Vorrei conoscere la Bibbia a memoria,conoscere il greco,il latino e pure l' aramaico,ma nulla di tutto questo mi è stato donato. Quello che al Signore è piaciuto donarmi, è una grande voglia di parlargli e di ascoltarlo.Logorroica io e taciturno Lui,ma mentre io ho bisogno di parole,Lui si esprime meglio a fatti.Vorrei capire perchè questo bisogno si tramuta in scrivere, e sento che è un modo semplice,delicato e gratuito di mettere al centro la mia relazione con Dio.
giovedì 20 dicembre 2012
Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)DA 7 A 12
7.
Il cristiano ideale è persona che vive completamente al di fuori di sé nel Cristo —
vive nella fede della Redenzione da Lui operata, nell’amore del suo Redentore, il
quale ha amato tutti noi ed è morto per noi. Ma soprattutto vive nella speranza di
un mondo avvenire. La speranza è il segreto del vero ascetismo. Nega desideri e
giudizi personali e respinge il mondo nel suo aspetto presente, non perché noi o
il mondo siamo cattivi, ma perché non siamo in condizioni di fare di noi stessi e
della bontà del mondo l’uso migliore. Ma nella speranza esultiamo. Nella
speranza godiamo delle cose create. Ne godiamo non per quello che sono in se
stesse, ma per ciò che sono in Cristo — colme di promessa. Perché la bontà di
tutte le cose è una testimonianza della bontà di Dio e la sua bontà è garanzia
della sua fedeltà alle promesse. Ci ha promesso un nuovo cielo e una terra nuova,
una vita risorta nel Cristo. Qualsiasi rinnegamento di sé che non si basi
interamente sulla sua promessa, è meno che cristiano. Mio Signore, io non ho
altra speranza se non nella tua Croce. Tu, con la tua umiltà, le tue sofferenze e la
tua morte mi hai liberato da ogni vana speranza. Hai ucciso in Te la vanità della
vita presente, e, risorgendo da morte, mi hai dato tutto ciò che è eterno.
Perché dovrei desiderare di essere ricco, quando Tu sei stato povero?
Perché dovrei desiderare di essere famoso e potente agli occhi degli uomini,
quando i figli di coloro che hanno esaltato i falsi profeti e lapidati i giusti, Ti
hanno rigettato e inchiodato alla Croce? Perché dovrei carezzare in cuor mio una
speranza che mi divora la speranza di una felicità perfetta in questa vita —
quando tale speranza, condannata a esser delusa, non è altro che disperazione?
La mia speranza sta in ciò che gli occhi non hanno mai visto. Dunque, non
lasciarmi credere in ricompense visibili. La mia speranza sta in ciò che il cuore
umano non sa percepire: non lasciarmi credere ai sentimenti del mio cuore. La
mia speranza sta in ciò che la mano dell’uomo non ha mai toccato: non lasciarmi
credere a quanto posso afferrare tra le dita. La morte allenterà la loro stretta e la
mia vana speranza si dileguerà.
Fa’ che tutta la mia fiducia stia nella tua misericordia, non in me stesso. Fa’ che
la mia speranza sia riposta nel tuo amore, non nella salute, o nella forza, o
nell’abilità, o nelle risorse umane.
Se credo in Te, tutto il resto diventerà per me forza, salute, sostegno. Ogni cosa
mi porterà verso il cielo. Ma se non mi fido di Te, tutto sarà la mia rovina.
8.
Ogni peccato è una punizione per il primo peccato di non conoscere Dio: è
dunque un castigo dell’ingratitudine. Perché, come dice san Paolo (Rom 1,21), i
Gentili che «conobbero» Dio, non Lo conobbero perché non gli furono grati di
questa conoscenza. Non Lo conobbero perché questa loro conoscenza di Lui non li colmò della gioia del suo amore. Se non Lo amiamo dimostriamo di non
conoscerlo. Egli è amore. Deus charitas est.
La conoscenza che abbiamo di Dio si perfeziona con la gratitudine: ringraziamo
ed esultiamo sperimentando la verità del suo amore. L’Eucaristia — il Sacrificio di
lode e di ringraziamento — è il focolare sempre acceso della conoscenza di Dio
perché nel Sacrificio, Gesù, rendendo grazie al Padre, offre ed immola se stesso
interamente per la gloria del Padre e per salvarci dai nostri peccati. Se non Lo
«conosciamo» nel suo Sacrificio, come è possibile che questo abbia per noi tutto
il suo valore? «La conoscenza di Dio vale più degli olocausti» (Os 6,6). Se non
siamo grati e non lodiamo il Padre con Lui, non Lo conosciamo.
Non esiste alternativa tra la gratitudine e l’ingratitudine. Chi non è grato
comincerà presto a lamentarsi di tutto. Chi non ama, odia. Nella vita spirituale
non esiste una specie di indifferenza all’odio o all’amore. Ecco perché la
tiepidezza (che ha la parvenza di essere indifferente) è tanto detestabile. Si
tratta di odio camuffato da amore. La tiepidezza, in cui l’anima non è “né calda
né fredda” — non odia decisamente e neppure decisa- mente ama — è uno stato
nel quale si rigetta Dio e la sua volontà pur mantenendo una parvenza esteriore
di amore per lui, per tenersi lontani dagli impicci e salvare la presunta buona
fama. È la condizione a cui arrivano ben presto coloro che sono abitualmente
ingrati per le grazie che Dio fa loro. Chi risponde davvero alla bontà di Dio e
riconosce di aver tutto ricevuto, non può normalmente essere un cristiano a
metà. La vera gratitudine e l’ipocrisia non possono esistere insieme: sono
assolutamente incompatibili. La gratitudine di per sé ci rende sinceri —
altrimenti, vuol dire che non è vera.
Ma la gratitudine è più che un esercizio mentale o un giuoco di parole. Non ci
possiamo accontentare di fare dentro di noi un elenco delle cose che Dio ha fatto
per noi e poi casualmente ringraziarlo dei favori ricevuti.
Essere grati vuol dire riconoscere l’amore di Dio in tutto quello che Egli ci ha dato
— ed Egli ci ha dato tutto. Ogni nostro respiro è un dono dell’amor suo, ogni
attimo della nostra esistenza è una grazia, perché porta con sé grazie immense
che ci vengono da Lui. La gratitudine non considera perciò nulla come se le fosse
dovuto, non è mai svagata, ma percepisce sempre nuove meraviglie ed è pronta a
lodare di continuo la divina bontà. Chi è riconoscente sa che Dio è buono, non per
sentito dire, ma per esperienza. E qui sta tutta la differenza.
9.
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio “nulla”?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da
essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello
che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione,
una pretesa umiltà che nel dire “non sono nulla” intende in effetto affermare
“vorrei essere diverso da quel che sono”.
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità,
ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro
«nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è
buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e
apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità morale e metafisica nei
confronti di Dio. Per amare così il nostro “nulla” non dobbiamo ripudiare niente
di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo, nulla di ciò che siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona: buona
nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra deficienza,
perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e spirituale,
attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama
quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi.
L’orgoglioso ama se stesso perché pensa di essere, di per sé, degno di amore, di
rispetto, di venerazione: crede di dover essere amato da Dio e dagli uomini.
Perché pensa di meritare più degli altri di venir amato, onorato, ossequiato.
Anche l’umile ama se stesso, e cerca di essere amato e onorato, non perché
affetto e stima gli siano dovuti, ma perché non se li merita. Cerca di essere amato
dalla misericordia di Dio. Domanda alla bontà dei fratelli che lo si ami e aiuti.
Sapendo di non avere nulla, sa anche di aver bisogno di tutto e non teme di
chiedere in elemosina questo tutto e di riceverlo da dove lo può avere.
L’orgoglioso ama la sua illusione e la sua autosufficienza. Chi è povero in spirito
ama proprio la sua insufficienza. L’orgoglioso esige rispetto perché crede di
avere ciò che gli altri non hanno. L’umile chiede in elemosina una parte di ciò che
ogni altro ha ricevuto. Egli pure desidera di essere colmato della bontà e della
misericordia di Dio.
10.
La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come
ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è
innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene santificato dalla presenza e
dall’azione dello Spirito Santo. La vita spirituale non è quindi una vita
completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli.
Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se
dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto
della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero
dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli
uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha
vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria
degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi
tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni
inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio.
Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio
e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo.
Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di
Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo
prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia
soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo
maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci
accorgiamo neppure di essere caduti. Per mantenerci spiritualmente vivi
dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave
immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle
altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere
la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al
minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità
dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene
all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior
parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si
addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara
se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile
perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un
compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una
maniera diversa di indicare un fallimento. Meditare vuol dire pensare. Eppure una
buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli
“affetti”, molto più che una serie di “atti” per cui si passa. Nella preghiera
meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in
certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente
una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere
a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito.
Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una
specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un
interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle
preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente
si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo
slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso
richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza,
e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con
sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e si va a finire in una specie di
incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a
passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere
giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare
esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi
della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza
sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il
privilegio di “pregare non facendo nulla”.
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale «non si faccia nulla», o
«non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non
si sente, non si percepisce o non si pensa nulla. Ogni vera preghiera, non importa
quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e
finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o
passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella
“contemplazione” e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per
stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver
completamente rivolto verso di Lui il nostro volto interiore, finiremo
inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente
nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si
tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi. D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci
volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci
fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa
anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio
solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza
che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra
ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi
verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un certo numero di cose che
sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera
meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno
sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a
tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da
meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani
sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità
spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa
dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da
parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che
siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una
completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né
immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una
“idea” di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in
linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e
riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui
nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di
percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di
essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza della nostra personalità, lo
siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua
propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di
persona a persona che che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò
che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere.
L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra
umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura
spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.
11.
Nutriti dai Sacramenti e formati dalla preghiera e dall’insegnamento della Chiesa,
non abbiamo bisogno di cercare altro all’infuori del posto particolare voluto per
noi da Dio in seno alla Chiesa. Quando lo abbiamo trovato, vita e preghiera
insieme diventano per noi all’improvviso estremamente semplici.
Allora scopriamo che cosa sia in realtà la vita spirituale. Non si tratta di fare
un’opera buona piuttosto che un’altra, di vivere in un luogo piuttosto che in un
altro, di pregare in una maniera piuttosto che in un’altra.
Non è questione di un particolare effetto psicologico nell’anima nostra. È il
silenzio di tutto il nostro essere nella compunzione e nell’adorazione davanti a
Dio, nella abituale consapevolezza del fatto che Egli è tutto e che noi non siamo
nulla, che Egli è il centro a cui tendono tutte le case, e al quale devono venire
dirette tutte le nostre azioni; che vita e forza ci vengono da Lui e che tanto la vita
quanto la morte da Lui esclusivamente dipendono; che tutto il corso della nostra vita è da Lui previsto e rientra nel piano della sua Provvidenza, sapiente e
misericordiosa; che è assurdo vivere come se Egli non vi fosse, ossia vivere per
noi, come se fossimo soli; che tutti i nostri progetti e le nostre ambizioni
spirituali sono vani se non vengono da Lui e non terminano in Lui e che, alla fine,
la sola cosa che importi è la sua gloria.
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di continuo a esaminarla e a
ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico.
La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con
successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si
mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo
avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo vicini a Dio perché allora
l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati nell’ansietà e
nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma perché non
trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non possedere niente
che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di particolare che meriti di
essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci riposiamo in Colui che è tutta la
nostra speranza.
Vi è uno stadio della vita spirituale in cui troviamo Dio in noi questa sua presenza
è un effetto creato dal suo amore. È un suo dono per noi. Rimane in noi. Tutti i
doni di Dio sono buoni, ma se ci riposiamo in essi perdono la loro bontà nei nostri
riguardi. Ed è così anche di questo dono.
Quando viene per noi il tempo di darci alle altre cose, Iddio sottrae il senso della
sua presenza per fortificare la nostra fede. Ed è allora inutile cercarlo con uno
sforzo psicologico: inutile voler trovare nel cuore un senso di Lui. È venuto il
momento di uscire da noi stessi ed elevarci al di sopra di noi e di non cercarlo più
in noi, ma al di fuori e al di sopra. Lo facciamo con la nuda fede, con una
speranza che brucia come carbone acceso sotto la cenere della nostra povertà. Lo
cerchiamo anche nell’umile carità a servizio dei fratelli. Allora, quando vuole, Dio
ci solleva fino a sé nella semplicità.
A che vale la conoscenza della nostra miseria se non imploriamo Dio di sostenerci
con la sua potenza? Che valore ha il riconoscere la nostra povertà, se non ce ne
serviamo mai per sollecitare la sua misericordia? È male abbastanza compiacersi
nel pensiero di essere virtuoso, ma è peggio rimanere in una pigra inerzia, se
siamo consci della nostra debolezza e dei nostri peccati. Il valore della nostra
miseria e della nostra povertà sta nel fatto che esse costituiscono il terreno in cui
Iddio sparge il seme del desiderio. E non importa quanto grande possa sembrare
lo stato di abbandono in cui ci troviamo: il fiducioso desiderio del suo amore
malgrado la nostra avvilente miseria è il segno della sua presenza e il pegno della
nostra salvezza.
12.
Se desideri possedere una vita spirituale, devi unificare la tua vita. La vita è
spirituale per davvero o non lo è affatto. Nessuno può servire a due padroni. La
tua vita viene forgiata dal fine per cui tu vivi. Tu sei fatto a immagine di ciò che
desideri.
Per unificare la tua vita, unifica i tuoi desideri. Per spiritualizzarla, spiritualizza i
tuoi desideri. Per spiritualizzarli bisogna che tu desideri di non aver desideri. Vivere nello spirito vuol dire vivere per un Dio in cui crediamo, ma che non
possiamo vedere. Desiderare ciò vuol dire rinunciare al desiderio di tutto quello
che si vede. Possedere Colui che non può venire compreso, vuol dire rinunciare a
tutto ciò che può comprendersi. Per riposare in Colui che è al di sopra di ogni
pace creata, rinunciamo al desiderio di riposare nelle cose create.
Rinunciando al mondo lo conquistiamo, ci eleviamo al di sopra della sua
molteplicità e la ricapitoliamo nella semplicità di un amore che trova in Dio tutte
le cose. E Gesù intendeva proprio questo quando diceva che chi avrebbe voluto
salvare la propria vita l’avrebbe perduta e chi invece l’avrebbe perduta per amore
di Dio, sarebbe riuscito a salvarla.
Il ventottesimo capitolo di Giobbe (e anche il terzo di Baruch) ci dice che la
sapienza di Dio è nascosta ed è impossibile trovarla — eppure finisce con
l’ammettere che la si può facilmente trovare perché il timore di Dio è sapienza.
Un monaco non deve mai cercare la sapienza al di fuori della sua vocazione. Se lo
facesse non la troverebbe mai, perché per lui la sapienza è nella sua vocazione.
Sapienza è la stessa vita del monaco nel suo monastero. Ed è col vivere questa
vita che il monaco trova Dio, e non già aggiungendo a questa vita qualche altra
cosa che Iddio non vi ha messo. Perché la sapienza è Dio stesso che vive in noi,
che a noi si rivela. La vita ci si rivela soltanto per quel che la viviamo. La vita
monastica è piena della misericordia di Dio. Tutto quello che il monaco fa è voluto
da Dio e ordinato alla sua gloria. Nel fare la volontà di Dio riceviamo la sua
misericordia, perché è solo per un dono della sua misericordia che possiamo
compiere la sua volontà con una intenzione pura e soprannaturale. Ed Egli ci
dona questa intenzione come una grazia che serve soltanto come mezzo, per
ottenere più grazia e più misericordia, dilatando la nostra capacità di amarlo.
Maggiore è la nostra capacità di ricevere la sua misericordia, maggiore è il potere
che abbiamo di dargli gloria, perché Egli è glorificato solamente dai suoi doni, ed
è maggiormente glorificato da coloro nei quali la sua misericordia ha fatto
nascere un amore più grande. «Ama meno colui al quale è stato meno
perdonato» (Lc 7, 47).
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