Vorrei conoscere la Bibbia a memoria,conoscere il greco,il latino e pure l' aramaico,ma nulla di tutto questo mi è stato donato. Quello che al Signore è piaciuto donarmi, è una grande voglia di parlargli e di ascoltarlo.Logorroica io e taciturno Lui,ma mentre io ho bisogno di parole,Lui si esprime meglio a fatti.Vorrei capire perchè questo bisogno si tramuta in scrivere, e sento che è un modo semplice,delicato e gratuito di mettere al centro la mia relazione con Dio.
giovedì 20 dicembre 2012
Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)SECONDA PARTE DA 1 A 6
Parte seconda
L’amore della solitudine
1.
Vivere nella solitudine e cercarla non vuol dire spostarsi continuamente da una
possibilità geografica a un’altra. Si diventa solitari nel momento preciso in cui,
non importa quale sia l’ambiente che ci circonda, si ha l’improvvisa percezione
della propria inalienabile solitudine e si vede che non si vuol essere mai altro che
un solitario. Da quell’istante la solitudine non è più in potenza — ma in atto. Però
la solitudine attuale ci pone sempre direttamente di fronte a una possibilità
irrealizzata e anche irrealizzabile di “solitudine perfetta”. Ma questo bisogna
capirlo nel giusto senso: perché se cerchiamo con troppa ansietà di realizzare la
possibilità materiale di una maggior solitudine esteriore, che sembra sempre al di
là della nostra portata, perdiamo quella solitudine attuale che già possediamo.
Essa ha, come uno dei suoi elementi costitutivi, proprio la insoddisfazione e la
incertezza che derivano dal trovarsi faccia a faccia con una possibilità
irrealizzabile. Non è una folle ricerca di possibilità — è l’umile acquiescenza che si
stabilizza nella presenza di una realtà sconfinata, in un senso già posseduta, e in
un altro, pura «possibilità» — oggetto di speranza.
Soltanto quando muore e va in cielo, il solitario vede chiaramente che questa
possibilità era già attuata nella sua vita ed egli non lo sapeva — perché la sua solitudine consisteva soprattutto nel “possibile” possesso di Dio e di nient’altro
che Dio, nella pura speranza.
2.
Mio Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada
che mi è davanti. Non posso sapere con certezza dove andrà a finire. E non
conosco neppure davvero me stesso, e il fatto che penso di seguire la tua volontà
non significa che lo stia davvero facendo. Ma sono convinto che il desiderio di
piacerti, in realtà ti piaccia. E spero di averlo in tutte le cose. Spero di non far mai
nulla senza un tale desiderio. E so che se agirò così la tua volontà mi condurrà
per la giusta via, quantunque possa non saperne nulla. Però avrò sempre fiducia
in Te per quanto mi possa sembrare di essere perduto e avvolto dall’ombra di
morte. Non avrò paura, perché Tu sei sempre con me e non mi lascerai mai solo
di fronte ai pericoli.
3.
Nell’età nostra tutto deve costituire un «problema». Il nostro è un tempo di
ansietà perché siamo stati noi a volerlo così. L’ansietà non ci viene imposta da
una, forza che sia al di fuori di noi: siamo noi che dal nostro intimo la imponiamo
al nostro mondo e agli altri.
In una età come questa la santità significa senza dubbio un passaggio dal
dominio dell’ansietà a quello in cui non vi è ansietà, oppure può voler dire
imparare da Dio a esser privi di ansietà pur vivendo in mezzo a essa.
Sostanzialmente, come nota Max Picard, si giunge probabilmente a questo:
vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi in
modo tale, che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (dal Mondo
del silenzio).
Le contraddizioni sono sempre esistite nell’animo umano. Ma soltanto quando
preferiamo l’analisi al silenzio divengono un problema continuo e insolubile. Non
dobbiamo risolverle tutte, ma vivere con esse, innalzarci al disopra di esse e
vederle nella luce di valori esterni e oggettivi che, al confronto, li rendono banali.
Il silenzio allora fa parte della sostanza stessa della santità. Nel silenzio e nella
speranza si foggia la forza dei Santi (Is 30,15).
Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine.
Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già
e che potevo averla sempre posseduta. Eppure costituiva ancora un problema
perché sapevo dopo tutto che una solitudine puramente soggettiva ed interiore,
frutto di uno sforzo di interiorizzazione, non sarebbe mai bastata. La solitudine
deve essere oggettiva e concreta: bisogna che sia una comunione con qualche
cosa di più grande del mondo, grande come l’Essere stesso, in modo da poter
trovare Dio nella sua pace profonda.
Mettiamo parole fra noi e le cose. Persino Iddio è diventato un’altra irrealtà
concettuale in quella terra di nessuno che è il linguaggio, che non serve più come
mezzo di comunicazione con la realtà. La vita solitaria, essendo silenziosa,
dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose.
Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose.
Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di
paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e
questo silenzio è legato all’amore. Il mondo che le nostre parole hanno tentato di
classificare, di controllare e persino di disprezzare (perché non riuscivano a circoscriverlo), si fa presso di noi, perché il silenzio ci insegna a conoscere la
realtà rispettandola là dove le parole l’hanno disonorata.
Quando abbiamo vissuto abbastanza a lungo con la realtà che ci circonda, la
nostra venerazione ci insegnerà come trarre dal silenzio, che è la madre della
Verità, parecchie parole su di essa.
Le parole stanno tra silenzio e silenzio: tra il silenzio delle cose e quello del
nostro essere. Tra il silenzio del mondo e il silenzio di Dio. Quando davvero
incontriamo e conosciamo il mondo nel silenzio, le parole non ci separano più dal
mondo e dagli uomini, e neppure da Dio, né da noi stessi perché non ci fidiamo
più completamente del linguaggio per esprimere la realtà.
La Verità si leva dal silenzio dell’essere di fronte alla quieta e terribile presenza
della Parola. Allora, rituffandosi di nuovo nel silenzio, la verità delle parole ci
lancia nel silenzio di Dio.
O piuttosto Dio si leva dal mare come un tesoro nelle onde, e quando il
linguaggio cessa, lo splendore divino rimane sul lido del nostro essere.
4.
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si
deve vivere e incomincia a vivere. Cosi, se uno e chiamato alla vita solitaria,
cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace
soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato a una vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno
al modo di vivere e dimentica di vivere. Quando non si vive la propria vera
vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce a essa, o si sottomette a
essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza.
Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola.
Supponiamo che uno abbia trovato la sua completezza nella sua vera vocazione.
Ora tutto è unitario, in ordine, nella pace. Ora il lavoro non interferisce più con la
preghiera, né la preghiera con il lavoro. Ora la contemplazione non deve essere
più uno «stato» particolare che rimuove dalle ordinarie occupazioni che lo
circondano, perché Dio penetra ogni cosa. Non si deve più rendere conto di se
stessi ad altri che a Dio.
5.
È necessario che troviamo il silenzio di Dio non solo in noi stessi, ma anche l’uno
nell’altro. Se gli altri non ci parlano con parole che scaturiscono da Dio e
comunicano con il silenzio di Dio che e nelle anime nostre, rimaniamo isolati nel
nostro stesso silenzio, da cui Dio tende a sottrarsi. Perché il silenzio interiore
dipende da una continua ricerca, da un grido incessante nella notte, da un
ripetuto chinarsi sull’abisso. Se ci attacchiamo a un silenzio che pensiamo di aver
trovato per sempre, desistiamo dalla ricerca di Dio ed il silenzio muore in noi. Un
silenzio in cui non si cerca più Iddio cessa dal parlarci di Lui. Un silenzio da cui
Dio non sembra assente, minaccia pericolosamente la sua continua presenza.
Perché Lo si trova quando Lo si cerca e quando non Lo cerchiamo più ci sfugge.
Lo si ode solo quando si spera di sentirlo, e se cessiamo di ascoltarlo, credendo
che la nostra speranza sia stata realizzata, Egli non parla più; il suo silenzio non
è più vita, ma diviene morte, anche se lo ricarichiamo con l’eco del nostro
strepito emotivo.
6.
Signore, non è orgoglioso il mio cuore (Sal 130,1).Tanto l’orgoglio quanto l’umiltà cercano il silenzio interiore. L’orgoglio tenta di
imitare il silenzio di Dio con una forzata immobilità. Ma il silenzio di Dio è la
perfezione della Vita Pura ed il silenzio dell’orgoglio è silenzio di morte.
L’umiltà cerca il silenzio non dell’inattività, ma dell’attività ordinata, in quella
che è più consona alla nostra povertà e alla nostra miseria di fronte a Dio.
L’umiltà va a pregare e trova il silenzio per mezzo delle parole: ma siccome è per
noi naturale passare dalle parole al silenzio e dal silenzio alle parole, l’umiltà è
silenziosa in tutto. Anche quando parla, l’umiltà ascolta. Le sue parole sono così
semplici, gentili e povere che giungono senza sforzo al silenzio di Dio. Infatti ne
sono l’eco, e non appena vengono pronunciate, il suo silenzio e già in esse
presente.
L’orgoglio teme di uscire da se stesso per paura di perdere ciò che ha prodotto
dentro di sé. Il suo silenzio e quindi minacciato dagli atti caritatevoli. Siccome
invece l’umiltà non trova niente in se stessa (perché umiltà è il suo stesso
silenzio), non può perdere pace e silenzio uscendo da se stessa per ascoltare gli
altri o per parlare loro per amore di Dio. In tutte le cose l’umiltà è silenziosa e
quieta e perfino il suo lavoro è riposo. In omnibus requiem quaesivi. Non è il
parlare che rompe il nostro silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole
dell’orgoglioso impongono silenzio agli altri in modo che si possa udire solo la
sua voce. L’umile parla solamente perché gli si parli. Non chiede altro che una
elemosina, poi aspetta e ascolta.
Il silenzio e ordinato alla ricapitolazione finale che si farà in parole di tutto ciò
per cui si è vissuto. Riceviamo Cristo ascoltandolo nella parola della fede. Ci
costruiamo la nostra salvezza nel silenzio e nella speranza, ma presto o tardi
viene il momento di dover confessare Dio apertamente di fronte agli uomini e poi
dinanzi a tutti gli abitanti del cielo e della terra.
Se la nostra vita si è effusa in parole inutili, non ascolteremo nulla, non
diverremo nulla, e alla fine, siccome avremo detto tutto prima di aver qualche
cosa da dire, rimarremo senza parole al momento della nostra più grande
decisione.
Ma il silenzio è ordinato alla dichiarazione finale. Non è fine a se stesso. Tutta la
nostra vita è una meditazione della nostra ultima decisione la sola che importi. E
meditiamo in silenzio. Eppure in certo senso abbiamo l’obbligo di parlare agli
altri, di aiutarli a veder il modo di prendere le loro decisioni, di insegnare loro
Cristo. E nel far ciò, proprio le nostre parole insegnano a essi un nuovo silenzio: il
silenzio della Resurrezione. In questo silenzio si formano e si preparano in modo
da pater dire anch’essi quanto hanno udito: Io ebbi fede, perciò parlai (Sal
115,1).
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