stessi perché non ci fidiamo
più completamente del linguaggio per esprimere la realtà.
La Verità si leva dal silenzio dell’essere di fronte alla quieta e terribile presenza
della Parola. Allora, rituffandosi di nuovo nel silenzio, la verità delle parole ci
lancia nel silenzio di Dio.
O piuttosto Dio si leva dal mare come un tesoro nelle onde, e quando il
linguaggio cessa, lo splendore divino rimane sul lido del nostro essere.
4.
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si
deve vivere e incomincia a vivere. Cosi, se uno e chiamato alla vita solitaria,
cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace
soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato a una vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno
al modo di vivere e dimentica di vivere. Quando non si vive la propria vera
vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce a essa, o si sottomette a
essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza.
Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola.
Supponiamo che uno abbia trovato la sua completezza nella sua vera vocazione.
Ora tutto è unitario, in ordine, nella pace. Ora il lavoro non interferisce più con la
preghiera, né la preghiera con il lavoro. Ora la contemplazione non deve essere
più uno «stato» particolare che rimuove dalle ordinarie occupazioni che lo
circondano, perché Dio penetra ogni cosa. Non si deve più rendere conto di se
stessi ad altri che a Dio.
5.
È necessario che troviamo il silenzio di Dio non solo in noi stessi, ma anche l’uno
nell’altro. Se gli altri non ci parlano con parole  che scaturiscono da Dio e
comunicano con il silenzio di Dio che e nelle anime nostre, rimaniamo isolati nel
nostro stesso silenzio, da cui Dio tende a sottrarsi. Perché il silenzio interiore
dipende da una continua ricerca, da un grido incessante nella notte, da un
ripetuto chinarsi sull’abisso. Se ci attacchiamo a un silenzio che pensiamo di aver
trovato per sempre, desistiamo dalla ricerca di Dio ed il silenzio muore in noi. Un
silenzio in cui non si cerca più Iddio cessa dal parlarci di Lui. Un silenzio da cui
Dio non sembra assente, minaccia pericolosamente la sua continua presenza.
Perché Lo si trova quando Lo si cerca e quando non Lo cerchiamo più ci sfugge.
Lo si ode solo quando si spera di sentirlo, e se cessiamo di ascoltarlo, credendo
che la nostra speranza sia stata realizzata, Egli non parla più; il suo silenzio non
è più vita, ma diviene morte, anche se lo ricarichiamo con l’eco del nostro
strepito emotivo.
6.
Signore, non è orgoglioso il mio cuore (Sal 130,1).Tanto l’orgoglio quanto l’umiltà cercano il silenzio interiore. L’orgoglio tenta di
imitare il silenzio di Dio con una forzata immobilità. Ma il silenzio di Dio è la
perfezione della Vita Pura ed il silenzio dell’orgoglio è silenzio di morte.
L’umiltà cerca il silenzio non dell’inattività, ma  dell’attività ordinata, in  quella
che è più consona alla nostra povertà e alla nostra miseria di fronte a Dio.
L’umiltà va a pregare e trova il silenzio per mezzo delle parole: ma siccome è per
noi naturale passare dalle parole al silenzio e dal silenzio alle parole, l’umiltà è
silenziosa in tutto. Anche quando parla, l’umiltà ascolta. Le sue parole sono così
semplici, gentili e povere che giungono senza sforzo al silenzio di Dio. Infatti ne
sono l’eco, e non appena vengono pronunciate, il suo silenzio e già in esse
presente.
L’orgoglio teme di uscire da se stesso per paura di perdere ciò che ha prodotto
dentro di sé. Il suo silenzio e quindi minacciato dagli atti caritatevoli. Siccome
invece l’umiltà non trova niente in se stessa (perché umiltà è il suo stesso
silenzio), non può perdere pace e silenzio uscendo da se stessa per ascoltare gli
altri o per parlare loro per amore di Dio. In tutte le cose l’umiltà è silenziosa e
quieta e perfino il suo lavoro è riposo. In omnibus requiem quaesivi. Non è il
parlare che rompe il nostro silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole
dell’orgoglioso impongono silenzio agli altri in modo che si possa udire solo la
sua voce. L’umile parla solamente perché gli si parli. Non chiede altro che una
elemosina, poi aspetta e ascolta.
Il silenzio e ordinato alla ricapitolazione finale che si farà in parole di tutto ciò
per cui si è vissuto. Riceviamo Cristo ascoltandolo nella parola della fede. Ci
costruiamo la nostra salvezza nel silenzio e nella  speranza, ma presto o tardi
viene il momento di dover confessare Dio apertamente di fronte agli uomini e poi
dinanzi a tutti gli abitanti del cielo e della terra.
Se la nostra vita si è effusa in parole inutili, non ascolteremo nulla, non
diverremo nulla, e alla fine, siccome avremo detto  tutto prima di aver qualche
cosa da dire, rimarremo senza parole al momento della nostra più grande
decisione.
Ma il silenzio è ordinato alla dichiarazione finale. Non è fine a se stesso. Tutta la
nostra vita è una meditazione della nostra ultima decisione la sola che importi. E
meditiamo in silenzio. Eppure in certo senso abbiamo l’obbligo di parlare agli
altri, di aiutarli a veder il modo di prendere le loro decisioni, di insegnare loro
Cristo. E nel far ciò, proprio le nostre parole insegnano a essi un nuovo silenzio: il
silenzio della Resurrezione. In questo silenzio si formano e si preparano in modo
da pater dire anch’essi quanto hanno udito: Io ebbi fede, perciò parlai (Sal
115,1).

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)DA 13 A 19...



13.
Il più povero in una comunità religiosa non è necessariamente chi ha in uso il
minor numero di oggetti. La povertà non è semplicemente questione di non
possedere «le cose». È un’attitudine dell’animo che ci porta a rinunciare ad
alcuni dei vantaggi che derivano a noi dall’uso delle cose. Uno può non possedere
nulla, ma attribuire una grande importanza alla soddisfazione personale e al
gusto che trae da cose che sono comuni a tutti — il canto in coro, i sermoni in
capitolo, la lettura in refettorio — il tempo libero, il tempo degli altri ...
Spesso il più povero in una comunità è quello che è a disposizione di tutti. Tutti
se ne possono servire, ed egli non si prende mai il tempo per fare qualche cosa
per se stesso.
Povertà — può riguardare cose come la nostra opinione, il nostro “stile”, tutto ciò
che tende ad affermarci come diversi dagli altri, come superiori agli altri in
maniera tale che prendiamo soddisfazione da queste particolarità e le trattiamo
come «cose nostre». La “povertà” non dovrebbe mai renderci particolari.
L’eccentrico non è un povero in spirito.
Persino l’attitudine ad aiutare gli altri e a dar loro il nostro tempo e tutto ciò che
abbiamo può venir «posseduta» con attaccamento, se con tali atti c’imponiamo sugli altri e ce li rendiamo debitori. In tal caso cerchiamo infatti di comprarli e di
impadronircene per mezzo dei favori che a essi facciamo.
Chi di noi, o Signore, può parlare di povertà senza vergognarsi? Noi che abbiamo
fatto voto di povertà in monastero, siamo poveri davvero? Sappiamo che cosa sia
amare la povertà? Ci siamo mai fermati per un momento a pensare perché si
debba amare la povertà?
Eppure, o Signore, Tu sei venuto nel mondo per esser povero tra i poveri, perché
è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel
Regno dei cieli. E noi, con i nostri voti, ci accontentiamo del fatto che di fronte
alla legge non possediamo nulla e che per tutto quello che abbiamo dobbiamo
chiedere il permesso di un altro?
La povertà è questa? Può un tale che ha perduto il  suo impiego e che non ha
denaro con cui pagare i suoi debiti, e che vede la moglie e i figli diventare sempre
più scarni e che sente il timore e l’angoscia rodergli il cuore — può egli ottenere
le cose delle quali ha disperatamente bisogno, semplicemente chiedendole? Che
provi a farlo. Eppure noi, che possiamo avere tante cose delle quali non abbiamo
bisogno, e tante altre che è scandaloso da parte nostra possedere — noi, siamo
poveri, perché le abbiamo e c’è permesso di averle.
La povertà significa bisogno. Fare voto di povertà e non mancare mai di nulla, e
mai aver bisogno di qualche cosa senza averla, vuol dire tentare di farci beffe del
Dio Vivente.
14.
Leggere dovrebbe essere un atto di omaggio al Dio di ogni verità.
Apriamo il cuore a parole che riflettono la realtà che Egli ha creato o la realtà più
grande che è Egli stesso. Leggere è anche un atto di umiltà e di riverenza nei
confronti di altri che sono gli strumenti per mezzo dei quali Iddio ci comunica la
sua verità.
La lettura dà maggior gloria a Dio quando ne ricaviamo un profitto maggiore,
quando è un atto profondamente vitale non soltanto della nostra intelligenza, ma
di tutta la nostra personalità assorbita e ristorata nel pensare, nel meditare, nel
pregare, o anche nel contemplare Dio.
I libri possono parlarci come Dio, come gli uomini o come il rumore della città
nella quale viviamo. Ci parlano come Dio quando ci  recano luce e pace e ci
colmano di silenzio. Ci parlano come Dio quando desideriamo di non lasciarli mai.
Ci parlano come gli uomini allorché desideriamo di ascoltarli di nuovo. Ci parlano
come il frastuono della città quando ci tengono prigionieri con una noia che non
ci dice nulla, non ci danno pace, né conforto, nulla da ricordare, eppure non ci
lasciano andare.
I libri che ci parlano come Dio lo fanno con troppa autorità per divertirci: quelli
che ci parlano come gli uomini ci avvincono con il loro interesse umano: finiamo
col trovarvi noi stessi. Ci insegnano a conoscerci  meglio, riconoscendoci negli
altri. I libri che ci parlano come il chiasso della folla ci riducono alla disperazione
con il puro peso della loro vacuità. Ci intrattengono come le luci nelle vie della
città, la notte, con speranze che non possono appagare. Per quanto grandi e per
quanto amici possano essere, i libri non sostituiscono le persone, ma sono
soltanto mezzi di contatto con grandi personalità,  con uomini che posseggono
una parte maggiore di umanità di quella che a essi  compete, uomini che sono
personalità nei confronti del mondo intero e non soltanto di se stessi. Non sono le idee e le parole che nutrono l’intelligenza, ma la verità. E non una verità astratta.
La Verità che un uomo spirituale ricerca è la Verità tutta intera che comprende
realtà, esistenza ed essenza, qualche cosa che si può abbracciare e amare,
qualche cosa che può ricevere l’omaggio e il dono delle nostre azioni: più che una
cosa: si tratta di persone, anzi di una Persona. Colui che è al di sopra di tutto, la
cui essenza è esistere: Dio.
Cristo, il Verbo Incarnato, è il Libro della vita in cui leggiamo Iddio.
15.
L’umiltà è una virtù, non una neurosi.
Ci rende liberi di agire virtuosamente, di servire Iddio, e di conoscerlo. Quindi la
vera umiltà non può mai proibirci un’azione davvero virtuosa e non può neppure
impedirci di completare noi stessi compiendo la volontà di Dio.
L’umiltà ci rende liberi di fare ciò che è veramente buono, mostrandoci le nostre
illusioni e distogliendo il nostro volere da ciò che è un bene soltanto apparente.
Una umiltà che agghiaccia il nostro essere e frustra ogni sana forma di attività
non è affatto umiltà, ma solo una forma di orgoglio travestito che sovverte le
radici della vita spirituale e ci rende impossibile il darci a Dio.
Signore, Tu ci hai insegnato ad amare l’umiltà, ma  non lo abbiamo imparato.
Abbiamo imparato soltanto ad amare l’apparenza esteriore dell’umiltà —
quell’umiltà che rende simpatici e attraenti. Talvolta ci soffermiamo a riflettere
su queste qualità, e spesso pretendiamo di possederle e di averle acquistate con
“la pratica dell’umiltà”. Se fossimo veramente umili, conosceremmo fino a qual
punto siamo bugiardi!
Insegnami a sopportare una umiltà che mi mostri incessantemente che sono un
bugiardo ed un mentitore e che, pur essendo tale, ho l’obbligo di lottare per
giungere alla verità, per essere quanto più posso sincero, anche se troverò
inevitabilmente che tutta la mia verità è avvelenata dall’inganno. Ecco il terribile
dell’umiltà: non ha mai pieno successo. Se fosse almeno possibile essere davvero
umili su questa terra. Ma no, ecco il guaio. Tu, o Signore, sei stato umile. Ma la
nostra umiltà consiste nell’essere orgogliosi e nel saperlo bene, e nell’essere
schiacciati da questo peso insopportabile e nel poter fare tanto poco per
liberarcene.
Come sei severo nella tua misericordia, eppure devi esserlo. La tua misericordia
dev’essere giusta perché la tua verità dev’essere vera. Eppure, come sei severo
nella tua misericordia: perché più lottiamo per essere sinceri, più scopriamo la
nostra falsità. È misericordioso da parte della tua; luce di portarci,
inesorabilmente, alla disperazione No — non è alla disperazione che Tu mi porti,
ma all’umiltà. Perché l’umiltà vera è in certo senso una reale disperazione:
dispero di me stesso per pater porre soltanto in Te tutta la mia speranza. Chi può
sopportare di cadere in una tale oscurità?
16.
Le campane vogliono ricordarci che Dio solo è buono, che noi gli apparteniamo e
che non viviamo per questo mondo. Irrompono nel mezzo delle nostre
occupazioni per ricordarci che tutte le cose passano e che le nostre ansietà non
hanno importanza. Ci parlano della nostra libertà, che le responsabilità e le cure
transeunti ci fanno dimenticare.
Sono la voce della nostra alleanza con il Dio del Cielo.
Ci dicono che noi siamo il suo vero tempio. Ci invitano alla pace con Lui e con noi
stessi. Al termine della benedizione della campana di una chiesa si legge il Vangelo di
Marta e Maria per ricordarci tutto questo. Le campane dicono: gli affari non
hanno importanza. Riposa in Dio ed esulta, perché questo mondo è soltanto
figura e promessa di un mondo avvenire, e soltanto  chi è distaccato dalle cose
transeunti può possedere la sostanza di una eterna promessa.
Le campane dicono: abbiamo parlato per secoli dalle torri delle grandi chiese.
Abbiamo parlato ai santi, ai vostri padri, nelle loro terre. Li abbiamo chiamati alla
santità così come ora chiamiamo voi. Qual è la parola con cui li abbiamo
chiamati?
Non abbiamo detto semplicemente:”Sii buono, vieni alla chiesa” E neppure
soltanto: “Osserva i comandamenti”, ma soprattutto: “Cristo è risorto! Cristo è
risorto!” E abbiamo detto: “Vieni con noi, Dio è buono; salvarsi non è difficile, il
suo amore lo ha reso facile.” E questo nostro messaggio è stato sempre rivolto a
tutti, a chi è venuto e a chi non è venuto, perché il nostro canto è perfetto come è
perfetto il Padre che è nei cieli e noi riversiamo la nostra carità su tutti.
17.
Per Adamo nel Paradiso si rese necessario dare un nome agli animali.
E così anche noi bisogna che diamo un nome alle cose che condividono il nostro
silenzio, non per violarne l’intimità e disturbarne il silenzio pensando a esse, ma
per far sì che il silenzio nel quale dimorano e che in esse dimora, possa essere
concretizzato e definito per quel che è. Le cose immerse nel silenzio lo rendono
reale, perché esso si identifica con il loro essere. Dare un nome a questo essere
vuol dire darlo al silenzio. E quindi dovrebbe essere un atto di riverenza.
( Le benedizioni le rendono maggiormente degne di rispetto).
La preghiera conosce delle parole di omaggio per gli esseri in Dio. La magia fa
uso di parole per violare il silenzio e la santità degli esseri trattandoli come se
fosse possibile strapparli a Dio, possederli e vilmente abusarne, proprio in
cospetto del silenziò divino. La magia insulta un tale silenzio presentandolo come
la maschera di un intruso, di un potere maligno che usurpa il trono di Dio e si
sostituisce alla sua presenza. Ma che cosa può mai  sostituirsi a “Colui che è”?
Soltanto chi non è può pretendere di usurparne il posto. E facendolo non fa altro
che affermarlo ancora più chiaramente perché se si  sopprime il non dalla frase
«non è» non resta altro che “è”.
Nel silenzio di Dio abbiamo vinto la magia riuscendo a vedere attraverso ciò che
non è, e convincendoci che “Colui che è” ci è più vicino di “chi non è” e tenta in
ogni attimo di porsi tra noi stessi e Lui. La sua presenza è presente nella mia
stessa presenza. Se io sono, allora Egli “è”. E nel conoscere che sono, se penetro
nelle profondità della mia stessa esistenza e della mia realtà attuale, quel “sono”
indefinibile che costituisce la mia essenza nelle sue più profonde radici, allora
attraverso questo centro profondo, passo nell’infinito “Io sono” che è il vero
nome dell’Onnipotente.
La conoscenza che ho di me stesso nel silenzio (non riflettendo su di me, ma
penetrando nel mistero del mio essere che sorpassa parole e concetti perché è
del tutto particolare) sfocia nel silenzio e nella “soggettività” dell’essere stesso
di Dio.
La grazia di Cristo mi identifica con la “Parola inculcata” (insitum verbum) che è
Cristo vivente in me. Vivit in me Christus. L’identificazione attuata dall’amore conduce alla conoscenza, al riconoscimento,
intimo e oscuro, ma rivestito di una inesprimibile  certezza, nota solo nella
contemplazione.
Quando «conosciamo» (nella oscura certezza della fede illuminata da una
comprensione spirituale) che siamo figli di Dio nel suo unico Figlio, allora
sperimentiamo qualche cosa del grande mistero del nostro essere in Dio e
dell’essere Dio in noi. Perché afferriamo, senza sapere come, la terribile e
mirabile verità che Dio, chinandosi sull’abisso del suo inesauribile essere, ci ha
tratto fuori da se stesso, ci ha rivestito della luce della sua Verità, ci ha purificato
nel fuoco del suo amore, ci ha fatto, per la potenza della Croce, una cosa sola con
il suo Figlio Unigenito. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen
1,26); “Dal mio seno ti generai prima dell’aurora.” (Sal 109,3).
O gran Dio, Padre di tutte le cose, la cui luce infinita è per me tenebra, la cui
immensità è per me come il vuoto, Tu mi hai chiamato alla vita traendomi da Te
perché Tu in Te mi ami ed io sono una espressione transeunte della tua realtà
inesauribile ed eterna. Non potrei conoscerti, sarei perduto in questa tenebra,
cadrei lontano da Te in questo vuoto se Tu non mi tenessi per Te nel Cuore del
tuo Figlio Unigenito.
Padre, amo Te che non conosco, Ti abbraccio pur senza vederti, mi abbandono a
Te che ho offeso, perché Tu ami in me il tuo Figlio Unigenito.
Tu lo vedi in me, lo abbracci in me perché Egli ha  voluto identificarsi
completamente con me per mezzo di quell’amore che lo ha portato a morire per
me sulla Croce.
Vengo a Te come Giacobbe nelle vesti di Esaù, ossia nei meriti e nel prezioso
Sangue di Gesù Cristo. E Tu, o Padre, che hai voluto essere come cieco nella
oscurità di questo grande mistero che è la rivelazione del tuo amore, passi la tua
mano sui mio capo e mi benedici come il tuo Unigenito. Tu hai voluto vedermi
soltanto in Lui, ma nel decidere così hai voluto vedermi più realmente di quanto
io non sia. Perché il mio stato di peccatore non è quello mio vero, non è quello
che Tu hai voluto per me, ma solo quello che ho scelto liberamente. Ma ora,
Padre, io non lo voglio più questo falso io, vengo a Te nella persona stessa del
Figlio tuo, perché è il suo Sacro Cuore che ha preso possesso di me, ha distrutto i
miei peccati, ed è Lui che mi presenta a Te. E dove? Nel santuario del suo stesso
Cuore, che è il tuo palazzo ed il tempio ove i santi Ti adorano in cielo.
18.
È necessario dare un nome a Colui il cui silenzio io condivido e adoro, perché è
nel suo silenzio che Egli pronuncia il mio nome. Egli solo conosce il mio nome, nel
quale anch’io conosco il suo. Perché nell’istante in cui mi chiama «figlio mio», ho
la percezione di Lui come “Padre mio”. Questo riconoscimento è in me un atto, in
Lui una Persona. L’atto in me è il movimento della sua Persona, del suo Spirito,
del suo Amore in me. Quando Egli agisce sono io che agisco con Lui e sono quindi
anch’io ad agire. E nel mio muovermi ho contemporaneamente la percezione “che
sono” e grido: “Abba, Padre”.
Ma siccome non sono il padre mio, è inutile che cerchi di risvegliare questa
nozione di Lui, chiamandomi «figlio» in seno al mio silenzio. Quando grida a se
stessa, la mia voce è soltanto capace di suscitare una morta eco. Non esisterà in
me alcun risveglio se non sono chiamato fuori dalla tenebra da Colui che è la mia
luce. Soltanto Colui che è Vita è capace di suscitare dalla morte. E se non mi
chiama io rimango morto ed il mio silenzio è quello della morte.  Non appena pronuncia il mio nome, il mio silenzio è il silenzio della vita infinita e
so di essere perché il mio cuore si è aperto al Padre mio nell’eco degli anni eterni.
La mia vita è un ascoltare, la sua un parlare. La salvezza sta per me nell’ascoltare
e nel rispondere. Per questo la mia vita dev’essere silenziosa. Il mio silenzio è
quindi la mia salvezza. Il sacrificio che piace a Dio è l’offerta della mia anima – e
di quella degli altri.
L’anima Gli viene offerta quando Gli è completamente attenta. Il mio silenzio, che
mi distoglie dalle altre cose, è quindi il sacrificio di tutte le cose e l’offerta della
mia anima a Dio. Per questo è il sacrificio più gradito che posso fargli. Se riesco a
insegnare agli altri a vivere in questo stesso silenzio, offro a Lui un sacrificio
ancora più accetto. La conoscenza di Dio vale più che gli olocausti (Os 6,6).
Il silenzio interiore è impossibile senza misericordia e senza umiltà.
Differenza tra una vocazione ed una categoria. Quelli che realizzano la loro
vocazione alla santità — o che la stanno realizzando — sono per questo semplice
fatto incatalogabili: non rientrano in nessuna categoria. Se, per parlarne, ricorri a
una categoria, bisogna che spieghi immediatamente la tua affermazione come se
essi appartenessero a categorie completamente diverse. In realtà non rientrano
in nessuna categoria, sono propriamente se stessi,  e per questo non sono
giudicati degni di grande amore e rispetto agli occhi degli uomini, perché la loro
individualità è un segno che sono grandemente amati da Dio e che Egli solo
conosce il loro segreto, troppo prezioso per essere, rivelato agli uomini.
Quel che veneriamo nei Santi al di là e al di sopra di quello che sappiamo, é
questo segreto; il mistero di una innocenza e di una identità perfettamente
nascoste in Dio.
19.
“La fine di tutto il discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi
comandamenti: perché tutto l’uomo sta qui” (Eccl 12,13). E la sapienza di Dio,
che tutte le cose precede, chi mai la scrutò? ... La pienezza della sapienza è
temere Iddio, e soddisfazione piena si ritrae dai suoi frutti ...
Corona della sapienza è il timore del Signore, che fa fiorire la pace e il frutto della
salvezza ...
Figliuolo, desideri la sapienza? Osserva i comandamenti, e Dio te la darà ... (Eccl.
1,3. 20. 22. 23).
Nelle profondità del nostro essere è Dio che impera e vive. Ma non lo troviamo
scoprendo semplicemente il nostro essere.
Quando ci comanda di vivere, ci ingiunge anche di vivere in una determinata
maniera. Suo decreto non è soltanto che viviamo in un modo qualunque, ma che
viviamo bene e diventiamo infine perfetti vivendo in Lui. Per questo ci ha posto
nelle profondità dell’essere la luce della coscienza che ci dice la legge della vita.
La vita non è vita se non si conforma a questa legge che è la volontà di Dio.
Vivere a questa luce è tutto per l’uomo perché in tal modo egli giunge a vivere in
Dia e per Lui. Estinguere la luce della coscienza con atti contrari a questa legge
significa tradire la natura umana. Ci rende insinceri verso noi stessi, e fa di Dio
un bugiardo: ogni peccato ha questa conseguenza, e  ci porta all’idolatria,
sostituendo, alla verità di Dia, la falsità.
Una coscienza falsa è un dio falso, un dio che non ci dice nulla perché è muto e
che non fa nulla perché non ne ha il potere. È una specie di maschera di cui ci
serviamo per dare degli oracoli a noi stessi, dicendoci false profezie, dandoci tutte quelle risposte che desideriamo udire “Scambia la verità di Dio con la
menzogna” (Rom 1,25).
Il timore di Dio è l’inizio della sapienza.
La sapienza è la conoscenza della Verità nella sua  realtà ultima, è l’esperienza
alla quale si arriva con la rettitudine del cuore. La sapienza conosce Dia in noi e
noi in Dio.
Il timore, che è il primo passo verso la sapienza, è la paura di essere insinceri
con Dio e con se stessi. È il timore di esserci ingannati, di aver gettato la propria
vita ai piedi di un falso dio.
Ma ogni uomo è un mentitore, perché ognuno è peccatore. Siamo stati tutti falsi
nei confronti di Dio. “Ma Dio è Verace: e ogni uomo menzognero, conforme sta
scritto” (Rom 3,4).
Il timore di Dia, che è l’inizio della sapienza, è quindi il riconoscere la “menzogna
che tengo nella mia destra” (Is 44,20).
“Se diremo di esser senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi
... Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui e la sua parola non è in
noi” (1Gv 1,8-10).
L’inizio della sapienza è quindi il riconoscimento del peccato. Questa confessione
ci merita la misericordia di Dio. Fa sì che nella nostra coscienza rifulga la luce
della sua verità, senza la quale non possiamo evitare il peccato. Porta nell’anima
nostra la forza della sua grazia, legando gli atti del nostro volere alla verità che
brilla nella intelligenza.
Soluzione del problema della vita è la vita stessa. La vita non è circoscritta dà
ragionamenti e analisi, ma innanzi tutto dal viverla.
Perché fino a che non abbiamo incominciato a vivere, la nostra prudenza non ha
materia su cui lavorare. E finché non abbiamo cominciato a cadere, non ci è data
l’opportunità di lavorare al nostro successo.