13.
Il più povero in una comunità religiosa non è necessariamente chi ha in uso il
minor numero di oggetti. La povertà non è semplicemente questione di non
possedere «le cose». È un’attitudine dell’animo che ci porta a rinunciare ad
alcuni dei vantaggi che derivano a noi dall’uso delle cose. Uno può non possedere
nulla, ma attribuire una grande importanza alla soddisfazione personale e al
gusto che trae da cose che sono comuni a tutti — il canto in coro, i sermoni in
capitolo, la lettura in refettorio — il tempo libero, il tempo degli altri ...
Spesso il più povero in una comunità è quello che è a disposizione di tutti. Tutti
se ne possono servire, ed egli non si prende mai il tempo per fare qualche cosa
per se stesso.
Povertà — può riguardare cose come la nostra opinione, il nostro “stile”, tutto ciò
che tende ad affermarci come diversi dagli altri, come superiori agli altri in
maniera tale che prendiamo soddisfazione da queste particolarità e le trattiamo
come «cose nostre». La “povertà” non dovrebbe mai renderci particolari.
L’eccentrico non è un povero in spirito.
Persino l’attitudine ad aiutare gli altri e a dar loro il nostro tempo e tutto ciò che
abbiamo può venir «posseduta» con attaccamento, se con tali atti c’imponiamo sugli altri e ce li rendiamo debitori. In tal caso cerchiamo infatti di comprarli e di
impadronircene per mezzo dei favori che a essi facciamo.
Chi di noi, o Signore, può parlare di povertà senza vergognarsi? Noi che abbiamo
fatto voto di povertà in monastero, siamo poveri davvero? Sappiamo che cosa sia
amare la povertà? Ci siamo mai fermati per un momento a pensare perché si
debba amare la povertà?
Eppure, o Signore, Tu sei venuto nel mondo per esser povero tra i poveri, perché
è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel
Regno dei cieli. E noi, con i nostri voti, ci accontentiamo del fatto che di fronte
alla legge non possediamo nulla e che per tutto quello che abbiamo dobbiamo
chiedere il permesso di un altro?
La povertà è questa? Può un tale che ha perduto il suo impiego e che non ha
denaro con cui pagare i suoi debiti, e che vede la moglie e i figli diventare sempre
più scarni e che sente il timore e l’angoscia rodergli il cuore — può egli ottenere
le cose delle quali ha disperatamente bisogno, semplicemente chiedendole? Che
provi a farlo. Eppure noi, che possiamo avere tante cose delle quali non abbiamo
bisogno, e tante altre che è scandaloso da parte nostra possedere — noi, siamo
poveri, perché le abbiamo e c’è permesso di averle.
La povertà significa bisogno. Fare voto di povertà e non mancare mai di nulla, e
mai aver bisogno di qualche cosa senza averla, vuol dire tentare di farci beffe del
Dio Vivente.
14.
Leggere dovrebbe essere un atto di omaggio al Dio di ogni verità.
Apriamo il cuore a parole che riflettono la realtà che Egli ha creato o la realtà più
grande che è Egli stesso. Leggere è anche un atto di umiltà e di riverenza nei
confronti di altri che sono gli strumenti per mezzo dei quali Iddio ci comunica la
sua verità.
La lettura dà maggior gloria a Dio quando ne ricaviamo un profitto maggiore,
quando è un atto profondamente vitale non soltanto della nostra intelligenza, ma
di tutta la nostra personalità assorbita e ristorata nel pensare, nel meditare, nel
pregare, o anche nel contemplare Dio.
I libri possono parlarci come Dio, come gli uomini o come il rumore della città
nella quale viviamo. Ci parlano come Dio quando ci recano luce e pace e ci
colmano di silenzio. Ci parlano come Dio quando desideriamo di non lasciarli mai.
Ci parlano come gli uomini allorché desideriamo di ascoltarli di nuovo. Ci parlano
come il frastuono della città quando ci tengono prigionieri con una noia che non
ci dice nulla, non ci danno pace, né conforto, nulla da ricordare, eppure non ci
lasciano andare.
I libri che ci parlano come Dio lo fanno con troppa autorità per divertirci: quelli
che ci parlano come gli uomini ci avvincono con il loro interesse umano: finiamo
col trovarvi noi stessi. Ci insegnano a conoscerci meglio, riconoscendoci negli
altri. I libri che ci parlano come il chiasso della folla ci riducono alla disperazione
con il puro peso della loro vacuità. Ci intrattengono come le luci nelle vie della
città, la notte, con speranze che non possono appagare. Per quanto grandi e per
quanto amici possano essere, i libri non sostituiscono le persone, ma sono
soltanto mezzi di contatto con grandi personalità, con uomini che posseggono
una parte maggiore di umanità di quella che a essi compete, uomini che sono
personalità nei confronti del mondo intero e non soltanto di se stessi. Non sono le idee e le parole che nutrono l’intelligenza, ma la verità. E non una verità astratta.
La Verità che un uomo spirituale ricerca è la Verità tutta intera che comprende
realtà, esistenza ed essenza, qualche cosa che si può abbracciare e amare,
qualche cosa che può ricevere l’omaggio e il dono delle nostre azioni: più che una
cosa: si tratta di persone, anzi di una Persona. Colui che è al di sopra di tutto, la
cui essenza è esistere: Dio.
Cristo, il Verbo Incarnato, è il Libro della vita in cui leggiamo Iddio.
15.
L’umiltà è una virtù, non una neurosi.
Ci rende liberi di agire virtuosamente, di servire Iddio, e di conoscerlo. Quindi la
vera umiltà non può mai proibirci un’azione davvero virtuosa e non può neppure
impedirci di completare noi stessi compiendo la volontà di Dio.
L’umiltà ci rende liberi di fare ciò che è veramente buono, mostrandoci le nostre
illusioni e distogliendo il nostro volere da ciò che è un bene soltanto apparente.
Una umiltà che agghiaccia il nostro essere e frustra ogni sana forma di attività
non è affatto umiltà, ma solo una forma di orgoglio travestito che sovverte le
radici della vita spirituale e ci rende impossibile il darci a Dio.
Signore, Tu ci hai insegnato ad amare l’umiltà, ma non lo abbiamo imparato.
Abbiamo imparato soltanto ad amare l’apparenza esteriore dell’umiltà —
quell’umiltà che rende simpatici e attraenti. Talvolta ci soffermiamo a riflettere
su queste qualità, e spesso pretendiamo di possederle e di averle acquistate con
“la pratica dell’umiltà”. Se fossimo veramente umili, conosceremmo fino a qual
punto siamo bugiardi!
Insegnami a sopportare una umiltà che mi mostri incessantemente che sono un
bugiardo ed un mentitore e che, pur essendo tale, ho l’obbligo di lottare per
giungere alla verità, per essere quanto più posso sincero, anche se troverò
inevitabilmente che tutta la mia verità è avvelenata dall’inganno. Ecco il terribile
dell’umiltà: non ha mai pieno successo. Se fosse almeno possibile essere davvero
umili su questa terra. Ma no, ecco il guaio. Tu, o Signore, sei stato umile. Ma la
nostra umiltà consiste nell’essere orgogliosi e nel saperlo bene, e nell’essere
schiacciati da questo peso insopportabile e nel poter fare tanto poco per
liberarcene.
Come sei severo nella tua misericordia, eppure devi esserlo. La tua misericordia
dev’essere giusta perché la tua verità dev’essere vera. Eppure, come sei severo
nella tua misericordia: perché più lottiamo per essere sinceri, più scopriamo la
nostra falsità. È misericordioso da parte della tua; luce di portarci,
inesorabilmente, alla disperazione No — non è alla disperazione che Tu mi porti,
ma all’umiltà. Perché l’umiltà vera è in certo senso una reale disperazione:
dispero di me stesso per pater porre soltanto in Te tutta la mia speranza. Chi può
sopportare di cadere in una tale oscurità?
16.
Le campane vogliono ricordarci che Dio solo è buono, che noi gli apparteniamo e
che non viviamo per questo mondo. Irrompono nel mezzo delle nostre
occupazioni per ricordarci che tutte le cose passano e che le nostre ansietà non
hanno importanza. Ci parlano della nostra libertà, che le responsabilità e le cure
transeunti ci fanno dimenticare.
Sono la voce della nostra alleanza con il Dio del Cielo.
Ci dicono che noi siamo il suo vero tempio. Ci invitano alla pace con Lui e con noi
stessi. Al termine della benedizione della campana di una chiesa si legge il Vangelo di
Marta e Maria per ricordarci tutto questo. Le campane dicono: gli affari non
hanno importanza. Riposa in Dio ed esulta, perché questo mondo è soltanto
figura e promessa di un mondo avvenire, e soltanto chi è distaccato dalle cose
transeunti può possedere la sostanza di una eterna promessa.
Le campane dicono: abbiamo parlato per secoli dalle torri delle grandi chiese.
Abbiamo parlato ai santi, ai vostri padri, nelle loro terre. Li abbiamo chiamati alla
santità così come ora chiamiamo voi. Qual è la parola con cui li abbiamo
chiamati?
Non abbiamo detto semplicemente:”Sii buono, vieni alla chiesa” E neppure
soltanto: “Osserva i comandamenti”, ma soprattutto: “Cristo è risorto! Cristo è
risorto!” E abbiamo detto: “Vieni con noi, Dio è buono; salvarsi non è difficile, il
suo amore lo ha reso facile.” E questo nostro messaggio è stato sempre rivolto a
tutti, a chi è venuto e a chi non è venuto, perché il nostro canto è perfetto come è
perfetto il Padre che è nei cieli e noi riversiamo la nostra carità su tutti.
17.
Per Adamo nel Paradiso si rese necessario dare un nome agli animali.
E così anche noi bisogna che diamo un nome alle cose che condividono il nostro
silenzio, non per violarne l’intimità e disturbarne il silenzio pensando a esse, ma
per far sì che il silenzio nel quale dimorano e che in esse dimora, possa essere
concretizzato e definito per quel che è. Le cose immerse nel silenzio lo rendono
reale, perché esso si identifica con il loro essere. Dare un nome a questo essere
vuol dire darlo al silenzio. E quindi dovrebbe essere un atto di riverenza.
( Le benedizioni le rendono maggiormente degne di rispetto).
La preghiera conosce delle parole di omaggio per gli esseri in Dio. La magia fa
uso di parole per violare il silenzio e la santità degli esseri trattandoli come se
fosse possibile strapparli a Dio, possederli e vilmente abusarne, proprio in
cospetto del silenziò divino. La magia insulta un tale silenzio presentandolo come
la maschera di un intruso, di un potere maligno che usurpa il trono di Dio e si
sostituisce alla sua presenza. Ma che cosa può mai sostituirsi a “Colui che è”?
Soltanto chi non è può pretendere di usurparne il posto. E facendolo non fa altro
che affermarlo ancora più chiaramente perché se si sopprime il non dalla frase
«non è» non resta altro che “è”.
Nel silenzio di Dio abbiamo vinto la magia riuscendo a vedere attraverso ciò che
non è, e convincendoci che “Colui che è” ci è più vicino di “chi non è” e tenta in
ogni attimo di porsi tra noi stessi e Lui. La sua presenza è presente nella mia
stessa presenza. Se io sono, allora Egli “è”. E nel conoscere che sono, se penetro
nelle profondità della mia stessa esistenza e della mia realtà attuale, quel “sono”
indefinibile che costituisce la mia essenza nelle sue più profonde radici, allora
attraverso questo centro profondo, passo nell’infinito “Io sono” che è il vero
nome dell’Onnipotente.
La conoscenza che ho di me stesso nel silenzio (non riflettendo su di me, ma
penetrando nel mistero del mio essere che sorpassa parole e concetti perché è
del tutto particolare) sfocia nel silenzio e nella “soggettività” dell’essere stesso
di Dio.
La grazia di Cristo mi identifica con la “Parola inculcata” (insitum verbum) che è
Cristo vivente in me. Vivit in me Christus. L’identificazione attuata dall’amore conduce alla conoscenza, al riconoscimento,
intimo e oscuro, ma rivestito di una inesprimibile certezza, nota solo nella
contemplazione.
Quando «conosciamo» (nella oscura certezza della fede illuminata da una
comprensione spirituale) che siamo figli di Dio nel suo unico Figlio, allora
sperimentiamo qualche cosa del grande mistero del nostro essere in Dio e
dell’essere Dio in noi. Perché afferriamo, senza sapere come, la terribile e
mirabile verità che Dio, chinandosi sull’abisso del suo inesauribile essere, ci ha
tratto fuori da se stesso, ci ha rivestito della luce della sua Verità, ci ha purificato
nel fuoco del suo amore, ci ha fatto, per la potenza della Croce, una cosa sola con
il suo Figlio Unigenito. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen
1,26); “Dal mio seno ti generai prima dell’aurora.” (Sal 109,3).
O gran Dio, Padre di tutte le cose, la cui luce infinita è per me tenebra, la cui
immensità è per me come il vuoto, Tu mi hai chiamato alla vita traendomi da Te
perché Tu in Te mi ami ed io sono una espressione transeunte della tua realtà
inesauribile ed eterna. Non potrei conoscerti, sarei perduto in questa tenebra,
cadrei lontano da Te in questo vuoto se Tu non mi tenessi per Te nel Cuore del
tuo Figlio Unigenito.
Padre, amo Te che non conosco, Ti abbraccio pur senza vederti, mi abbandono a
Te che ho offeso, perché Tu ami in me il tuo Figlio Unigenito.
Tu lo vedi in me, lo abbracci in me perché Egli ha voluto identificarsi
completamente con me per mezzo di quell’amore che lo ha portato a morire per
me sulla Croce.
Vengo a Te come Giacobbe nelle vesti di Esaù, ossia nei meriti e nel prezioso
Sangue di Gesù Cristo. E Tu, o Padre, che hai voluto essere come cieco nella
oscurità di questo grande mistero che è la rivelazione del tuo amore, passi la tua
mano sui mio capo e mi benedici come il tuo Unigenito. Tu hai voluto vedermi
soltanto in Lui, ma nel decidere così hai voluto vedermi più realmente di quanto
io non sia. Perché il mio stato di peccatore non è quello mio vero, non è quello
che Tu hai voluto per me, ma solo quello che ho scelto liberamente. Ma ora,
Padre, io non lo voglio più questo falso io, vengo a Te nella persona stessa del
Figlio tuo, perché è il suo Sacro Cuore che ha preso possesso di me, ha distrutto i
miei peccati, ed è Lui che mi presenta a Te. E dove? Nel santuario del suo stesso
Cuore, che è il tuo palazzo ed il tempio ove i santi Ti adorano in cielo.
18.
È necessario dare un nome a Colui il cui silenzio io condivido e adoro, perché è
nel suo silenzio che Egli pronuncia il mio nome. Egli solo conosce il mio nome, nel
quale anch’io conosco il suo. Perché nell’istante in cui mi chiama «figlio mio», ho
la percezione di Lui come “Padre mio”. Questo riconoscimento è in me un atto, in
Lui una Persona. L’atto in me è il movimento della sua Persona, del suo Spirito,
del suo Amore in me. Quando Egli agisce sono io che agisco con Lui e sono quindi
anch’io ad agire. E nel mio muovermi ho contemporaneamente la percezione “che
sono” e grido: “Abba, Padre”.
Ma siccome non sono il padre mio, è inutile che cerchi di risvegliare questa
nozione di Lui, chiamandomi «figlio» in seno al mio silenzio. Quando grida a se
stessa, la mia voce è soltanto capace di suscitare una morta eco. Non esisterà in
me alcun risveglio se non sono chiamato fuori dalla tenebra da Colui che è la mia
luce. Soltanto Colui che è Vita è capace di suscitare dalla morte. E se non mi
chiama io rimango morto ed il mio silenzio è quello della morte. Non appena pronuncia il mio nome, il mio silenzio è il silenzio della vita infinita e
so di essere perché il mio cuore si è aperto al Padre mio nell’eco degli anni eterni.
La mia vita è un ascoltare, la sua un parlare. La salvezza sta per me nell’ascoltare
e nel rispondere. Per questo la mia vita dev’essere silenziosa. Il mio silenzio è
quindi la mia salvezza. Il sacrificio che piace a Dio è l’offerta della mia anima – e
di quella degli altri.
L’anima Gli viene offerta quando Gli è completamente attenta. Il mio silenzio, che
mi distoglie dalle altre cose, è quindi il sacrificio di tutte le cose e l’offerta della
mia anima a Dio. Per questo è il sacrificio più gradito che posso fargli. Se riesco a
insegnare agli altri a vivere in questo stesso silenzio, offro a Lui un sacrificio
ancora più accetto. La conoscenza di Dio vale più che gli olocausti (Os 6,6).
Il silenzio interiore è impossibile senza misericordia e senza umiltà.
Differenza tra una vocazione ed una categoria. Quelli che realizzano la loro
vocazione alla santità — o che la stanno realizzando — sono per questo semplice
fatto incatalogabili: non rientrano in nessuna categoria. Se, per parlarne, ricorri a
una categoria, bisogna che spieghi immediatamente la tua affermazione come se
essi appartenessero a categorie completamente diverse. In realtà non rientrano
in nessuna categoria, sono propriamente se stessi, e per questo non sono
giudicati degni di grande amore e rispetto agli occhi degli uomini, perché la loro
individualità è un segno che sono grandemente amati da Dio e che Egli solo
conosce il loro segreto, troppo prezioso per essere, rivelato agli uomini.
Quel che veneriamo nei Santi al di là e al di sopra di quello che sappiamo, é
questo segreto; il mistero di una innocenza e di una identità perfettamente
nascoste in Dio.
19.
“La fine di tutto il discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi
comandamenti: perché tutto l’uomo sta qui” (Eccl 12,13). E la sapienza di Dio,
che tutte le cose precede, chi mai la scrutò? ... La pienezza della sapienza è
temere Iddio, e soddisfazione piena si ritrae dai suoi frutti ...
Corona della sapienza è il timore del Signore, che fa fiorire la pace e il frutto della
salvezza ...
Figliuolo, desideri la sapienza? Osserva i comandamenti, e Dio te la darà ... (Eccl.
1,3. 20. 22. 23).
Nelle profondità del nostro essere è Dio che impera e vive. Ma non lo troviamo
scoprendo semplicemente il nostro essere.
Quando ci comanda di vivere, ci ingiunge anche di vivere in una determinata
maniera. Suo decreto non è soltanto che viviamo in un modo qualunque, ma che
viviamo bene e diventiamo infine perfetti vivendo in Lui. Per questo ci ha posto
nelle profondità dell’essere la luce della coscienza che ci dice la legge della vita.
La vita non è vita se non si conforma a questa legge che è la volontà di Dio.
Vivere a questa luce è tutto per l’uomo perché in tal modo egli giunge a vivere in
Dia e per Lui. Estinguere la luce della coscienza con atti contrari a questa legge
significa tradire la natura umana. Ci rende insinceri verso noi stessi, e fa di Dio
un bugiardo: ogni peccato ha questa conseguenza, e ci porta all’idolatria,
sostituendo, alla verità di Dia, la falsità.
Una coscienza falsa è un dio falso, un dio che non ci dice nulla perché è muto e
che non fa nulla perché non ne ha il potere. È una specie di maschera di cui ci
serviamo per dare degli oracoli a noi stessi, dicendoci false profezie, dandoci tutte quelle risposte che desideriamo udire “Scambia la verità di Dio con la
menzogna” (Rom 1,25).
Il timore di Dio è l’inizio della sapienza.
La sapienza è la conoscenza della Verità nella sua realtà ultima, è l’esperienza
alla quale si arriva con la rettitudine del cuore. La sapienza conosce Dia in noi e
noi in Dio.
Il timore, che è il primo passo verso la sapienza, è la paura di essere insinceri
con Dio e con se stessi. È il timore di esserci ingannati, di aver gettato la propria
vita ai piedi di un falso dio.
Ma ogni uomo è un mentitore, perché ognuno è peccatore. Siamo stati tutti falsi
nei confronti di Dio. “Ma Dio è Verace: e ogni uomo menzognero, conforme sta
scritto” (Rom 3,4).
Il timore di Dia, che è l’inizio della sapienza, è quindi il riconoscere la “menzogna
che tengo nella mia destra” (Is 44,20).
“Se diremo di esser senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi
... Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui e la sua parola non è in
noi” (1Gv 1,8-10).
L’inizio della sapienza è quindi il riconoscimento del peccato. Questa confessione
ci merita la misericordia di Dio. Fa sì che nella nostra coscienza rifulga la luce
della sua verità, senza la quale non possiamo evitare il peccato. Porta nell’anima
nostra la forza della sua grazia, legando gli atti del nostro volere alla verità che
brilla nella intelligenza.
Soluzione del problema della vita è la vita stessa. La vita non è circoscritta dà
ragionamenti e analisi, ma innanzi tutto dal viverla.
Perché fino a che non abbiamo incominciato a vivere, la nostra prudenza non ha
materia su cui lavorare. E finché non abbiamo cominciato a cadere, non ci è data
l’opportunità di lavorare al nostro successo.