lunedì 23 novembre 2015

Storia di Santa Teresina

Storia di Santa Teresina

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Prima di sposarsi Luigi Martin, il papà di Teresa, aveva tentato la via del chiostro. Nel 1845, a 22 anni, salì al Monastero del Gran S. Bernardo, ma non fu accettato tra i monaci. Di temperamento profondamente contemplativo, avevo scelto la professione di orologiaio in Alençon, una piccola città a duecento chilometri da Parigi. Il lavoro minuzioso e di precisione esigeva raccoglimento e silenzio: nulla di meglio per elevare lo spirito a Dio. Lunghe passeggiate solitarie e la pesca erano il suo passatempo preferito.
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Zelia Guérin, la mamma di Teresa, aveva desiderato anch’ella di entrare in un Istituto religioso. Si era presentata presso le Suore di S. Vincenzo, ma ricevette una categoria risposta che quella non era la volontà di Dio. A malincuore chinò il capo e da allora si limità a far salire al cielo questa semplice supplica: Signore, poiché non sono degna di esservi sposa, entrerò nello stato matrimoniale per compiere la vostra santa volontà. Ma vi prego, datemi molti figli e che vi siano tutti consacrati. La sua preghiera fu pienamente esaudita: cinque delle sue figlie, tra cui Teresa, diventeranno claustrali. Era un’espertissima merlettaia nel cosiddetto “punto di Alençon”.
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Quando nacque Teresa, 2 gennaio 1873, la famiglia Martin era composta, oltre che dai genitori, da Maria, Paolina, Leonia; altri quattro figli, due maschi e due femmine, erano morti in tenera età. “Per tutta la mia vita è piaciuto a Dio circondarmi d’amore; i primi ricordi sono sorrisi e carezze tenerissime! .. Ma, se Egli mi aveva messo intorno tanto amore, ma ne avevo posto anche nel cuore, creando amante e sensibile; così amavo grandemente papà e mamma e dimostravo il mio affetto in mille modi, perché ero molto espansiva” (4v°, 14).
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La piccola Teresa è molto gracile. La portano nella vicina Semallé, in campagna. Più tardi mamma Zelia scrive: “Teresa è una gran bella bimba abbronzata dal sole; la sua balia la trasporta in carriola per i campi seduta sopra fasci d’erba; non grida quasi mai. La ‘Rosina” dice che non si può vedere una bambina più graziosa. Così, come vede, mia cara sorella, tutto va per il meglio… La piccola è dolce e carina come un angioletto. Ha un carattere incantevole, lo si vede già: ha un sorriso tanto dolce. Non vedo il momento di averla a casa… sarà bella ed è già graziosa; ammiro la sua boccuccia che la balia mi dice ‘grande come un occhio’!… sarà di buon carattere, pare molto intelligente e ha un visiono da predestinata” (6v°, 24).
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Scrive la mamma di Teresa alle due figlie maggiori, Maria e Paolina, che sono in pensionato: “Ultimamente mi è accaduta un’avventura curiosa con la piccina. Ho l’abitudine di andare a messa delle cinque e mezzo, nei primi giorni non osavo lasciarla, ma vedendo che non si svegliava mai, ho finito per decidermi. La metto nel mio letto e accosto la culla, in modo che lei non possa cadere. Un giorno però dimentico di avvicinare la culla. Ritorno… la piccina non c’è più: nello stesso attimo sento uno strilletto. Guardo e la vedo seduta sopra una seggiola accanto al letto, con la testina appoggiata al traversino, e dormiva agitata per la posizione scomoda. Avrebbe dovuto ruzzolare per terra, ma il suo Angelo ha vegliato” (Lettera 119).
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A due anni e mezzo, la piccola Teresa va con la mamma in visita dalla zia Maria Luisa, monaca a Le Mans. “Al momento dei saluti – scrive Teresa – la zia mi ha passato un piccolo paniere pieno di caramelle, sulle quali troneggiavano due graziosi anelli di zucchero grossi proprio come il mio dito; subito gridai: “Che bello! Ci sarà un anello anche per Celina”. Ma che dolore! Prendo il paniere per il manico, do l’altra mano alla mamma e partiamo: dopo pochi passi guardo il paniere e vedo che le caramelle erano quasi tutte seminate per la strada. Guardo ancora più da vicino e vedo che uno dei preziosi anelli aveva seguito la sorte fatale delle caramelle… Non avevo più niente da dare a Celina!” (7v°, 27).
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Un giorno Leonia, reputandosi troppo grande per certi giochi infantili, riempie un cestino con la sua bambola preferita, i suoi abitini, i nastri e i ritagli di stoffa, e mette tutto a disposizione delle due sorelle più piccole, perché scelgano a loro piacimento. Dopo che Celina aveva preso ciò che le piaceva, Teresa afferra il cestino dicendo: “Io scelgo tutto!”. Di questo gesto della sua infanzia Teresa si ricorderà più avanti, quando sarà felice di poter dire a Dio: “Io scelgo tutto ciò che tu vuoi”.
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Teresa aveva un’estrema paura del buio. La mamma, per farle vincere questa debolezza, la mandava ogni sera al piano superiore con un semplice incarico. La piccola non voleva disobbedire, ma salire quella scala le incuteva un vero terrore. Escogitò allora un compromesso. Ad ogni scalino chiama: «Mamma, mamma!» e se la signora Zelia si dimentica di rispondere ogni volta: «Sì, bambina mia!» Teresa resta ferma sullo scalino, aspettando la risposta materna. Un giorno farà così anche con Gesù, chiamandolo nel suo cuore ad ogni istante.
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La domenica, essendo troppo piccola per andare alla Santa Messa, Teresa rimaneva a casa con la mamma. Era però abitudine portarle a casa il pane benedetto. Scrive Teresa stessa: “Appena vedevo aprirsi la porta, era un’esplosione di gioia senza pari: «Oh, Celina mia, dammi subito il pane benedetto!». A volte non ne aveva, perché era arrivata troppo tardi. Come fare allora? Mi era impossibile farne a meno: quella era la “mia messa”. Il rimedio era subito trovato. «Non hai il pane benedetto? Ebbene, fanne!». Detto fatto, Celina prende il pane e molto seriamente ci recita sopra un’Ave Maria, poi me lo offre ed io, dopo aver fatto il segno della Croce, lo mangio con grande devozione, trovando che ha proprio il gusto del pane benedetto” (9v°, 36).
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Scrive mamma Zelia alla figlia Paolina: “Le due piccole (Celina e Teresa) non mi preoccupano, sono tanto care tutte due, sono nature scelte, certamente saranno buone. Celina non commette mai la minima colpa volontaria. La piccina sarà buona anche lei, non direbbe una bugia per tutto l’oro del mondo e ha spirito come non ne ho visto a nessuna di voi”. Scriverà anni dopo Teresa: “Amavo già gli orizzonti lontani. Le distese e gli abeti giganteschi, i cui rami toccavano terra, mi lasciavano nel cuore un’impressione simile a quella che provo ancora oggi alla vista della natura… Oh, davve-ro tutto mi sorrideva sulla terra, trovavo fi ori sotto ogni passo e anche il mio carattere felice contribuiva a rendermi piacevole la vita” (11v°, 40).
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“Cosa dire poi delle veglie d’inverno, soprattutto di quelle del-la domenica? Ah! come mi era dolce dopo la partita a dama sedermi con Celina sulle ginocchia di Papà… Con la sua bella voce, egli cantava dei motivi che riempivano l’anima di pensieri profondi… oppure, cullandoci dolcemente, recitava delle poesie impregnate di verità eterne… Dopo salivamo per fare la preghiera in comune e la reginetta stava da sola accanto al suo Re: non aveva che da guardarlo per sapere come pregano i Santi” (18r°, 63).
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“Una notte ho sognato che uscivo per andare a passeggiare da sola in giardino. Davanti a me c’era un barile di calce e su questo barile due orrendi diavoletti ballavano con un’agilità sorprendente, nonostante i ferri da stiro che avevano ai piedi. Ad un tratto gettarono su di me i loro occhi fiammeggianti, poi, sembrando molto più spaventati di me, si precipitarono giù dal barile e andarono a nascondersi nella lavanderia. Vedendoli così poco coraggiosi, mi avvicinai alla finestra. I poveri diavoletti erano là che correvano sui tavoli e non sapevano come fare per fuggire il mio sguardo. Credo che il Buon Dio mi abbia voluto far capire che un’anima in stato di grazia non ha niente da temere dai demoni che sono dei vigliacchi, capaci di fuggire davanti allo sguardo di una bambina” (10v°, 38).
16“Durante le passeggiate che facevo con Papà, gli piaceva farmi portare l’elemosina ai poveri che incontravamo: un giorno ne vedemmo uno che si trascinava faticosamente sulle stampelle, mi avvicinai per donargli un soldo, ma egli pensò di non essere abbastanza povero per ricevere l’elemosina. Non posso esprimere quello che accadde nel mio cuore: avrei voluto consolarlo, soccorrerlo… Allora mi ricordai di aver sentito dire che il giorno della Prima Comunione si ottiene tutto quello che si domanda. Questo mi consolò e dissi: « Il giorno della mia Prima Comunione pregherò per il mio povero». Mantenni la promessa cinque anni dopo” (15r°, 52).
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Tutta questa felicità dell’infanzia svanirà all’improvviso, quando la signora Zelia Guérin, consumata da un male incurabile, morirà nell’agosto del 1877. Le cinque figlie sono sconvolte. Teresa, che ha solo quattro anni e mezzo, si getterà tra le braccia della sorella Paolina chiedendole di farle da “seconda mamma”. Scriverà anni dopo Teresa: «A partire dalla morte della mamma, il mio carattere felice cambiò completamente. Io, così vivace, così espansiva, diventai timida e dolce, sensibile all’eccesso» (12r°, 41).
9Nel novembre 1877 tutta la famiglia lascia Alençon per trasferirsi a Lisieux. In quella città abitano gli zii Guérin e le loro due fi glie: Giovanna di nove anni e Maria di sette. Teresa non soffrì per il cambiamento, anzi: «Non provai alcun dispiacere a lasciare Alençon, – scrive – i bambini amano i cambiamenti e fu con piacere che venni a Lisieux» (13v°, 46). Teresa ama correre e giocare con la sorella Celina e le due cuginette nel grande giardino dei “Buissonnets”, come si chiamava l’incantevole casa, situata sulle alture di Lisieux.
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Teresa, con la cugina Maria, frequenta la scuola all’Abbazia delle Benedettine. “Una sera, tornando dall’Abbazia, dissi a Maria: «Guidami tu, io chiudo gli occhi». «Voglio chiuderli anch’io», mi rispose. Detto fatto, senza discutere ognuna fece come volle… Dopo una piacevole passeggiata di qualche minuto, le due piccole sbadate caddero insieme sopra alcune casse, poste alla porta di un negozio; o meglio, esse fecero cadere queste ultime. Il venditore venne fuori tutto arrabbiato per rialzare la sua merce: le due cieche volontarie si erano pur rialzate da sole e camminavano a grandi passi, con gli occhi spalancati” (23v°, 78).
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Una sera d’estate, tornando dalla casa dello zio insieme al papà, Teresa fu colpita dalla bellezza del cielo stellato. Scrisse più tardi: “C’era soprattutto un gruppo di perle d’oro che osservavo con gioia pensando che aveva la forma di una T, lo facevo vedere a Papà dicendogli che il mio nome era scritto nel Cielo e poi, non volendo vedere niente della brutta terra, gli chiedevo di guidarmi. Allora, senza guardare dove mettevo i piedi, stavo con la testolina per aria senza stancarmi di contemplare il cielo stellato!” (18r°, 62).
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Teresa amava molto i fiori e li coltivava in un angolo del suo orto, per poi offrirli, piena di gioia, al papà o per portarli al piccolo presepio che aveva costruito in una fessura del muro del giardino, davanti al quale si soffermava spesso a pregare Gesù Bambino. Ma le ricreazioni più attese da Teresa erano quelle del giovedì, giorno di vacanza, quando il babbo la portava in campagna o in riva ad un ruscello. Spesso, dopo aver provato a pescare, si appartava tra le piante e i suoi pensieri si facevano molto profondi…
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Quando ebbe 7 anni Teresa, ben preparata dalla sorella Paolina, fece la sua prima confessione nella Cattedrale di san Pietro a Lisieux. Ricordando quel giorno, Teresa scrisse: “Entrai nel confessionale e mi misi in ginocchio, ma aprendo la grata don Ducellier non vide nessuno: ero così piccola che la mia testa stava sotto la tavoletta su cui si appoggiano le mani. Allora mi disse di restare in piedi; obbedii subito, mi alzai e, voltandomi proprio davanti a lui per vederlo bene, feci la mia confessione come una ragazza grande e ricevetti la sua benedizione con grande devozione” (16v°, 57).
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Un pomeriggio, mentre papà era in viaggio ad Alençon, avvenne questo fatto straordinario, che Teresa stessa ricorderà più tardi così: «Mi trovavo da sola alla finestra di una mansarda, quando vidi davanti alla lavanderia un uomo vestito come Papà, della stessa statura e con lo stesso passo, solo che era molto più curvo… La testa era coperta da una specie di grembiule di colore indefinito in modo che non riuscii a vedere il viso. Allora chiamai molto forte, con una voce che tremava per l’emozione: “Papà! Papà!”. Ma il misterioso personaggio pareva non udirmi» (20r°, 68). Divenuta grande, Teresa capirà il senso di quella visione: il volto del suo amato papà, colpito da una malattia mentale, si sarebbe velato di sofferenza come il Santo Volto di Gesù sulla Croce.
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E arriva finalmente anche il periodo felice delle vacanze. Spesso la famiglia Martin si ritrova in riva al mare, a Trouville, dove gli zii affittano una villetta. Che felicità per la piccola Teresa. Ricorderà poi, scrivendo i suoi ricordi: «La sera, nell’ora in cui il sole sembra immergersi nell’immensità dei flutti, lasciandosi davanti un solco luminoso, andavo a sedermi tutta sola su una roccia con Paolina… Lo contemplai a lungo quel solco luminoso, immagine della grazia che illumina il cammino che deve percorrere il piccolo vascello dalla bella vela bianca… Accanto a Paolina, presi la decisione di non allontanare mai la mia anima dallo sguardo di Gesù, affinché voghi in pace verso la Patria dei Cieli!» (22r°, 73).
11Nel 1882 la sorella Paolina lasciò la famiglia per entrare nel Carmelo di Lisieux col nome di suor Agnese di Gesù. Per Teresa il distacco dalla sua “seconda mamma” fu un colpo gravissimo e dopo due mesi anche la sua salute ne risentì. Fu colpita da una strana malattia: soffriva di un forte mal di testa, che la portava a pronunciare parole che non avevano senso; spesso veniva colpita da un tremito che la intontiva e la rendeva come svenuta. Ogni rimedio si mostrava inefficace ed i medici stessi disperavano ormai di poterla salvare.
7Il 13 maggio 1883, giorno di Pentecoste, le sorelle Maria, Leonia e Celina si inginocchiarono davanti alla statua della Vergine Maria, posta accanto al letto di Teresa, per chiederle il miracolo. Anche Teresa si unì alla loro preghiera. «All’improvviso – scrive Teresa – la Madonna mi parve bella, così bella, che non avevo mai visto nulla di così bello: il suo volto spirava una bontà e una tenerezza ineffabile, ma ciò che mi penetrò fino in fondo all’anima fu l’incantevole “sorriso della Madonna”. Allora tutte le mie sofferenze svanirono» (30r°, 94). Ed in breve Teresa ritrovò la sua vivacità.
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“Leggendo i racconti delle gesta patriottiche delle eroine francesi, in particolare quelle di Giovanna d’Arco, avevo un grande desiderio di imitarle. Mi sembrava di sentire in me lo stesso ardore da cui erano animate, la stessa ispirazione celeste: allora ricevetti una grazia che ho sempre ritenuto come una delle più grandi della mia vita. Pensai che ero nata per la gloria e, mentre cercavo il mezzo per giungervi, il Buon Dio mi fece capire che la mia gloria non sarebbe apparsa agli occhi mortali e che consisteva nel divenire una grande Santa!!!” (32r°, 99).
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L’8 maggio 1884 fu il giorno meraviglioso della Prima Comunione, alla quale Teresa si era preparata diligentemente e con dei fioretti, per correggere i suoi piccoli difetti. Ecco cosa scrive di quel giorno: “Fu un bacio d’amore, mi sentivo amata, e perciò dicevo: «Ti amo, Gesù, mi dono a te per sempre»” (35r°, 109). In quel giorno, per Teresa, tutte le cose terrene avevano perso la loro importanza, anche il bell’orologio che papà le aveva regalato.
6Teresa viene a conoscenza di un fatto doloroso del quale si parla in tutta la Francia: un uomo, di nome Enrico Pranzini, è accusato d’aver ucciso a Parigi due donne e una bambina. Egli si dichiara innocente, ma il tribunale lo condanna a morte. Subito Teresa sente di voler bene a colui che chiamerà “il mio primo figlio spirituale”: per la sua conversione prega, moltiplica i sacrifici e fa celebrare Messe. Scriverà poi: “La mia preghiera fu esaudita alla lettera! Il giorno dopo la sua esecuzione mi trovo sotto mano il giornale La Croix. Lo apro in fretta e cosa vedo? Pranzini non si era confessato, era salito sul patibolo, quando a un tratto, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presenta e bacia per tre volte le sante piaghe!” (46r°, 135).
1Da lungo tempo anche Teresa desiderava entrare al Carmelo, ma occorreva il permesso del papà. “Per fare la mia grande confidenza scelsi il giorno di Pentecoste: tutto il giorno supplicai i Santi Apostoli di pregare per me, di ispirarmi le parole che dovevo dire… Fu solo il pomeriggio, di ritorno dai vespri, che trovai l’occasione di parlare al mio Papà diletto. Era andato a sedersi sul bordo della cisterna e là contemplava le meraviglie della natura. Senza dire una sola parola andai a sedermi accanto a lui, gli occhi già bagnati di lacrime; egli mi guardò con tenerezza, mi prese la testa e l’appoggiò sul suo cuore dicendomi: «Che hai reginetta mia? Confidamelo!». Tra le lacrime gli confidai il mio desiderio di entrare al Carmelo (50r°, 143)
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“Mi ricordo perfettamente fu il gesto simbolico che il mio diletto Re compì senza saperlo. Avvicinandosi ad un muro non molto alto, mi mostrò dei fiorellini bianchi simili a dei gigli in miniatura e, prendendo uno di quei fiori, me lo diede, spiegandomi con quanta cura il Buon Dio l’aveva fatto nascere e l’aveva conservato fino a quel giorno. Sentendolo parlare, credevo di ascoltare la mia storia, tanta era la somiglianza tra quello che Gesù aveva fatto per il piccolo fiore e la piccola Teresa… Ricevetti quel fiorellino come una reliquia e vidi che nel coglierlo Papà aveva tolto tutte le sue radici senza spezzarle: sembrava destinato a vivere ancora in un’altra terra più fertile del muschio tenero nel quale erano trascorsi i suoi primi giorni… Era proprio questo stesso atto che Papà aveva fatto per me alcuni istanti prima, permettendomi di salire la montagna del Carmelo e di lasciare la dolce valle, testimone dei miei primi passi nella vita” (50v°, 143).
venezia
“Il viaggio in Italia mi ha istruita di più quello solo che non lunghi anni di studi; mi ha mostrato la vanità di tutto ciò che passa e come tutto è afflizione di spirito sotto il sole. Comunque ho visto cose bellissime, ho contemplato tutte le meraviglie dell’arte e della religione, soprattutto ho calpestato la stessa terra dei santi Apostoli, la terra bagnata dal sangue dei martiri. Venezia non è senza fascino, ma trovo triste questa città. Il palazzo dei dogi è splendido, tuttavia è triste anch’esso con i suoi ampi appartamenti che sfoggiano l’oro, il legno, i marmi più preziosi e le pitture dei maggiori maestri. Da molto tempo le sue volte sonore hanno smesso di udire la voce dei governatori che pronunciavano sentenze di vita e di morte nelle sale che abbiamo attraversato… Hanno smesso di soffrire gli infelici prigionieri rinchiusi dai dogi nelle segrete e nei nascondigli sotterranei… Visitando quelle prigioni raccapriccianti, mi immaginavo di essere al tempo dei martiri e avrei voluto poterci rimanere allo scopo di imitarli!” (59v°, 165).
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Scavalcando la staccionata, Teresa e Celina discesero tra le rovine dell’anfiteatro. “Come i guerrieri sentono aumentare il coraggio in mezzo al pericolo, così la nostra gioia cresceva in proporzione alla difficoltà che avevamo per raggiungere l’oggetto dei nostri desideri. Celina, più previdente di me, aveva ascoltato la guida e, ricordandosi che aveva parlato di un certo pezzo di pavimento con sopra una croce, che era quello su cui combattevano i martiri, si mise a cercarlo; poco dopo lo trovammo e, inginocchiandoci su quella terra sacra, le nostre anime si fusero in un’unica preghiera. Il cuore mi batteva fortissimo quando avvicinai le labbra alla polvere imporporata dal sangue dei primi cristiani; chiesi la grazia di essere anch’io martire per Gesù e sentii in fondo al cuore che la mia preghiera era esaudita!” (61r°, 168)
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“Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni !” L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre disse: ‘Non capisco molto bene’. ‘Beatissimo Padre – rispose il Vicario Generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione’. ‘Ebbene, figlia, rispose il Santo Padre guardandomi con bontà – fate ciò che vi diranno i superiori’. Allora, appoggiando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: ‘Oh! Beatissimo Padre, se voi diceste sì, tutti sarebbero d’accordo!”. Mi guardò fissamente e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna sillaba: “Bene… bene… Entrerete se Dio lo vorrà” (63r°, 174).
21“La mattina del 9 aprile 1888, dopo aver dato un ultimo sguardo ai Buissonets, nido grazioso della mia infanzia che non avrei rivisto mai più, partii al braccio del mio caro Re per salire la montagna del Carmelo. Che momento fu quello! Dopo aver abbracciato tutti i miei cari, m’inginocchiai dinanzi al mio incomparabile Padre, chiedendogli la benedizione; per darmela, si mise in ginocchio egli stesso e mi benedisse piangendo. Fu uno spettacolo che dovette far sorridere gli angeli: quel vegliardo che presentava al Signore la figlia ancora nella primavera della vita. Dopo qualche istante le porte dell’arca santa si chiusero dietro di me, e là ricevetti gli abbracci delle sorelle care che mi erano state mamma” (Maria e Paolina) (69r°, 193).
18“Appena entrata fui condotta in coro e poi seguii la Madre priora Maria Gonzaga nei diversi ambienti del monastero: tutto mi pareva incantevole, mi credevo trasportata nel deserto, soprattutto la nostra celletta mi affascinava, ma la gioia che provavo era calma; non un soffio, sia pur lieve, ondulava le acque sulle quali navigava la mia navicella; non c’erano nubi nel mio cielo limpido. Ah! Ero pienamente ricompensata di tutte le mie prove. Con quale gioia profonda ripetevo queste parole: ‘Per sempre, sono qui per sempre! Sono venuta per salvare le anime, e soprattutto a pregare per i sacerdoti’” (69v°, 195).
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“Avevo talvolta delle tentazioni così violente di entrare da lei per cercare conforto, per trovare qualche goccia di gioia, che ero costretta a passare rapidamente davanti alla procura e aggrapparmi alla ringhiera della scala. Mi veniva in mente una folla di permessi da chiedere: insomma, Madre amata, trovavo mille ragioni per accontentare la mia natura. … Come sono felice adesso di essermene astenuta fin dall’inizio della mia vita religiosa! Provavo grande consolazione perché in refettorio avevo lo stesso incarico di Paolina e potevo contemplare da vicino le sue virtù, ma questo ravvicinamento mi era causa di sofferenza; non mi sentivo come un tempo libera di dire a lei tutto, c’era la regola da osservare, non potevo aprirle l’anima mia; insomma ero al Carmelo, e non più ai Buissonets sotto il tetto paterno” (75r°, 212).
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“Avevo sempre desiderato che il giorno della mia vestizione la natura fosse vestitia di bianco come me… Dopo aver abbracciato per l’ultima volta il mio diletto Re, rientrai in clausura: la prima cosa che vidi sotto il chiostro fu ‘il mio piccolo Gesù’ che mi sorrideva in mezzo ai fiori e alle luci e subito dopo il mio sguardo si posò sui fiocchi di neve … il cortile era bianco come me. Che delicatezza di Gesù! Prevenendo i desideri della sua piccola fidanzata, le donava la neve … La neve: chi è dunque il mortale per quanto potente che possa farla cadere dal Cielo per ammaliare la sua amata? Forse le persone del mondo si fecero questa domanda; è certo però che la neve della mia vestizione parve loro come un piccolo miracolo e tutta la città ne fu stupita” (72v°, 204).
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“Mi impegnavo soprattutto a praticare le virtù piccole, così mi piaceva ripiegare i mantelli dimenticati dalle consorelle, e rendere a queste ultime tutti i servizi che potevo. Facevo anche parecchi sforzi per non scusarmi, cosa che mi sembrava difficilissima, soprattutto con la nostra Maestra alla quale non avrei voluto nascondere niente. Ecco la mia prima vittoria, non è grande, ma mi è costata molto. Un vasetto posto dietro una finestra venne trovato rotto; la nostra Maestra, credendo che fossi stata io a mancare di attenzione, me lo mostrò dicendomi di stare più attenta un’altra volta. Senza dire nulla baciai per terra, poi promisi di essere più ordinata in avvenire” (74v°-210). C’è inoltre in comunità una consorella che ha il talento di dispiacermi in tutte le cose. Quando ho la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limito a farle il più amabile dei miei sorrisi” (13v°, 292).
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“Ogni sera, quando vedevo Suor San Pietro scuotere la clessidra, sapevo che quello voleva dire: andiamo! È incredibile come mi costava scomodarmi; soprattutto all’inizio tuttavia lo facevo immediatamente, e poi iniziava tutta una cerimonia. Bisognava spostare e portare il banchetto in un certo modo, soprattutto senza fretta, poi aveva luogo la passeggiata, si trattava di seguire la povera inferma sostenendola per la cintura. Lo facevo con tutta la dolcezza che mi era possibile; ma se, per disgrazia, faceva un passo falso, subito le sembrava che la tenessi male e che stesse per cadere: « Ah, mio Dio! va troppo svelta, mi romperò qualcosa ». Se cercavo di andare ancora più lentamente, « Ma insomma mi segua, non sento più la sua mano, mi ha lasciata andare, cado, ah, l’avevo detto che era troppo giovane per accompagnarmi» (29r°, 325).
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Dopo una lunga e dolorosa infermità, Luigi Martin si spense il 29 luglio 1894. Teresa scrive a Leonia: “Cara sorellina, Penso a te più che mai, da quando il nostro amatissimo Padre è salito al Cielo, e credo proprio che tu provi le nostre stesse impressioni: la morte di Papà non mi fa l’effetto di una morte, ma di una vera vita. Lo ritrovo dopo sei anni di assenza, lo sento intorno a me che mi guarda e mi protegge!… Cara sorellina, non siamo ancora più unite adesso che guardiamo il Cielo per ritrovarvi un Padre e una Madre che ci hanno offerte a Gesù?… Tra poco i loro desideri saranno compiuti e tutti i gigli che il buon Dio ha loro donati saranno uniti per sempre…” (lv°). Un mese dopo anche Celina, che aveva assistito amorevolmente il padre durante la malattia, si congiungerà alle sorelle nel Carmelo.
35“Quando mi fu dato di penetrare nel santuario delle anime (come vicemaestra delle novizie), capii subito che quel compito era al di sopra delle mie forze. Allora mi sono messa tra le braccia del buon Dio, come un bambino piccolo, e, nascondendo il volto tra i suoi capelli, Gli ho detto: Signore, sono troppo piccola per nutrire le tue figlie; se per mezzo mio vuoi dare loro ciò che conviene a ciascuna, riempi la mia manina e io, senza lasciare le tue braccia, senza voltare la testa, darò i tuoi tesori all’anima che verrà a chiedermi il cibo” (22r°, 310). “Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentissero ciò che sente la più piccola tra tutte le anime, l’anima della sua piccola Teresa, non una sola di esse dispererebbe di giungere in cima alla montagna dell’amore! Infatti Gesù non chiede grandi azioni, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza” (1v°, 243).
32Teresa animava brillantemente le ricreazioni delle sorelle, tanto che se non c’era lei lo si notava subito, perchè la conversazione languiva. Spesso componeva brevi rappresentazioni sacre in occasione di particolari ricorrenze. Un’eco viva suscitò la composizione Giovanna d’Arco compie la sua missione (21 gennaio 1895): le ascoltatrici furono prese da grande e sincero entusiasmo. Ma la sera, nel silenzio, Teresa, che era stata la trionfatrice nel ruolo dell’eroina di Francia, comprese che tutto è vanità e afflizione di spirito: “Invece di farmi male, di portarmi alla vanità, i doni che il Buon Dio mi ha prodigato (senza che io glieli chiedessi) mi portano verso di Lui: capisco che Lui solo è immutabile, che Lui solo può colmare i miei immensi desideri” (81v°, 230).
scrittrice
Per far piacere alle sorelle e per obbedienza, Teresa, due anni prima della morte, inizia a scrivere la storia della sua anima, intitolandola Storia primaverile di un fiorellino bianco: sono i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, trasformati in un canto d’amore alla misericordia preveniente di Gesù; alla sorella Maria, la santa indirizza un breve scritto, dieci paginette in tutto ma fitte fitte, in cui rivela i segreti dell’amore di cui Gesù aveva inondato il so spirito e parla della sua vocazione: “Nel cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’Amore”. Infine alla priora madre Maria di Gonzaga, Teresa dedica i ricordi della sua vita religiosa. I tre manoscritti formano la Storia di un’anima.
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“Allo scopo di vivere in un atto di perfetto Amore,mi offro come vittima d’olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa,lasciando traboccare nella mia anima le onde d’infinita tenerezza che sono racchiuse in te, così che io diventi Martire del tuo Amore, o mio Dio! Questo martirio, dopo avermi preparata a comparire davanti a te, mi faccia infine morire e la mia anima si slanci senza ritardo nell’eterno abbraccio del Tuo Amore Misericordioso!” (Pr 6, 22) L’atto di offerta fu pronunciato da Teresa l’11 giugno 1895. “Ah, da quel giorno felice, mi sembra che l’Amore mi penetri e mi circondi, mi sembra che ad ogni istante questo Amore Misericordioso mi rinnovi, purifichi la mia anima e non vi lasci nessuna traccia di peccato” (84r°, 238).
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“Da molto tempo avevo un desiderio che mi pareva veramente irrealizzabile, quello di avere un fratello sacerdote. Ed ecco che Gesù non solo mi ha fatto la grazia che desideravo, ma mi ha unita con i vincoli dell’anima a due dei suoi apostoli i quali sono diventuati fratelli miei”.”Ero in lavanderia, molto occupata nel mio lavoro, quando madre Agnese di Gesù mi prese in disparte e mi lesse una lettera che aveva appena ricevuto. Era un giovane seminarista ispirato, diceva, da Santa Teresa che chiedeva una sorella che si dedicasse in modo speciale alla salvezza della sua anima e l’aiutasse con le sue preghiere e sacrifici quando sarebbe stato missionario affinché potesse salvare molte anime” (31v°, 330). Un anno dopo Teresa divenne sorella spirituale di un altro missionario. “Poiché lo zelo di una carmelitana deve incendiare il mondo, spero con la grazia del buon Dio di essere utile a più di due missionari e non potrei dimenticare di pregare per tutti, senza lasciar da parte i semplici sacerdoti, la cui missione è talvolta così difficile da compiere quanto quella degli apostoli che predicano agli infedeli” (33v°, 164).
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“Il giorno del Venerdì santo (1896) Gesù volle darmi la speranza di andare presto a vederlo in Cielo… Oh, come è dolce quel ricordo!… Dopo essere rimasta al Sepolcro fino a mezzanotte, tornai in cella; ma avevo appena avuto il tempo di posare la testa sul cuscino che sentii come un fiotto che saliva, che saliva gorgogliando fino alle labbra. Non sapevo cosa fosse, ma pensavo che forse stavo per morire e la mia anima era inondata di gioia!… Tuttavia, siccome la nostra lampada era spenta, mi dissi che bisognava aspettare il mattino per assicurarmi della mia felicità, perché mi sembrava che fosse sangue quello che avevo vomitato. Il mattino non si fece attendere a lungo. Quando mi svegliai pensai subito che avevo qualcosa di gioioso da scoprire; avvicinandomi alla finestra potei constatare che non mi ero sbagliata… Ah, avevo l’anima piena di grande consolazione, ero intimamente persuasa che Gesù, nel giorno anniversario della sua morte, voleva farmi udire un primo invito! Era come un dolce e lontano mormorio che mi annunciava l’arrivo dello Sposo” (MsC, 5r°).
20
L’infermiera le aveva consigliato di fare tutti i giorni una passeggiatina d’un quarto d’ora in giardino, e questo consiglio era divenuto per Teresa un comando. In un pomeriggio, una suora, vedendola camminare con grande fatica, le disse: “In queste condizioni farebbe molto meglio a risposarsi, perché la passeggiata non può esserle vantaggiosa. Così si esaurisce!” “è vero, rispose Teresa, ma sa lei chi me ne dà la forza ? Ebbene! Cammino per un missionario. Penso che laggiù, lontano, uno di loro si è forse esaurito nei suoi viaggi apostolici, ed io offro le mie fatiche al buon Dio per diminuire le sue” (QG, maggio).
17
Tempo permettendo, la portano in carrozzella lungo il viale degli ippocastani. è qui, mentre è tormentata dalla prova delle fede, che Teresa scrive le ultime pagine della sua storia: “Gesù permise che la mia anima fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del Cielo, così dolce per me, non fosse altro che un motivo di lotta e di tormento!… Questa prova non doveva durare solo qualche giorno, qualche settimana; sarebbe svanita solo nell’ora stabilita dal Buon Dio e… quest’ora non è ancora arrivata… Quando canto la felicità del cielo, il possesso eterno di Dio, non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. Ma, Signore, tua figlia accetta di mangiare per quanto tempo vorrai il pane del dolore e non vuole affatto alzarsi prima del giorno che hai stabilito da questa tavola piena di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori, prima del giorno che voi avete segnato” (6r°, 277).
14
Sotto il porticato del giardino, Teresa trascorre gli ultimi istanti all’aria aperta. Spesso ripete alcuni versi che ha composto per le sue sorelle:
“Morir d’Amore! è assai dolce martirio,
che vorrei appunto per te patire!
O Cherubini, accordate la lira:
del mio esilio io sento già la fine.
Fiamma d’Amor, continua a consumarmi!
Vita fugace, pesa il tuo fardello!
Gesù Divino, il mio sogno adempi:
morir d’Amore!” (PS 8, P 43).
Nel retro di un’immaginetta, sulla quale aveva incollato il fiorellino bianco che papà le aveva donato un giorno lontano, Teresa traccia le sue ultime righe: “Oh Maria, se io fossi la Regina del cielo e voi foste Teresa, vorrei essere Teresa affinché voi foste la Regina del cielo”.
47
“Sento di avviarmi al riposo. Ma soprattutto sento che la mia missione sta per cominciare: la mia missione di far amare il Signore come io l’amo, e dare alle anime la mia piccola via. Se Dio misericordioso esaudisse i miei desideri, il mio paradiso trascorrerà sulla terra fino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra. Vedrete, dopo la mia morte sarà come una pioggia di rose” (QG 9.6.3).
41
30 settembre 1897: “Alle 7 e qualche minuto, avendo Nostra Madre congedato la comunità, Teresa sospirò: Madre mia! Non è ancora l’agonia?… Non morirò?… – Sì, mia povera piccola, è l’agonia, ma il buon Dio vuole forse prolungarla di qualche ora. Ella riprese con coraggio: Ebbene!… sù!… sù!… Oh! non vorrei soffrire meno a lungo… E guardando il suo Crocifisso: Oh! lo amo! Mio Dio… ti amo! Improvvisamente, dopo aver pronunciato queste parole, cadde piano all’indietro, la testa reclinata a destra” (QG 30 settembre).

domenica 22 novembre 2015

(Lc 21,1-4) Vide una vedova povera, che gettava due monetine.

VANGELO.
(Lc 21,1-4) Vide una vedova povera, che gettava due monetine. Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, e disse: «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere». Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE PREGHIERA.
Vieni o Santo Spirito,chinati con amore sulla mia povertà, perché come la povera vedova, io possa offrirti di me tutto quello che ho, tutta me stessa ora e sempre! Amen.
Gli occhi di Gesù si posano su una vedova che timidamente entra nel tempio e fa la sua offerta, frettolosamente, mestamente, come chi sa che sta dando poco al Signore, ma che quel poco è tutto quello che può dare, perché non ha altro, e affida a Dio tutti i suoi desideri, i suoi sogni e le sue paure. Non voglio soffermarmi con voi a riflettere su chi dà di più, su chi non dà mai abbastanza, ma voglio essere con voi la povera vedova che non sa neanche come arriverà alla fine della giornata, ma mette tutto quello che è a disposizione di Dio. Non sappiamo cosa è scritto nel libro della vita per noi. A volte ci sentiamo miseri di tutto, senza nessuna possibilità, senza nulla da poter donare... ma non è così, non lo è mai. In ognuno di noi c'è un miracolo vivente, che può trasformarsi in grazia per un altro fratello. A volte basta un sorriso, una carezza, un orecchio prestato all'ascolto, una mano a portare la busta della spesa, un passaggio in auto... mille piccole cose che possono rompere il muro della solitudine di tante persone. Siamo qui, su internet ed anche in questo network, troviamo delle persone che hanno bisogno di non sentirsi sole, e che trovano qui un po' di compagnia. Oggi il mondo taglia fuori chi è malato, chi non rende al massimo, chi non segue le mode, chi rifiuta di adeguarsi al pensiero moderno, e considerato che sono i numeri che fanno la massa, spesso i numeri decretano la sconfitta. La povera vedova rappresenta la parte debole di una società che emargina chi è meno fortunato, e noi sappiamo che c'è anche chi vive proprio fuori dei margini, c'è chi ha fame, quella vera, quella che per la quale un pugno di riso rappresenta la sopravvivenza, ma noi siamo distratti da un altro tipo di mondo, quello sfavillante delle luci e degli addobbi che si prepara al Natale, siamo attirati dalle vetrine piene di bell'abbigliamento e di regali e se vediamo un barbone coperto di stracci, volgiamo lo sguardo altrove. Come siamo poveri Signore mio, abbiamo un animo arido ed impregnato del nostro egoismo, posa il tuo sguardo su di noi e trasforma il nostro piccolo cuore di pietra in un cuore di carne per imparare ad amare, per riempirci del tuo amore.Eppure in questa pericope io voglio cercare anche altro, perchè Gesù mi ha insegnato a leggere nella disgrazia la grazia di Dio e so che ce n'è sempre in abbondanza. Troviamo infatti nel gesto timido della vedova, la capacità di dare il suo nulla, di non fermarsi e di sperare anche nella sua utilità. Vediamo che quello che la vedova compie, non è il gesto di chi si mette in mostra nel suo offrire, ma di chi cerca invece la COMUNIONE con un Dio in cui crede .I ricchi donano solo il superfluo e trattengono per se la ricchezza e la superbia di sentirsi migliori, non credono e non sperano in una comunione di beni, perchè accorcerebbe le distanze che secondo loro si misurano proprio nel denaro e nella classe sociale. Molto diverso è il metro di misura del Signore, che dice: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Non c'è altro comandamento più importante di questo » (Mc 12,29-31). - “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40) -
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sabato 21 novembre 2015

Domenica 22 Novembre 2015, Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo, solennità

Domenica 22 Novembre 2015, Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo, solennità

Domenica 22 Novembre 2015, Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 18,33-37.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?».
Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 10 Capitolo 604 pagina 40.
(...) 21Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una porta.
Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle pietre.
Gli ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda a chiede ai due centurioni: «Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», a va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si contaminano».
«Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di eroi.

22Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui».
«Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo...».
«Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini.
«Quale accusa portate verso costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno...».
«Da quando siete miele e burro?... Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio. «Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».

23Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?».
«E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».
«E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!».
«Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace.

24Pilato pensa... E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate».
E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore...
Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani.
Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa... che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello.

25Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca.
Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i motteggi.
«Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io... le cure di Stato... Ma che desiderio di dirti: grande... di chiederti perdono... L’occhio di Giovanni... la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù tace.
«Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa* per percuotere Assur?».
Gesù tace.
«Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?».
Gesù tace.
«Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.

26Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriero dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa’ miracolo».
Gesù lo guarda severo. E tace.
«Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dàgli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre... Non dici così?». E ride, offensivo.
Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici... coperte di niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!...», insinua Erode.
Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e venera Roma. Andate».
E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana.
E tornano da Pilato.

27Ora, quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare ‑ ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di popolo ‑ Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli... I suoi amici... Ma che sono questi pochi, a Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?...

28Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba*. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare... Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».

29Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi... E deve essere tortura anche questa posizione.
Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e così dico.
Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico a terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli.
I quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei giuocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore.
E non un lamento... Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento.
«Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi...».
«La forca vi darei! Ma prendete...», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di Alessandro*? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto. Sleghiamolo un poco».

30Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli tace.
«Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto... e pare una dama delicata».
«Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue... Poi va ad una fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa bene l’acqua».
Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!...».
Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato... Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi.
«Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui.
Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china ‑ e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono - un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente.
Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.

31Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì...», dice un soldato.
E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo.
«Non ci sta. Più stretta. Levala».
La levano e sgraffiano le guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi come stai bene? Bronzo naturale a rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio».
E, avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gliela dànno sul capo inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» - un mastello capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli - si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo... ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.

32I soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che?
Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo».
Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?».
Il sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte...
Gesù sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici... E curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade... un’altra... un’altra... La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio.

33Viene riportato nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi».
«Vi do Barabba».
«No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù. «Avvicinati», dice.
Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi».
Gesù tace.
«Da dove vieni? Chi è Dio?».
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle... Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.

34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù tace.
«Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo Dio? Ho paura...».
Gesù tace.
Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole».
«Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla paura dell’uomo.
«Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».

35Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo.
«No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I, miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio...
Gesù resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.

10 marzo 1944. Venerdì.

36Dice Gesù:
«Ti voglio far meditare il punto che si riferisce ai miei incontri con Pilato.
Giovanni, che essendo stato quasi sempre presente, o per lo meno molto prossimo, è il testimone e narratore più esatto, racconta come, uscito dalla casa di Caifa, Io fui portato al Pretorio. E specifica “di mattina presto”. Infatti, lo hai visto, il giorno si iniziava appena. Specifica anche: “essi (i giudei) non entrarono per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”.
Ipocriti come sempre, essi trovavano pericolo di contaminarsi nel calpestare la polvere della casa di un gentile, ma non trovavano peccato uccidere un Innocente e, coll’animo soddisfatto del delitto compiuto, poterono gustare meglio ancora la Pasqua. Hanno anche ora molti seguaci. Tutti quelli che nell’interno agiscono male e all’esterno professano rispetto alla religione e amore a Dio, sono simili a questi. Formule, formule e non religione vera! Mi fanno ripugnanza e sdegno.
Non entrando i giudei da Pilato, uscì Pilato per udire che avesse la turba vociferante e, esperto come era nel governo e nel giudizio, con un solo sguardo comprese che il reo non ero Io, ma quel popolo ubriaco di odio. L’incontro dei nostri sguardi fu una reciproca lettura dei nostri cuori. Io giudicai l’uomo per quel che era*. Egli giudicò Me per quel che ero. In Me venne per lui della pietà perché era un uomo debole. Ed in lui venne per Me della pietà perché ero un innocente. Cercò di salvarmi dal primo momento. E, dato che unicamente a Roma era deferito e riserbato il diritto di esercitare giustizia verso i malfattori, tentò di salvarmi dicendo: “Giudicatelo secondo la vostra legge”.

37Ipocriti per la seconda volta, i giudei non vollero dare condanna. Vero che Roma aveva diritto di giustizia, ma quando, ad esempio, Stefano venne lapidato, Roma imperava tuttora su Gerusalemme ed essi, ciononostante, definirono e consumarono giudizio e supplizio senza curarsi di Roma. Per Me, di cui avevano non amore ma odio e paura ‑ non mi volevano credere Messia, ma non volevano uccidermi materialmente nel dubbio lo fossi ‑ agirono in maniera diversa e mi accusarono come sobillatore contro la potenza di Roma (voi direste: “ribelle”) per ottenere che Roma mi giudicasse.
Nella loro aula infame, e più volte nei tre anni del mio ministero, mi avevano accusato d’esser bestemmiatore e falso profeta, e come tale avrei dovuto esser da essi lapidato o comunque ucciso. Ma ora, per non compiere materialmente il delitto di cui sentono per istinto che sarebbero puniti, lo fanno compiere a Roma accusandomi d’esser malfattore e ribelle.
Nulla di più facile, quando le folle sono pervertite ed i capi insatanassati, di accusare un innocente per sfogare la loro libidine di ferocia e di usurpazione, e levare di mezzo chi rappresenta un ostacolo e un giudizio. Siamo tornati ai tempi di allora. Il mondo ogni tanto, dopo una incubazione di idee perverse, esplode in queste manifestazioni di pervertimento. Come una immensa gestante, la folla, dopo aver nutrito nel suo seno con dottrine da fiera il suo mostro, lo partorisce perché divori. Divori per primi i migliori e poi divori se stessa.

38Pilato rientra nel Pretorio e mi chiama vicino. E mi interroga.
Egli aveva già sentito parlare di Me. Fra i suoi centurioni c’erano alcuni che ripetevano il mio Nome con amore riconoscente, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, e parlavano di Me come di un benefattore. Nei loro rapporti al Pretore, interrogati su questo Profeta che attirava a Sé le folle e predicava una dottrina nuova in cui si parlava di un regno strano, inconcepibile a mente pagana, essi avevano sempre risposto che ero un mite, un buono che non cercavo onori di questa Terra e che inculcavo e praticavo il rispetto e l’ubbidienza verso coloro che sono le autorità. Più sinceri degli israeliti, essi vedevano e deponevano la verità.
La scorsa domenica egli, attratto dal clamore della folla, si era affacciato sulla via ed aveva visto passare su un’asinella un uomo disarmato, benedicente, circondato da bimbi e da donne. Aveva compreso che non poteva certo essere in quell’uomo un pericolo per Roma.
Vuol dunque sapere se Io sono re. Nel suo ironico scetticismo pagano, voleva ridere un poco su questa regalità che cavalca un asino, che ha per cortigiani dei bambini scalzi, delle donne sorridenti, degli uomini del popolo, di questa regalità che da tre anni predica di non avere attrazioni per le ricchezze ed il potere e che non parla di altre conquiste fuorché quelle dello spirito e di anima. Che è l’anima per un pagano? Neppure i suoi dèi hanno un’anima. E la può avere l’uomo? Anche ora questo re senza corona, senza reggia, senza corte, senza soldati, gli ripete che il suo regno non è di questo mondo. Tanto vero che nessun ministro e nessuna milizia insorge a difendere il suo re ed a strapparlo ai nemici.
Pilato, seduto sul suo seggio, mi scruta, perché Io sono un enigma per lui. Sgomberasse l’anima dalle sollecitudini umane, dalla superbia della carica, dall’errore del paganesimo, comprenderebbe subito Chi sono. Ma come può la luce penetrare dove troppe cose occludono le aperture perché la luce entri?

39Sempre così, figli. Anche ora. Come può entrare Dio e la sua luce là dove non c’è più spazio per loro, e le porte e finestre sono sbarrate e difese dalla superbia, dall’umanità, dal vizio, dall’usura, da tante, tante guardie al servizio di Satana contro Dio?
Pilato non può capire quale sia il mio regno. E, quel che è doloroso, non chiede che Io glielo spieghi. Al mio invito perché egli conosca la Verità, egli, l’indomabile pagano, risponde: «Che cosa è la verità?», e lascia cadere con una alzata di spalle la questione.
Oh! figli, figli miei! Oh! miei Pilati di ora! Anche voi, come Ponzio Pilato, lasciate cadere con una alzata di spalle le questioni più vitali. Vi sembrano cose inutili, sorpassate. Cosa è la Verità? Denaro? No. Donne? No. Potere? No. Salute fisica? No. Gloria umana? No. E allora si lasci perdere. Non merita che si corra dietro ad una chimera. Denaro, donne, potere, buona salute, comodi, onori, queste sono cose concrete, utili, da amarsi e raggiungersi a qualunque scopo. Voi ragionate così. E, peggio di Esaù, barattate i beni eterni per un cibo grossolano che vi nuoce nella salute fisica e che vi nuoce per la salute eterna. Perché non persistete a chiedere: “Cosa è la verità”? Essa, la Verità, non chiede che di farsi conoscere, per istruirvi su di essa. Vi sta davanti come a Pilato e vi guarda con occhi di amore supplicante, implorandovi: “Interrogami. Ti istruirò”.
Vedi come guardo Pilato? Ugualmente guardo voi tutti così. E, se ho sguardo di sereno amore per chi mi ama e chiede le mie parole, ho sguardi di accorato amore per chi non mi ama, non mi cerca, non mi ascolta. Ma amore, sempre amore, perché l’Amore è la mia natura.

40Pilato mi lascia dove sono, senza interrogare di più, e va dai malvagi che hanno la voce più grossa e che si impongono con la loro violenza. E li ascolta, questo sciagurato che non ha ascoltato Me e che ha respinto con una scrollata di spalle il mio invito a conoscere la Verità. Ascolta la Menzogna. L’idolatria, quale che sia la sua forma, è sempre portata a venerare ed accettare la Menzogna, quale che sia. E la Menzogna, accettata da un debole, porta il debole al delitto.
Pure Pilato, sulle soglie del delitto, mi vuole salvare ancora e una e due volte. È qui che mi manda a Erode. Sa bene che il re astuto, che barcamena fra Roma e il suo popolo, agirà in modo da non ledere Roma e da non urtare il popolo ebreo. Ma, come tutti i deboli, allontana di qualche ora la decisione che non si sente di prendere, sperando che la sommossa plebea si calmi.
Io ho detto*: “Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no”. Ma egli non l’ha sentito o, se qualcuno glielo ha ripetuto, ha fatto la solita alzata di spalle. Per vincere nel mondo, per avere onori e lucro, occorre saper fare del sì un no, o del no un sì, a seconda che il buon senso (leggi: senso umano) consigli.
Quanti, quanti Pilati che ha il ventesimo secolo! Dove sono gli eroi del cristianesimo che dicevano sì, costantemente sì alla Verità e per la Verità, e no, costantemente no per la Menzogna? Dove sono gli eroi che sanno affrontare il pericolo e gli eventi con fortezza d’acciaio e con serena prontezza e non dilazionano, perché il Bene va subito compiuto e il Male subito fuggito senza “ma” e senza “se”?

41Al mio ritorno da Erode, ecco la nuova transazione di Pilato: la flagellazione. E che sperava? Non sapeva che la folla è la belva che, quando comincia a vedere il sangue, inferocisce? Ma dovevo esser franto per espiare i vostri peccati di carne. E vengo franto. Non ho più un brano del mio corpo che non sia percosso. Sono l’Uomo di cui parla Isaia. E al supplizio ordinato si aggiunge quello non ordinato, ma creato dalla crudeltà umana, delle spine.
Lo vedete, uomini, il vostro Salvatore, il vostro Re, coronato di dolore per liberarvi il capo da tante colpe che vi fermentano? Non pensate quale dolore ha subito la mia testa innocente per pagare per voi, per i vostri sempre più atroci peccati di pensiero che si tramutano in azione? Voi, che vi offendete anche quando non c’è motivo di farlo, guardate al Re offeso, ed è Dio, col suo ironico manto di porpora lacera, con lo scettro di canna e la corona di spine. È già morente e lo schiaffeggiano ancora con le mani e con gli scherni. Né ve ne muovete a pietà. Come i giudei, continuate a mostrarmi i pugni, e gridare: “Via, via, non abbiamo altro dio che Cesare”, o idolatri che non adorate Dio, ma voi stessi e chi fra voi è più prepotente. Non volete il Figlio di Dio. Per i vostri delitti non vi dà aiuto. Più servizievole è Satana. Volete perciò Satana. Del Figlio di Dio avete paura. Come Pilato. E quando lo sentite incombere su voi con la sua potenza, agitarsi in voi con la voce della coscienza che vi rimprovera in suo nome, chiedete come Pilato: “Chi sei?”.
Chi sono lo sapete. Anche quelli che mi negano sanno che sono e Chi sono. Non mentite. Venti secoli stanno intorno a Me e vi illustrano Chi sono e vi istruiscono sui miei prodigi. È più perdonabile Pilato. Non voi, che avete un retaggio di venti secoli di cristianesimo per sorreggere la vostra fede o per inculcarvela, e non ne volete sapere. Eppure con Pilato fui più severo che con voi. Non risposi. Con voi parlo. E, ciononostante, non riesco a persuadervi che sono Io, che mi dovete adorazione e ubbidienza.
Anche ora mi accusate di esser Io stesso la rovina di Me in voi, perché non vi ascolto. Dite di perdere la fede per questo. Oh! mentitori! Dove l’avete la fede? Dove è il vostro amore? Quando mai pregate e vivete con amore e fede? Siete dei grandi? Ricordatevi che tali siete perché Io lo permetto. Siete degli anonimi fra la folla? Ricordatevi che non vi è altro Dio che Io. Niuno è da più di Me e avanti di Me. Datemi dunque quel culto d’amore che mi spetta ed Io vi ascolterò, perché non sarete più dei bastardi ma dei figli di Dio.

42Ed ecco l’ultimo tentativo di Pilato per salvarmi la vita, dato che la potessi salvare dopo la spietata e illimitata flagellazione. Mi presenta alla folla: “Ecco l’Uomo!”. A lui faccio umanamente pietà. Spera nella pietà collettiva. Ma, davanti alla durezza che resiste ed alla minaccia che avanza, non sa compiere un atto soprannaturalmente giusto, e perciò buono, e dire: “Io libero costui perché è innocente. Voi siete dei colpevoli e, se non vi disperdete, conoscerete il rigore di Roma”. Questo doveva dire se era un giusto, senza calcolare il futuro male che gliene sarebbe venuto.
Pilato è un falso buono. Buono è Longino che, meno potente del Pretore e meno difeso, in mezzo alla via, circondato da pochi soldati e da una moltitudine nemica, osa difendermi, aiutarmi, concedermi di riposare, di confortarmi con le donne pietose, di esser soccorso dal Cireneo e infine di avere la Mamma ai piedi della Croce. Quello fu un eroe della giustizia e divenne per questo un eroe di Cristo.
Sappiatelo, o uomini che vi preoccupate unicamente del vostro bene materiale, che anche ai sensi di questo il vostro Dio interviene quando vi vede fedeli alla giustizia che è emanazione di Dio. Io premio sempre chi agisce con rettezza. Io difendo chi mi difende. Io lo amo e soccorro. Sono sempre Quello che ha detto*: “Chi darà un bicchier d’acqua in mio nome avrà ricompensa”. A chi mi dà amore, acqua che disseta il mio labbro di Martire divino, Io do Me stesso, ossia protezione e benedizione».

(Gv 18,33-37) Tu lo dici: io sono re.

VANGELO.

(Gv 18,33-37) Tu lo dici: io sono re.

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE

PREGHIERA


Vieni o Santo Spirito e aiutami a capire. La profezia si avvera, la liberazione è a portata di mano, eppure qualcuno ancora tentenna.

Cristo re!
Perché re, quando Gesù è venuto si è fatto uomo e non ha cercato il potere sulla terra?
Perché Cristo vuole regnare, non nel mondo, ma nel nostro cuore.
L’ ha fatto intendere chiaramente quando ci ha detto che non dovevamo amare nessuno più di Lui, né la madre, né il padre, né il fratello, né le cose del mondo, né gli altri dei del mondo, come il denaro ed il potere, ma solo a Lui dobbiamo piegarci in ginocchio.
Noi uomini cerchiamo la gloria,cerchiamo di essere stimati e amati, e rifiutiamo di farlo con l'unico che ha saputo amare infinitamente, sopra ad ogni logica terrena, per obbedire ad una esigenza d' amore.
Sappiamo chi è Gesù, ma solo sapere non basta, bisogna scoprire quanto cambia l' ingresso di Gesù nella nostra vita, altrimenti è un teatrino senza senso. Il Papa anche quest' anno, ci sta dimostrando quanto sia importante una fede autentica, che non vuol dire una fede cieca, perché non è basata su delle fantasie, ma sulla parola di Dio. Deve essere vera, perché deve essere viva, ossia vissuta insieme al Signore e non può essere vissuta e non testimoniata con la propria vita. Essere cristiani vuol dire essere testimoni di Gesù, non semplicemente portando una croce sul petto, come un ornamento. Questo è il momento di scegliere per Dio, che non significa vivere solo per Dio, ma vivere sempre con Dio, anche nelle cose di ogni giorno, per entrare in quel regno che ci fa sentire che tutto con Lui è eterno. Quello che noi conosciamo è nulla rispetto a quello che è veramente, proprio perché il nostro essere umani, limita la nostra conoscenza delle cose dello Spirito, ma dobbiamo pensare che siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, di poco inferiori agli angeli.
Cerchiamo di essere CREDIBILI nel fare tutte le cose INCREDIBILI che Gesù ci è venuto ad insegnare, e facciamolo con amore, con gioia, anche quando ci costa sofferenza, anche quando il nostro IO ribolle e si ribella e vorrebbe esplodere in arroganza, superbia e cattiveria. Quello che non è amore, non viene da Dio; teniamolo sempre presente cercando di vincere a colpi di UMILTÁ la nostra guerra.
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