sabato 21 settembre 2013

SANTI é BEATI :

- Sant' Ignazio da Santhià Sacerdote cappuccino

22 settembre

Santhià, Vercelli, 5 giugno 1686 - Torino, 22 settembre 1770

Lorenzo Maurizio Belvisotti, nato a Santhià (Vercelli) nel 1686, viene ordinato prete nel 1710. Entra in contatto con i Gesuiti, ma nel 1716 entra nei Cappuccini di Chieri con l'intenzione di partire missionario. Dopo un servizio di 13 anni come maestro dei novizi a Mondovì e un periodo al convento di Torino, Ignazio, questo il suo nome da religioso, viene mandato dai superiori a confortare i militari dell'esercito sabaudo feriti dai franco-spagnoli negli ospedali di Asti, Alessandria e Vinovo. Finita la guerra, il convento del Monte dei Cappuccini di Torino lo accoglie nuovamente per l'ultimo lungo periodo della sua vita (1747-1770). Qui spenderà 23 anni confortando spiritualmente sia poveri che personaggi in vista del Regno. Muore il 22 settembre 1770, festa di san Maurizio, patrono dei Cappuccini piemontesi. È stato canonizzato il 19 maggio 2002 da Giovanni Paolo II. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Torino, sant’Ignazio da Santhià (Lorenzo Maurizio) Belvisotti, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, assiduo nell’ascolto dei penitenti e nell’assistenza ai malati.

Padre Ignazio da Santhià fu, probabilmente, uno dei "Santi" torinesi più amati dal popolo sebbene sia oggi una delle figure religiose meno "mediatiche". È, infatti, tra i Santi meno noti che Papa Giovanni Paolo II ha deciso di canonizzare. Eppure alla sua morte, avvenuta nel 1770, la folla accorsa a rendergli omaggio blocca il Monte dei Cappuccini tanto da spingere le autorità religiose a celebrare i funerali all’alba, per tutelarne le spoglie già oggetto di culto.
Ma chi fu e quali segni ha lasciato questo frate modesto così significativo per l’Ordine piemontese? Lorenzo Maurizio Belvisotti nasce a Santhià nel 1686. Di famiglia benestante, orfano di padre all’età di 8 anni, sceglie la vita religiosa, frequenta il seminario e prende i voti con il benestare di madre e fratelli. Ordinato prete, a 30 anni è precettore presso i Conti Avogadro di Casanova, a Vercelli. Tra la rendita personale e l’attività alla corte della nobile famiglia potrebbe condurre un alto tenore di vita, ma il corso della sua esistenza è messo alla prova nel 1715 da due eventi: la morte della madre e la controversia che si accende sulla parrocchia che gli viene assegnata in Santhià.
Nel maggio del 1716 Don Lorenzo è al Monte dei Cappuccini, a colloquio con il Padre Provinciale per cercare la propria via. Il 10 giugno 1616, rinuncia ufficialmente alla parrocchia assegnatagli e, il 24 dello stesso mese, entra in convento a Chieri, preceduto dalla fama conquistata con l’abito talare. Scegliendo la strada di Francesco comincia il suo percorso religioso da zero, prendendo il nome di Ignazio dal tanto ammirato Ignazio di Lojola. La professione solenne dei voti avviene il 24 maggio 1717.
Da questo momento la sua vita registra un pellegrinaggio ininterrotto nei conventi di Torino e provincia, dove ricopre diversi ruoli, da Chieri a Biella, Pinerolo, Avigliana, Chivasso e Carrù. Ma è il compito di maestro di novizi a Mondovì che, in questo fase, segna un passaggio fondamentale.
Dal 1750 alla morte è stabile al Monte di Torino ed è in questi 20 anni che la sua fama, cresce, sul passa parola di malati e bisognosi. Per loro Ignazio diventa presto una figura di riferimento, che ogni giorno scende in città a portare conforto. Dialoga con i poveri e con i potenti e la sua figura si circonda di un alone di venerazione che lui sfugge con modestia. Quando, superati gli 80 anni, il fisico gli impedisce di percorrere lo scosceso sentiero verso il centro città, è la sua gente a cercarlo. Muore il 21 settembre 1770 allo scoccare della mezzanotte e la voce "È morto il Santino del Monte" percorre Torino.
Una dei più autorevoli seguaci è il Cottolengo, che ne dispensa le immaginette e invita i malati della Piccola casa della Divina Provvidenza a pregare il "Santo" per ottenere la guarigione.
La causa di beatificazione è immediata. Subito si apre il processo e i cappuccini solleciti raccolgono testimonianze e relazioni sulla sua vita, sulle virtù e sui fatti straordinari a lui attribuiti. La documentazione è consegnata a Torino l’11 settembre 1777 e a Roma il 2 settembre 1780. È Papa Leone XII il 19 marzo 1827, dopo un lungo periodo di silenzio, a emanare il decreto sulla "Eroicità delle virtù del venerabile Ignazio da Santhià". Ma una nuova attesa avvolge la causa. Le ragioni dei sostenitori del Santo si arricchiscono di 2 guarigioni miracolose, entrambe in provincia di Cuneo: la prima registrata nel 1946 a Busca e la seconda nel 1955 a Revello.
Paolo VI ne decreta la beatificazione nel 1966. Il 19 maggio 2002 Papa Giovanni Paolo II lo fa Santo.

Autore: Cristina Siccardi





Lorenzo Maurizio – così il suo nome di battesimo – nasce il 5 giugno 1686 a Santhià (Vercelli), quarto tra i sei figli dell’agiata famiglia di Pier Paolo Belvisotti e Maria Elisabetta Balocco. Rimasto orfano del padre a sette anni, la madre provvede alla sua formazione affidandolo al pio e dotto sacerdote don Bartolomeo Quallio, suo parente. Sentendosi chiamato alla vita ecclesiastica, dopo le scuole primarie nella città natale, nel 1706 Lorenzo Maurizio passa a Vercelli per gli studi filosofici e teologici. Ordinato sacerdote nell’autunno del 1710, resta nel capoluogo come cappellano-istruttore della nobile famiglia Avogadro. In questi primi anni di sacerdozio non rinuncia ad associarsi all’apostolato dei Gesuiti, particolarmente nella predicazione delle missioni al popolo. Conoscerà così il suo futuro direttore spirituale, il padre gesuita Cacciamala.

La natia Santhià, desiderando avere il suo concittadino, lo elegge canonico rettore dell’insigne collegiata di Santhià. A loro volta gli Avogadro lo eleggono parroco della parrocchia di Casanova Elvo di cui godevano il giuspatronato. Tuttavia il quasi trentenne don Belvisotti non va in cerca di gloria: ha maturato ben altre mete. Rinunciato alle due nomine e ai benefici loro connessi, il 24 maggio 1716 entra nel convento-noviziato dei Cappuccini di Chieri (Torino) e assume il nome di fr. Ignazio da Santhià con l’intenzione di partire in futuro per le missioni estere. La sua fermezza nel tendere alla perfezione, l’osservanza piena, premurosa, spontanea e gioiosa della vita cappuccina, gli attirano l’ammirazione anche dei più anziani religiosi del noviziato. Dopo gli anni della formazione cappuccina (trascorsi a Saluzzo, a Chieri e a Torino, sul Monte dei Cappuccini), nel Capitolo Provinciale del 31 agosto 1731 viene nominato maestro di noviziato nel convento di Mondovì (Cuneo). In tredici anni di magistero e testimonianza, Ignazio offre alla Provincia monastica del Piemonte ben 121 nuovi frati, alcuni dei quali moriranno in fama di santità. In seguito ad un atto eroico (essendosi addossato la grave oftalmia e le sofferenze del suo ex-novizio Bernardino Ignazio dalla Vezza, impedito di continuare nell’attività missionaria in Congo), nel 1744 deve rinunciare all’incarico e ritirarsi per cure nel convento-infermeria di Torino-Monte.

L’obbedienza ai superiori (alla quale mai si sottrasse), lo inducono a seguire, come cappellano-capo, l’esercito del re di Sardegna Carlo Emanuele III, in guerra contro le armate franco-spagnole(1745-1746), per assistere i militari feriti o contagiati negli ospedali di Asti, Alessandria e Vinovo.

Finita la guerra, il convento del Monte dei Cappuccini di Torino lo accoglie nuovamente per l’ultimo lungo periodo della sua vita (1747-1770). Con una generosità senza misura e con umile e intensa carica spirituale, Ignazio divide la sua attività pastorale tra il convento e la città di Torino: predica settimanalmente agli altri confratelli, attende al ministero della riconciliazione e, nonostante la non più giovane età e le gravi malattie, scende l’erta collina su cui sorge il convento per percorrere le vie della città e incontrare di casa in casa poveri e ammalati, che attendono il conforto della sua parola e della sua ormai celebre benedizione. Intanto si vanno moltiplicando i prodigi e il popolo lo ribattezza “il Santo del Monte”; contemporaneamente su di lui si accentra anche la venerazione dei più distinti personaggi del Piemonte: dai regnanti all’arcivescovo di Torino, Giovanni Battista Roero, al primo vescovo di corte, il cardinale Vittorio Delle Lanze; dal gran cancelliere Carlo Luigi Caisotti di Santa Vittoria, al sindaco della città.

Ignazio da Santhià trascorre gli ultimi due anni nell’infermeria del suo convento, continuando a benedire, a confessare, a consigliare quanti a lui ricorressero. La sua vita appare ormai assorbita e trasformata in quel Crocifisso che egli non sa allontanare dal suo sguardo.

Il 22 settembre 1770, festa di s. Maurizio, patrono suo e della provincia cappuccina del Piemonte, fr. Ignazio muore serenamente nella sua cella, all’età di 84 anni.

La fama della sua santità e i numerosi prodigi attribuiti alla sua intercessione inducono ad avviarne immediatamente il processo di canonizzazione. Dopo la causa ordinaria, nel 1782 viene introdotto il processo apostolico che, a motivo delle vicissitudini della Rivoluzione Francese e delle ricorrenti soppressioni che colpiscono gli Ordini religiosi nell’Ottocento, subisce continui rallentamenti e interruzioni. E se fin dal 19 marzo 1827 Leone XII ne riconosce l’eroicità delle virtù di fr. Ignazio da Santhià, solo il 17 aprile 1966 (dopo oltre un secolo di quasi totale silenzio e dopo la valutazione positiva di due miracoli ottenuti per sua intercessione negli anni precedenti) Paolo VI può procedere alla sua solenne beatificazione.

Giovanni Paolo II ne ha proclamato la santità il 19 maggio 2002, domenica di Pentecoste. Le reliquie di Ignazio da Santhià sono venerate nella chiesa del Monte dei Cappuccini in Torino.


Autore: Padre Mario Durando
 

(Lc 16,1-13) Non potete servire Dio e la ricchezza.

VANGELO
(Lc 16,1-13) Non potete servire Dio e la ricchezza.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’ amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’ amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’ uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Parola del Signore.



LA MIA RIFLESSIONE

PREGHIERA

Aiutami o Signore con il tuo Santo Spirito a comprendere la tua scrittura come tu vuoi da me,e a vivere come Tu vuoi che io viva,non lasciare che io ondeggi al vento, ma guidami Tu in ogni mia cosa, con tutto il tuo amore.

Il Signore vede tutto, anche quello che noi umani non vediamo. Vede nel mio, nel tuo cuore; vede quello che pensiamo veramente, non quello che facciamo trasparire e credo che sia il momento in cui il suo invito a fermarci e a guardare dentro di noi, veramente, con sincerità, sia fondamentale per la salvezza della nostra anima.
Ci affanniamo per arrivare alla fine del mese, per riuscire a vivere dignitosamente, o per avere di più, o addirittura per essere ricchi…. ma alla nostra anima che stiamo dando?
Non basta una preghiera ogni tanto, non basta neppure pregare tutto il giorno se non siamo in COMUNIONE CON CRISTO.
Sembriamo buoni cristiani, ma non lo siamo mai fino in fondo, c’è sempre quello scalino che non riusciamo a superare, a salire, o meglio a scendere, perché la nostra pigrizia o il nostro orgoglio ce lo impediscono.Questo scendere io lo sento come la cosa più importante, spesso pensiamo di dover fare passi avanti per avere una fede più onesta, ma se non scendiamo dai pilastri della nostra superbia, difficilmente andremo mai avanti,e resteremo come galline sul trespolo che si credono pavoni. 
Siamo ricchi di noi stessi e poveri delle cose di Dio, purtroppo è questa la nostra realtà.
Diamo quello che ci riempie di orgoglio dare, parlo soprattutto per me, quante volte mi sono sentita appagata da questa pagina che scrivo, se mi viene detto grazie…. a me, che non sono altro che uno scarabocchio di Dio, che non riesco neanche a farmi usare da Lui con umiltà.
Oggi sono critica prima di tutto con me stessa, ma credo che in molti possiamo riconoscerci in questo. Sentirsi utili… può nascondere tanta vanità, tanto orgoglio, ed io ogni giorno mi accorgo che se ne insinua un pochino, e sapete quando me ne accorgo? Non quando qualcuno si compiace con me, ma quando mi manca questo compiacimento.Per fortuna ho un gran Padre Spirituale, che consiglio a tutti di trovare, perchè come per ogni cosa, ci vuole la persona giusta accanto. 
Essere ricchi di beni materiali può rendere aridi e insensibili, ma ricevere beni spirituali può essere ancora più pericoloso, perché l’umiltà non può essere un optional, ma deve essere alla base della nostra fede e della nostra vita.
Se non si è fedeli nel poco, non si può essere fedeli nel molto… dice bene il Signore, come può fidarsi di noi se appena ci concede un dito, corriamo a vantarcene?
Maria non si è vantata all’ annuncio dell’ angelo, ma è corsa a servire e a lodare il Signore…
A volte bisogna avere il coraggio di convertirsi e da cristiani diventare di Cristo, abbandonando tutto, ma veramente tutto di noi, e se non lo facciamo, resteremo fermi, o peggio ancora, sbaglieremo strada e non troveremo più la porta stretta.

SANTI é BEATI :

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San Matteo Apostolo ed evangelista

21 settembre

I secolo dopo Cristo

Matteo, chiamato anche Levi, viveva a Cafarnao ed era pubblicano, cioè esattore delle tasse. Seguì Gesù con grande entusiasmo, come ricorda San Luca, liberandosi dei beni terreni. Ed è Matteo che nel suo vangelo riporta le parole Gesù:"Quando tu dai elemosina, non deve sapere la tua sinistra quello che fa la destra, affinché la tua elemosina rimanga nel segreto... ". Dopo la Pentecoste egli scrisse il suo vangelo, rivolto agli Ebrei, per supplire, come dice Eusebio, alla sua assenza quando si recò presso altre genti. Il suo vangelo vuole prima di tutto dimostrare che Gesù è il Messia che realizza le promesse dell' Antico Testamento, ed è caratterizzato da cinque importanti discorsi di Gesù sul regno di Dio. Probabilmente la sua morte fu naturale, anche se fonti poco attendibili lo vogliono martire di Etiopia.

Patronato: Banchieri, Contabili, Tasse

Etimologia: Matteo = uomo di Dio, dall'ebraico

Emblema: Angelo, Spada, Portamonete, Libro dei conti

Martirologio Romano: Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, che, detto Levi, chiamato da Gesù a seguirlo, lasciò l’ufficio di pubblicano o esattore delle imposte e, eletto tra gli Apostoli, scrisse un Vangelo, in cui si proclama che Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ha portato a compimento la promessa dell’Antico Testamento.

Non si capisce subito il disprezzo per i pubblicani, ai tempi di Gesù, nella sua terra: erano esattori di tasse, e non si detesta qualcuno soltanto perché lavora all’Intendenza di finanza. Ma gli ebrei, all’epoca, non pagavano le tasse a un loro Stato sovrano e libero, bensì agli occupanti Romani; devono finanziare chi li opprime. E guardano all’esattore come a un detestabile collaborazionista.
Matteo fa questo mestiere in Cafarnao di Galilea. Col suo banco lì all’aperto. Gesù lo vede poco dopo aver guarito un paralitico. Lo chiama. Lui si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Da quel momento cessano di esistere i tributi, le finanze, i Romani. Tutto cancellato da quella parola di Gesù: "Seguimi".
Gli evangelisti Luca e Marco lo chiamano anche Levi, che potrebbe essere il suo secondo nome. Ma gli danno il nome di Matteo nella lista dei Dodici scelti da Gesù come suoi inviati: “Apostoli”. E con questo nome egli compare anche negli Atti degli Apostoli.
Pochissimo sappiamo della sua vita. Ma abbiamo il suo Vangelo, a lungo ritenuto il primo dei quattro testi canonici, in ordine di tempo. Ora gli studi mettono a quel posto il Vangelo di Marco: diversamente dagli altri tre, il testo di Matteo non è scritto in greco, ma in lingua “ebraica” o “paterna”, secondo gli scrittori antichi. E quasi sicuramente si tratta dell’aramaico, allora parlato in Palestina. Matteo ha voluto innanzitutto parlare a cristiani di origine ebraica. E ad essi è fondamentale presentare gli insegnamenti di Gesù come conferma e compimento della Legge mosaica.
Vediamo infatti – anzi, a volte pare proprio di ascoltarlo – che di continuo egli lega fatti, gesti, detti relativi a Gesù con richiami all’Antico Testamento, per far ben capire da dove egli viene e che cosa è venuto a realizzare. Partendo di qui, l’evangelista Matteo delinea poi gli eventi del grandioso futuro della comunità di Gesù, della Chiesa, del Regno che compirà le profezie, quando i popoli "vedranno il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi del cielo in grande potenza e gloria" (24,30).
Scritto in una lingua per pochi, il testo di Matteo diventa libro di tutti dopo la traduzione in greco. La Chiesa ne fa strumento di predicazione in ogni luogo, lo usa nella liturgia. Ma di lui, Matteo, sappiamo pochissimo. Viene citato per nome con gli altri Apostoli negli Atti (1,13) subito dopo l’Ascensione al cielo di Gesù. Ancora dagli Atti, Matteo risulta presente con gli altri Apostoli all’elezione di Mattia, che prende il posto di Giuda Iscariota. Ed è in piedi con gli altri undici, quando Pietro, nel giorno della Pentecoste, parla alla folla, annunciando che Gesù è "Signore e Cristo". Poi, ha certamente predicato in Palestina, tra i suoi, ma ci sono ignote le vicende successive. La Chiesa lo onora come martire.


Autore: Domenico Agasso

VOCE DI SAN PIO :

-" Sorgi dunque, o Signore, e conferma nella tua grazia coloro che mi hai affidato e non permettere che qualcuno abbia a perdersi, disertando l’ovile. Oh, Dio, oh Dio!… non permettere che vada in perdizione la tua eredità." (Epist. III, p. 1009).

venerdì 20 settembre 2013

(Mt 9,9-13) Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.

VANGELO
 (Mt 9,9-13) Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Santo Spirito, nella mia mente annebbiata e donami la forza di capire e di vivere perfettamente la tua parola, perché essa è luce per la mia vita.

-MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICI- Quello che Gesù fa e dice, non è mai senza senso, anche se per alcuni tratti sembra incomprensibile.
Gli uomini che sceglie, ai quali dice” seguimi, ”sono veramente i più diversi tra loro che poteva trovare. Quando sceglie Matteo, lo fa mentre era occupato ad incassare le tasse per i romani, un uomo che era abituato a far quadrare i conti, ad esigere quello che gli veniva chiesto di esigere, un uomo che in fondo rendeva agli altri l’obbligazione che a lui stesso era fatta, perché dalla sua capacità ad esigere i pagamenti, dipendeva il suo lavoro e quindi la sua vita e quella della sua famiglia.
Non gli doveva interessare molto, delle difficoltà che potevano avere i debitori, come un banchiere dei giorni nostri, uno strozzino, valutava tutto con aridità, senza un minimo di comprensione, anche se non era lui ad intascare le somme dovute, ma con una complicità aberrante con gli aguzzini dei poveri.
Eppure davanti a Gesù rimane colpito, non ci pensa un attimo a seguirlo, forse attirato dalla dolcezza che c’è nei suoi occhi, lui certo non era guardato da nessuno con quella dolcezza, ne dai suoi padroni, né tanto meno dalle persone che opprimeva, ma forse è attirato anche dall’ idea di cambiare vita.
Essere odiati, essere obbligati alla durezza di cuore con inflessibilità, non doveva piacergli poi molto in fondo, a chi piacerebbe far soffrire se non a chi ha un animo crudele e gode dell’infelicità altrui. Racconta Matteo di una cena alla quale Gesù partecipò, in cui c’erano alcuni pubblicani, suoi colleghi e dei peccatori, e i farisei guardavano con il loro solito fare sospetto, mormorando contro Gesù, perché si accompagnava con questa gente, e per loro, che avevano una mentalità molto rigida, certo non era facile comprendere, quel Gesù che era sempre più vicino ai peccatori, a quelli che loro ritenevano gli impuri della società e che invece quando si rivolgeva a loro, che si ritenevano giusti, li chiamava sepolcri imbiancati…ed anche adesso Gesù li gela, riportando una frase del profeta Osea presa dall’antico testamento e gli dice: per fargli capire che pur conoscendo bene la legge di Dio, non sapevano interpretarla. Dio non voleva sacrifici, ma misericordia e nella loro ottusità non volevano capirlo, e tanto meno essere messi allo stesso livello per il Signore di pubblicani, peccatori e reietti della società. Ancora oggi molti Cristiani, che rispettano secondo loro le regole, ritengono di dover essere considerati degni agli occhi di Dio, molto di più di tanti peccatori, e forse sarebbe bene che ascoltassero questa parola, ma sul serio, fino a farla entrare nel più profondo del loro cuore.
Le parole del Papa di questi giorni, possono non piacere ad alcuni,pronti a definire questo Papa con nomignoli o a etichettarlo, ma non è poi così diverso quello che lui oggi dice,rispetto a quello che disse Gesù.
La Maddalena non fu condannata,ma perdonata, per questo poté cambiare vita.
Le donne che seguivano Gesù furono liberate dal peccato, ma anche dal pregiudizio degli uomini.
Quando l'uomo imparerà a provare misericordia per gli altri, allora la misericordia di Dio si aprirà su di Lui e verrà accolto e saprà accogliere; verrà perdonato e saprà perdonare. 

giovedì 19 settembre 2013

SANTI é BEATI :

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San Giuseppe Maria de Yermo y Parres Sacerdote

20 settembre

Jalmolonga, Messico, 10 novembre 1851 - Puebla de los Angeles, 20 settembre 1904

Nacque nella tenuta di Jalmolonga, municipio di Malinalco, nello Stato del Messico il 10 novembre 1851. All'età di 16 anni lasciò la casa paterna per fare ingresso nella Congregazione della Missione a Città del Messico. Dopo una sofferta crisi vocazionale abbandonò quella famiglia religiosa e continuò la strada verso il sacerdozio nella diocesi di León, e ivi fu ordinato sacerdote il 24 agosto 1879. Nel suo ministero sentì l'esigenza di fondare una casa di accoglienza per i bambini abbandonati. Il 13 dicembre 1885, seguito da quattro giovani coraggiose, diede inizio all'Asilo del Sagrado Corazón sulla collina del Calvario. Quel giorno è anche l'inizio della nuova famiglia religiosa delle «Serve del Sacro Cuore di Gesù e dei Poveri». Fondò poi scuole, ospedali, case di accoglienza per anziani, orfanotrofi, una casa di rigenerazione della donna, e poco prima della sua morte avvenuta nel 1904, portò la sua famiglia religiosa nella difficile missione tra gli indigeni tarahumaras del nord del Messico. Fu beatificato da Giovanni Paolo II il 6 maggio 1990. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Puebla in Messico, beato Giuseppe Maria de Yermo y Parres, sacerdote, che fondò la Congregazione delle Serve del Sacro Cuore di Gesù e dei Poveri per soccorrere i bisognosi nelle necessità dell’anima e del corpo.

Anche quando la vita sembra andare completamente per storto si può fare qualcosa di bello per Dio. Per José Maria de Yermo y Parres la vita comincia a “girare storta” cinquanta giorni dopo la nascita, con la morte improvvisa di mamma. Buon per lui che una sorella di papà, zia Carmen, se lo prende in casa, allevandolo ed educandolo con tenerezza di mamma, senza dimenticare di trasmettergli l’istruzione religiosa e l’amore per la preghiera. Nato nel 1851 a Città del Messico, studia da privatista con ottimi risultati fino quando a 16 anni entra nella Congregazione della Missione di san Vincenzo de’ Paoli. Il Messico sta attraversando un buio periodo di persecuzione religiosa, e così a 18 anni il giovane novizio viene inviato a Parigi per gli studi di teologia. Torna a casa portandosi dietro, insieme a problemi di salute, una tormentata crisi vocazionale, che a 26 anni gli fa abbandonare definitivamente la Congregazione. Completa i suoi studi nel seminario diocesano e a 28 anni viene ordinato prete. A questo punto le cose per lui sembrano finalmente girare per il verso giusto: inizia brillantemente il suo ministero, predica con successo, la gente apprezza lo stile brillante con cui scrive articoli di formazione per le mamme sul giornale cattolico locale. Arrivano però nuovi problemi di salute e il vescovo lo solleva da ogni incarico di predicazione e di catechesi, affidandogli la cura di due piccoli santuari posti nelle vicinanze della città di Leon. Per il brillante oratore il nuovo modesto incarico pastorale equivale ad un umiliante declassamento. Anche gli amici soffiano sul fuoco, e lo consigliano di non accettare un incarico che sottovaluta le sue capacità. Quando è sul punto di cedere e di contestare il suo vescovo, ecco farsi strada in lui il principio che ispirerà da quel momento in poi tutta la sua vita: “amo devotamente la chiesa ed è mia ferma volontà obbedirla e rispettarla sempre”. Questa sofferta obbedienza gli fa aprire gli occhi sulle povertà del suo tempo. Un giorno vede sulla riva del fiume alcuni maiali che stanno divorando due bambini appena nati e subito abbandonati dalla loro mamma. Da questo fatto orrendo di cui è testimone arriva la scintilla che gli fa fare una radicale “opzione per i poveri”. Apre immediatamente una casa di assistenza per i poveri, ma non trova nessuna congregazione di suore disposta a prendersene cura. Raduna allora quattro giovani volontarie con le quali pochi mesi dopo inaugura il primo “Asilo del Sagrado Corazon de Jesùs”. Padre Yermo non sa che in quel modo semplice e per niente programmato nasce la sua congregazione delle “Serve del Sacro Cuore di Gesù e dei Poveri”, che oggi conta 700 suore, ancora impegnate nelle scuole, nelle case-famiglia, negli ambulatori e accanto ai bambini disabili. Difficoltà, maldicenze e persecuzioni non abbandonano Padre Yermo, che però ha imparato ad affrontarle confidando in Dio e con il sorriso sulle labbra. E sorridendo muore a 53 anni appena, il 20 settembre 1904. Papa Giovanni Paolo II lo ha proclamato “beato” il 6 maggio 1990 ed infine “santo” il 21 maggio 2000.


Autore: Gianpiero Pettiti

VOCE DI SAN PIO :

-"Tutti siamo chiamati dal Signore a salvare anime e preparare la sua gloria. L’anima può e deve propagare la gloria di Dio e lavorare per la salute degli uomini, menando una vita cristiana, pregando incessantemente il Signore «che venga il suo regno e non ci induca in tentazioni e ci liberi dal male». Questo è quello che dovete fare ancora voi, offredo tutta voi stessa e continuamente al Signore a questo fine." (Epist. II, p. 70).

(Lc 8,1-3) C’erano con lui i Dodici e alcune donne che li servivano con i loro beni.

VANGELO
(Lc 8,1-3) C’erano con lui i Dodici e alcune donne che li servivano con i loro beni.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.
Parola del Signore.





LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Spirito Santo, e porta nel mio cuore quello che desideri che io comunichi. Fa che possa servirti, come le donne servivano con i tuoi primi apostoli, ad annunciare la tua parola.

Poche righe, ma nella loro semplicità è contenuto uno dei più grandi temi della storia della Chiesa. Un tema che, ancora oggi, fa discutere e parlare chi vuole continuamente fare riforme, rivedere o aggiornare, le regole d’ingaggio.
Il ruolo delle donne, crea grossi problemi nella gerarchia ecclesiale, e addirittura è l’onda sulla quale cavalcano i dissidenti e coloro che vogliono un nuovo scisma nella Chiesa. Invitandovi a pregare perché questo non avvenga, perché lo Spirito Santo soffi prepotente nel cuore degli apostoli moderni, e li porti finalmente all’unità e non ad una nuova divisione, preghiamo in modo particolare per le donne del nuovo millennio, perché sappiano testimoniare la loro adesione a Cristo, non imponendo candidature, ma servendo con il loro esempio di ritrovata umiltà e testimonianza. Le donne che seguivano Gesù e gli apostoli, erano libere; infatti state liberate da demoni, da malattie e da consuetudini, che le tenevano prigioniere, perché l’incontro con Gesù aveva aperto ai loro occhi ed al loro cuore, una via completamente diversa, che non le relegava più ai margini della società, ma le poneva insieme agli apostoli intorno a Gesù che resta il centro della Chiesa, la via da seguire.
Uomini e donne si ritrovano così proiettati verso un futuro che è quello della collaborazione reciproca, della suddivisione dei compiti e dei carismi, attribuiti loro dallo Spirito Santo, prosecutore di Cristo e non dai membri della Chiesa, come erroneamente oggi si cerca un poco di far credere.
Pensiamo a quante Sante e mistiche di tutti i tempi, hanno saputo dare testimonianza della loro fede, con scritti, esempi ed opere, nella più grande umiltà ed obbedienza, proprio come fece Maria , che non si mise mai davanti agli apostoli, pur essendo la madre di Gesù e della Chiesa nascente, ma al servizio e alla custodia della stessa.Così come nella Chiesa, anche nella famiglia il ruolo della donna è di cooperazione con l'uomo, ed io non trovo nulla di umiliante in questo, ma a volte si cerca di prevaricare gli uni sugli altri e da questo nascono discussioni e separazioni.
Litigando per chi deve guidare non si parte mai. Discutendo per chi guida meglio, si va a sbattere! 

mercoledì 18 settembre 2013

SANTI é BEATI :

- San Mariano di Evaux Eremita


19 settembre

Sec. VI

Proveniente da un'onorata famiglia di Bourgesin Francia, abbandonò il mondo per diventare eremita a Berry. Si alimentava soltanto di frutti silvestri e di miele.

Etimologia: Mariano = dedicato a Maria, alla Madonna

Martirologio Romano: Nel territorio di Bourges in Aquitania, in Francia, san Mariano, eremita, che non si nutriva che di frutti selvatici e miele reperito per caso.

Si tratta di un eremita vissuto alla fine del secolo V, si parla di lui in due fonti altrettanto autorevoli, che pur raccontando le poche notizie sulla sua vita, in modo diverso, alla fine si possono benissimo integrare, perché comunque parlano della stessa persona.
Mariano apparteneva ad una onorata famiglia di Bourges in Francia, dopo imprecisate circostanze, lasciò la moglie e rinunciò al mondo per consacrarsi a Dio nella penitenza.
Dopo aver vissuto sei anni in un monastero, si ritirò in eremitaggio nel Berry, vivendo così in solitudine per 44 anni; si nutriva di frutti e miele selvatico; il luogo del suo ritiro è discorde nelle due fonti, una dice vicino al villaggio di Épineuil (oggi Épineuil-le-Fleuriel, nel Cher) e l’altra vicino Évaux (oggi Évaux-les-Bains, nella Creuse) comunque le due località sono distanti fra loro solo 45 km.
Sembrerebbe che sia vissuto ad Épineuil dove ricevé anche la visita di Tetradio, vescovo di Bourges, che consacrò la sua piccola cappella e lo invitò invano a farsi prete.
Verso la fine della sua vita Mariano si spostò, avvicinandosi a pochi km da Évaux, qui riceveva molti visitatori e un giorno che non lo si era trovato, seguirono le orme dei suoi passi e lo si scoprì morto, disteso sotto un albero di mele.
Dopo averlo lavato e rivestito, fu trasportato nel borgo di Évaux seppellendolo nella chiesa, dove ogni anno fu celebrata la sua festa; le sue reliquie sono tuttora nella chiesa di Évaux e sono portate in processione nella domenica seguente il 10 ottobre.
La sua festa è celebrata nella diocesi di Bourges al 19 agosto, data che è inserita nei Martirologi ‘Romano’ e ‘Geronimiano’.


Autore: Antonio Borrelli

VOCE DI SAN PIO :

-"Sì, benedico ben di cuore all’opera di catechizzare i fanciulli, che sono i fiorellini prediletti di Gesù. Benedico pure l’opera zelatrice delle opere missionarie." (Epist. III, p. 457)

(Lc 7,36-50) Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.

VANGELO
 (Lc 7,36-50) Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Parola del Signore
LA MIA RIFLESSIONE 
PREGHIERA 
O Dio, che non ti stanchi mai di usarci misericordia, donaci un cuore penitente e fedele che sappia corrispondere al tuo amore di Padre, perché diffondiamo lungo le strade del mondo il messaggio evangelico di riconciliazione e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 

Una donna entra nella stanza. Tutti la guardano e la giudicano, solo Gesù non la sta giudicando, perché lui non vede la peccatrice, ma la donna che ha molto amato, che ama…
Gesù va dritto al cuore, vede questa donna che piange e che si getta ai suoi piedi, non sa neanche chiedere perdono, sta lì muta e piangente, con i suoi profumi, che esalano, come la sua anima è lì, che esala al Signore la sua preghiera.
Gesù mette ancora una volta al centro l’ amore, quando uno ama è più importante di tutto, e ogni cosa può essere perdonata in nome dell’ amore.
La parabola dei due debitori a cui veniva condonato il debito, serve a Gesù per spiegare che non fa differenza se il debito è poco o tanto per il creditore, ma è la risposta che è diversa, a chi è condonato di più, sarà più riconoscente. Quanto dobbiamo essere riconoscenti noi che siamo peccatori a Gesù che ci ha perdonato prima ancora che gli chiedessimo perdono. Quanto vorrei mio Signore lavare i tuoi piedi insanguinati dai miei peccati con le lacrime del mio pentimento… ma forse non sono capace neanche di questo amore mio, non sono neanche cosciente di quanto ho peccato e, di  quanto continuo a peccare. Perdonami, tu che sai leggere il mio cuore, fa che a te esali il mio pentimento come profumo, sopra alle brutture del mio cuore.

martedì 17 settembre 2013

SANTI é BEATI :

-
San Giuseppe da Copertino Sacerdote

18 settembre

Copertino (Lecce), 17 giugno 1603 – Osimo (Ancona), 18 settembre 1663

Giuseppe Maria Desa nacque il 17 giugno 1603 a Copertino (Lecce) in una stalla del paese. Il padre fabbricava carri. Rifiutato da alcuni Ordini per «la sua poca letteratura» (aveva dovuto abbandonare la scuola per povertà e malattia), venne accettato dai Cappuccini e dimesso per «inettitudine» dopo un anno. Accolto come Terziario e inserviente nel conventino della Grotella, riuscì ad essere ordinato sacerdote. Aveva manifestazioni mistiche che continuarono per tutta la vita e che, unite alle preghiere e alla penitenza, diffusero la sua fama di santità. Giuseppe levitava da terra per le continue estasi. Così, per decisione del Sant'Uffizio venne trasferito di convento in convento fino a quello di San Francesco in Osimo. Giuseppe da Copertino ebbe il dono della scienza infusa, per cui gli chiedevano pareri perfino i teologi e seppe accettare la sofferenza con estrema semplicità. Morì il 18 settembre 1663 a 60 anni; fu beatificato il 24 febbraio 1753 da papa Benedetto XIV e proclamato santo il 16 luglio 1767 da papa Clemente XIII. (Avvenire)

Patronato: Aviatori, Passeggeri di aerei, Astronauti

Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico

Martirologio Romano: A Osimo nelle Marche, san Giuseppe da Copertino, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, che, nonostante le difficoltà affrontate durante la sua vita, rifulse per povertà, umiltà e carità verso i bisognosi di Dio.
Ascolta da RadioVaticana:
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Come il francescano spagnolo s. Salvatore da Horta (1520-1567) che creava molti problemi ai suoi confratelli per i continui prodigi che operava, così anche s. Giuseppe da Copertino, li creava con il suo levitare da terra e per le continue estasi.
Giuseppe Maria Desa, figlio di Felice Desa e di Franceschina, nacque il 17 giugno 1603 a Copertino (Lecce) in una stalla del paese.
Il padre, maestro nella fabbricazione dei carri, era persona di fiducia dei signori locali, che a Copertino possedevano un castello; aveva sposato Franceschina di famiglia benestante, industriosa e pia, che aveva portato una discreta dote in ducati; insomma le condizioni economiche erano soddisfacenti.
Poi il padre Felice, per fare un favore ad un amico, fece da garante per un affare di mille ducati; a seguito del fallimento dell’amico, Felice fu denunziato e perse la causa, dovette vendere la casa e perse il lavoro, finendo in miseria con tutta la famiglia.
Proprio quando stava per nascere il sesto figlio Giuseppe, andarono ad abitare in una stalla dove vide la luce il nascituro.
Dopo poco tempo il padre morì per il dispiacere e la vedova rimase sola con i sei figli senza l’aiuto di nessuno; d’altronde la miseria era grande in tutto il Salentino, i poveri contadini erano gravati dei più assurdi balzelli come per esempio, cinque grana per ogni albero, a causa dell’ombra che faceva sulla terra.
La povera vedova e i figli, vissero anni durissimi, Giuseppe Desa, incapace d’imparare il mestiere del carpentiere o dello scarparo, faceva il garzone in un negozio, dove si trovava meglio che a casa, anzi specifichiamo nella piccola stalla adattata ad abitazione umana.
In paese lo chiamavano “Boccaperta” per la sua abituale distrazione; in aggiunta, il creditore del padre ottenne dal Supremo Tribunale di Napoli, che Giuseppe unico figlio maschio di Felice e Franceschina, una volta raggiunta la maggiore età, fosse obbligato a lavorare senza paga, fino a saldare il debito del defunto genitore.
In pratica gli si prospettava una vita senza speranza, da considerare una vera e propria schiavitù; l’unico modo per sfuggire a questa desolante prospettiva era farsi sacerdote o frate.
Sacerdote non era possibile, in quanto Giuseppe non sapeva niente di lettere e istruzione, forse frate andava bene, perché occorrevano braccia per lavorare e su questo non c’era difetto.
La scuola che aveva cominciato a frequentare, la dovette lasciare quasi subito, a causa di un’ulcera cancrenosa che lo tormentò per cinque anni e di cui guarì grazie ad un eremita di passaggio che la massaggiò con dell’olio.
A quasi 17 anni, lasciò la madre e bussò alla porta dei Frati Francescani Conventuali, convento detto della ‘Grottella’ a due passi da Copertino, dove un suo zio era stato padre Guardiano, ma dopo un periodo di prova fu mandato via, per la sua poca letteratura, per semplicità ed ignoranza”.
Passò allora dai Francescani Riformati, ma anche questi dopo un po’ lo rifiutarono, si diresse allora dai Cappuccini di Martina Franca, era il 15 agosto 1620, allora erano esigenti in fatto di cultura, vi restò otto mesi, ma per la sua inettitudine procurava continui disastri, aggravati da improvvise estasi durante le quali lasciava cadere piatti e scodelle, i cui cocci venivano attaccati alle sue vesti in segno di penitenza.
Nel marzo 1621 fu rimandato a casa, sostenendo che non era adatto alla vita spirituale né ai lavori manuali. Aveva una incapacità naturale e una preoccupazione soprannaturale, ma mentre la prima era evidente, la seconda sfuggiva a tutti.
Uscito dal convento rivestito con pochi stracci, perché aveva perso una parte del suo abito da laico, fu scambiato per un poco di buono, assalito dai cani di una vicina stalla e quasi bastonato dai pastori; fu respinto dallo zio paterno e persino la madre lo maltrattò, rimproverandogli di essersi fatto cacciare dal convento e che per lui non c’era posto.
Grazie all’interessamento dello zio materno, Giovanni Donato Caputo, riuscì dopo molte insistenze a farsi accettare di nuovo dai Conventuali della ‘Grottella’, esponendo il suo caso per sfuggire alla condanna del Tribunale; i frati presero a cuore la situazione e lo ammisero nella comunità, prima come oblato, poi come terziario e finalmente come fratello laico, aveva 22 anni e si era nel 1625.
Addetto ai lavori pesanti e alla cura della mula del convento, Giuseppe ben presto espresse il desiderio di diventare sacerdote, sapeva appena leggere e scrivere, ma intraprese gli studi con volontà e difficoltà; quando dovette superare l’esame per il diaconato davanti al vescovo, accadde che a Giuseppe, il quale non era mai riuscito a spiegare il Vangelo dell’anno liturgico tranne un brano, il vescovo aprendo a caso il libro domandò il commento delle frase: “Benedetto il grembo che ti ha portato”, era proprio l’unico brano che egli era riuscito a spiegare.
Quando trascorsi i tre anni di preparazione al sacerdozio, bisognava superare l’ultimo e più difficile esame, i postulanti conoscevano il programma alla perfezione, tranne Giuseppe; il vescovo ascoltò i primi che risposero brillantemente all’interrogazione e convinto che anche gli altri fossero altrettanto preparati, li ammise tutti in massa, era il 4 marzo 1628.
Per la seconda volta fra Giuseppe, superò l’ostacolo degli esami in modo stupefacente e fu ordinato sacerdote per volere di Dio.
Si definiva fratel Asino, per la sua mancanza di diplomazia nel trattare gli altri uomini, per la sua incapacità di svolgere un ragionamento coerente, per il non sapere maneggiare gli oggetti, ciò nonostante nel corso della sua vita ebbe tanti incontri con persone di elevata cultura, con le quali parlava e rispondeva con una teologia semplice ed efficace.
Un professore dell’Università francescana di S. Bonaventura di Roma, disse: “L’ho sentito parlare così profondamente dei misteri di teologia, che non lo potrebbero fare i migliori teologi del mondo”.
Ad un grande teologo francescano che chiedeva come conciliare gli studi con la semplicità del francescanesimo, rispose: “Quando ti metti a studiare o a scrivere ripeti: Signor, tu lo Spirito sei / et io la tromba. / Ma senza il fiato tuo / nulla rimbomba”.
Possedeva il dono della scienza infusa, nonostante che si definisse “il frate più ignorante dell’Ordine Francescano”; amava i poveri, alzava la voce contro gli abusi dei potenti, ai compiti propri del sacerdote, univa i lavori manuali, aiutava il cuoco, faceva le pulizie del convento, coltivava l’orto e usciva umilmente per la questua.
Amabile, sapeva essere sapiente nel dare consigli ed era molto ricercato dentro e fuori del suo Ordine. Dopo due anni di terribile aridità spirituale, che per tutti i mistici è la prova più difficile a superare, a frate Giuseppe si accentuarono i fenomeni delle estasi con levitazioni; dava improvvisamente un grido e si elevava da terra quando si pronunciavano i nomi di Gesù o di Maria, nel contemplare un quadro della Madonna, mentre pregava davanti al Tabernacolo; una volta volando andò a posarsi in ginocchio in cima ad un olivo, rimanendovi per una mezz’ora finché durò l’estasi.
In effetti volava nell’aria come un uccello, fenomeni che ancora oggi gli studiosi cercano di capire se erano di natura parapsicologica o mistica; il fatto storico è che questi fenomeni sono avvenuti e in presenza di tanta gente stupefatta, che s. Giuseppe da Copertino non era un ciarlatano né un mago, ma semplicemente un uomo di Dio, il quale opera prodigi e si rivela ai più umili e semplici.
Comunque frate Giuseppe costituì un problema per i suoi Superiori, che lo mandarono in vari conventi dell’Italia Centrale, per distogliere da lui l’attenzione del popolo, che sempre più numeroso accorreva a vedere il santo francescano.
Di lui si interessò l’Inquisizione di Napoli, che lo convocò per capire di che si trattasse e nel monastero napoletano di S. Gregorio Armeno, davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi; la Congregazione romana del Santo Uffizio alla presenza del papa Urbano VIII, lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare e lo confinò in un luogo isolato, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale.
Fu sballottolato da un convento all’altro, a Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone e infine ad Osimo (Ancona).
Aveva familiarità con gli animali, con cui conversava e come si era identificato in fratel Asino, così identificava gli altri uomini nelle sembianze dell’animale che meglio simboleggiava le sue caratteristiche di vita.
Nel 1656 papa Alessandro VII mise fine al suo peregrinare da un convento all’altro, destinandolo ad Osimo dove rimase per sette anni fino alla morte, continuando ad avere estasi, a sollevarsi da terra e ad operare prodigi miracolosi.
Morì il 18 settembre 1663 a 60 anni; fu beatificato il 24 febbraio 1753 da papa Benedetto XIV e proclamato santo il 16 luglio 1767 da papa Clemente XIII.
Riposa nella chiesa a lui dedicata ad Osimo; festa liturgica il 18 settembre.


Autore: Antonio Borrelli

VOCE DI SAN PIO :

-"Il tempo speso per la gloria di Dio e per la salute dell’anima, non è mai malamente speso." (CE, 9).

(Lc 7,31-35) Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.

VANGELO 
(Lc 7,31-35) Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, il Signore disse: «A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “ Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto! ”. È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “ È indemoniato ”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “ Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori! ”. Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».

Parola del Signore

(Lc 7,31-35) Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.
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LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA


Vieni o Santo Spirito e conduci la nostra intelligenza, vivificata dal tuo Spirito, sui sentieri dove tu ti riveli nella tenebra luminosa del silenzio. Dà a noi occhi limpidi per contemplarti, e un umile cuore per lasciarci contemplare da te.


Un detto proverbiale dice: -L’erba del vicino è sempre più verde.-
Si sa che i proverbi non sbagliano mai; non siamo mai contenti di quello che succede intorno a noi. Vennero i profeti, prima di Gesù che parlavano nel nome di Dio, ma non li ascoltarono; venne Giovanni e lo presero per pazzo, ma nel dubbio gli tagliarono la testa; venne Gesù e lo crocefissero, ancora oggi viene dal cielo Maria, e la gente va a vedere il miracolo, attirata dalla straordinarietà della cosa, ma la percentuale delle persone che si rende veramente conto di quanto amore c’è in tutto questo, che non si limita ad ascoltare i messaggi, ma cerca di fare di tutto per viverli, è ben misera.
Siamo duri di cuore e la storia non ci insegna nulla, eppure ci viene chiesta  la santità, ed io credo che veramente, se solo riuscissimo a vivere almeno al 50% la grazia del Signore, se sapessimo apprendere dalle parole del vangelo e dai messaggi di Maria la voglia del Signore di inondarci di grazie, forse capiremmo cosa vuol dire “essere davanti al Signore”, ”vivere nel regno di Dio”.
La difficoltà di essere umili, di rinunciare a quello spicchio di mondo frivolo per vivere in preghiera, di annullare i propri desideri per ascoltare quelli del Signore, io vorrei veramente riuscire a capire che cosa mi sto perdendo! Cerco di ascoltare, di afferrare, mi sembro un aspirapolvere a volte che cerca di raccattare le briciole di questo amore e che non riesce a stringerle tra le mani se non per qualche secondo.
Facciamo di questa vita la nostra grande occasione, facciamoci aiutare dalla Madre perfetta, dalla migliore collaboratrice di Dio ad essere come Lei, perché solo attraverso Lei potremo sperare di far nascere in noi Gesù, solo attraverso il grembo immacolato che è stato prescelto da Dio come sua prima dimora .


lunedì 16 settembre 2013

SANTI é BEATI :

-San Francesco Maria da Camporosso (Giovanni Croese) Laico cappuccino

17 settembre

Camporosso, Imperia, 27 dicembre 1804 - Genova, 17 settembre 1866

Al secolo Giovanni Croese, frate minore cappuccino, detto “Padre Santo” visse a Genova, distinguendosi per le opere di carità. Padre Francesco Maria da Caporosso, fu l’umile cappuccino che tutta Genova amò per le sue opere di bene, il frate sempre in movimento nei carruggi della città, fra i “caravana” del porto, nei quartieri più colpiti dal colera sino ad esserne contagiato. Fu beatificato nel 1929 da Papa Ratti e venne proclamato santo da Papa Giovanni XXIII, il 9 dicembre 1962.

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco

Martirologio Romano: A Genova, san Francesco Maria da Camporosso, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, insigne per la sua carità verso i poveri, che, al dilagare della peste, contrasse egli stesso la malattia, offrendosi come vittima per la salvezza del prossimo.
Ascolta da RadioVaticana:


Nacque il beato Francesco Maria il 27 dicembre 1804 da Giovanni Croese e da Maria Antonia Garzo a Camporosso, un paesino sulla riviera ligure di Ponente, nell’attuale provincia di Imperia. Due giorni dopo la sua nascita venne battezzato col nome paterno di Giovanni.
Da sua madre, per la quale la fede era luce e forza di vita, il piccolo Giovanni ricevette i primi insegnamenti di quella pietà semplice e profonda, che dovevano più tardi svilupparsi nelle virtù della vita cristiana e mettere intorno al suo capo l’aureola di santità. Ancora ragazzo, fu pastore del piccolo gregge paterno, e fatto grandicello, aiutò il padre nel duro lavoro dei campi.
Ricevette nella festa del Corpus Domini del 1816, la prima Comunione, dopo di che cadde gravemente infermo e guarì per l’intercessione della Madonna del Laghetto, che si venera presso Nizza.
A l7 anni, udita la voce di Dio che lo chiamava a una vita più perfetta, entrò fra i Minori Conventuali in qualità di terziario. Ma dopo fervorose preghiere alla Beata Vergine e col consiglio di illuminati religiosi abbracciò la vita religiosa fra i Minori Cappuccini, entrandovi come novizio il 7 dicembre 1825 col nuovo nome di Francesco Maria.
Durante il noviziato ebbe modo di rivelarsi la squisita bellezza dell’anima di frate Francesco e di svilupparsi quell’ardore di carità per il Signore e per il prossimo che doveva fare di lui umile laico cappuccino, il benefattore dell’intera città di Genova.
Difatti, appella finito il noviziato, il beato fu destinato al convento della SS. Concezione di Genova, dapprima come aiuto nella cucina e come infermiere, poi come questuante, nel quale ufficio trascorse circa 40 anni cioè quasi tutta la sua vita di religioso. Una vita non ricca di avvenimenti grandiosi, ma piena di luce e di una bontà ingegnosamente operosa e inesauribile. Nel quartiere del porto e del deposito franco, ove in particolar modo si svolse l’attività di frate Francesco, la sua figura alta, simpatica, piena di modestia e di grazia, esercitava un fascino straordinario su quanti l’avvicinavano.
Ogni dolore umano trovava nel beato una dolce parola di conforto e una luce di cristiana speranza. La gente di mare specialmente ricorreva a lui con commovente fiducia, mai venuta a meno sino a oggi.
Fu proprio di mezzo al popolo che sorse il grido di “Padre santo” per designare frate Francesco ed esprimere l’ammirazione e la gratitudine di quanti erano stati beneficati dalla carità dell’umile.
Quando verso l’estate del 1866 scoppiò una furiosa epidemia in Genova, non recò meraviglia, ma solo profonda commozione, il sapere ehe il “Padre santo” aveva offerto al Signore la sua vita in olocausto, onde far cessare il flagello che aveva colpito la sua città diletta. Era la suprema prova di amore che il laico cappuccino offriva ai suoi fratelli sofferenti, prova accettata da Dio il 17 settembre 1866.
La causa di Beatificazione introdotta il 9 agosto 1896 fu compiuta da Pio XI il 30 giugno del 1929.

VOCE DI SAN PIO :

-"Ricordalo: è piú vicino a Dio il malfattore che ha vergogna di operare il male che l’uomo onesto il quale arrossisce di operare il bene." (CE, 16).

(Lc 7,11-17) Ragazzo, dico a te, alzati!

VANGELO
 (Lc 7,11-17) Ragazzo, dico a te, alzati!

+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 
Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego, o Santo Spirito, di essermi amico, compagno fedele, nonostante le mie infedeltà. Perfezionami, perché sono piena di mancanze, non guardare le mie colpe, ma la mia voglia di appartenerti veramente e per sempre. Fa che questo mio sogno, diventi realtà.

Mentre continua il peregrinare di Gesù, seguito dai discepoli, ecco che alle porte della citta di Nain, incontrano un funerale. C’era una madre che piangeva il figliolo morto, ed era un dolore che schiacciava la donna, che non aveva più altro motivo apparentemente per vivere, perché oltre al suo unico figlio, aveva perso già anche il marito.
Gesù passava di lì e si commosse davanti a tanto dolore! Vediamo ancora una volta, come successe con Lazzaro, che davanti alla morte e al dolore Gesù si commuove, che la fede deve superare il dolore attraverso la speranza della resurrezione.
Questo ragazzo può simboleggiare ognuno di noi, o dei nostri figli, morto alla vita eterna a causa del peccato.
Gesù va oltre la morte, perché il suo amore e la sua misericordia, lo legano alla nostra salvezza come un bene inscindibile, neanche la nostra adesione al peccato, ferma il suo perdono.
Questo brano mi porta, da mamma, a pensare a quanti nostri figli, si perdono per le strade del mondo, dietro a quelle luci che li attirano, dietro a quella che si spaccia per libertà, ma che è spesso una trappola mortale.
Quanti genitori perdono la speranza di vedere i loro figli tornare verso la retta via?
Quanti genitori potrebbero con la loro preghiera attirare sui figli la mano salvifica del Signore, ma non lo fanno, perché anche loro sono lontani dal Signore, oppure la loro fede è inconsapevole, tiepida, o addirittura inerte.
In questo li vedo che accompagnano i loro figli ormai morti alla grazia, e neanche si rendono conto della misericordia di Gesù.
Ieri abbiamo visto la supplica del centurione pagano, ricordiamo quella della figlia del capo della sinagoga e quella delle sorelle di Lazzaro… di questa vedova non leggiamo la supplica, ma vediamo le lacrime di dolore, che commossero Gesù.
Credo che non servano parole per spiegare che la salvezza è una grazia che Gesù brama di concedere, perché la nostra vita è la sua gioia.
La madre gioisce per il ritorno in vita del figlio, come la Madonna, Madre della Chiesa, esulta per la conversione dei peccatori, figli strappati alla morte.
Non limitiamoci ad andare nei Santuari a fare i turisti, ma riportiamo con noi, impressi nel nostro cuore, i messaggi della Madonna.
Preghiera e digiuno per la salvezza dei peccatori, senza dimenticare MAI, che noi siamo tra questi, e che dobbiamo amare il nostro prossimo come Dio ci ama.
Santa Maria , Madre di Dio e Madre nostra,prega per NOI PECCATORI.



domenica 15 settembre 2013

(Lc 7,1-10) Neanche in Israele ho trovato una fede così grande

VANGELO DI 
(Lc 7,1-10) Neanche in Israele ho trovato una fede così grande.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao. Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa». All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Spirito di Dio e donaci la luce per capire quello che Tu vuoi che io noi capiamo. A te ci affidiamo con fede, come il centurione si affidò a Gesù.
Il centurione era un comandante dell'esercito romano, quindi un pagano, sente parlare di Gesù, che sembra veramente un ebreo diverso dagli altri, uno che non solo compie dei miracoli, delle guarigioni, ma che non disdegna di fermarsi per parlare ed accontentare anche gli ultimi e i lontani , quelli che per la fede ebraica erano tagliati fuori ed allora si fa coraggio e chiede ad alcuni anziani giudei, di chiedere per lui a Gesù di salvare il suo servo che stava molto male. L'uomo, voleva bene al suo servo suo e sperava nell’ intervento miracoloso di Gesù ed era probabilmente un uomo generoso, perché anche gli anziani giudei, si spinsero a perorare la sua causa. Con molta umiltà, quando seppe che Gesù stava andando da lui, gli corse incontro, ritenendosi indegno di ospitarlo in casa sua. Egli non vedeva il suo servo come un lavoratore da sfruttare, ma come un amico, proprio come Gesù vede noi ,e l’amore lo porta a pregare per lui, lo stesso amore con il quale Gesù lo ripaga, benché pagano ed accoglie la sua preghiera. Una fede così non poteva non colpire Gesù, che non aveva certo preconcetti ,anche se aveva detto inizialmente di essere venuto solo per il popolo ebraico, ma da subito, non aveva rifiutato grazie a nessuno. Questo ci spinge a capire che i nostri orizzonti si debbono allargare, verso chi ha una fede diversa dalla nostra, nel senso che dobbiamo amare tutti e non chiudere il nostro cuore verso alcuno, ritenendolo indegno. Un esame più attento invece, dobbiamo farlo verso noi stessi, proprio come il pagano della racconto di Luca, per scoprire quanto e profonda la nostra fede in Cristo.
Gesù non ci permette di restare immobili sulle nostre idee, ma ci obbliga ad allargare il nostro modo di concepire la parola di Dio, perchè non è l'idea che ci siamo fatti di Lui che dobbiamo seguire, ma quello che la vita ci presenta visto con i suoi occhi. Le regole degli ebrei che restavano attaccati all' idea che si erano fatti del Messia, non gli ha permesso di riconoscerlo in Gesù. Se noi non perdiamo il nostro modo di pensare, e non entriamo in comunione con Dio, non potremo mai neanche cominciare a viverlo.