Thomas Merton
Pensieri nella solitudine
NOTA DELL’AUTORE
Coloro che sono stati abbastanza indulgenti da trovare in Semi di contemplazione e in Nessun uomo é un’isola qualche cosa che li abbia interessati, riusciranno forse a trarre un po’ di gioia da queste riflessioni, il merito delle quali, se si può parlare di qualche valore, sta nell’enunciare qua e là alcune delle cose che l’autore desiderava dire a se stesso e a coloro che si sentissero inclini a condividere le sue idee. Ciò vale specialmente per la seconda parte, quella sull’»Amore della solitudine». Chi conosce le pagine entusiasmanti di Max Picard nel Mondo del silenzio riconoscerà in parecchie di queste meditazioni l’ispirazione del filosofo svizzero.
PREFAZIONE
Le note racchiuse in queste pagine furono scritte nel 1953 e nel 1954, quando l’autore, per grazia di Dio e benevolenza dei Superiori, poté usufruire di oppor-tunità speciali per darsi alla solitudine e alla meditazione. Di qui il titolo. Ma ciò non implica che queste note siano soggettive o autobiografiche, e non vanno assolutamente intese come un racconto di avventure spirituali. Per quel che riguarda l’autore, non esiste alcuna avventura da descrivere, e se ve ne fosse stata, non la si sarebbe in ogni caso affidata alla carta. Si tratta semplicemente di pensieri sulla vita contemplativa, di intuizioni fondamentali che a quel tempo sembravano avere una importanza basilare.
Ma si rende qui necessaria una precisazione. È naturalissimo che delle intuizioni che all’autore sembrano delle più vitali non abbiano la medesima importanza per coloro che non hanno lo stesso genere di vocazione. Perciò in questo senso il libro è assolutamente personale. Talvolta le affermazioni sono di indole piuttosto generale, talaltra sono fatteen passant e rasentano i limiti del comune. Non si troverà mai che siano esoteriche, ma soprattutto queste riflessioni sulla solitudine dell’uomo di fronte a Dio, sul dialogo con Dio nel silenzio e sulle relazioni che intercorrono tra le solitudini personali di ciascuno di noi, sono per l’autore essenziali, dato il suo particolare genere di vita. Si può anche dire, tra parentesi, che il genere di vita da lui prescelto non è necessariamente l’ideale dell’Ordine religioso al quale egli appartiene. È, però, un ideale sostanzialmente monastico.
Non c’è bisogno di aggiungere che parecchia acqua è passata sotto il ponte personale di chi scrive da quando ha raccolto queste note, e le linee di pensiero che vi si trovano hanno proseguito negli anni successivi in direzioni varie ed insospettate.
In un’età nella quale il totalitarismo ha tentato in ogni modo di svalutare e degradare la persona umana, speriamo che sia giusto chiedere un po’ di attenzione per tutte e ciascuna delle reazioni dettate dalla sana ragione in favore della inalienabile solitudine dell’uomo e della sua libertà interiore. Non si può permettere che il chiasso omicida del nostro materialismo faccia tacere le voci libere che mai cesseranno dal parlare siano esse quelle dei santi cristiani, o dei saggi di Oriente come Lao Tse o Zen Masters, o voci di uomini come Thoreau o Martin Buber o Max Picard. Va benissimo che si insista sul fatto che l’uomo è un «animale sociale» — ciò è abbastanza ovvio. Ma non vi è nessuna giustificazione per farne un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria — sia pur religiosa.
In realtà la società dipende, nel suo esistere, dalla inviolabile solitudine personale dei suoi membri. La società, per meritare questo nome, non deve essere costituita di numeri o di unità meccaniche, ma di persone. Essere una persona implica responsabilità e libertà, e l’una e l’altra presuppongono una certa solitudine interiore, un senso di integrità personale, un senso della propria realtà e della capacità individuale di darsi alla società — o di rifiutare un tale dono.
Quando gli uomini sono completamente sommersi in una massa di esseri umani senza personalità, sospinti qua e là da forze automatiche, perdono la loro vera umanità, l’integrità, l’attitudine ad amare, la capacità di prendere delle decisioni. Quando la società è costituita di uomini che non conoscono solitudine interiore, non può più essere cementata dall’amore, ed è perciò tenuta insieme da una autorità usurpatrice e violenta. Ma quando gli uomini vengono a viva forza privati di quella solitudine e libertà che sono a essi dovute, la società nella quale vivono imputridisce, marcisce nel servilismo, nel risentimento e nell’odio.
Nessuna misura di progresso tecnico basterà a sanare l’odio che rode, come cancro spirituale, gli elementi vitali della società materialistica. L’unica cura possibile è, e deve sempre essere, spirituale. Non si ricava gran frutto dal parlare agli uomini di Dio e dell’amore se non sono capaci di ascoltare. Le orecchie con le quali si ascolta il messaggio del Vangelo sono nascoste net cuore dell’uomo e non sono capaci di udire nulla se non posseggono una certa solitudine e silenzio interiore.
In altre parole, siccome la fede è questione di libertà e di capacità di autodeterminazione — il libero accogliere un dono di grazia liberamente dato — l’uomo non può dare il suo assenso a un messaggio spirituale finché ha cuore e mente schiavi dell’automatismo. E resterà sempre in una tale schiavitù finché sarà sommerso in una massa di altri automi, privi di individualità e di quella integrità a cui hanno diritto come persone.
Ciò che qui si dice della solitudine non è propriamente una ricetta per eremiti. Ha importanza per tutto il futuro dell’uomo e del suo mondo, ma in particolare, naturalmente, per il futuro della sua religione.
PARTE PRIMA
ASPETTI DELLA VITA SPIRITUALE
1.
Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali, dobbiamo avere una netta visione della loro realtà. Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse, nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente altro che se stesso ossia una creatura solitaria e povera che non dipende da nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo, il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato «nel deserto dell’Alto Egitto» perché «vagasse per luoghi aridi». La sete fa impazzire l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto.
E così chi vaga nel deserto per essere se stesso deve badare a non impazzire e a non farsi schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele che sorse un giorno nel deserto di Senaar, «perché l’uomo rendesse famoso il suo nome e arrivasse fino al cielo» (Gen 11,4).
Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e combattere il nemico e purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a nulla dando il nostro tacito assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti, ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce. Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il nostro deserto. Se la condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo affrontarla, non lo troveremo mai.
2.
Il temperamento non predestina uno alla santità ed un altro alla dannazione. Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore, pietà e dolore, felicità, piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo.
La vita ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità — perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente una «persona» a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità, all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha per scopo di purificare ed. arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità, anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della volontà, eleva anche il tono della emotività: solo con la mancanza di rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite religiose.
Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in cui le emozioni non trovano nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.
3.
La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è soltanto pensiero. E non è naturalmente neppure una vita di sensazioni, una vita di sentimento— «sentire» e sperimentare le cose dello spirito, e le cose di Dio.
La vita spirituale non esclude neppure pensiero e sentimento. Ha bisogno di entrambi. Non è propriamente una vita concentrata alla «sommità» dell’ani- ma, una vita dalla quale siano esclusi mente, immaginazione e corpo. Se così fosse, poca gente potrebbe viverla.
E ancora, se tale fosse la vita spirituale, non sarebbe affatto una vita. Se l’uomo deve vivere, dev’essere tutto vivo, corpo, anima, mente, cuore e spirito. Tutto deve venire elevato e trasformato dall’azione di Dio, nell’amore e nella fede.
Inutile cercare di meditare semplicemente «pensando» — ancora peggio meditare infilando parole, passando in rivista una quantità di insulsaggini.
Una vita puramente intellettuale può essere deleteria se ci porta a sostituire il pensiero alla vita e le idee alle azioni. L’attività propria dell’uomo non è puramente mentale, perché egli non è propriamente un’anima disincarnata. Nostro destino è di vivere di ciò che pensiamo perché se non viviamo di ciò di cui abbiamo conoscenza, non possiamo neppur dire di conoscere. Soltanto col rendere la conoscenza parte di noi stessi, trasformandola in azione, penetriamo nella realtà significata dai nostri concetti.
Vivere da animale ragionevole non significa pensare da uomo e vivere da animale. Dobbiamo pensare e vivere da uomini. È illusione cercare di vivere come se le due parti astratte del nostro essere (razionalità e animalità) esistessero davvero separatamente come due differenti realtà concrete. Siamo una cosa sola, corpo e anima, e se non viviamo come un tutto unico, siamo destinati alla morte.
Vivere non è pensare. Il pensiero viene determinato e guidato dalla realtà oggettiva che è al di fuori di noi. Vivere vuol dire adattare di continuo il pensiero alla vita e la vita al pensiero, in maniera tale da crescere incessantemente, da esperimentare sempre cose nuove nel vecchio, e cose vecchie nel nuovo. E così la vita è sempre nuova.
4.
L’espressione «conquista di sé» può arrivare a diventare odiosa perché molto spesso non significa la conquista di noi stessi, ma una conquista fatta da noi. Una vittoria riportata con le nostre facoltà. Ma su che cosa? Proprio su ciò che è all’infuori di noi.
La vera conquista di sé è la conquista di noi stessi compiuta non da noi, ma dallo Spirito Santo. Conquista di sé vuol dire in realtà resa di sé, donazione di sé.
Eppure ancor prima di poterci arrendere dobbiamo diventare noi stessi. Perché nessuno può dare quello che non possiede.
Più precisamente, dobbiamo avere abbastanza dominio di noi stessi da poter rinunciare alla nostra volontà nelle mani di Cristo — in modo che Egli possa conquistare ciò che non siamo riusciti a raggiungere con i nostri sforzi.
Per poter arrivare al possesso di noi stessi, dobbiamo avere una certa confidenza, una certa speranza di vittoria. E per poter far vivere questa speranza, dobbiamo ordinariamente avere un certo gusto della vittoria. Dobbiamo sapere che cosa sia la vittoria e amarla più della sconfitta.
Non ha nulla da sperare chi combatte per raggiungere una virtù astratta — una qualità di cui non ha esperienza. Costui non preferirà mai realmente la virtù al vizio opposto, per quanto sembri disprezzare quest’ultimo.
Ognuno di noi ha un desiderio innato di operare bene e di evitare il male. Ma è un desiderio, questo, che rimane sterile, finché non abbiamo fatto esperienza di quel che significhi fare il bene.
(Il desiderio di virtù viene frustrato in parecchie persone di buon volere dal disgusto istintivo che esse provano per le false virtù di coloro che sono creduti santi. I peccatori hanno un occhio finissimo per le false virtù e un’idea esattissima di quello che dovrebbe essere la virtù in una persona buona. Se in chi viene reputato buono vedono soltanto una «virtù» che è in realtà meno viva e meno interessante dei loro vizi, concluderanno che la virtù non ha significato e si attaccheranno a ciò che possiedono, per quanto lo trovino odioso).
Ma che possiamo fare se non possediamo la virtù? Come possiamo farne esperienza? La grazia di Dio, attraverso Cristo nostro Signore, produce in noi un desiderio della virtù che ne è un’esperienza anticipata. Ci rende capaci di «gustarla» anche prima di possederla in pieno.
La grazia, che e carità, contiene in sé tutte le virtù in maniera nascosta e potenziale, così come nella sostanza di una ghianda stanno racchiusi le foglie e i rami di una quercia. Essere una ghianda vuol dire provare il gusto di essere una quercia. La grazia abituale porta con sé, in germe, tutte le virtù cristiane.
Le grazie attuali ci spingono a porre in atto queste potenzialità latenti e a realizzare ciò che significano: — Cristo che agisce in noi.
La gioia che viene da una buona azione è qualche cosa che va ricordata — non per alimentare la nostra compiacenza, ma per ricordarci che gli atti virtuosi non solo sono possibili e meritori, ma possono divenire più facili, più graditi e fruttuosi di quelli del vizio che a essi si oppone e che li rende vani.
Una falsa umiltà non dovrebbe privarci della gioia della conquista, che ci è dovuta ed è necessaria alla nostra vita spirituale, specialmente agli inizi.
È vero che più tardi ci possono venire lasciati dei difetti che siamo incapaci di vincere — e questo avviene per procurarci l’umiliazione di combattere contro un nemico che sembra imbattibile, senza nessuna soddisfazione di vittoria. Ci può difatti venire richiesto di rinunciare anche alla gioia che si prova nel fare il bene, per essere sicuri che lo facciamo per un motivo che trascende questa stessa gioia. Ma prima di pater rinunciare a un tale piacere bisogna averlo provato. E agli inizi la gioia che viene dalla conquista di sé è necessaria: non dobbiamo temere di desiderarla.
5.
Pigrizia e ignavia sono due dei più grandi nemici della vita spirituale. Tanto più pericolosi degli altri quando si camuffano da «discrezione». Questa illusione non sarebbe tanto fatale se la discrezione non fosse una delle virtù .più importanti per chi conduce una vita spirituale. Difatti è proprio la discrezione che ci fa vedere la differenza che passa tra ignavia e discrezione. Se il tuo occhio è semplice... ma se la luce che è in te è tenebra...
La discrezione ci dice quel che Dio vuole da noi e quel che non vuole. Nel far ciò, ci mostra l’obbligo che abbiamo di corrispondere alle ispirazioni della grazia e di obbedire a tutte le altre indicazioni della volontà di Dio.
Pigrizia ed ignavia antepongono all’amore di Dio le nostre comodità attuali; hanno paura dell’incertezza del futuro perché non ripongono alcuna fiducia in Dio.
La discrezione ci mette in guardia contro gli sforzi vani: ma per l’ignavo qualsiasi sforzo è vano. La discrezione ci fa vedere quando uno sforzo è vano e quando invece è doveroso.
La pigrizia rifugge da ogni rischio: La discrezione evita i rischi inutili ma ci fa un obbligo di addossarci i rischi che fede e grazia di Dio esigono da noi. Perché,
quando Gesù disse che il regno dei cieli si conquistava con la violenza, voleva proprio dire che ciò era possibile solo a prezzo di certi rischi.
E presto o tardi, se seguiamo Cristo, dobbiamo rischiare tutto per tutto guadagnare. Dobbiamo puntare sull’invisibile e rischiare tutto ciò che ci è dato di vedere, di provare, di sentire. Ma sappiamo che è un rischio che vale la pena di affrontare, perché non vi è nulla di più incerto del mondo che passa. Infatti «passa la figura del mondo attuale» (1Cor 7,31).
Senza coraggio non potremo mai arrivare alla vera semplicità. L’ignavia ci mantiene in uno stato di «doppiezza» — esitanti tra Dio e il mondo. In una tale esitazione non vi é fede — la fede resta semplicemente un’opinione. Non siamo mai sicuri, perché non ci abbandoniamo mai completamente all’autorità di un Dio invisibile. Questa esitazione è la morte della speranza. Non ci liberiamo mai da questi sostegni visibili che, ben lo sappiamo, un giorno ci verranno sicuramente a mancare. E questa esitazione rende impossibile la vera preghiera non si ha mai il coraggio di chiedere nulla e si dubita talmente di venire esauditi che proprio nell’atto stesso di chiedere si cerca superstiziosamente, per umana prudenza, di costruirsi una risposta di proprio gusto (cfr. Gc 1,5-8).
Che vale la preghiera se nell’atto stesso in cui preghiamo abbiamo così poca fede in Dio che ci preoccupiamo di formulare la nostra risposta alla preghiera?
6.
Non esiste vera vita spirituale all’infuori dell’amore di Cristo.
Possediamo una vita dello spirito soltanto perché siamo amati da Lui. E la vita spirituale consiste nel ricevere il dono dello Spirito Santo e la sua carità, perché il Sacro Cuore di Gesù ha disposto, nel suo amore, che vivessimo del suo Spirito — di quello stesso Spirito che procede dalla Parola e dal Padre e che é l’amore di Gesù per il Padre suo.
Se conosciamo quanto è grande l’amore di Gesù per noi, non avremo mai paura di andare a Lui in tutta la nostra povertà e debolezza e miseria e infermità spirituale. Anzi, quando arriviamo a comprendere di che genere sia il suo amore per noi, preferiamo di andare a Lui in veste di poveri e derelitti: Non ci vergogneremo mai della nostra miseria. La miseria torna tutta a nostro vantaggio quando non abbiamo da cercare altro che misericordia.
Possiamo essere contenti del nostro stato di indigenza, se siamo veramente convinti che la potenza di Dio si perfeziona nella nostra infermità.
Il segno più sicuro che abbiamo ricevuto una comprensione spirituale dell’amore che Dio ha per noi, è l’apprezzare la nostra povertà alla luce della sua infinita misericordia.
Dobbiamo amare la nostra povertà come la ama Gesù. Essa ha tanto valore agli occhi suoi, che è morto sulla Croce per presentare la nostra povertà al Padre suo e arricchirci dei tesori della sua misericordia infinita.
Dobbiamo amare la povertà degli altri come la ama Gesù. Dobbiamo vederli con gli occhi della sua compassione. Ma non possiamo avere una vera compassione degli altri se non siamo disposti a essere oggetto di pietà e a ricevere perdono per i nostri peccati.
Non sappiamo realmente perdonare se non conosciamo che cosa sia essere perdonati. Dovremmo dunque essere contenti che i nostri fratelli ci possano perdonare. È il perdono scambievole che rende manifesto nella nostra vita l’amore che Gesù ha per noi, perché nel perdonarci a vicenda ci comportiamo nei confronti degli altri così come Gesù fa con noi.
7.
Il cristiano ideale è persona che vive completamente al di fuori di sé nel Cristo — vive nella fede della Redenzione da Lui operata, nell’amore del suo Redentore, il quale ha amato tutti noi ed è morto per noi. Ma soprattutto vive nella speranza di un mondo avvenire.
La speranza è il segreto del vero ascetismo. Nega desideri e giudizi personali e respinge il mondo nel suo aspetto presente, non perché noi o il mondo siamo cattivi, ma perché non siamo in condizioni di fare di noi stessi e della bontà del mondo l’uso migliore. Ma nella speranza esultiamo. Nella speranza godiamo delle cose create. Ne godiamo non per quello che sono in se stesse, ma per ciò che sono in Cristo — colme di promessa. Perché la bontà di tutte le cose è una testimonianza della bontà di Dio e la sua bontà è garanzia della sua fedeltà alle promesse. Ci ha promesso un nuovo cielo e una terra nuova, una vita risorta nel Cristo. Qualsiasi rinnegamento di sé che non si basi interamente sulla sua promessa, è meno che cristiano.
Mio Signore, io non ho altra speranza se non nella tua Croce. Tu, con la tua umiltà, le tue sofferenze e la tua morte mi hai liberato da ogni vana speranza. Hai ucciso in Te la vanità della vita presente, e, risorgendo da morte, mi hai dato tutto ciò che è eterno.
Perché dovrei desiderare di essere ricco, quando Tu sei stato povero? Perché dovrei desiderare di essere famoso e potente agli occhi degli uomini, quando i figli di coloro che hanno esaltato i falsi profeti e lapidati i giusti, Ti hanno rigettato e inchiodato alla Croce? Perché dovrei carezzare in cuor mio una speranza che mi divora la speranza di una felicità perfetta in questa vita — quando tale speranza, condannata a esser delusa, non è altro che disperazione?
La mia speranza sta in ciò che gli occhi non hanno mai visto. Dunque, non lasciarmi credere in ricompense visibili. La mia speranza sta in ciò che il cuore umano non sa percepire: non lasciarmi credere ai sentimenti del mio cuore. La mia speranza sta in ciò che la mano dell’uomo non ha mai toccato: non lasciarmi credere a quanto posso afferrare tra le dita. La morte allenterà la loro stretta e la mia vana speranza si dileguerà.
Fa’ che tutta la mia fiducia stia nella tua misericordia, non in me stesso. Fa’ che la mia speranza sia riposta nel tuo amore, non nella salute, o nella forza, o nell’abilità, o nelle risorse umane.
Se credo in Te, tutto il resto diventerà per me forza, salute, sostegno. Ogni cosa mi porterà verso il cielo. Ma se non mi fido di Te, tutto sarà la mia rovina.
8.
Ogni peccato è una punizione per il primo peccato di non conoscere Dio: è dunque un castigo dell’ingratitudine. Perché, come dice san Paolo (Rom 1,21), i Gentili che «conobbero» Dio, non Lo conobbero perché non gli furono grati di questa conoscenza. Non Lo conobbero perché questa loro conoscenza di Lui non li colmò della gioia del suo amore. Se non Lo amiamo dimostriamo di non conoscerlo. Egli è amore. Deus charitas est.
La conoscenza che abbiamo di Dio si perfeziona con la gratitudine: ringraziamo ed esultiamo sperimentando la verità del suo amore.
L’Eucaristia — il Sacrificio di lode e di ringraziamento — è il focolare sempre acceso della conoscenza di Dio perché nel Sacrificio, Gesù, rendendo grazie al Padre, offre ed immola se stesso interamente per la gloria del Padre e per salvarci dai nostri peccati. Se non Lo «conosciamo» nel suo Sacrificio, come è possibile che questo abbia per noi tutto il suo valore? «La conoscenza di Dio vale più degli olocausti» (Os 6,6). Se non siamo grati e non lodiamo il Padre con Lui, non Lo conosciamo.
Non esiste alternativa tra la gratitudine e l’ingratitudine. Chi non è grato comincerà presto a lamentarsi di tutto. Chi non ama, odia. Nella vita spirituale non esiste una specie di indifferenza all’odio o all’amore. Ecco perché la tiepidezza (che ha la parvenza di essere indifferente) è tanto detestabile. Si tratta di odio camuffato da amore.
La tiepidezza, in cui l’anima non è «né calda né fredda» — non odia decisamente e neppure decisa- mente ama — è uno stato nel quale si rigetta Dio e la sua volontà pur mantenendo una parvenza esteriore di amore per lui, per tenersi lontani dagli impicci e salvare la presunta buona fama. È la condizione a cui arrivano ben presto coloro che sono abitualmente ingrati per le grazie che Dio fa loro. Chi risponde davvero alla bontà di Dio e riconosce di aver tutto ricevuto, non può normalmente essere un cristiano a metà. La vera gratitudine e l’ipocrisia non possono esistere insieme: sono assolutamente incompatibili. La gratitudine di per sé ci rende sinceri — altrimenti, vuol dire che non è vera.
Ma la gratitudine è più che un esercizio mentale o un giuoco di parole. Non ci possiamo accontentare di fare dentro di noi un elenco delle cose che Dio ha fatto per noi e poi casualmente ringraziarlo dei favori ricevuti.
Essere grati vuol dire riconoscere l’amore di Dio in tutto quello che Egli ci ha dato — ed Egli ci ha dato tutto. Ogni nostro respiro è un dono dell’amor suo, ogni attimo della nostra esistenza è una grazia, perché porta con sé grazie immense che ci vengono da Lui.
La gratitudine non considera perciò nulla come se le fosse dovuto, non è mai svagata, ma percepisce sempre nuove meraviglie ed è pronta a lodare di continuo la divina bontà. Chi è riconoscente sa che Dio è buono, non per sentito dire, ma per esperienza. E qui sta tutta la differenza.
9.
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio «nulla»?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione, una pretesa umiltà che nel dire «non sono nulla» intende in effetto affermare vorrei essere diverso da quel che sono».
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità, ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro «nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità morale e metafisica nei confronti di Dio. Per amare così il nostro «nulla» non dobbiamo ripudiare niente di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo, nulla di ciò che siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona: buona nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra deficienza, perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e spirituale, attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi.
L’orgoglioso ama se stesso perché pensa di essere, di per sé, degno di amore, di rispetto, di venerazione: crede didover essere amato da Dio e dagli uomini. Perché pensa di meritare più degli altri di venir amato, onorato, ossequiato.
Anche l’umile ama se stesso, e cerca di essere amato e onorato, non perché affetto e stima gli siano dovuti, ma perché non se li merita. Cerca di essere amato dalla misericordia di Dio. Domanda alla bontà dei fratelli che lo si ami e aiuti. Sapendo di non avere nulla, sa anche di aver bisogno di tutto e non teme di chiedere in elemosina questo tutto e di riceverlo da dove lo può avere.
L’orgoglioso ama la sua illusione e la sua autosufficienza. Chi è povero in spirito ama proprio la sua insufficienza. L’orgoglioso esige rispetto perché crede di avere ciò che gli altri non hanno. L’umile chiede in elemosina una parte di ciò che ogni altro ha ricevuto. Egli pure desidera di essere colmato della bontà e della misericordia di Dio.
10.
La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene santificato dalla presenza e dall’azione dello Spirito Santo.
La vita spirituale non è quindi una vita completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli. Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio. Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo. Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci accorgiamo neppure di essere caduti.
Per mantenerci spiritualmente vivi dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una maniera diversa di indicare un fallimento.
Meditare vuol dire pensare. Eppure una buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli «affetti», molto più che una serie di atti» per cui si passa.
Nella preghiera meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito. Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza, e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e si va a finire in una specie di incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il privilegio di «pregare non facendo nulla».
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale «non si faccia nulla», o «non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non si sente, non si percepisce o non si pensa nulla.
Ogni vera preghiera, non importa quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella «contemplazione» e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver completamente rivolto verso di Lui il nostro volto interiore, finiremo inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi.
D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un certo numero di cose che sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una «idea» di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza della nostra personalità, lo siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di persona a persona che
che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere. L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.
11.
Nutriti dai Sacramenti e formati dalla preghiera e dall’insegnamento della Chiesa, non abbiamo bisogno di cercare altro all’infuori del posto particolare voluto per noi da Dio in seno alla Chiesa. Quando lo abbiamo trovato, vita e preghiera insieme diventano per noi all’improvviso estremamente semplici.
Allora scopriamo che cosa sia in realtà la vita spirituale. Non si tratta di fare un’opera buona piuttosto che un’altra, di vivere in un luogo piuttosto che in un altro, di pregare in una maniera piuttosto che in un’altra.
Non è questione di un particolare effetto psicologico nell’anima nostra. È il silenzio di tutto il nostro essere nella compunzione e nell’adorazione davanti a Dio, nella abituale consapevolezza del fatto che Egli è tutto e che noi non siamo nulla, che Egli è il centro a cui tendono tutte le case, e al quale devono venire dirette tutte le nostre azioni; che vita e forza ci vengono da Lui e che tanto la vita quanto la morte da Lui esclusivamente dipendono; che tutto il corso della nostra vita è da Lui previsto e rientra nel piano della sua Provvidenza, sapiente e misericordiosa; che è assurdo vivere
come se Egli non vi fosse, ossia vivere per noi, come se fossimo soli; che tutti i nostri progetti e le nostre ambizioni spirituali sono vani se non vengono da Lui e non terminano in Lui e che, alla fine, la sola cosa che importi è la sua gloria.
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di continuo a esaminarla e a ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico. La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo vicini a Dio perché allora l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati nell’ansietà e nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma perché non trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non possedere niente che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di particolare che meriti di essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci riposiamo in Colui che è tutta la nostra speranza.
Vi è uno stadio della vita spirituale in cui troviamo Dio in noi questa sua presenza è un effetto creato dal suo amore. È un suo dono per noi. Rimane in noi. Tutti i doni di Dio sono buoni, ma se ci riposiamo in essi perdono la loro bontà nei nostri riguardi. Ed è così anche di questo dono.
Quando viene per noi il tempo di darci alle altre cose, Iddio sottrae il senso della sua presenza per fortificare la nostra fede. Ed è allora inutile cercarlo con uno sforzo psicologico: inutile voler trovare nel cuore un senso di Lui. È venuto il momento di uscire da noi stessi ed elevarci al di sopra di noi e di non cercarlo più in noi, ma al di fuori e al di sopra. Lo facciamo con la nuda fede, con una speranza che brucia come carbone acceso sotto la cenere della nostra povertà. Lo cerchiamo anche nell’umile carità a servizio dei fratelli. Allora, quando vuole, Dio ci solleva fino a sé nella semplicità.
A che vale la conoscenza della nostra miseria se non imploriamo Dio di sostenerci con la sua potenza? Che valore ha il riconoscere la nostra povertà, se non ce ne serviamo mai per sollecitare la sua misericordia? È male abbastanza compiacersi nel pensiero di essere virtuoso, ma è peggio rimanere in una pigra inerzia, se siamo consci della nostra debolezza e dei nostri peccati. Il valore della nostra miseria e della nostra povertà sta nel fatto che esse costituiscono il terreno in cui Iddio sparge il seme del desiderio. E non importa quanto grande possa sembrare lo stato di abbandono in cui ci troviamo: il fiducioso desiderio del suo amore malgrado la nostra avvilente miseria è il segno della sua presenza e il pegno della nostra salvezza.
12.
Se desideri possedere una vita spirituale, devi unificare la tua vita. La vita è spirituale per davvero o non lo è affatto. Nessuno può servire a due padroni. La tua vita viene forgiata dal fine per cui tu vivi. Tu sei fatto a immagine di ciò che desideri.
Per unificare la tua vita, unifica i tuoi desideri. Per spiritualizzarla, spiritualizza i tuoi desideri. Per spiritualizzarli bisogna che tu desideri di non aver desideri.
Vivere nello spirito vuol dire vivere per un Dio in cui crediamo, ma che non possiamo vedere. Desiderare ciò vuol dire rinunciare al desiderio di tutto quello che si vede. Possedere Colui che non può venire compreso, vuol dire rinunciare a tutto ciò che può comprendersi. Per riposare in Colui che è al di sopra di ogni pace creata, rinunciamo al desiderio di riposare nelle cose create.
Rinunciando al mondo lo conquistiamo, ci eleviamo al di sopra della sua molteplicità e la ricapitoliamo nella semplicità di un amore che trova in Dio tutte le cose. E Gesù intendeva proprio questo quando diceva che chi avrebbe voluto salvare la propria vita l’avrebbe perduta e chi invece l’avrebbe perduta per amore di Dio, sarebbe riuscito a salvarla.
Il ventottesimo capitolo di Giobbe (e anche il terzo di Baruch) ci dice che la sapienza di Dio è nascosta ed è impossibile trovarla — eppure finisce con l’ammettere che la si può facilmente trovare perché il timore di Dio è sapienza.
Un monaco non deve mai cercare la sapienza al di fuori della sua vocazione. Se lo facesse non la troverebbe mai, perché per lui la sapienza è nella sua vocazione. Sapienza è la stessa vita del monaco nel suo monastero. Ed è col vivere questa vita che il monaco trova Dio, e non già aggiungendo a questa vita qualche altra cosa che Iddio non vi ha messo. Perché la sapienza è Dio stesso che vive in noi, che a noi si rivela. La vita ci si rivela soltanto per quel che la viviamo.
La vita monastica è piena della misericordia di Dio. Tutto quello che il monaco fa è voluto da Dio e ordinato alla sua gloria. Nel fare la volontà di Dio riceviamo la sua misericordia, perché è solo per un dono della sua misericordia che possiamo compiere la sua volontà con una intenzione pura e soprannaturale. Ed Egli ci dona questa intenzione come una grazia che serve soltanto come mezzo, per ottenere più grazia e più misericordia, dilatando la nostra capacità di amarlo. Maggiore è la nostra capacità di ricevere la sua misericordia, maggiore è il potere che abbiamo di dargli gloria, perché Egli è glorificato solamente dai suoi doni, ed è maggiormente glorificato da coloro nei quali la sua misericordia ha fatto nascere un amore più grande. «Ama meno colui al quale è stato meno perdonato» (Lc 7, 47).
13.
Il più povero in una comunità religiosa non è necessariamente chi ha in uso il minor numero di oggetti. La povertà non è semplicemente questione di non possedere «le cose». È un’attitudine dell’animo che ci porta a rinunciare ad alcuni dei vantaggi che derivano a noi dall’uso delle cose. Uno può non possedere nulla, ma attribuire una grande importanza alla soddisfazione personale e al gusto che trae da cose che sono comuni a tutti — il canto in coro, i sermoni in capitolo, la lettura in refettorio — il tempo libero, il tempo degli altri...
Spesso il più povero in una comunità è quello che è a disposizione di tutti. Tutti se ne possono servire, ed egli non si prende mai il tempo per fare qualche cosa per se stesso.
Povertà — può riguardare cose come la nostra opinione, il nostro «stile», tutto ciò che tende ad affermarci come diversi dagli altri, come superiori agli altri in maniera tale che prendiamo soddisfazione da queste particolarità e le trattiamo come «cose nostre». La «povertà» non dovrebbe mai renderci particolari. L’eccentrico non è un povero in spirito.
Persino l’attitudine ad aiutare gli altri e a dar loro il nostro tempo e tutto ciò che abbiamo può venir «posseduta» con attaccamento, se con tali atti c’imponiamo sugli altri e ce li rendiamo debitori. In tal caso cerchiamo infatti di comprarli e di impadronircene per mezzo dei favori che a essi facciamo.
Chi di noi, o Signore, può parlare di povertà senza vergognarsi? Noi che abbiamo fatto voto di povertà in monastero, siamo poveri davvero? Sappiamo che cosa sia amare la povertà? Ci siamo mai fermati per un momento a pensare perché si debba amare la povertà?
Eppure, o Signore, Tu sei venuto nel mondo per esser povero tra i poveri, perché è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei cieli. E noi, con i nostri voti, ci accontentiamo del fatto che di fronte alla legge non possediamo nulla e che per tutto quello che abbiamo dobbiamo chiedere il permesso di un altro?
La povertà è questa? Può un tale che ha perduto il suo impiego e che non ha denaro con cui pagare i suoi debiti, e che vede la moglie e i figli diventare sempre più scarni e che sente il timore e l’angoscia rodergli il cuore — può egli ottenere le cose delle quali ha disperatamente bisogno, semplicemente chiedendole? Che provi a farlo. Eppure noi, che possiamo avere tante cose delle quali non abbiamo bisogno, e tante altre che è scandaloso da parte nostra possedere — noi, siamo poveri, perché le abbiamo e c’è permesso di averle.
La povertà significa bisogno. Fare voto di povertà e non mancare mai di nulla, e mai aver bisogno di qualche cosa senza averla, vuol dire tentare di farci beffe del Dio Vivente.
14.
Leggere dovrebbe essere un atto di omaggio al Dio di ogni verità. Apriamo il cuore a parole che riflettono la realtà che Egli ha creato o la realtà più grande che è Egli stesso. Leggere è anche un atto di umiltà e di riverenza nei confronti di altri che sono gli strumenti per mezzo dei quali Iddio ci comunica la sua verità.
La lettura dà maggior gloria a Dio quando ne ricaviamo un profitto maggiore, quando è un atto profondamente vitale non soltanto della nostra intelligenza, ma di tutta la nostra personalità assorbita e ristorata nel pensare, nel meditare, nel pregare, o anche nel contemplare Dio.
I libri possono parlarci come Dio, come gli uomini o come il rumore della città nella quale viviamo. Ci parlano come Dio quando ci recano luce e pace e ci colmano di silenzio. Ci parlano come Dio quando desideriamo di non lasciarli mai. Ci parlano come gli uomini allorché desideriamo di ascoltarli di nuovo. Ci parlano come il frastuono della città quando ci tengono prigionieri con una noia che non ci dice nulla, non ci danno pace, né conforto, nulla da ricordare, eppure non ci lasciano andare.
I libri che ci parlano come Dio lo fanno con troppa autorità per divertirci: quelli che ci parlano come gli uomini ci avvincono con il loro interesse umano: finiamo col trovarvi noi stessi. Ci insegnano a conoscerci meglio, riconoscendoci negli altri. I libri che ci parlano come il chiasso della folla ci riducono alla disperazione con il puro peso della loro vacuità. Ci intrattengono come le luci nelle vie della città, la notte, con speranze che non possono appagare.
Per quanto grandi e per quanto amici possano essere, i libri non sostituiscono le persone, ma sono soltanto mezzi di contatto con grandi personalità, con uomini che posseggono una parte maggiore di umanità di quella che a essi compete, uomini che sono personalità nei confronti del mondo intero e non soltanto di se stessi. Non sono le idee e le parole che nutrono l’intelligenza, ma la verità. E non una verità astratta. La Verità che un uomo spirituale ricerca è la Verità tutta intera che comprende realtà, esistenza ed essenza, qualche cosa che si può abbracciare e amare, qualche cosa che può ricevere l’omaggio e il dono delle nostre azioni: più che una cosa: si tratta di persone, anzi di una Persona. Colui che è al di sopra di tutto, la cui essenza è esistere: Dio.
Cristo, il Verbo Incarnato, è il Libro della vita in cui leggiamo Iddio.
15.
L’umiltà è una virtù, non una neurosi.
Ci rende liberi di agire virtuosamente, di servire Iddio, e di conoscerlo. Quindi la vera umiltà non può mai proibirci un’azione davvero virtuosa e non può neppure impedirci di completare noi stessi compiendo la volontà di Dio.
L’umiltà ci rende liberi di fare ciò che è veramente buono, mostrandoci le nostre illusioni e distogliendo il nostro volere da ciò che è un bene soltanto apparente.
Una umiltà che agghiaccia il nostro essere e frustra ogni sana forma di attività non è affatto umiltà, ma solo una forma di orgoglio travestito che sovverte le radici della vita spirituale e ci rende impossibile il darci a Dio.
Signore, Tu ci hai insegnato ad amare l’umiltà, ma non lo abbiamo imparato. Abbiamo imparato soltanto ad amare l’apparenza esteriore dell’umiltà — quell’umiltà che rende simpatici e attraenti. Talvolta ci soffermiamo a riflettere su queste qualità, e spesso pretendiamo di possederle e di averle acquistate con «la pratica dell’umiltà».
Se fossimo veramente umili, conosceremmo fino a qual punto siamo bugiardi!
Insegnami a sopportare una umiltà che mi mostri incessantemente che sono un bugiardo ed un mentitore e che, pur essendo tale, ho l’obbligo di lottare per giungere alla verità, per essere quanto più posso sincero, anche se troverò inevitabilmente che tutta la mia verità è avvelenata dall’inganno. Ecco il terribile dell’umiltà: non ha mai pieno successo. Se fosse almeno possibile essere davvero umili su questa terra. Ma no, ecco il guaio. Tu, o Signore, sei stato umile. Ma la nostra umiltà consiste nell’essere orgogliosi e nel saperlo bene, e nell’essere schiacciati da questo peso insopportabile e nel poter fare tanto poco per liberarcene.
Come sei severo nella tua misericordia, eppure devi esserlo. La tua misericordia dev’essere giusta perché la tua verità dev’essere vera. Eppure, come sei severo nella tua misericordia: perché più lottiamo per essere sinceri, più scopriamo la nostra falsità. È misericordioso da parte della tua; luce di portarci, inesorabilmente, alla disperazione
No — non è alla disperazione che Tu mi porti, ma all’umiltà. Perché l’umiltà vera è in certo senso una reale disperazione: dispero di me stesso per pater porre soltanto in Te tutta la mia speranza.
Chi può sopportare di cadere in una tale oscurità?
16.
Le campane vogliono ricordarci che Dio solo è buono, che noi gli apparteniamo e che non viviamo per questo mondo.
Irrompono nel mezzo delle nostre occupazioni per ricordarci che tutte le cose passano e che le nostre ansietà non hanno importanza.
Ci parlano della nostra libertà, che le responsabilità e le cure transeunti ci fanno dimenticare.
Sono la voce della nostra alleanza con il Dio del Cielo.
Ci dicono che noi siamo il suo vero tempio. Ci invitano alla pace con Lui e con noi stessi.
Al termine della benedizione della campana di una chiesa si legge il Vangelo di Marta e Maria per ricordarci tutto questo.
Le campane dicono: gli affari non hanno importanza. Riposa in Dio ed esulta, perché questo mondo è soltanto figura e promessa di un mondo avvenire, e soltanto chi è distaccato dalle cose transeunti può possedere la sostanza di una eterna promessa.
Le campane dicono: abbiamo parlato per secoli dalle torri delle grandi chiese. Abbiamo parlato ai santi, ai vostri padri, nelle loro terre. Li abbiamo chiamati alla santità così come ora chiamiamo voi. Qual è la parola con cui li abbiamo chiamati?
Non abbiamo detto semplicemente: «Sii buono, vieni alla chiesa.» E neppure soltanto: «Osserva i comandamenti», ma soprattutto: «Cristo è risorto! Cristo è risorto!» E abbiamo detto: «Vieni con noi, Dio è buono; salvarsi non è difficile, il suo amore lo ha reso facile.» E questo nostro messaggio è stato sempre rivolto a tutti, a chi è venuto e a chi non è venuto, perché il nostro canto è perfetto come è perfetto il Padre che è nei cieli e noi riversiamo la nostra carità su tutti.
17.
Per Adamo nel Paradiso si rese necessario dare un nome agli animali. E così anche noi bisogna che diamo un nome alle cose che condividono il nostro silenzio, non per violarne l’intimità e disturbarne il silenzio pensando a esse, ma per far sì che il silenzio nel quale dimorano e che in esse dimora, possa essere concretizzato e definito per quel che è. Le cose immerse nel silenzio lo rendono reale, perché esso si identifica con il loro essere. Dare un nome a questo essere vuol dire darlo al silenzio. E quindi dovrebbe essere un atto di riverenza.
( Le benedizioni le rendono maggiormente degne di rispetto).
La preghiera conosce delle parole di omaggio per gli esseri in Dio. La magia fa uso di parole per violare il silenzio e la santità degli esseri trattandoli come se fosse possibile strapparli a Dio, possederli e vilmente abusarne, proprio in cospetto del silenziò divino. La magia insulta un tale silenzio presentandolo come la maschera di un intruso, di un potere maligno che usurpa il trono di Dio e si sostituisce alla sua presenza. Ma che cosa può mai sostituirsi a «Colui che è»? Soltanto chi non è può pretendere di usurparne il posto. E facendolo non fa altro che affermarlo ancora più chiaramente perché se si sopprime il non dalla frase «non è» non resta altro che «è».
Nel silenzio di Dio abbiamo vinto la magia riuscendo a vedere attraverso ciò che non è, e convincendoci che «Colui che è» ci è più vicino di «chi non è» e tenta in ogni attimo di porsi tra noi stessi e Lui.
La sua presenza è presente nella mia stessa presenza. Se io sono, allora Egli «è». E nel conoscere che sono, se penetro nelle profondità della mia stessa esistenza e della mia realtà attuale, quel «sono» indefinibile che costituisce la mia essenza nelle sue più profonde radici, allora attraverso questo centro profondo, passo nell’infinito «Io sono»che è il vero nome dell’Onnipotente.
La conoscenza che ho di me stesso nel silenzio (non riflettendo su di me, ma penetrando nel mistero del mio essere che sorpassa parole e concetti perché è del tutto particolare) sfocia nel silenzio e nella «soggettività» dell’essere stesso di Dio.
La grazia di Cristo mi identifica con la «Parola inculcata» (insitum verbum) che è Cristo vivente in me. Vivit in me Christus. L’identificazione attuata dall’amore conduce alla conoscenza, al riconoscimento, intimo e oscuro, ma rivestito di una inesprimibile certezza, nota solo nella contemplazione.
Quando «conosciamo» (nella oscura certezza della fede illuminata da una comprensione spirituale) che siamo figli di Dio nel suo unico Figlio, allora sperimentiamo qualche cosa del grande mistero del nostro essere in Dio e dell’essere Dio in noi. Perché afferriamo, senza sapere come, la terribile e mirabile verità che Dio, chinandosi sull’abisso del suo inesauribile essere, ci ha tratto fuori da se stesso, ci ha rivestito della luce della sua Verità, ci ha purificato nel fuoco del suo amore, ci ha fatto, per la potenza della Croce, una cosa sola con il suo Figlio Unigenito. «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26); «Dal mio seno ti generai prima dell’aurora.» (Sal 109,3).
O gran Dio, Padre di tutte le cose, la cui luce infinita è per me tenebra, la cui immensità è per me come il vuoto, Tu mi hai chiamato alla vita traendomi da Te perché Tu in Te mi ami ed io sono una espressione transeunte della tua realtà inesauribile ed eterna. Non potrei conoscerti, sarei perduto in questa tenebra, cadrei lontano da Te in questo vuoto se Tu non mi tenessi per Te nel Cuore del tuo Figlio Unigenito.
Padre, amo Te che non conosco, Ti abbraccio pur senza vederti, mi abbandono a Te che ho offeso, perché Tu ami in me il tuo Figlio Unigenito. Tu lo vedi in me, lo abbracci in me perché Egli ha voluto identificarsi completamente con me per mezzo di quell’amore che lo ha portato a morire per me sulla Croce.
Vengo a Te come Giacobbe nelle vesti di Esaù, ossia nei meriti e nel prezioso Sangue di Gesù Cristo. E Tu, o Padre, che hai voluto essere come cieco nella oscurità di questo grande mistero che è la rivelazione del tuo amore, passi la tua mano sui mio capo e mi benedici come il tuo Unigenito. Tu hai voluto vedermi soltanto in Lui, ma nel decidere così hai voluto vedermi più realmente di quanto io non sia. Perché il mio stato di peccatore non è quello mio vero, non è quello che Tu hai voluto per me, ma solo quello che ho scelto liberamente. Ma ora, Padre, io non lo voglio più questo falso io, vengo a Te nella persona stessa del Figlio tuo, perché è il suo Sacro Cuore che ha preso possesso di me, ha distrutto i miei peccati, ed è Lui che mi presenta a Te. E dove? Nel santuario del suo stesso Cuore, che è il tuo palazzo ed il tempio ove i santi Ti adorano in cielo.
18.
È necessario dare un nome a Colui il cui silenzio io condivido e adoro, perché è nel suo silenzio che Egli pronuncia il mio nome. Egli solo conosce il mio nome, nel quale anch’io conosco il suo. Perché nell’istante in cui mi chiama «figlio mio», ho la percezione di Lui come «Padre mio». Questo riconoscimento è in me un atto, in Lui una Persona. L’atto in me è il movimento della sua Persona, del suo Spirito, del suo Amore in me. Quando Egli agisce sono io che agisco con Lui e sono quindi anch’io ad agire. E nel mio muovermi ho contemporaneamente la percezione «che sono» e grido: «Abba, Padre».
Ma siccome non sono il padre mio, è inutile che cerchi di risvegliare questa nozione di Lui, chiamandomi «figlio» in seno al mio silenzio. Quando grida a se stessa, la mia voce è soltanto capace di suscitare una morta eco. Non esisterà in me alcun risveglio se non sono chiamato fuori dalla tenebra da Colui che è la mia luce. Soltanto Colui che è Vita è capace di suscitare dalla morte. E se non mi chiama io rimango morto ed il mio silenzio è quello della morte.
Non appena pronuncia il mio nome, il mio silenzio è il silenzio della vita infinita e so di essere perché il mio cuore si è aperto al Padre mio nell’eco degli anni eterni.
La mia vita è un ascoltare, la sua un parlare. La salvezza sta per me nell’ascoltare e nel rispondere. Per questo la mia vita dev’essere silenziosa. Il mio silenzio è quindi la mia salvezza.
Il sacrificio che piace a Dio è l’offerta della mia anima – e di quella degli altri.
L’anima Gli viene offerta quando Gli è completamente attenta. Il mio silenzio, che mi distoglie dalle altre cose, è quindi il sacrificio di tutte le cose e l’offerta della mia anima a Dio. Per questo è il sacrificio più gradito che posso fargli. Se riesco a insegnare agli altri a vivere in questo stesso silenzio, offro a Lui un sacrificio ancora più accetto. La conoscenza di Dio vale più che gli olocausti (Os 6,6).
Il silenzio interiore è impossibile senza misericordia e senza umiltà.
Differenza tra una vocazione ed una categoria. Quelli che realizzano la loro vocazione alla santità — o che la stanno realizzando — sono per questo semplice fatto incatalogabili: non rientrano in nessuna categoria. Se, per parlarne, ricorri a una categoria, bisogna che spieghi immediatamente la tua affermazione come se essi appartenessero a categorie completamente diverse. In realtà non rientrano in nessuna categoria, sono propriamente se stessi, e per questo non sono giudicati degni di grande amore e rispetto agli occhi degli uomini, perché la loro individualità è un segno che sono grandemente amati da Dio e che Egli solo conosce il loro segreto, troppo prezioso per essere, rivelato agli uomini.
Quel che veneriamo nei Santi al di là e al di sopra di quello che sappiamo, é questo segreto; il mistero di una innocenza e di una identità perfettamente nascoste in Dio.
19.
«La fine di tutto il discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti: perché tutto l’uomo sta qui» (Eccl 12,13).
E la sapienza di Dio, che tutte le cose precede, chi mai la scrutò?...
La pienezza della sapienza è temere Iddio, e soddisfazione piena si ritrae dai suoi frutti...
Corona della sapienza è il timore del Signore, che fa fiorire la pace e il frutto della salvezza...
Figliuolo, desideri la sapienza? Osserva i comandamenti, e Dio te la darà... (Eccl. 1,3. 20. 22. 23).
Nelle profondità del nostro essere è Dio che impera e vive. Ma non lo troviamo scoprendo semplicemente il nostro essere.
Quando ci comanda di vivere, ci ingiunge anche di vivere in una determinata maniera. Suo decreto non è soltanto che viviamo in un modo qualunque, ma che viviamo bene e diventiamo infine perfetti vivendo in Lui. Per questo ci ha posto nelle profondità dell’essere la luce della coscienza che ci dice la legge della vita. La vita non è vita se non si conforma a questa legge che è la volontà di Dio. Vivere a questa luce è tutto per l’uomo perché in tal modo egli giunge a vivere in Dia e per Lui. Estinguere la luce della coscienza con atti contrari a questa legge significa tradire la natura umana. Ci rende insinceri verso noi stessi, e fa di Dio un bugiardo: ogni peccato ha questa conseguenza, e ci porta all’idolatria, sostituendo, alla verità di Dia, la falsità.
Una coscienza falsa è un dio falso, un dio che non ci dice nulla perché è muto e che non fa nulla perché non ne ha il potere. È una specie di maschera di cui ci serviamo per dare degli oracoli a noi stessi, dicendoci false profezie, dandoci tutte quelle risposte che desideriamo udire «Scambia la verità di Dio con la menzogna» (Rom 1,25).
Il timore di Dio è l’inizio della sapienza.
La sapienza è la conoscenza della Verità nella sua realtà ultima, è l’esperienza alla quale si arriva con la rettitudine del cuore. La sapienza conosce Dia in noi e noi in Dio.
Il timore, che è il primo passo verso la sapienza, è la paura di essere insinceri con Dio e con se stessi. È il timore di esserci ingannati, di aver gettato la propria vita ai piedi di un falso dio.
Ma ogni uomo è un mentitore, perché ognuno è peccatore. Siamo stati tutti falsi nei confronti di Dio. «Ma Dio è Verace: e ogni uomo menzognero, conforme sta scritto» (Rom 3,4).
Il timore di Dia, che è l’inizio della sapienza, è quindi il riconoscere la «menzogna che tengo nella mia destra» (Is 44,20).
«Se diremo di esser senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi... Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,8-10).
L’inizio della sapienza è quindi il riconoscimento del peccato. Questa confessione ci merita la misericordia di Dio. Fa sì che nella nostra coscienza rifulga la luce della sua verità, senza la quale non possiamo evitare il peccato. Porta nell’anima nostra la forza della sua grazia, legando gli atti del nostro volere alla verità che brilla nella intelligenza.
Soluzione del problema della vita è la vita stessa. La vita non è circoscritta dà ragionamenti e analisi, ma innanzi tutto dal viverla. Perché fino a che non abbiamo incominciato a vivere, la nostra prudenza non ha materia su cui lavorare. E finché non abbiamo cominciato a cadere, non ci è data l’opportunità di lavorare al nostro successo.
PARTE SECONDA
L’AMORE DELLA SOLITUDINE
1.
Vivere nella solitudine e cercarla non vuol dire spostarsi continuamente da una possibilità geografica a un’altra. Si diventa solitari nel momento preciso in cui, non importa quale sia l’ambiente che ci circonda, si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine e si vede che non si vuol essere mai altro che un solitario.
Da quell’istante la solitudine non è più in potenza — ma in atto.
Però la solitudine attuale ci pone sempre direttamente di fronte a una possibilità irrealizzata e anche irrealizzabile di «solitudine perfetta». Ma questo bisogna capirlo nel giusto senso: perché se cerchiamo con troppa ansietà di realizzare la possibilità materiale di una maggior solitudine esteriore, che sembra sempre al di là della nostra portata, perdiamo quella solitudine attuale che già possediamo. Essa ha, come uno dei suoi elementi costitutivi, proprio la insoddisfazione e la incertezza che derivano dal trovarsi faccia a faccia con una possibilità irrealizzabile. Non è una folle ricerca di possibilità — è l’umile acquiescenza che si stabilizza nella presenza di una realtà sconfinata, in un senso già posseduta, e in un altro, pura «possibilità» — oggetto di speranza.
Soltanto quando muore e va in cielo, il solitario vede chiaramente che questa possibilità era già attuata nella sua vita ed egli non lo sapeva — perché la sua solitudine consisteva soprattutto nel «possibile» possesso di Dio e di nient’altro che Dio, nella pura speranza.
2.
Mio Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada che mi è davanti. Non posso sapere con certezza dove andrà a finire. E non conosco neppure davvero me stesso, e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo. Ma sono convinto che il desiderio di piacerti, in realtà ti piaccia. E spero di averlo in tutte le cose. Spero di non far mai nulla senza un tale desiderio. E so che se agirò così la tua volontà mi condurrà per la giusta via, quantunque possa non saperne nulla. Però avrò sempre fiducia in Te per quanto mi possa sembrare di essere perduto e avvolto dall’ombra di morte. Non avrò paura, perché Tu sei sempre con me e non mi lascerai mai solo di fronte ai pericoli.
3.
Nell’età nostra tutto deve costituire un «problema». Il nostro è un tempo di ansietà perché siamo stati noi a volerlo così. L’ansietà non ci viene imposta da una, forza che sia al di fuori di noi: siamo noi che dal nostro intimo la imponiamo al nostro mondo e agli altri.
In una età come questa la santità significa senza dubbio un passaggio dal dominio dell’ansietà a quello in cui non vi è ansietà, oppure può voler dire imparare da Dio a esser privi di ansietà pur vivendo in mezzo a essa.
Sostanzialmente, come nota Max Picard, si giunge probabilmente a questo: vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi in modo tale, che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (dal Mondo del silenzio).
Le contraddizioni sono sempre esistite nell’animo umano. Ma soltanto quando preferiamo l’analisi al silenzio divengono un problema continuo e insolubile. Non dobbiamo risolverle tutte, ma vivere con esse, innalzarci al disopra di esse e vederle nella luce di valori esterni e oggettivi che, al confronto, li rendono banali. Il silenzio allora fa parte della sostanza stessa della santità. Nel silenzio e nella speranza si foggia la forza dei Santi (Is 30,15).
Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine. Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già e che potevo averla sempre posseduta. Eppure costituiva ancora un problema perché sapevo dopo tutto che una solitudine puramente soggettiva ed interiore, frutto di uno sforzo di interiorizzazione, non sarebbe mai bastata. La solitudine deve essere oggettiva e concreta: bisogna che sia una comunione con qualche cosa di più grande del mondo, grande come l’Essere stesso, in modo da poter trovare Dio nella sua pace profonda.
Mettiamo parole fra noi e le cose. Persino Iddio è diventato un’altra irrealtà concettuale in quella terra di nessuno che è il linguaggio, che non serve più come mezzo di comunicazione con la realtà. La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose.
Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore. Il mondo che le nostre parole hanno tentato di classificare, di controllare e persino di disprezzare (perché non riuscivano a circoscriverlo), si fa presso di noi, perché il silenzio ci insegna a conoscere la realtà rispettandola là dove le parole l’hanno disonorata.
Quando abbiamo vissuto abbastanza a lungo con la realtà che ci circonda, la nostra venerazione ci insegnerà come trarre dal silenzio, che è la madre della Verità, parecchie parole su di essa.
Le parole stanno tra silenzio e silenzio: tra il silenzio delle cose e quello del nostro essere. Tra il silenzio del mondo e il silenzio di Dio. Quando davvero incontriamo e conosciamo il mondo nel silenzio, le parole non ci separano più dal mondo e dagli uomini, e neppure da Dio, né da noi stessi perché non ci fidiamo più completamente del linguaggio per esprimere la realtà.
La Verità si leva dal silenzio dell’essere di fronte alla quieta e terribile presenza della Parola. Allora, rituffandosi di nuovo nel silenzio, la verità delle parole ci lancia nel silenzio di Dio.
O piuttosto Dio si leva dal mare come un tesoro nelle onde, e quando il linguaggio cessa, lo splendore divino rimane sul lido del nostro essere.
4.
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si deve vivere e incomincia a vivere. Cosi, se uno e chiamato alla vita solitaria, cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato a una vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno al modo di vivere e dimentica di vivere. Quando non si vive la propria vera vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce a essa, o si sottomette a essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza. Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola.
Supponiamo che uno abbia trovato la sua completezza nella sua vera vocazione. Ora tutto è unitario, in ordine, nella pace. Ora il lavoro non interferisce più con la preghiera, né la preghiera con il lavoro. Ora la contemplazione non deve essere più uno «stato» particolare che rimuove dalle ordinarie occupazioni che lo circondano, perché Dio penetra ogni cosa. Non si deve più rendere conto di se stessi ad altri che a Dio.
5.
È necessario che troviamo il silenzio di Dio non solo in noi stessi, ma anche l’uno nell’altro. Se gli altri non ci parlano con parole che scaturiscono da Dio e comunicano con il silenzio di Dio che e nelle anime nostre, rimaniamo isolati nel nostro stesso silenzio, da cui Dio tende a sottrarsi. Perché il silenzio interiore dipende da una continua ricerca, da un grido incessante nella notte, da un ripetuto chinarsi sull’abisso. Se ci attacchiamo a un silenzio che pensiamo di aver trovato per sempre, desistiamo dalla ricerca di Dio ed il silenzio muore in noi. Un silenzio in cui non si cerca più Iddio cessa dal parlarci di Lui. Un silenzio da cui Dio non sembra assente, minaccia pericolosamente la sua continua presenza. Perché Lo si trova quando Lo si cerca e quando non Lo cerchiamo più ci sfugge. Lo si ode solo quando si spera di sentirlo, e se cessiamo di ascoltarlo, credendo che la nostra speranza sia stata realizzata, Egli non parla più; il suo silenzio non è più vita, ma diviene morte, anche se lo ricarichiamo con l’eco del nostro strepito emotivo.
6.
Signore, non è orgoglioso il mio cuore (Sal 130,1).
Tanto l’orgoglio quanto l’umiltà cercano il silenzio interiore. L’orgoglio tenta di imitare il silenzio di Dio con una forzata immobilità. Ma il silenzio di Dio è la perfezione della Vita Pura ed il silenzio dell’orgoglio è silenzio di morte.
L’umiltà cerca il silenzio non dell’inattività, ma dell’attività ordinata, in quella che è più consona alla nostra povertà e alla nostra miseria di fronte a Dio. L’umiltà va a pregare e trova il silenzio per mezzo delle parole: ma siccome è per noi naturale passare dalle parole al silenzio e dal silenzio alle parole, l’umiltà è silenziosa in tutto. Anche quando parla, l’umiltà ascolta. Le sue parole sono così semplici, gentili e povere che giungono senza sforzo al silenzio di Dio. Infatti ne sono l’eco, e non appena vengono pronunciate, il suo silenzio e già in esse presente.
L’orgoglio teme di uscire da se stesso per paura di perdere ciò che ha prodotto dentro di sé. Il suo silenzio e quindi minacciato dagli atti caritatevoli. Siccome invece l’umiltà non trova niente in se stessa (perché umiltà è il suo stesso silenzio), non può perdere pace e silenzio uscendo da se stessa per ascoltare gli altri o per parlare loro per amore di Dio. In tutte le cose l’umiltà è silenziosa e quieta e perfino il suo lavoro è riposo. In omnibus requiem quaesivi.
Non è il parlare che rompe il nostro silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole dell’orgoglioso impongono silenzio agli altri in modo che si possa udire solo la sua voce. L’umile parla solamente perché gli si parli. Non chiede altro che una elemosina, poi aspetta e ascolta.
Il silenzio e ordinato alla ricapitolazione finale che si farà in parole di tutto ciò per cui si è vissuto. Riceviamo Cristo ascoltandolo nella parola della fede. Ci costruiamo la nostra salvezza nel silenzio e nella speranza, ma presto o tardi viene il momento di dover confessare Dio apertamente di fronte agli uomini e poi dinanzi a tutti gli abitanti del cielo e della terra.
Se la nostra vita si è effusa in parole inutili, non ascolteremo nulla, non diverremo nulla, e alla fine, siccome avremo detto tutto prima di aver qualche cosa da dire, rimarremo senza parole al momento della nostra più grande decisione.
Ma il silenzio è ordinato alla dichiarazione finale. Non è fine a se stesso. Tutta la nostra vita è una meditazione della nostra ultima decisione la sola che importi. E meditiamo in silenzio. Eppure in certo senso abbiamo l’obbligo di parlare agli altri, di aiutarli a veder il modo di prendere le loro decisioni, di insegnare loro Cristo. E nel far ciò, proprio le nostre parole insegnano a essi un nuovo silenzio: il silenzio della Resurrezione. In questo silenzio si formano e si preparano in modo da pater dire anch’essi quanto hanno udito: Io ebbi fede, perciò parlai (Sal 115,1).
7.
Quando il silenzio mi ha fatto libero, quando non sono più preso dalla valutazione della vita, ma dal modo in cui viverla, riesco a scoprire una forma di preghiera nella quale non vi è davvero alcuna distrazione. Tutta la mia vita diventa preghiera. Tutto il mio silenzio è colmo di preghiera. Il mondo del silenzio in cui mi trovo immerso contribuisce alla mia preghiera.
L’unificazione, che è opera della povertà nella solitudine, rimargina tutte le ferite dell’anima e le risana. Finché rimaniamo poveri, finché siamo vuoti di tutto e non ci interessiamo di altro all’infuori di Dio, non possiamo essere distratti. Perché la nostra stessa povertà ci impedisce di «essere tratti da un’altra parte (distratti).
Se la luce che è in te è tenebra...
Supponiamo che la mia «povertà» sia una fame segreta di ricchezze spirituali: supponiamo che pretendendo di svuotare me stesso, di essere silenzioso, non sto in realtà facendo altro che tentare di adescare Iddio perché mi arricchisca di qualche esperienza particolare — e che, allora? Tutto diventa in tal caso una distrazione. Tutte le case create interferiscono con la mia ansia di qualche esperienza particolare. Devo metterle alla porta, se no mi distrarranno. E quel che è peggio — io stesso sono una distrazione. Ma, casa peggiore di tutte — se la mia preghiera è incentrata su di me, se cerca soltanto un arricchimento del mio essere, sarà la mia stessa preghiera la più grande distrazione in potenza. Pieno della mia stessa curiosità, ho mangiato dell’albero della conoscenza e mi sono distolto da me stesso e da Dio. Sono rimasto ricco e solo e nulla può Calmare la mia fame: tutto quello che tocco si muta in una distrazione.
Che io cerchi allora il dono del silenzio, della povertà, della solitudine, dove tutto quello che sfioro si muta in preghiera: dove il cielo è la mia preghiera, gli uccelli sono la mia preghiera, il vento tra gli alberi è la mia preghiera, perché Dio è tutto in tutto.
Perché ciò avvenga devo essere veramente povero. Non devo cercare nulla: ma devo essere ben contento di tutto quello che ricevo da Dio. La vera povertà è quella del povero che è felice di ricevere l’elemosina da chiunque, ma specialmente da Dio. La falsa povertà è quella di chi pretende di possedere l’autosufficienza di un angelo. La vera povertà è quindi un ricevere ed un ringraziare trattenendo per sé solo quello che si ha bisogno di consumare. La falsa povertà pretende di non aver bisogno, di non chiedere, si sforza di avere tutto e rifiuta qualsiasi gratitudine.
8.
«Se dunque vi diranno: Eccolo nel deserto, non vi andate: eccolo nei luoghi più nascosti (della casa), non credete. Perché come il lampo esce dall’oriente e guizza all’occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo» (Mt 24,26-28).
Cristo, che verrà improvvisamente alla fine dei tempi e nessuno può indovinare il momento del suo arrivo — viene anche a coloro che sono suoi in ogni attimo del tempo ed essi non sono in grado di vederlo o di indovinarne l’arrivo. Eppure dove è Lui sono anche loro. Come aquile si radunano istintivamente non sapendo dove e Lo trovano a ogni attimo.
Proprio come non vi è possibilità di dire con certezza dove e quando apparirà alla fine del mondo, così non si può dire con certezza dove e quando si manifesterà alle anime contemplative.
Vi sono parecchi che Lo hanno cercato nel deserto e non ve Lo hanno trovato e vi sono molti che si sono nascosti con Lui come reclusi ed Egli si è a essi rifiutato. Afferrarlo è facile come afferrare il lampo, e, al pari del lampo, Egli balena dove vuole.
Tutti gli spiriti veramente contemplativi hanno questo in comune: non già che si radunano esclusivamente nel deserto o che si chiudono in clausura, ma che dove Egli è, sono anch’essi. E come Lo trovano? Con una tecnica? Non vi è un metodoper trovarlo. Lo trovano nella sua volontà. E il suo volere, recando loro la sua grazia e modellando all’esterno la loro vita, h porta infallibilmente al punto preciso in cui possono trovarlo. Anche quando non sanno come vi sono arrivati o cosa stiano realmente facendo.
Non appena uno è’ veramente disposto a essere solo con Dio, lo e dovunque si trovi in campagna, nel monastero, nei boschi o in città. Il lampo balena da oriente a accidente, illuminando tutto l’orizzonte e guizzando dove vuole, e nello stesso attimo la infinita libertà di Dio risplende nelle profondità dell’anima umana, ed essa ne è illuminata. Allora l’uomo vede che, pur essendo ancora alla metà del cammino, è ormai giunto alla fine. Perché la vita di grazia sulla terra è l’inizio della vita di gloria. Benché viaggiatore nel tempo i suoi occhi si sono aperti, per un attimo, sull’eternità.
9.
È cosa più grande e preghiera migliore vivere in Colui che è infinito, e rallegrarsi che sia così, anziché star sempre a lottare per racchiudere la sua infinità nello stretto spazio del nostro cuore. Finché sono contento di conoscere che Egli è infinitamente più grande di me e che non Lo posso conoscere se non mi si mostra, avrò pace ed Egli sarà vicino a me e dentro di me, ed io avrò quiete in Lui. Ma non appena desidero conoscerlo e goderlo per me, cerco di stendermi per fargli violenza mentre Egli mi sfugge, e nel far ciò reco violenza a me stesso e ,ricado su di me nel dolore e nell’ansietà, riconoscendo ch’Egli è fuggito.
Nella vera preghiera, quantunque ogni attimo silenzioso rimanga lo stesso, pure ogni momento è una nuova scoperta di un nuovo silenzio, una nuova penetrazione in quella eternità nella quale tutte le cose sono sempre nuove. Conosciamo, per una scoperta recente, la profonda realtà costituita dalla nostra esistenza concreta hinc et nunc e nelle profondità di quella realtà riceviamo dal Padre luce, verità, sapienza e pace. Sono questi i riflessi di Dio nelle anime nostre fatte a sua immagine e somiglianza.
10.
Lascia che questa sia la mia sola consolazione: che dovunque io sono, Tu, o Signore, sia amato e lodato.
Gli alberi invero Ti amano senza conoscerti. I gigli dei campi e i fiori del grano sono là a proclamare che Tu li ami, senza essere consapevoli della tua presenza. Le belle nuvole nere cavalcano lentamente per il cielo meditando su di Te come fanciulli che non sanno che cosa sognano mentre giocano.
Ma in mezzo a tutte queste cose, io Ti conosco e sono consapevole della tua presenza. In esse ed in me conosco l’amore che esse non conoscono e, quel che è ancora più grande, mi vergogno per la presenza del tuo amore in me. O amore dolce e terribile, che Tu mi hai dato e che non potrebbe mai essere nel mio cuore se Tu non mi amassi! Perché tra questi esseri che non Ti hanno mai offeso, io sono da Te amato, e in apparenza più di tutti gli altri proprio perché Ti ho offeso. Sono visto da Te sotto il cielo, e le mie offese sono state da Te dimenticate, ma io non le ho dimenticate.
Chiedo soltanto una cosa: che il ricordo di esse non mi faccia temere di ricevere nel mio cuore il dono dell’Amore che hai posto in me. Lo accoglierò perché ne sono indegno. Nel far ciò Ti amerò sempre più e darò maggior gloria alla tua misericordia.
Ricordando che sono stato un peccatore, voglio amarti malgrado quello che sono stato, sapendo che il mio amore è prezioso perché è tuo, piuttosto che mio. Prezioso ai tuoi occhi perché Viene dal Figlio tuo, ma ancor più prezioso perché mi fa tuo figlio.
11.
Vocazione alla solitudine. Darsi, consegnarsi, affidarsi completamente al silenzio di un vasto paesaggio di boschi e colline, o mare, o deserto: star fermo, mentre il sole sale sulla terra e ne colma di luce i silenzi. Pregare e lavorare il mattino, lavorare e riposare il pomeriggio e fermarsi di nuovo a meditare alla sera quando la notte cade su quel paesaggio e quando il silenzio si riempie di tenebra e di stelle. Questa è una vocazione vera e speciale. Pochi sono disposti a immergersi completamente in un tale silenzio, a lasciar che se ne impregnino le loro ossa, a respirare solo silenzio, a nutrirsi di silenzio e a mutare la sostanza della loro vita in un silenzio vivo e vigile.
Martire è chi ha preso una decisione così forte da poter essere provata dalla morte.
Solitario è chi ha preso una decisione così forte da poter essere provata dal deserto: ossia dalla morte.
Perché il deserto e pieno di incertezza, di pericolo, di umiliazione e di timore, e il solitario vive tutto il giorno di fronte alla morte.
È dunque evidente che il solitario è il fratello minore del martire. È lo stesso Spirito Santo che prende la decisione di segregare in Cristo martiri e solitari.
La vocazione al martirio è carismatica e straordinaria. Così è anche in un certo senso la vocazione alla solitudine.
Non si diventa martiri per un piano umano e non si diventa solitari per un nostro disegno personale.
Persino il desiderio di solitudine dev’essere soprannaturale se si vuole che sia effettivo e se è soprannaturale sarà probabilmente anche in contraddizione con parecchi dei nostri piani e desideri. Possiamo sì studiare, prevedere e desiderare il sentiero che ci porta al deserto, ma alla fine è Dio e non gli uomini che fa i solitari.
Non importa se siamo chiamati alla vita di comunità o alla solitudine, la nostra vocazione è quella di essere costruiti sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, e sulla pietra angolare, Cristo. Questo significa che siamo chiamati a compiere e realizzare il grande mistero della potenza di Cristo in noi, di quella potenza che Lo ha risuscitato dalla morte e che ci ha chiamato dagli estremi confini della terra a vivere per il Padre in Lui. Qualunque sia la nostra vocazione, siamo chiamati a essere testimoni e ministri della divina Misericordia.
Il solitario cristiano non cerca la solitudine soltanto come un’atmosfera o uno stato propizio a una spiritualità speciale e superiore. E non la cerca neppure come mezzo favorevole per ottenere quello che desidera la contemplazione. La cerca come un’espressione del dono totale di se stesso a Dio. La sua solitudine non è un mezzo per ottenere qualche cosa, ma un dono di sé. Come tale può implicare rinuncia e disprezzo del «mondo» nel senso peggiorativo. Non è mai una rinuncia alla comunità cristiana. Può invero esprimere la convinzione del solitario di non essere abbastanza buono per la maggior parte delle pratiche esteriori della comunità, la convinzione che suo compito è quello di adempiere qualche funzione segreta nella cantina spirituale della comunità.
12.
La vita solitaria è soprattutto una vita di preghiera.
Non preghiamo per pregare, ma per essere ascoltati. Non preghiamo per udirci pregare, ma perché Dio possa ascoltarci e risponderci. E anche non preghiamo per ricevere una risposta qualsiasi: dev’essere la risposta di Dio.
Quindi un solitario sarà un uomo sempre in preghiera, sempre intento a Dio, sempre sollecito della purezza di questa sua preghiera, attento a non sostituire le sue risposte a quelle di Dio, attento a non fare della preghiera fine a se stessa, attento a mantenerla segreta, semplice e pura. Così facendo può misericordiosamente dimenticare che la sua «perfezione» dipende dalla sua preghiera: può dimenticare se stesso e la vita in attesa delle risposte di Dio.
Mi sembra che ciò non sia del tutto comprensibile se dimentichiamo che la vita di preghiera si fonda sulla preghiera disupplica — qualunque sia, più tardi, il suo sviluppo.
Lungi dal distruggere la purità della preghiera solitaria, la supplica ne conserva e difende la purezza. Il solitario, più di ogni altro, è sempre consapevole della sua povertà e dei suoi bisogni di fronte a Dio. Siccome dipende direttamente da Dio per ogni cosa materiale e spirituale, deve tutto chiedere. La sua preghiera è espressione della sua povertà. La domanda, per lui, può difficilmente diventare una pura formalità, una concessione che si fa a consuetudini umane, come se non avesse bisogno di Dio in tutto.
Il solitario, essendo uomo di preghiera, arriverà a conoscere Dio, riconoscendo che la sua preghiera è sempre esaudita. Di lì può procedere, se Dio vuole, alla contemplazione.
La gratitudine è quindi il cuore della vita solitaria come lo è della vita cristiana.
Dal primo giorno passato nella solitudine, l’eremita dovrebbe applicarsi a comprendere come deve affliggere tutto il suo essere con lacrime e desideri di fronte a Dio. Allora sarà come Daniele a cui l’Angelo portò la risposta di Dio (cf. Dn 10,12): «Non temere, Daniele: perché dal primo giorno che, per ottenere intelligenza, ti sei messo in cuore di darti alla penitenza nel cospetto del tuo Dia, le tue parole sono state esaudite...»
Qualità della preghiera:
Una fede incrollabile (Mt 21,21; Gc 1,6), che dipende dalla «semplicità» di cuore e di intenzione.
Una fiducia perseverante (Lc 11).
13.
Mi sembra che la vita solitaria contemplativa sia una imitazione e una realizzazione in noi delle parole di Gesù «Il Figlio non può fare nulla da sé, ma solo quello che vede fare dal Padre, lo fa parimenti il Figlio. Perché il Padre ama il Figlio e gli mostra quanto Egli fa» (Gv 5,19-20).
Questa imitazione consiste nell’essere e nell’agire nei confronti di Gesù come Egli fece nei confronti del Padre (Gv 5,24). «Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna.» Il Padre ci attira a Gesù (Gv 6,37; 6,44-45). «Chiunque ha udito il Padre ed ha appreso, viene a me.» Ascoltiamo meglio il Padre nella solitudine. Gesù è il Pane di vita che ci vien dato nella solitudine (Gv 6,58). «Come il Padre, che vive, ha inviato me, ed io vivo per il Padre, così chi mangia me, vivrà per me.»
La vita solitaria è quindi la vita di uno che il Padre ha tratto nel deserto ove non sarà nutrito da altro cibo spirituale all’infuori di Gesù. Perché in Gesù il Padre si dà a noi e ci nutre con la sua vita inesauribile. La vita di solitudine deve essere quindi una continua comunione ed un continuo ringraziamento in cui contempliamo per fede tutto quello che passa nelle profondità di Dio e perdiamo il gusto per ogni altra vita e per qualsiasi altro cibo spirituale.
Mi sembra anche che la vita solitaria realizzi il testo suddetto con l’abbandono del salmista: «Io son misero e poverello, ma il Signore si prende cura di me» (Sal 139,18).
Viviamo in continua dipendenza da questa misericordiosa bontà del Padre, e così tutta la nostra vita è una vita di gratitudine — una continua risposta al suo aiuto che viene a noi in ogni momento. Penso che ciascuno lo scopra nella sua vocazione, se è veramente la sua.
La vita solitaria è una vita nella quale rimettiamo a Dio le nostre preoccupazioni e godiamo soltanto dell’aiuto che da Lui ci viene. Tutto quel ch’Egli fa è la nostra gioia. Riproduciamo in noi la sua bontà mediante la gratitudine. (O meglio, la nostra gratitudine è il riflesso della sua misericordia. È ciò che ci rende simili a Lui).
La vita veramente solitaria differisce completamente da quella solitudine parziale che possiamo godere di tanto in tanto negli intervalli permessi dalle consuetudini sociali. Quando riceviamo la nostra solitudine a periodi, ne gustiamo il valore per contrasto con un altro valore. Quando viviamo veramente soli, non esiste contrasto.
Non devo andare nella solitudine per immobilizzare la mia vita, per ridurre ogni cosa a una gelida concentrazione su qualche esperienza interiore. Allorché si alterna alla vita comune, la solitudine può prendere questo carattere di una sosta, di un momento di quiete, di un intervallo di concentrazione. Dove essa non è un periodo, ma un tutto continuo, possiamo ben rinunciare e al senso di concentrazione e alla quiete spirituale. Tutta la nostra vita può sfociare nell’incontro dell’Essere e del Silenzio dei giorni in cui siamo immersi, e possiamo operare la nostra salvezza con un’azione quieta e continua.
È anche possibile che nella solitudine ritorni agli inizi e riscopra il valore e la perfezione della semplice preghiera vocale — e trovi maggior gioia in essa che nella contemplazione.
Così che il cenobita può avere un’alta contemplazione, mentre l’eremita ha soltanto il suo Pater e la sua Ave Maria.In tal caso scelgo la vita di un eremita nella quale vivo sempre in Dio, parlandogli con semplicità, piuttosto che una vita discontinua sublimata da momenti di fuoco e di esaltazione.
Il solitario è necessariamente uno che fa quello che vuole. Difatti non ha niente altro da fare. Ecco perché la sua vocazione è pericolosa e disprezzata insieme. Pericolosa, perché, in effetti, deve diventare santo facendo quello che vuole, invece di fare quello che non vorrebbe. È molto difficile essere santi facendo quello che ci piace. Significa che ciò che ti piace è sempre volontà di Dio. Vuol dunque dire che non può piacerti ciò che non è volontà di Dio e che Iddio stesso coprirà i tuoi sbagli accettandoli in buona parte, come «sua volontà».
Questa vocazione è grandemente disprezzata da quelli che hanno paura di fare ciò che desiderano, ben sapendo che quel che desiderano non è volontà di Dio. Ma il solitario deve essere un uomo che ha il coraggio di far la cosa che maggiormente desidera in questo mondo — vivere in solitudine. Ciò richiede umiltà eroica ed eroica speranza la folle speranza che Dio lo proteggerà contro se stesso, che Dio lo ama tanto da accettare una tale scelta come se fosse fatta da Lui. Questa speranza è un segno che la scelta della solitudine è una scelta che viene da Dio. Che il desiderio di solitudine è probabilmente una vocazione divina, che implica la grazia di piacere a Dio prendendo le nostre decisioni nella umiliante incertezza di un perpetuo silenzio che mai approva o disapprova una singola scelta da noi fatta.
Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il luogo il cui silenzio ha generato una vita interiore a nessun altri nota fuori che a Dio solo.
14.
Preghi meglio quando lo specchio della tua anima è vuoto di ogni immagine all’infuori di quella del Padre invisibile. Questa immagine è la Sapienza del Padre, il Verbo del Padre, Verbum spirans amorem, la gloria del Padre.
Glorifichiamo il Padre nella speranza, attraverso la oscurità della sua immagine che esclude ogni altra somiglianza dall’anima nostra, facendoci vivere di una pura amicizia e dipendenza dal Padre. Questa vita di dipendenza, perfezionata nella fede pura, è la sola vita che si accorda con il nostro carattere sacramentale di figli del Padre in Cristo.
Escludendo le immagini.
Soltanto il puro amore può svuotare perfettamente l’anima di ogni immagine delle dose create ed elevarti al di sopra del desiderio.
Nel disporci a ciò, non dobbiamo intraprendere da noi stessi il vano compito di svuotarci di ogni immagine: dobbiamo cominciare col sostituire le buone alle cattive, rinunciando poi anche a quelle buone che sono inutili o che ci portano inutilmente alla passione e all’emozione. Il paesaggio è molto adatto a liberare da tutte queste immagini, perché calma e pacifica la fantasia e le emozioni e lascia libera la volontà di cercare Iddio nella fede.
La delicata azione della grazia in un’anima viene profondamente disturbata da qualsiasi violenza umana. La passione, quando è disordinata, fa violenza allo spirito e la violenza più pericolosa è quella nella quale ci sembra di trovare la pace. La violenza non è del tutto fatale se non quando cessa di disturbarci.
La pace prodotta dalla grazia è una stabilità spirituale troppo profonda per la violenza — è incrollabile, a meno che non facciamo entrare la forza della passione nel nostro santuario. L’emozione può turbare la superficie del nostro essere, ma non ne muoverà le profondità se queste sono occupate e possedute dalla grazia.
La violenza spirituale è più pericolosa quando è più spirituale ossia meno emotiva. La violenza che opera nelle profondità della volontà senza nessun turbamento superficiale, rende schiavo tutto il nostro essere senza una lotta apparente. Tale è la violenza del peccato deliberato e al quale non si resiste e che sembra non essere violenza, ma pace.
Esiste anche una violenza del desiderio disordinato a cui si consente, generalmente non peccaminosa, ma che impedisce l’opera della grazia e rende più facile che per carità siamo tratti completamente al di fuori di noi. Un tale consenso ci implica a fondo nelle decisioni della passione e può anche farlo col pretesto del servizio di Dio. La più pericolosa violenza spirituale è quella che trascina la nostra volontà con un falso entusiasmo che sembra venga da Dio, ma che in realtà è ispirato dalla passione.
Parecchi dei nostri piani che ci sono più cari per la gloria di Dio non sono altro che disordinate passioni travestite. E la prova se ne ha nell’eccitazione che producono. Il Dio della pace non è mai glorificato dalla violenza.
Vi è un solo genere di violenza che s’impadronisce del regno dei cieli— quella violenza che impone pace alle profondità delle anime nel bel mezzo della passione. Questa violenza è ordine in se stessa ed è prodotta in noi dall’autorità e dalla voce del Dio della pace, che parla dal suo luogo santo.
Eppure nel santuario tu risiedi, lode d’Israele! (Sal 21,4).
15.
Non appena sei davvero solo, tu sei con Dio.
Alcuni vivono per Dio, alcuni con Dio, altri in Dio.
Quelli che vivono per Dio, vivono in mezzo agli altri e nell’attività propria della loro comunità. La loro vita è ciò chefanno.
Quelli che vivono con Dio vivono anche per Lui, ma non vivono in ciò che fanno per Lui, bensì in quello che essi sono dinanzi a Lui. Loro vita è rifletterlo nella loro semplicità e nella perfezione del suo essere che si riflette nella loro povertà.
Quelli che vivono in Dio non vivono con gli altri o in se stessi e ancor meno in ciò che fanno, perché Egli compie in essi ogni cosa.
Sedendo sotto questo stesso albero posso vivere per Dio o con Lui o in Lui. Se stessi scrivendo per Lui, non basterebbe.
Per vivere con Lui è necessario trattenersi di continuo dal parlare e frenare il desiderio di comunicare con gli uomini, anche parlando di Dio.
Eppure non è difficile comunicare contemporaneamente con gli altri e con Lui, se li troviamo in Lui. Vita solitaria — essenzialmente la più semplice. La
vita comune ci prepara a essa in quanto troviamo Dio nella semplicità di tale vita — poi lo cercheremo di più e lo troveremo meglio nella maggior semplicità della solitudine.
Ma se la nostra vita di comunità è assai complicata — (per colpa nostra) — diventeremo certamente ancor più complicati nella solitudine.
Non fuggire alla solitudine dalla comunità. Trova prima Dio in comunità e poi Egli ti condurrà alla solitudine.
Non si può comprendere il vero valore del silenzio se non si ha un sincero rispetto per la validità del linguaggio: perché nel silenzio ci si trova faccia a faccia, senza nessun intermediario, con la realtà che si esprime nel linguaggio. E non potremmo neppure trovarla in se stessa, vale a dire nel suo stesso silenzio, se non vi siamo prima portati dal parlare.
Parole del Vangelo:
Gesù adempie le parole dei profeti (Gv 12,32) e di Mosè in particolare (Gv 5,47),I suoi miracoli erano «parole» — essi non credettero alle sue parole. «Chi ha creduto a quel che ha udito da noi?» (Is 53,1). Le parole di Gesù giudicheranno il mondo (Gv 12,41; Gv 15,22).
Le parole di Gesù sono le parole del Padre (Gv 12,49; Gv 17,8).
Le sue parole ci santificano (Gv 15,3).
Specialmente in quanto sono o implicano dei precetti che ci mantengono nell’amor suo (Gv 15,10-11. 12) e ci portano attraverso Lui al Padre (Gv 17,6-10).
Parole nella Genesi (Gen 2,19-20). Adamo dà il nome agli animali (23). Dà il nome alla donna (3,20). La chiama Eva.
Parole in san Paolo. «Che il Verbo di Cristo abiti in voi con pienezza» (Col 3,16). Vedi la ragione per non mentire. Confronta la parabola del seminatore. «Il seme è la parola di Dio» (Lc 8).
16.
Troviamo Iddio nel nostro essere che è lo specchio di Dio.
Ma come troviamo il nostro essere?
Le azioni sono le porte e le finestre dell’essere. Se non agiamo, non abbiamo nessun mezzo per conoscere ciò che siamo. E l’esperienza della nostra esistenza è impossibile senza una qualche esperienza del conoscere e una qualche esperienza dell’esperienza.
Non possiamo quindi scoprire le profondità del nostro essere rinunciando a ogni attività.
Se rinunciamo all’attività spirituale, possiamo cadere in una certa oscurità e in una certa pace, ma sono l’oscurità e la pace della carne.
Sentiamo di esistere, ma l’essere di cui facciamo esperienza è l’essere carnale e se ci addormentiamo in questa oscurità e ci innamoriamo della sua dolcezza, ci sveglieremo per compiere le opere della carne.
Per scoprire il nostro essere spirituale dobbiamo quindi percorrere il sentiero tracciato dalla nostra attività spirituale.
Ma quando operiamo secondo la grazia, i nostri atti non sono soltanto nostri, appartengono a Dio. Se li seguiamo sino alla loro sorgente, diventeremo capaci in potenza di una esperienza di Dio. Perché il suo agire in noi ci rivela il suo essere in noi.
Tutto il vivere consiste nello spiritualizzare le nostre attività per mezzo dell’umiltà e della fede, nell’imporre silenzio alla nostra natura per mezzo della carità.
«Uscire da se stessi» vuol dire operare alla sommità del nostro essere, mossi non dalla natura, ma da Dio, che è infinitamente al di sopra di noi e ciò nondimeno dimora nelle profondità dell’anima nostra.
Riposarsi da ciò, ossia gustare il frutto di un tale atto — vuol dire riposare nell’essere stesso di Dio al di sopra di noi. Dov’è il tuo tesoro ivi è anche il nostro cuore.
Consideriamo allora che tutto il pregio (tesoro) dei nostri atti spirituali viene da Dio e il nostro cuore riposa alla sorgente da cui promana tutto ciò che vi è di buono in noi. Non possediamo il nostro essere in noi, ma soltanto in Colui dal quale il nostro essere scaturisce.
Per la fede trovo in Dio il mio vero essere.
Un atto perfetto di fede dovrebbe essere in pari tempo un perfetto atto di umiltà.
Iddio non dice i suoi più puri segreti a quelli che sono pronti a rivelarli. Ha sì dei segreti che dice a quanti ne diranno qualche cosa agli altri. Ma tali segreti sono proprietà comune di parecchi. Ne ha poi altri che non possono dirsi e che il semplice desiderio di dirli ci rende incapaci di riceverli.
Il più grande dei segreti di Dio è Dio stesso.
Egli è pronto a comunicarsi a me in una maniera che io non potrò mai esprimere ad altri e neppure pensare tra me con una certa coerenza. Devo desiderarlo nel silenzio. Ed è per questo che devo lasciare tutte le cose.
17.
Il grande compito della vita solitaria è la gratitudine. L’eremita è uno che conosce meglio degli altri la misericordia di Dio perché tutta la sua vita dipende completamente, nel silenzio e nella speranza, dalla segreta bontà del nostro Padre celeste.
Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose.
Per poter vivere con gioia in solitudine devo avere una conoscenza piena di comprensione della bontà degli altri, una conoscenza piena di riverenza della bontà di tutta la creazione ed una umile conoscenza del mio corpo e della mia anima. Come potrò vivere in solitudine se non scorgo dovunque la bontà di Dio, mio Creatore e Redentore e Padre di ogni bene?
Che cosa è che mi ha reso cattivo e odioso a me stesso? È la mia follia, la mia cecità, che, per il peccato, mi ha posto contro la luce che Dio ha messo nella mia anima perché sia riflesso della sua bontà e testimonianza della sua misericordia.
Scaccerò dunque il male dalla mia anima lottando contro la mia cecità? Non è questo che Dio ha disposto per me. Basta che mi distolga dalla mia tenebra e mg
volti verso la luce. Non devo fuggire da me stesso: basta che mi ritrovi non come mi sono fatto da me, per la mia sciocchezza, ma come mi ha fatto Lui nella sua sapienza e mi ha rifatto nella sua misericordia infinita. Perché è sua volontà che il mio corpo e la mia anima siano il tempio del suo santo Spirito, che la mia vita rifletta il fulgore del suo amore e tutto il mio essere riposi nella sua pace. Allora lo conoscerò davvero, perché io sono in Lui ed Egli è realmente in me.
18.
I Salmi sono il vero giardino del solitario e le Scritture sono il suo Paradiso. Essi gli rivelano i loro segreti perché egli, nella sua estrema povertà ed umiltà, non ha null’altro di cui vivere se non dei loro frutti. Per il vero solitario il leggere la Scrittura non è più un «esercizio» tra gli altri, un mezzo di «coltivare» l’intelletto o «la vita spirituale» o di «apprezzare la liturgia». A chi legge la Scrittura in un modo accademico o da un punto di vista estetico o puramente devozionale la Bibbia offre veramente un gradito sollievo e buoni pensieri. Ma per apprendere gl’intimi segreti della Scrittura dobbiamo fare di essa il nostro pane veramente quotidiano, trovarvi Dio quando siamo in maggiore necessità — e sempre allorché non riusciamo a trovarlo in nessun’altra parte e non abbiamo dove cercarlo!
Nella solitudine ho finalmente scoperto che Tu, o mio Dio, hai desiderato l’amore del mio cuore, l’amore del mio cuore così com’è — l’amore di un cuore di uomo.
Ho scoperto ed ho conosciuto, per tua grande misericordia, che ti piace tanto e attira lo sguardo della tua pietà l’amore di un cuore di uomo fiducioso contrito povero, e che è tuo desiderio e tua consolazione, o mio Signore, essere vicinissimo a chi Ti ama e Ti invoca su di sé come suo Padre. Che Tu non hai forse maggior «consolazione» (se così posso dire) di quella di consolare i tuoi figli doloranti e tutti coloro che vengono a Te poveri e con le mani vuote, senz’altra cosa all’infuori della loro umanità, della loro limitatezza e di una grande fiducia nella tua misericordia.
Soltanto la solitudine mi ha insegnato che per piacerti non devo essere un dio o un angelo, non devo divenire un puro spirito senza sentimento e senza imperfezioni umane perché Tu ascolti la mia voce.
Tu, per essere con me, per ascoltarmi, udirmi e rispondermi, non aspetti che io diventi qualcosa di grande. Sono state la mia bassezza e la mia umanità che Ti hanno spinto a rendermi uguale a Te, facendoti scendere fino al mio livello e vivere in me per la tua sollecitudine misericordiosa.
E ora è tuo desiderio non che io Ti dia il ringraziamento e la lode che ricevi dai tuoi angeli eccelsi, ma l’amore e la gratitudine che vengono da un cuore di fanciullo, un figlio di donna, il tuo figlio.
Padre mio, so che mi hai chiamato a vivere solo con Te e ad apprendere che se non fossi una semplice creatura umana, capace di ogni errore e di ogni male e capace altresì di un affetto umanamente fragile e fluttuante nei tuoi riguardi, non potrei essere tuo figlio. Tu desideri l’amore di un cuore d’uomo perché anche il tuo Figlio divino Ti ama con cuore d’uomo ed Egli si è fatto uomo perché il mio cuore ed il suo potessero amarti di un unico amore, che è un amore umano nato e mosso dal tuo santo Spirito.
Allora, se non Ti amo con amore e semplicità di uomo e con l’umiltà di voler essere me stesso, non gusterò mai tutta la dolcezza della tua paterna misericordia, e il Figlio tuo, per quanto riguarda la mia vita, sarà morto invano.
È necessario che sia uomo e uomo rimanga perché la Croce di Cristo non sia vana. Gesù non è morto per gli angeli, ma per gli uomini.
Ecco ciò che apprendo dai Salmi nella solitudine, perché essi sono pieni della semplicità umana di uomini come David, che conobbero Dio da uomini, e da uomini Lo amarono e conobbero Lui, l’Unico vero Dio, che avrebbe mandato il suo Unigenito agli uomini sotto sembianze umane perché essi, pur rimanendo uomini, potessero amarlo con amore divino.
Ed è questo il mistero della nostra vocazione: non che cessiamo di essere uomini per diventare angeli o dei, ma che l’amore del mio cuore di uomo possa diventare amore di Dio per Dio e per gli uomini, e le mie lacrime umane possano cadere dai miei occhi come lacrime di Dio, perché sgorganti dal moto del suo Spirito nel cuore del suo Figlio incarnato. Ecco perché il dono della pietà cresce nella solitudine, alimentato dai Salmi.
Quando si impara questo, l’amore che portiamo agli altri uomini si fa puro e forte. Possiamo avvicinarci a essi senza vanità e senza compiacenza, amandoli con un po’ della purità, delicatezza e segretezza che sono nell’amore di Dio per noi.
Ecco il vero frutto e il vero scopo della solitudine cristiana.
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Coloro che sono stati abbastanza indulgenti da trovare in Semi di contemplazione e in Nessun uomo é un’isola qualche cosa che li abbia interessati, riusciranno forse a trarre un po’ di gioia da queste riflessioni, il merito delle quali, se si può parlare di qualche valore, sta nell’enunciare qua e là alcune delle cose che l’autore desiderava dire a se stesso e a coloro che si sentissero inclini a condividere le sue idee. Ciò vale specialmente per la seconda parte, quella sull’»Amore della solitudine». Chi conosce le pagine entusiasmanti di Max Picard nel Mondo del silenzio riconoscerà in parecchie di queste meditazioni l’ispirazione del filosofo svizzero.
PREFAZIONE
Le note racchiuse in queste pagine furono scritte nel 1953 e nel 1954, quando l’autore, per grazia di Dio e benevolenza dei Superiori, poté usufruire di oppor-tunità speciali per darsi alla solitudine e alla meditazione. Di qui il titolo. Ma ciò non implica che queste note siano soggettive o autobiografiche, e non vanno assolutamente intese come un racconto di avventure spirituali. Per quel che riguarda l’autore, non esiste alcuna avventura da descrivere, e se ve ne fosse stata, non la si sarebbe in ogni caso affidata alla carta. Si tratta semplicemente di pensieri sulla vita contemplativa, di intuizioni fondamentali che a quel tempo sembravano avere una importanza basilare.
Ma si rende qui necessaria una precisazione. È naturalissimo che delle intuizioni che all’autore sembrano delle più vitali non abbiano la medesima importanza per coloro che non hanno lo stesso genere di vocazione. Perciò in questo senso il libro è assolutamente personale. Talvolta le affermazioni sono di indole piuttosto generale, talaltra sono fatteen passant e rasentano i limiti del comune. Non si troverà mai che siano esoteriche, ma soprattutto queste riflessioni sulla solitudine dell’uomo di fronte a Dio, sul dialogo con Dio nel silenzio e sulle relazioni che intercorrono tra le solitudini personali di ciascuno di noi, sono per l’autore essenziali, dato il suo particolare genere di vita. Si può anche dire, tra parentesi, che il genere di vita da lui prescelto non è necessariamente l’ideale dell’Ordine religioso al quale egli appartiene. È, però, un ideale sostanzialmente monastico.
Non c’è bisogno di aggiungere che parecchia acqua è passata sotto il ponte personale di chi scrive da quando ha raccolto queste note, e le linee di pensiero che vi si trovano hanno proseguito negli anni successivi in direzioni varie ed insospettate.
In un’età nella quale il totalitarismo ha tentato in ogni modo di svalutare e degradare la persona umana, speriamo che sia giusto chiedere un po’ di attenzione per tutte e ciascuna delle reazioni dettate dalla sana ragione in favore della inalienabile solitudine dell’uomo e della sua libertà interiore. Non si può permettere che il chiasso omicida del nostro materialismo faccia tacere le voci libere che mai cesseranno dal parlare siano esse quelle dei santi cristiani, o dei saggi di Oriente come Lao Tse o Zen Masters, o voci di uomini come Thoreau o Martin Buber o Max Picard. Va benissimo che si insista sul fatto che l’uomo è un «animale sociale» — ciò è abbastanza ovvio. Ma non vi è nessuna giustificazione per farne un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria — sia pur religiosa.
In realtà la società dipende, nel suo esistere, dalla inviolabile solitudine personale dei suoi membri. La società, per meritare questo nome, non deve essere costituita di numeri o di unità meccaniche, ma di persone. Essere una persona implica responsabilità e libertà, e l’una e l’altra presuppongono una certa solitudine interiore, un senso di integrità personale, un senso della propria realtà e della capacità individuale di darsi alla società — o di rifiutare un tale dono.
Quando gli uomini sono completamente sommersi in una massa di esseri umani senza personalità, sospinti qua e là da forze automatiche, perdono la loro vera umanità, l’integrità, l’attitudine ad amare, la capacità di prendere delle decisioni. Quando la società è costituita di uomini che non conoscono solitudine interiore, non può più essere cementata dall’amore, ed è perciò tenuta insieme da una autorità usurpatrice e violenta. Ma quando gli uomini vengono a viva forza privati di quella solitudine e libertà che sono a essi dovute, la società nella quale vivono imputridisce, marcisce nel servilismo, nel risentimento e nell’odio.
Nessuna misura di progresso tecnico basterà a sanare l’odio che rode, come cancro spirituale, gli elementi vitali della società materialistica. L’unica cura possibile è, e deve sempre essere, spirituale. Non si ricava gran frutto dal parlare agli uomini di Dio e dell’amore se non sono capaci di ascoltare. Le orecchie con le quali si ascolta il messaggio del Vangelo sono nascoste net cuore dell’uomo e non sono capaci di udire nulla se non posseggono una certa solitudine e silenzio interiore.
In altre parole, siccome la fede è questione di libertà e di capacità di autodeterminazione — il libero accogliere un dono di grazia liberamente dato — l’uomo non può dare il suo assenso a un messaggio spirituale finché ha cuore e mente schiavi dell’automatismo. E resterà sempre in una tale schiavitù finché sarà sommerso in una massa di altri automi, privi di individualità e di quella integrità a cui hanno diritto come persone.
Ciò che qui si dice della solitudine non è propriamente una ricetta per eremiti. Ha importanza per tutto il futuro dell’uomo e del suo mondo, ma in particolare, naturalmente, per il futuro della sua religione.
PARTE PRIMA
ASPETTI DELLA VITA SPIRITUALE
1.
Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali, dobbiamo avere una netta visione della loro realtà. Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse, nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente altro che se stesso ossia una creatura solitaria e povera che non dipende da nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo, il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato «nel deserto dell’Alto Egitto» perché «vagasse per luoghi aridi». La sete fa impazzire l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto.
E così chi vaga nel deserto per essere se stesso deve badare a non impazzire e a non farsi schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele che sorse un giorno nel deserto di Senaar, «perché l’uomo rendesse famoso il suo nome e arrivasse fino al cielo» (Gen 11,4).
Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e combattere il nemico e purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a nulla dando il nostro tacito assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti, ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce. Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il nostro deserto. Se la condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo affrontarla, non lo troveremo mai.
2.
Il temperamento non predestina uno alla santità ed un altro alla dannazione. Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore, pietà e dolore, felicità, piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo.
La vita ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità — perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente una «persona» a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità, all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha per scopo di purificare ed. arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità, anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della volontà, eleva anche il tono della emotività: solo con la mancanza di rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite religiose.
Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in cui le emozioni non trovano nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.
3.
La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è soltanto pensiero. E non è naturalmente neppure una vita di sensazioni, una vita di sentimento— «sentire» e sperimentare le cose dello spirito, e le cose di Dio.
La vita spirituale non esclude neppure pensiero e sentimento. Ha bisogno di entrambi. Non è propriamente una vita concentrata alla «sommità» dell’ani- ma, una vita dalla quale siano esclusi mente, immaginazione e corpo. Se così fosse, poca gente potrebbe viverla.
E ancora, se tale fosse la vita spirituale, non sarebbe affatto una vita. Se l’uomo deve vivere, dev’essere tutto vivo, corpo, anima, mente, cuore e spirito. Tutto deve venire elevato e trasformato dall’azione di Dio, nell’amore e nella fede.
Inutile cercare di meditare semplicemente «pensando» — ancora peggio meditare infilando parole, passando in rivista una quantità di insulsaggini.
Una vita puramente intellettuale può essere deleteria se ci porta a sostituire il pensiero alla vita e le idee alle azioni. L’attività propria dell’uomo non è puramente mentale, perché egli non è propriamente un’anima disincarnata. Nostro destino è di vivere di ciò che pensiamo perché se non viviamo di ciò di cui abbiamo conoscenza, non possiamo neppur dire di conoscere. Soltanto col rendere la conoscenza parte di noi stessi, trasformandola in azione, penetriamo nella realtà significata dai nostri concetti.
Vivere da animale ragionevole non significa pensare da uomo e vivere da animale. Dobbiamo pensare e vivere da uomini. È illusione cercare di vivere come se le due parti astratte del nostro essere (razionalità e animalità) esistessero davvero separatamente come due differenti realtà concrete. Siamo una cosa sola, corpo e anima, e se non viviamo come un tutto unico, siamo destinati alla morte.
Vivere non è pensare. Il pensiero viene determinato e guidato dalla realtà oggettiva che è al di fuori di noi. Vivere vuol dire adattare di continuo il pensiero alla vita e la vita al pensiero, in maniera tale da crescere incessantemente, da esperimentare sempre cose nuove nel vecchio, e cose vecchie nel nuovo. E così la vita è sempre nuova.
4.
L’espressione «conquista di sé» può arrivare a diventare odiosa perché molto spesso non significa la conquista di noi stessi, ma una conquista fatta da noi. Una vittoria riportata con le nostre facoltà. Ma su che cosa? Proprio su ciò che è all’infuori di noi.
La vera conquista di sé è la conquista di noi stessi compiuta non da noi, ma dallo Spirito Santo. Conquista di sé vuol dire in realtà resa di sé, donazione di sé.
Eppure ancor prima di poterci arrendere dobbiamo diventare noi stessi. Perché nessuno può dare quello che non possiede.
Più precisamente, dobbiamo avere abbastanza dominio di noi stessi da poter rinunciare alla nostra volontà nelle mani di Cristo — in modo che Egli possa conquistare ciò che non siamo riusciti a raggiungere con i nostri sforzi.
Per poter arrivare al possesso di noi stessi, dobbiamo avere una certa confidenza, una certa speranza di vittoria. E per poter far vivere questa speranza, dobbiamo ordinariamente avere un certo gusto della vittoria. Dobbiamo sapere che cosa sia la vittoria e amarla più della sconfitta.
Non ha nulla da sperare chi combatte per raggiungere una virtù astratta — una qualità di cui non ha esperienza. Costui non preferirà mai realmente la virtù al vizio opposto, per quanto sembri disprezzare quest’ultimo.
Ognuno di noi ha un desiderio innato di operare bene e di evitare il male. Ma è un desiderio, questo, che rimane sterile, finché non abbiamo fatto esperienza di quel che significhi fare il bene.
(Il desiderio di virtù viene frustrato in parecchie persone di buon volere dal disgusto istintivo che esse provano per le false virtù di coloro che sono creduti santi. I peccatori hanno un occhio finissimo per le false virtù e un’idea esattissima di quello che dovrebbe essere la virtù in una persona buona. Se in chi viene reputato buono vedono soltanto una «virtù» che è in realtà meno viva e meno interessante dei loro vizi, concluderanno che la virtù non ha significato e si attaccheranno a ciò che possiedono, per quanto lo trovino odioso).
Ma che possiamo fare se non possediamo la virtù? Come possiamo farne esperienza? La grazia di Dio, attraverso Cristo nostro Signore, produce in noi un desiderio della virtù che ne è un’esperienza anticipata. Ci rende capaci di «gustarla» anche prima di possederla in pieno.
La grazia, che e carità, contiene in sé tutte le virtù in maniera nascosta e potenziale, così come nella sostanza di una ghianda stanno racchiusi le foglie e i rami di una quercia. Essere una ghianda vuol dire provare il gusto di essere una quercia. La grazia abituale porta con sé, in germe, tutte le virtù cristiane.
Le grazie attuali ci spingono a porre in atto queste potenzialità latenti e a realizzare ciò che significano: — Cristo che agisce in noi.
La gioia che viene da una buona azione è qualche cosa che va ricordata — non per alimentare la nostra compiacenza, ma per ricordarci che gli atti virtuosi non solo sono possibili e meritori, ma possono divenire più facili, più graditi e fruttuosi di quelli del vizio che a essi si oppone e che li rende vani.
Una falsa umiltà non dovrebbe privarci della gioia della conquista, che ci è dovuta ed è necessaria alla nostra vita spirituale, specialmente agli inizi.
È vero che più tardi ci possono venire lasciati dei difetti che siamo incapaci di vincere — e questo avviene per procurarci l’umiliazione di combattere contro un nemico che sembra imbattibile, senza nessuna soddisfazione di vittoria. Ci può difatti venire richiesto di rinunciare anche alla gioia che si prova nel fare il bene, per essere sicuri che lo facciamo per un motivo che trascende questa stessa gioia. Ma prima di pater rinunciare a un tale piacere bisogna averlo provato. E agli inizi la gioia che viene dalla conquista di sé è necessaria: non dobbiamo temere di desiderarla.
5.
Pigrizia e ignavia sono due dei più grandi nemici della vita spirituale. Tanto più pericolosi degli altri quando si camuffano da «discrezione». Questa illusione non sarebbe tanto fatale se la discrezione non fosse una delle virtù .più importanti per chi conduce una vita spirituale. Difatti è proprio la discrezione che ci fa vedere la differenza che passa tra ignavia e discrezione. Se il tuo occhio è semplice... ma se la luce che è in te è tenebra...
La discrezione ci dice quel che Dio vuole da noi e quel che non vuole. Nel far ciò, ci mostra l’obbligo che abbiamo di corrispondere alle ispirazioni della grazia e di obbedire a tutte le altre indicazioni della volontà di Dio.
Pigrizia ed ignavia antepongono all’amore di Dio le nostre comodità attuali; hanno paura dell’incertezza del futuro perché non ripongono alcuna fiducia in Dio.
La discrezione ci mette in guardia contro gli sforzi vani: ma per l’ignavo qualsiasi sforzo è vano. La discrezione ci fa vedere quando uno sforzo è vano e quando invece è doveroso.
La pigrizia rifugge da ogni rischio: La discrezione evita i rischi inutili ma ci fa un obbligo di addossarci i rischi che fede e grazia di Dio esigono da noi. Perché,
quando Gesù disse che il regno dei cieli si conquistava con la violenza, voleva proprio dire che ciò era possibile solo a prezzo di certi rischi.
E presto o tardi, se seguiamo Cristo, dobbiamo rischiare tutto per tutto guadagnare. Dobbiamo puntare sull’invisibile e rischiare tutto ciò che ci è dato di vedere, di provare, di sentire. Ma sappiamo che è un rischio che vale la pena di affrontare, perché non vi è nulla di più incerto del mondo che passa. Infatti «passa la figura del mondo attuale» (1Cor 7,31).
Senza coraggio non potremo mai arrivare alla vera semplicità. L’ignavia ci mantiene in uno stato di «doppiezza» — esitanti tra Dio e il mondo. In una tale esitazione non vi é fede — la fede resta semplicemente un’opinione. Non siamo mai sicuri, perché non ci abbandoniamo mai completamente all’autorità di un Dio invisibile. Questa esitazione è la morte della speranza. Non ci liberiamo mai da questi sostegni visibili che, ben lo sappiamo, un giorno ci verranno sicuramente a mancare. E questa esitazione rende impossibile la vera preghiera non si ha mai il coraggio di chiedere nulla e si dubita talmente di venire esauditi che proprio nell’atto stesso di chiedere si cerca superstiziosamente, per umana prudenza, di costruirsi una risposta di proprio gusto (cfr. Gc 1,5-8).
Che vale la preghiera se nell’atto stesso in cui preghiamo abbiamo così poca fede in Dio che ci preoccupiamo di formulare la nostra risposta alla preghiera?
6.
Non esiste vera vita spirituale all’infuori dell’amore di Cristo.
Possediamo una vita dello spirito soltanto perché siamo amati da Lui. E la vita spirituale consiste nel ricevere il dono dello Spirito Santo e la sua carità, perché il Sacro Cuore di Gesù ha disposto, nel suo amore, che vivessimo del suo Spirito — di quello stesso Spirito che procede dalla Parola e dal Padre e che é l’amore di Gesù per il Padre suo.
Se conosciamo quanto è grande l’amore di Gesù per noi, non avremo mai paura di andare a Lui in tutta la nostra povertà e debolezza e miseria e infermità spirituale. Anzi, quando arriviamo a comprendere di che genere sia il suo amore per noi, preferiamo di andare a Lui in veste di poveri e derelitti: Non ci vergogneremo mai della nostra miseria. La miseria torna tutta a nostro vantaggio quando non abbiamo da cercare altro che misericordia.
Possiamo essere contenti del nostro stato di indigenza, se siamo veramente convinti che la potenza di Dio si perfeziona nella nostra infermità.
Il segno più sicuro che abbiamo ricevuto una comprensione spirituale dell’amore che Dio ha per noi, è l’apprezzare la nostra povertà alla luce della sua infinita misericordia.
Dobbiamo amare la nostra povertà come la ama Gesù. Essa ha tanto valore agli occhi suoi, che è morto sulla Croce per presentare la nostra povertà al Padre suo e arricchirci dei tesori della sua misericordia infinita.
Dobbiamo amare la povertà degli altri come la ama Gesù. Dobbiamo vederli con gli occhi della sua compassione. Ma non possiamo avere una vera compassione degli altri se non siamo disposti a essere oggetto di pietà e a ricevere perdono per i nostri peccati.
Non sappiamo realmente perdonare se non conosciamo che cosa sia essere perdonati. Dovremmo dunque essere contenti che i nostri fratelli ci possano perdonare. È il perdono scambievole che rende manifesto nella nostra vita l’amore che Gesù ha per noi, perché nel perdonarci a vicenda ci comportiamo nei confronti degli altri così come Gesù fa con noi.
7.
Il cristiano ideale è persona che vive completamente al di fuori di sé nel Cristo — vive nella fede della Redenzione da Lui operata, nell’amore del suo Redentore, il quale ha amato tutti noi ed è morto per noi. Ma soprattutto vive nella speranza di un mondo avvenire.
La speranza è il segreto del vero ascetismo. Nega desideri e giudizi personali e respinge il mondo nel suo aspetto presente, non perché noi o il mondo siamo cattivi, ma perché non siamo in condizioni di fare di noi stessi e della bontà del mondo l’uso migliore. Ma nella speranza esultiamo. Nella speranza godiamo delle cose create. Ne godiamo non per quello che sono in se stesse, ma per ciò che sono in Cristo — colme di promessa. Perché la bontà di tutte le cose è una testimonianza della bontà di Dio e la sua bontà è garanzia della sua fedeltà alle promesse. Ci ha promesso un nuovo cielo e una terra nuova, una vita risorta nel Cristo. Qualsiasi rinnegamento di sé che non si basi interamente sulla sua promessa, è meno che cristiano.
Mio Signore, io non ho altra speranza se non nella tua Croce. Tu, con la tua umiltà, le tue sofferenze e la tua morte mi hai liberato da ogni vana speranza. Hai ucciso in Te la vanità della vita presente, e, risorgendo da morte, mi hai dato tutto ciò che è eterno.
Perché dovrei desiderare di essere ricco, quando Tu sei stato povero? Perché dovrei desiderare di essere famoso e potente agli occhi degli uomini, quando i figli di coloro che hanno esaltato i falsi profeti e lapidati i giusti, Ti hanno rigettato e inchiodato alla Croce? Perché dovrei carezzare in cuor mio una speranza che mi divora la speranza di una felicità perfetta in questa vita — quando tale speranza, condannata a esser delusa, non è altro che disperazione?
La mia speranza sta in ciò che gli occhi non hanno mai visto. Dunque, non lasciarmi credere in ricompense visibili. La mia speranza sta in ciò che il cuore umano non sa percepire: non lasciarmi credere ai sentimenti del mio cuore. La mia speranza sta in ciò che la mano dell’uomo non ha mai toccato: non lasciarmi credere a quanto posso afferrare tra le dita. La morte allenterà la loro stretta e la mia vana speranza si dileguerà.
Fa’ che tutta la mia fiducia stia nella tua misericordia, non in me stesso. Fa’ che la mia speranza sia riposta nel tuo amore, non nella salute, o nella forza, o nell’abilità, o nelle risorse umane.
Se credo in Te, tutto il resto diventerà per me forza, salute, sostegno. Ogni cosa mi porterà verso il cielo. Ma se non mi fido di Te, tutto sarà la mia rovina.
8.
Ogni peccato è una punizione per il primo peccato di non conoscere Dio: è dunque un castigo dell’ingratitudine. Perché, come dice san Paolo (Rom 1,21), i Gentili che «conobbero» Dio, non Lo conobbero perché non gli furono grati di questa conoscenza. Non Lo conobbero perché questa loro conoscenza di Lui non li colmò della gioia del suo amore. Se non Lo amiamo dimostriamo di non conoscerlo. Egli è amore. Deus charitas est.
La conoscenza che abbiamo di Dio si perfeziona con la gratitudine: ringraziamo ed esultiamo sperimentando la verità del suo amore.
L’Eucaristia — il Sacrificio di lode e di ringraziamento — è il focolare sempre acceso della conoscenza di Dio perché nel Sacrificio, Gesù, rendendo grazie al Padre, offre ed immola se stesso interamente per la gloria del Padre e per salvarci dai nostri peccati. Se non Lo «conosciamo» nel suo Sacrificio, come è possibile che questo abbia per noi tutto il suo valore? «La conoscenza di Dio vale più degli olocausti» (Os 6,6). Se non siamo grati e non lodiamo il Padre con Lui, non Lo conosciamo.
Non esiste alternativa tra la gratitudine e l’ingratitudine. Chi non è grato comincerà presto a lamentarsi di tutto. Chi non ama, odia. Nella vita spirituale non esiste una specie di indifferenza all’odio o all’amore. Ecco perché la tiepidezza (che ha la parvenza di essere indifferente) è tanto detestabile. Si tratta di odio camuffato da amore.
La tiepidezza, in cui l’anima non è «né calda né fredda» — non odia decisamente e neppure decisa- mente ama — è uno stato nel quale si rigetta Dio e la sua volontà pur mantenendo una parvenza esteriore di amore per lui, per tenersi lontani dagli impicci e salvare la presunta buona fama. È la condizione a cui arrivano ben presto coloro che sono abitualmente ingrati per le grazie che Dio fa loro. Chi risponde davvero alla bontà di Dio e riconosce di aver tutto ricevuto, non può normalmente essere un cristiano a metà. La vera gratitudine e l’ipocrisia non possono esistere insieme: sono assolutamente incompatibili. La gratitudine di per sé ci rende sinceri — altrimenti, vuol dire che non è vera.
Ma la gratitudine è più che un esercizio mentale o un giuoco di parole. Non ci possiamo accontentare di fare dentro di noi un elenco delle cose che Dio ha fatto per noi e poi casualmente ringraziarlo dei favori ricevuti.
Essere grati vuol dire riconoscere l’amore di Dio in tutto quello che Egli ci ha dato — ed Egli ci ha dato tutto. Ogni nostro respiro è un dono dell’amor suo, ogni attimo della nostra esistenza è una grazia, perché porta con sé grazie immense che ci vengono da Lui.
La gratitudine non considera perciò nulla come se le fosse dovuto, non è mai svagata, ma percepisce sempre nuove meraviglie ed è pronta a lodare di continuo la divina bontà. Chi è riconoscente sa che Dio è buono, non per sentito dire, ma per esperienza. E qui sta tutta la differenza.
9.
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio «nulla»?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione, una pretesa umiltà che nel dire «non sono nulla» intende in effetto affermare vorrei essere diverso da quel che sono».
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità, ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro «nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità morale e metafisica nei confronti di Dio. Per amare così il nostro «nulla» non dobbiamo ripudiare niente di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo, nulla di ciò che siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona: buona nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra deficienza, perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e spirituale, attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi.
L’orgoglioso ama se stesso perché pensa di essere, di per sé, degno di amore, di rispetto, di venerazione: crede didover essere amato da Dio e dagli uomini. Perché pensa di meritare più degli altri di venir amato, onorato, ossequiato.
Anche l’umile ama se stesso, e cerca di essere amato e onorato, non perché affetto e stima gli siano dovuti, ma perché non se li merita. Cerca di essere amato dalla misericordia di Dio. Domanda alla bontà dei fratelli che lo si ami e aiuti. Sapendo di non avere nulla, sa anche di aver bisogno di tutto e non teme di chiedere in elemosina questo tutto e di riceverlo da dove lo può avere.
L’orgoglioso ama la sua illusione e la sua autosufficienza. Chi è povero in spirito ama proprio la sua insufficienza. L’orgoglioso esige rispetto perché crede di avere ciò che gli altri non hanno. L’umile chiede in elemosina una parte di ciò che ogni altro ha ricevuto. Egli pure desidera di essere colmato della bontà e della misericordia di Dio.
10.
La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene santificato dalla presenza e dall’azione dello Spirito Santo.
La vita spirituale non è quindi una vita completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli. Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio. Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo. Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci accorgiamo neppure di essere caduti.
Per mantenerci spiritualmente vivi dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una maniera diversa di indicare un fallimento.
Meditare vuol dire pensare. Eppure una buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli «affetti», molto più che una serie di atti» per cui si passa.
Nella preghiera meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito. Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza, e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e si va a finire in una specie di incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il privilegio di «pregare non facendo nulla».
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale «non si faccia nulla», o «non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non si sente, non si percepisce o non si pensa nulla.
Ogni vera preghiera, non importa quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella «contemplazione» e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver completamente rivolto verso di Lui il nostro volto interiore, finiremo inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi.
D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un certo numero di cose che sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una «idea» di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza della nostra personalità, lo siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di persona a persona che
che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere. L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.
11.
Nutriti dai Sacramenti e formati dalla preghiera e dall’insegnamento della Chiesa, non abbiamo bisogno di cercare altro all’infuori del posto particolare voluto per noi da Dio in seno alla Chiesa. Quando lo abbiamo trovato, vita e preghiera insieme diventano per noi all’improvviso estremamente semplici.
Allora scopriamo che cosa sia in realtà la vita spirituale. Non si tratta di fare un’opera buona piuttosto che un’altra, di vivere in un luogo piuttosto che in un altro, di pregare in una maniera piuttosto che in un’altra.
Non è questione di un particolare effetto psicologico nell’anima nostra. È il silenzio di tutto il nostro essere nella compunzione e nell’adorazione davanti a Dio, nella abituale consapevolezza del fatto che Egli è tutto e che noi non siamo nulla, che Egli è il centro a cui tendono tutte le case, e al quale devono venire dirette tutte le nostre azioni; che vita e forza ci vengono da Lui e che tanto la vita quanto la morte da Lui esclusivamente dipendono; che tutto il corso della nostra vita è da Lui previsto e rientra nel piano della sua Provvidenza, sapiente e misericordiosa; che è assurdo vivere
come se Egli non vi fosse, ossia vivere per noi, come se fossimo soli; che tutti i nostri progetti e le nostre ambizioni spirituali sono vani se non vengono da Lui e non terminano in Lui e che, alla fine, la sola cosa che importi è la sua gloria.
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di continuo a esaminarla e a ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico. La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo vicini a Dio perché allora l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati nell’ansietà e nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma perché non trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non possedere niente che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di particolare che meriti di essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci riposiamo in Colui che è tutta la nostra speranza.
Vi è uno stadio della vita spirituale in cui troviamo Dio in noi questa sua presenza è un effetto creato dal suo amore. È un suo dono per noi. Rimane in noi. Tutti i doni di Dio sono buoni, ma se ci riposiamo in essi perdono la loro bontà nei nostri riguardi. Ed è così anche di questo dono.
Quando viene per noi il tempo di darci alle altre cose, Iddio sottrae il senso della sua presenza per fortificare la nostra fede. Ed è allora inutile cercarlo con uno sforzo psicologico: inutile voler trovare nel cuore un senso di Lui. È venuto il momento di uscire da noi stessi ed elevarci al di sopra di noi e di non cercarlo più in noi, ma al di fuori e al di sopra. Lo facciamo con la nuda fede, con una speranza che brucia come carbone acceso sotto la cenere della nostra povertà. Lo cerchiamo anche nell’umile carità a servizio dei fratelli. Allora, quando vuole, Dio ci solleva fino a sé nella semplicità.
A che vale la conoscenza della nostra miseria se non imploriamo Dio di sostenerci con la sua potenza? Che valore ha il riconoscere la nostra povertà, se non ce ne serviamo mai per sollecitare la sua misericordia? È male abbastanza compiacersi nel pensiero di essere virtuoso, ma è peggio rimanere in una pigra inerzia, se siamo consci della nostra debolezza e dei nostri peccati. Il valore della nostra miseria e della nostra povertà sta nel fatto che esse costituiscono il terreno in cui Iddio sparge il seme del desiderio. E non importa quanto grande possa sembrare lo stato di abbandono in cui ci troviamo: il fiducioso desiderio del suo amore malgrado la nostra avvilente miseria è il segno della sua presenza e il pegno della nostra salvezza.
12.
Se desideri possedere una vita spirituale, devi unificare la tua vita. La vita è spirituale per davvero o non lo è affatto. Nessuno può servire a due padroni. La tua vita viene forgiata dal fine per cui tu vivi. Tu sei fatto a immagine di ciò che desideri.
Per unificare la tua vita, unifica i tuoi desideri. Per spiritualizzarla, spiritualizza i tuoi desideri. Per spiritualizzarli bisogna che tu desideri di non aver desideri.
Vivere nello spirito vuol dire vivere per un Dio in cui crediamo, ma che non possiamo vedere. Desiderare ciò vuol dire rinunciare al desiderio di tutto quello che si vede. Possedere Colui che non può venire compreso, vuol dire rinunciare a tutto ciò che può comprendersi. Per riposare in Colui che è al di sopra di ogni pace creata, rinunciamo al desiderio di riposare nelle cose create.
Rinunciando al mondo lo conquistiamo, ci eleviamo al di sopra della sua molteplicità e la ricapitoliamo nella semplicità di un amore che trova in Dio tutte le cose. E Gesù intendeva proprio questo quando diceva che chi avrebbe voluto salvare la propria vita l’avrebbe perduta e chi invece l’avrebbe perduta per amore di Dio, sarebbe riuscito a salvarla.
Il ventottesimo capitolo di Giobbe (e anche il terzo di Baruch) ci dice che la sapienza di Dio è nascosta ed è impossibile trovarla — eppure finisce con l’ammettere che la si può facilmente trovare perché il timore di Dio è sapienza.
Un monaco non deve mai cercare la sapienza al di fuori della sua vocazione. Se lo facesse non la troverebbe mai, perché per lui la sapienza è nella sua vocazione. Sapienza è la stessa vita del monaco nel suo monastero. Ed è col vivere questa vita che il monaco trova Dio, e non già aggiungendo a questa vita qualche altra cosa che Iddio non vi ha messo. Perché la sapienza è Dio stesso che vive in noi, che a noi si rivela. La vita ci si rivela soltanto per quel che la viviamo.
La vita monastica è piena della misericordia di Dio. Tutto quello che il monaco fa è voluto da Dio e ordinato alla sua gloria. Nel fare la volontà di Dio riceviamo la sua misericordia, perché è solo per un dono della sua misericordia che possiamo compiere la sua volontà con una intenzione pura e soprannaturale. Ed Egli ci dona questa intenzione come una grazia che serve soltanto come mezzo, per ottenere più grazia e più misericordia, dilatando la nostra capacità di amarlo. Maggiore è la nostra capacità di ricevere la sua misericordia, maggiore è il potere che abbiamo di dargli gloria, perché Egli è glorificato solamente dai suoi doni, ed è maggiormente glorificato da coloro nei quali la sua misericordia ha fatto nascere un amore più grande. «Ama meno colui al quale è stato meno perdonato» (Lc 7, 47).
13.
Il più povero in una comunità religiosa non è necessariamente chi ha in uso il minor numero di oggetti. La povertà non è semplicemente questione di non possedere «le cose». È un’attitudine dell’animo che ci porta a rinunciare ad alcuni dei vantaggi che derivano a noi dall’uso delle cose. Uno può non possedere nulla, ma attribuire una grande importanza alla soddisfazione personale e al gusto che trae da cose che sono comuni a tutti — il canto in coro, i sermoni in capitolo, la lettura in refettorio — il tempo libero, il tempo degli altri...
Spesso il più povero in una comunità è quello che è a disposizione di tutti. Tutti se ne possono servire, ed egli non si prende mai il tempo per fare qualche cosa per se stesso.
Povertà — può riguardare cose come la nostra opinione, il nostro «stile», tutto ciò che tende ad affermarci come diversi dagli altri, come superiori agli altri in maniera tale che prendiamo soddisfazione da queste particolarità e le trattiamo come «cose nostre». La «povertà» non dovrebbe mai renderci particolari. L’eccentrico non è un povero in spirito.
Persino l’attitudine ad aiutare gli altri e a dar loro il nostro tempo e tutto ciò che abbiamo può venir «posseduta» con attaccamento, se con tali atti c’imponiamo sugli altri e ce li rendiamo debitori. In tal caso cerchiamo infatti di comprarli e di impadronircene per mezzo dei favori che a essi facciamo.
Chi di noi, o Signore, può parlare di povertà senza vergognarsi? Noi che abbiamo fatto voto di povertà in monastero, siamo poveri davvero? Sappiamo che cosa sia amare la povertà? Ci siamo mai fermati per un momento a pensare perché si debba amare la povertà?
Eppure, o Signore, Tu sei venuto nel mondo per esser povero tra i poveri, perché è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei cieli. E noi, con i nostri voti, ci accontentiamo del fatto che di fronte alla legge non possediamo nulla e che per tutto quello che abbiamo dobbiamo chiedere il permesso di un altro?
La povertà è questa? Può un tale che ha perduto il suo impiego e che non ha denaro con cui pagare i suoi debiti, e che vede la moglie e i figli diventare sempre più scarni e che sente il timore e l’angoscia rodergli il cuore — può egli ottenere le cose delle quali ha disperatamente bisogno, semplicemente chiedendole? Che provi a farlo. Eppure noi, che possiamo avere tante cose delle quali non abbiamo bisogno, e tante altre che è scandaloso da parte nostra possedere — noi, siamo poveri, perché le abbiamo e c’è permesso di averle.
La povertà significa bisogno. Fare voto di povertà e non mancare mai di nulla, e mai aver bisogno di qualche cosa senza averla, vuol dire tentare di farci beffe del Dio Vivente.
14.
Leggere dovrebbe essere un atto di omaggio al Dio di ogni verità. Apriamo il cuore a parole che riflettono la realtà che Egli ha creato o la realtà più grande che è Egli stesso. Leggere è anche un atto di umiltà e di riverenza nei confronti di altri che sono gli strumenti per mezzo dei quali Iddio ci comunica la sua verità.
La lettura dà maggior gloria a Dio quando ne ricaviamo un profitto maggiore, quando è un atto profondamente vitale non soltanto della nostra intelligenza, ma di tutta la nostra personalità assorbita e ristorata nel pensare, nel meditare, nel pregare, o anche nel contemplare Dio.
I libri possono parlarci come Dio, come gli uomini o come il rumore della città nella quale viviamo. Ci parlano come Dio quando ci recano luce e pace e ci colmano di silenzio. Ci parlano come Dio quando desideriamo di non lasciarli mai. Ci parlano come gli uomini allorché desideriamo di ascoltarli di nuovo. Ci parlano come il frastuono della città quando ci tengono prigionieri con una noia che non ci dice nulla, non ci danno pace, né conforto, nulla da ricordare, eppure non ci lasciano andare.
I libri che ci parlano come Dio lo fanno con troppa autorità per divertirci: quelli che ci parlano come gli uomini ci avvincono con il loro interesse umano: finiamo col trovarvi noi stessi. Ci insegnano a conoscerci meglio, riconoscendoci negli altri. I libri che ci parlano come il chiasso della folla ci riducono alla disperazione con il puro peso della loro vacuità. Ci intrattengono come le luci nelle vie della città, la notte, con speranze che non possono appagare.
Per quanto grandi e per quanto amici possano essere, i libri non sostituiscono le persone, ma sono soltanto mezzi di contatto con grandi personalità, con uomini che posseggono una parte maggiore di umanità di quella che a essi compete, uomini che sono personalità nei confronti del mondo intero e non soltanto di se stessi. Non sono le idee e le parole che nutrono l’intelligenza, ma la verità. E non una verità astratta. La Verità che un uomo spirituale ricerca è la Verità tutta intera che comprende realtà, esistenza ed essenza, qualche cosa che si può abbracciare e amare, qualche cosa che può ricevere l’omaggio e il dono delle nostre azioni: più che una cosa: si tratta di persone, anzi di una Persona. Colui che è al di sopra di tutto, la cui essenza è esistere: Dio.
Cristo, il Verbo Incarnato, è il Libro della vita in cui leggiamo Iddio.
15.
L’umiltà è una virtù, non una neurosi.
Ci rende liberi di agire virtuosamente, di servire Iddio, e di conoscerlo. Quindi la vera umiltà non può mai proibirci un’azione davvero virtuosa e non può neppure impedirci di completare noi stessi compiendo la volontà di Dio.
L’umiltà ci rende liberi di fare ciò che è veramente buono, mostrandoci le nostre illusioni e distogliendo il nostro volere da ciò che è un bene soltanto apparente.
Una umiltà che agghiaccia il nostro essere e frustra ogni sana forma di attività non è affatto umiltà, ma solo una forma di orgoglio travestito che sovverte le radici della vita spirituale e ci rende impossibile il darci a Dio.
Signore, Tu ci hai insegnato ad amare l’umiltà, ma non lo abbiamo imparato. Abbiamo imparato soltanto ad amare l’apparenza esteriore dell’umiltà — quell’umiltà che rende simpatici e attraenti. Talvolta ci soffermiamo a riflettere su queste qualità, e spesso pretendiamo di possederle e di averle acquistate con «la pratica dell’umiltà».
Se fossimo veramente umili, conosceremmo fino a qual punto siamo bugiardi!
Insegnami a sopportare una umiltà che mi mostri incessantemente che sono un bugiardo ed un mentitore e che, pur essendo tale, ho l’obbligo di lottare per giungere alla verità, per essere quanto più posso sincero, anche se troverò inevitabilmente che tutta la mia verità è avvelenata dall’inganno. Ecco il terribile dell’umiltà: non ha mai pieno successo. Se fosse almeno possibile essere davvero umili su questa terra. Ma no, ecco il guaio. Tu, o Signore, sei stato umile. Ma la nostra umiltà consiste nell’essere orgogliosi e nel saperlo bene, e nell’essere schiacciati da questo peso insopportabile e nel poter fare tanto poco per liberarcene.
Come sei severo nella tua misericordia, eppure devi esserlo. La tua misericordia dev’essere giusta perché la tua verità dev’essere vera. Eppure, come sei severo nella tua misericordia: perché più lottiamo per essere sinceri, più scopriamo la nostra falsità. È misericordioso da parte della tua; luce di portarci, inesorabilmente, alla disperazione
No — non è alla disperazione che Tu mi porti, ma all’umiltà. Perché l’umiltà vera è in certo senso una reale disperazione: dispero di me stesso per pater porre soltanto in Te tutta la mia speranza.
Chi può sopportare di cadere in una tale oscurità?
16.
Le campane vogliono ricordarci che Dio solo è buono, che noi gli apparteniamo e che non viviamo per questo mondo.
Irrompono nel mezzo delle nostre occupazioni per ricordarci che tutte le cose passano e che le nostre ansietà non hanno importanza.
Ci parlano della nostra libertà, che le responsabilità e le cure transeunti ci fanno dimenticare.
Sono la voce della nostra alleanza con il Dio del Cielo.
Ci dicono che noi siamo il suo vero tempio. Ci invitano alla pace con Lui e con noi stessi.
Al termine della benedizione della campana di una chiesa si legge il Vangelo di Marta e Maria per ricordarci tutto questo.
Le campane dicono: gli affari non hanno importanza. Riposa in Dio ed esulta, perché questo mondo è soltanto figura e promessa di un mondo avvenire, e soltanto chi è distaccato dalle cose transeunti può possedere la sostanza di una eterna promessa.
Le campane dicono: abbiamo parlato per secoli dalle torri delle grandi chiese. Abbiamo parlato ai santi, ai vostri padri, nelle loro terre. Li abbiamo chiamati alla santità così come ora chiamiamo voi. Qual è la parola con cui li abbiamo chiamati?
Non abbiamo detto semplicemente: «Sii buono, vieni alla chiesa.» E neppure soltanto: «Osserva i comandamenti», ma soprattutto: «Cristo è risorto! Cristo è risorto!» E abbiamo detto: «Vieni con noi, Dio è buono; salvarsi non è difficile, il suo amore lo ha reso facile.» E questo nostro messaggio è stato sempre rivolto a tutti, a chi è venuto e a chi non è venuto, perché il nostro canto è perfetto come è perfetto il Padre che è nei cieli e noi riversiamo la nostra carità su tutti.
17.
Per Adamo nel Paradiso si rese necessario dare un nome agli animali. E così anche noi bisogna che diamo un nome alle cose che condividono il nostro silenzio, non per violarne l’intimità e disturbarne il silenzio pensando a esse, ma per far sì che il silenzio nel quale dimorano e che in esse dimora, possa essere concretizzato e definito per quel che è. Le cose immerse nel silenzio lo rendono reale, perché esso si identifica con il loro essere. Dare un nome a questo essere vuol dire darlo al silenzio. E quindi dovrebbe essere un atto di riverenza.
( Le benedizioni le rendono maggiormente degne di rispetto).
La preghiera conosce delle parole di omaggio per gli esseri in Dio. La magia fa uso di parole per violare il silenzio e la santità degli esseri trattandoli come se fosse possibile strapparli a Dio, possederli e vilmente abusarne, proprio in cospetto del silenziò divino. La magia insulta un tale silenzio presentandolo come la maschera di un intruso, di un potere maligno che usurpa il trono di Dio e si sostituisce alla sua presenza. Ma che cosa può mai sostituirsi a «Colui che è»? Soltanto chi non è può pretendere di usurparne il posto. E facendolo non fa altro che affermarlo ancora più chiaramente perché se si sopprime il non dalla frase «non è» non resta altro che «è».
Nel silenzio di Dio abbiamo vinto la magia riuscendo a vedere attraverso ciò che non è, e convincendoci che «Colui che è» ci è più vicino di «chi non è» e tenta in ogni attimo di porsi tra noi stessi e Lui.
La sua presenza è presente nella mia stessa presenza. Se io sono, allora Egli «è». E nel conoscere che sono, se penetro nelle profondità della mia stessa esistenza e della mia realtà attuale, quel «sono» indefinibile che costituisce la mia essenza nelle sue più profonde radici, allora attraverso questo centro profondo, passo nell’infinito «Io sono»che è il vero nome dell’Onnipotente.
La conoscenza che ho di me stesso nel silenzio (non riflettendo su di me, ma penetrando nel mistero del mio essere che sorpassa parole e concetti perché è del tutto particolare) sfocia nel silenzio e nella «soggettività» dell’essere stesso di Dio.
La grazia di Cristo mi identifica con la «Parola inculcata» (insitum verbum) che è Cristo vivente in me. Vivit in me Christus. L’identificazione attuata dall’amore conduce alla conoscenza, al riconoscimento, intimo e oscuro, ma rivestito di una inesprimibile certezza, nota solo nella contemplazione.
Quando «conosciamo» (nella oscura certezza della fede illuminata da una comprensione spirituale) che siamo figli di Dio nel suo unico Figlio, allora sperimentiamo qualche cosa del grande mistero del nostro essere in Dio e dell’essere Dio in noi. Perché afferriamo, senza sapere come, la terribile e mirabile verità che Dio, chinandosi sull’abisso del suo inesauribile essere, ci ha tratto fuori da se stesso, ci ha rivestito della luce della sua Verità, ci ha purificato nel fuoco del suo amore, ci ha fatto, per la potenza della Croce, una cosa sola con il suo Figlio Unigenito. «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26); «Dal mio seno ti generai prima dell’aurora.» (Sal 109,3).
O gran Dio, Padre di tutte le cose, la cui luce infinita è per me tenebra, la cui immensità è per me come il vuoto, Tu mi hai chiamato alla vita traendomi da Te perché Tu in Te mi ami ed io sono una espressione transeunte della tua realtà inesauribile ed eterna. Non potrei conoscerti, sarei perduto in questa tenebra, cadrei lontano da Te in questo vuoto se Tu non mi tenessi per Te nel Cuore del tuo Figlio Unigenito.
Padre, amo Te che non conosco, Ti abbraccio pur senza vederti, mi abbandono a Te che ho offeso, perché Tu ami in me il tuo Figlio Unigenito. Tu lo vedi in me, lo abbracci in me perché Egli ha voluto identificarsi completamente con me per mezzo di quell’amore che lo ha portato a morire per me sulla Croce.
Vengo a Te come Giacobbe nelle vesti di Esaù, ossia nei meriti e nel prezioso Sangue di Gesù Cristo. E Tu, o Padre, che hai voluto essere come cieco nella oscurità di questo grande mistero che è la rivelazione del tuo amore, passi la tua mano sui mio capo e mi benedici come il tuo Unigenito. Tu hai voluto vedermi soltanto in Lui, ma nel decidere così hai voluto vedermi più realmente di quanto io non sia. Perché il mio stato di peccatore non è quello mio vero, non è quello che Tu hai voluto per me, ma solo quello che ho scelto liberamente. Ma ora, Padre, io non lo voglio più questo falso io, vengo a Te nella persona stessa del Figlio tuo, perché è il suo Sacro Cuore che ha preso possesso di me, ha distrutto i miei peccati, ed è Lui che mi presenta a Te. E dove? Nel santuario del suo stesso Cuore, che è il tuo palazzo ed il tempio ove i santi Ti adorano in cielo.
18.
È necessario dare un nome a Colui il cui silenzio io condivido e adoro, perché è nel suo silenzio che Egli pronuncia il mio nome. Egli solo conosce il mio nome, nel quale anch’io conosco il suo. Perché nell’istante in cui mi chiama «figlio mio», ho la percezione di Lui come «Padre mio». Questo riconoscimento è in me un atto, in Lui una Persona. L’atto in me è il movimento della sua Persona, del suo Spirito, del suo Amore in me. Quando Egli agisce sono io che agisco con Lui e sono quindi anch’io ad agire. E nel mio muovermi ho contemporaneamente la percezione «che sono» e grido: «Abba, Padre».
Ma siccome non sono il padre mio, è inutile che cerchi di risvegliare questa nozione di Lui, chiamandomi «figlio» in seno al mio silenzio. Quando grida a se stessa, la mia voce è soltanto capace di suscitare una morta eco. Non esisterà in me alcun risveglio se non sono chiamato fuori dalla tenebra da Colui che è la mia luce. Soltanto Colui che è Vita è capace di suscitare dalla morte. E se non mi chiama io rimango morto ed il mio silenzio è quello della morte.
Non appena pronuncia il mio nome, il mio silenzio è il silenzio della vita infinita e so di essere perché il mio cuore si è aperto al Padre mio nell’eco degli anni eterni.
La mia vita è un ascoltare, la sua un parlare. La salvezza sta per me nell’ascoltare e nel rispondere. Per questo la mia vita dev’essere silenziosa. Il mio silenzio è quindi la mia salvezza.
Il sacrificio che piace a Dio è l’offerta della mia anima – e di quella degli altri.
L’anima Gli viene offerta quando Gli è completamente attenta. Il mio silenzio, che mi distoglie dalle altre cose, è quindi il sacrificio di tutte le cose e l’offerta della mia anima a Dio. Per questo è il sacrificio più gradito che posso fargli. Se riesco a insegnare agli altri a vivere in questo stesso silenzio, offro a Lui un sacrificio ancora più accetto. La conoscenza di Dio vale più che gli olocausti (Os 6,6).
Il silenzio interiore è impossibile senza misericordia e senza umiltà.
Differenza tra una vocazione ed una categoria. Quelli che realizzano la loro vocazione alla santità — o che la stanno realizzando — sono per questo semplice fatto incatalogabili: non rientrano in nessuna categoria. Se, per parlarne, ricorri a una categoria, bisogna che spieghi immediatamente la tua affermazione come se essi appartenessero a categorie completamente diverse. In realtà non rientrano in nessuna categoria, sono propriamente se stessi, e per questo non sono giudicati degni di grande amore e rispetto agli occhi degli uomini, perché la loro individualità è un segno che sono grandemente amati da Dio e che Egli solo conosce il loro segreto, troppo prezioso per essere, rivelato agli uomini.
Quel che veneriamo nei Santi al di là e al di sopra di quello che sappiamo, é questo segreto; il mistero di una innocenza e di una identità perfettamente nascoste in Dio.
19.
«La fine di tutto il discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti: perché tutto l’uomo sta qui» (Eccl 12,13).
E la sapienza di Dio, che tutte le cose precede, chi mai la scrutò?...
La pienezza della sapienza è temere Iddio, e soddisfazione piena si ritrae dai suoi frutti...
Corona della sapienza è il timore del Signore, che fa fiorire la pace e il frutto della salvezza...
Figliuolo, desideri la sapienza? Osserva i comandamenti, e Dio te la darà... (Eccl. 1,3. 20. 22. 23).
Nelle profondità del nostro essere è Dio che impera e vive. Ma non lo troviamo scoprendo semplicemente il nostro essere.
Quando ci comanda di vivere, ci ingiunge anche di vivere in una determinata maniera. Suo decreto non è soltanto che viviamo in un modo qualunque, ma che viviamo bene e diventiamo infine perfetti vivendo in Lui. Per questo ci ha posto nelle profondità dell’essere la luce della coscienza che ci dice la legge della vita. La vita non è vita se non si conforma a questa legge che è la volontà di Dio. Vivere a questa luce è tutto per l’uomo perché in tal modo egli giunge a vivere in Dia e per Lui. Estinguere la luce della coscienza con atti contrari a questa legge significa tradire la natura umana. Ci rende insinceri verso noi stessi, e fa di Dio un bugiardo: ogni peccato ha questa conseguenza, e ci porta all’idolatria, sostituendo, alla verità di Dia, la falsità.
Una coscienza falsa è un dio falso, un dio che non ci dice nulla perché è muto e che non fa nulla perché non ne ha il potere. È una specie di maschera di cui ci serviamo per dare degli oracoli a noi stessi, dicendoci false profezie, dandoci tutte quelle risposte che desideriamo udire «Scambia la verità di Dio con la menzogna» (Rom 1,25).
Il timore di Dio è l’inizio della sapienza.
La sapienza è la conoscenza della Verità nella sua realtà ultima, è l’esperienza alla quale si arriva con la rettitudine del cuore. La sapienza conosce Dia in noi e noi in Dio.
Il timore, che è il primo passo verso la sapienza, è la paura di essere insinceri con Dio e con se stessi. È il timore di esserci ingannati, di aver gettato la propria vita ai piedi di un falso dio.
Ma ogni uomo è un mentitore, perché ognuno è peccatore. Siamo stati tutti falsi nei confronti di Dio. «Ma Dio è Verace: e ogni uomo menzognero, conforme sta scritto» (Rom 3,4).
Il timore di Dia, che è l’inizio della sapienza, è quindi il riconoscere la «menzogna che tengo nella mia destra» (Is 44,20).
«Se diremo di esser senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi... Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,8-10).
L’inizio della sapienza è quindi il riconoscimento del peccato. Questa confessione ci merita la misericordia di Dio. Fa sì che nella nostra coscienza rifulga la luce della sua verità, senza la quale non possiamo evitare il peccato. Porta nell’anima nostra la forza della sua grazia, legando gli atti del nostro volere alla verità che brilla nella intelligenza.
Soluzione del problema della vita è la vita stessa. La vita non è circoscritta dà ragionamenti e analisi, ma innanzi tutto dal viverla. Perché fino a che non abbiamo incominciato a vivere, la nostra prudenza non ha materia su cui lavorare. E finché non abbiamo cominciato a cadere, non ci è data l’opportunità di lavorare al nostro successo.
PARTE SECONDA
L’AMORE DELLA SOLITUDINE
1.
Vivere nella solitudine e cercarla non vuol dire spostarsi continuamente da una possibilità geografica a un’altra. Si diventa solitari nel momento preciso in cui, non importa quale sia l’ambiente che ci circonda, si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine e si vede che non si vuol essere mai altro che un solitario.
Da quell’istante la solitudine non è più in potenza — ma in atto.
Però la solitudine attuale ci pone sempre direttamente di fronte a una possibilità irrealizzata e anche irrealizzabile di «solitudine perfetta». Ma questo bisogna capirlo nel giusto senso: perché se cerchiamo con troppa ansietà di realizzare la possibilità materiale di una maggior solitudine esteriore, che sembra sempre al di là della nostra portata, perdiamo quella solitudine attuale che già possediamo. Essa ha, come uno dei suoi elementi costitutivi, proprio la insoddisfazione e la incertezza che derivano dal trovarsi faccia a faccia con una possibilità irrealizzabile. Non è una folle ricerca di possibilità — è l’umile acquiescenza che si stabilizza nella presenza di una realtà sconfinata, in un senso già posseduta, e in un altro, pura «possibilità» — oggetto di speranza.
Soltanto quando muore e va in cielo, il solitario vede chiaramente che questa possibilità era già attuata nella sua vita ed egli non lo sapeva — perché la sua solitudine consisteva soprattutto nel «possibile» possesso di Dio e di nient’altro che Dio, nella pura speranza.
2.
Mio Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada che mi è davanti. Non posso sapere con certezza dove andrà a finire. E non conosco neppure davvero me stesso, e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo. Ma sono convinto che il desiderio di piacerti, in realtà ti piaccia. E spero di averlo in tutte le cose. Spero di non far mai nulla senza un tale desiderio. E so che se agirò così la tua volontà mi condurrà per la giusta via, quantunque possa non saperne nulla. Però avrò sempre fiducia in Te per quanto mi possa sembrare di essere perduto e avvolto dall’ombra di morte. Non avrò paura, perché Tu sei sempre con me e non mi lascerai mai solo di fronte ai pericoli.
3.
Nell’età nostra tutto deve costituire un «problema». Il nostro è un tempo di ansietà perché siamo stati noi a volerlo così. L’ansietà non ci viene imposta da una, forza che sia al di fuori di noi: siamo noi che dal nostro intimo la imponiamo al nostro mondo e agli altri.
In una età come questa la santità significa senza dubbio un passaggio dal dominio dell’ansietà a quello in cui non vi è ansietà, oppure può voler dire imparare da Dio a esser privi di ansietà pur vivendo in mezzo a essa.
Sostanzialmente, come nota Max Picard, si giunge probabilmente a questo: vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi in modo tale, che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (dal Mondo del silenzio).
Le contraddizioni sono sempre esistite nell’animo umano. Ma soltanto quando preferiamo l’analisi al silenzio divengono un problema continuo e insolubile. Non dobbiamo risolverle tutte, ma vivere con esse, innalzarci al disopra di esse e vederle nella luce di valori esterni e oggettivi che, al confronto, li rendono banali. Il silenzio allora fa parte della sostanza stessa della santità. Nel silenzio e nella speranza si foggia la forza dei Santi (Is 30,15).
Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine. Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già e che potevo averla sempre posseduta. Eppure costituiva ancora un problema perché sapevo dopo tutto che una solitudine puramente soggettiva ed interiore, frutto di uno sforzo di interiorizzazione, non sarebbe mai bastata. La solitudine deve essere oggettiva e concreta: bisogna che sia una comunione con qualche cosa di più grande del mondo, grande come l’Essere stesso, in modo da poter trovare Dio nella sua pace profonda.
Mettiamo parole fra noi e le cose. Persino Iddio è diventato un’altra irrealtà concettuale in quella terra di nessuno che è il linguaggio, che non serve più come mezzo di comunicazione con la realtà. La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose.
Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore. Il mondo che le nostre parole hanno tentato di classificare, di controllare e persino di disprezzare (perché non riuscivano a circoscriverlo), si fa presso di noi, perché il silenzio ci insegna a conoscere la realtà rispettandola là dove le parole l’hanno disonorata.
Quando abbiamo vissuto abbastanza a lungo con la realtà che ci circonda, la nostra venerazione ci insegnerà come trarre dal silenzio, che è la madre della Verità, parecchie parole su di essa.
Le parole stanno tra silenzio e silenzio: tra il silenzio delle cose e quello del nostro essere. Tra il silenzio del mondo e il silenzio di Dio. Quando davvero incontriamo e conosciamo il mondo nel silenzio, le parole non ci separano più dal mondo e dagli uomini, e neppure da Dio, né da noi stessi perché non ci fidiamo più completamente del linguaggio per esprimere la realtà.
La Verità si leva dal silenzio dell’essere di fronte alla quieta e terribile presenza della Parola. Allora, rituffandosi di nuovo nel silenzio, la verità delle parole ci lancia nel silenzio di Dio.
O piuttosto Dio si leva dal mare come un tesoro nelle onde, e quando il linguaggio cessa, lo splendore divino rimane sul lido del nostro essere.
4.
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si deve vivere e incomincia a vivere. Cosi, se uno e chiamato alla vita solitaria, cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato a una vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno al modo di vivere e dimentica di vivere. Quando non si vive la propria vera vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce a essa, o si sottomette a essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza. Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola.
Supponiamo che uno abbia trovato la sua completezza nella sua vera vocazione. Ora tutto è unitario, in ordine, nella pace. Ora il lavoro non interferisce più con la preghiera, né la preghiera con il lavoro. Ora la contemplazione non deve essere più uno «stato» particolare che rimuove dalle ordinarie occupazioni che lo circondano, perché Dio penetra ogni cosa. Non si deve più rendere conto di se stessi ad altri che a Dio.
5.
È necessario che troviamo il silenzio di Dio non solo in noi stessi, ma anche l’uno nell’altro. Se gli altri non ci parlano con parole che scaturiscono da Dio e comunicano con il silenzio di Dio che e nelle anime nostre, rimaniamo isolati nel nostro stesso silenzio, da cui Dio tende a sottrarsi. Perché il silenzio interiore dipende da una continua ricerca, da un grido incessante nella notte, da un ripetuto chinarsi sull’abisso. Se ci attacchiamo a un silenzio che pensiamo di aver trovato per sempre, desistiamo dalla ricerca di Dio ed il silenzio muore in noi. Un silenzio in cui non si cerca più Iddio cessa dal parlarci di Lui. Un silenzio da cui Dio non sembra assente, minaccia pericolosamente la sua continua presenza. Perché Lo si trova quando Lo si cerca e quando non Lo cerchiamo più ci sfugge. Lo si ode solo quando si spera di sentirlo, e se cessiamo di ascoltarlo, credendo che la nostra speranza sia stata realizzata, Egli non parla più; il suo silenzio non è più vita, ma diviene morte, anche se lo ricarichiamo con l’eco del nostro strepito emotivo.
6.
Signore, non è orgoglioso il mio cuore (Sal 130,1).
Tanto l’orgoglio quanto l’umiltà cercano il silenzio interiore. L’orgoglio tenta di imitare il silenzio di Dio con una forzata immobilità. Ma il silenzio di Dio è la perfezione della Vita Pura ed il silenzio dell’orgoglio è silenzio di morte.
L’umiltà cerca il silenzio non dell’inattività, ma dell’attività ordinata, in quella che è più consona alla nostra povertà e alla nostra miseria di fronte a Dio. L’umiltà va a pregare e trova il silenzio per mezzo delle parole: ma siccome è per noi naturale passare dalle parole al silenzio e dal silenzio alle parole, l’umiltà è silenziosa in tutto. Anche quando parla, l’umiltà ascolta. Le sue parole sono così semplici, gentili e povere che giungono senza sforzo al silenzio di Dio. Infatti ne sono l’eco, e non appena vengono pronunciate, il suo silenzio e già in esse presente.
L’orgoglio teme di uscire da se stesso per paura di perdere ciò che ha prodotto dentro di sé. Il suo silenzio e quindi minacciato dagli atti caritatevoli. Siccome invece l’umiltà non trova niente in se stessa (perché umiltà è il suo stesso silenzio), non può perdere pace e silenzio uscendo da se stessa per ascoltare gli altri o per parlare loro per amore di Dio. In tutte le cose l’umiltà è silenziosa e quieta e perfino il suo lavoro è riposo. In omnibus requiem quaesivi.
Non è il parlare che rompe il nostro silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole dell’orgoglioso impongono silenzio agli altri in modo che si possa udire solo la sua voce. L’umile parla solamente perché gli si parli. Non chiede altro che una elemosina, poi aspetta e ascolta.
Il silenzio e ordinato alla ricapitolazione finale che si farà in parole di tutto ciò per cui si è vissuto. Riceviamo Cristo ascoltandolo nella parola della fede. Ci costruiamo la nostra salvezza nel silenzio e nella speranza, ma presto o tardi viene il momento di dover confessare Dio apertamente di fronte agli uomini e poi dinanzi a tutti gli abitanti del cielo e della terra.
Se la nostra vita si è effusa in parole inutili, non ascolteremo nulla, non diverremo nulla, e alla fine, siccome avremo detto tutto prima di aver qualche cosa da dire, rimarremo senza parole al momento della nostra più grande decisione.
Ma il silenzio è ordinato alla dichiarazione finale. Non è fine a se stesso. Tutta la nostra vita è una meditazione della nostra ultima decisione la sola che importi. E meditiamo in silenzio. Eppure in certo senso abbiamo l’obbligo di parlare agli altri, di aiutarli a veder il modo di prendere le loro decisioni, di insegnare loro Cristo. E nel far ciò, proprio le nostre parole insegnano a essi un nuovo silenzio: il silenzio della Resurrezione. In questo silenzio si formano e si preparano in modo da pater dire anch’essi quanto hanno udito: Io ebbi fede, perciò parlai (Sal 115,1).
7.
Quando il silenzio mi ha fatto libero, quando non sono più preso dalla valutazione della vita, ma dal modo in cui viverla, riesco a scoprire una forma di preghiera nella quale non vi è davvero alcuna distrazione. Tutta la mia vita diventa preghiera. Tutto il mio silenzio è colmo di preghiera. Il mondo del silenzio in cui mi trovo immerso contribuisce alla mia preghiera.
L’unificazione, che è opera della povertà nella solitudine, rimargina tutte le ferite dell’anima e le risana. Finché rimaniamo poveri, finché siamo vuoti di tutto e non ci interessiamo di altro all’infuori di Dio, non possiamo essere distratti. Perché la nostra stessa povertà ci impedisce di «essere tratti da un’altra parte (distratti).
Se la luce che è in te è tenebra...
Supponiamo che la mia «povertà» sia una fame segreta di ricchezze spirituali: supponiamo che pretendendo di svuotare me stesso, di essere silenzioso, non sto in realtà facendo altro che tentare di adescare Iddio perché mi arricchisca di qualche esperienza particolare — e che, allora? Tutto diventa in tal caso una distrazione. Tutte le case create interferiscono con la mia ansia di qualche esperienza particolare. Devo metterle alla porta, se no mi distrarranno. E quel che è peggio — io stesso sono una distrazione. Ma, casa peggiore di tutte — se la mia preghiera è incentrata su di me, se cerca soltanto un arricchimento del mio essere, sarà la mia stessa preghiera la più grande distrazione in potenza. Pieno della mia stessa curiosità, ho mangiato dell’albero della conoscenza e mi sono distolto da me stesso e da Dio. Sono rimasto ricco e solo e nulla può Calmare la mia fame: tutto quello che tocco si muta in una distrazione.
Che io cerchi allora il dono del silenzio, della povertà, della solitudine, dove tutto quello che sfioro si muta in preghiera: dove il cielo è la mia preghiera, gli uccelli sono la mia preghiera, il vento tra gli alberi è la mia preghiera, perché Dio è tutto in tutto.
Perché ciò avvenga devo essere veramente povero. Non devo cercare nulla: ma devo essere ben contento di tutto quello che ricevo da Dio. La vera povertà è quella del povero che è felice di ricevere l’elemosina da chiunque, ma specialmente da Dio. La falsa povertà è quella di chi pretende di possedere l’autosufficienza di un angelo. La vera povertà è quindi un ricevere ed un ringraziare trattenendo per sé solo quello che si ha bisogno di consumare. La falsa povertà pretende di non aver bisogno, di non chiedere, si sforza di avere tutto e rifiuta qualsiasi gratitudine.
8.
«Se dunque vi diranno: Eccolo nel deserto, non vi andate: eccolo nei luoghi più nascosti (della casa), non credete. Perché come il lampo esce dall’oriente e guizza all’occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo» (Mt 24,26-28).
Cristo, che verrà improvvisamente alla fine dei tempi e nessuno può indovinare il momento del suo arrivo — viene anche a coloro che sono suoi in ogni attimo del tempo ed essi non sono in grado di vederlo o di indovinarne l’arrivo. Eppure dove è Lui sono anche loro. Come aquile si radunano istintivamente non sapendo dove e Lo trovano a ogni attimo.
Proprio come non vi è possibilità di dire con certezza dove e quando apparirà alla fine del mondo, così non si può dire con certezza dove e quando si manifesterà alle anime contemplative.
Vi sono parecchi che Lo hanno cercato nel deserto e non ve Lo hanno trovato e vi sono molti che si sono nascosti con Lui come reclusi ed Egli si è a essi rifiutato. Afferrarlo è facile come afferrare il lampo, e, al pari del lampo, Egli balena dove vuole.
Tutti gli spiriti veramente contemplativi hanno questo in comune: non già che si radunano esclusivamente nel deserto o che si chiudono in clausura, ma che dove Egli è, sono anch’essi. E come Lo trovano? Con una tecnica? Non vi è un metodoper trovarlo. Lo trovano nella sua volontà. E il suo volere, recando loro la sua grazia e modellando all’esterno la loro vita, h porta infallibilmente al punto preciso in cui possono trovarlo. Anche quando non sanno come vi sono arrivati o cosa stiano realmente facendo.
Non appena uno è’ veramente disposto a essere solo con Dio, lo e dovunque si trovi in campagna, nel monastero, nei boschi o in città. Il lampo balena da oriente a accidente, illuminando tutto l’orizzonte e guizzando dove vuole, e nello stesso attimo la infinita libertà di Dio risplende nelle profondità dell’anima umana, ed essa ne è illuminata. Allora l’uomo vede che, pur essendo ancora alla metà del cammino, è ormai giunto alla fine. Perché la vita di grazia sulla terra è l’inizio della vita di gloria. Benché viaggiatore nel tempo i suoi occhi si sono aperti, per un attimo, sull’eternità.
9.
È cosa più grande e preghiera migliore vivere in Colui che è infinito, e rallegrarsi che sia così, anziché star sempre a lottare per racchiudere la sua infinità nello stretto spazio del nostro cuore. Finché sono contento di conoscere che Egli è infinitamente più grande di me e che non Lo posso conoscere se non mi si mostra, avrò pace ed Egli sarà vicino a me e dentro di me, ed io avrò quiete in Lui. Ma non appena desidero conoscerlo e goderlo per me, cerco di stendermi per fargli violenza mentre Egli mi sfugge, e nel far ciò reco violenza a me stesso e ,ricado su di me nel dolore e nell’ansietà, riconoscendo ch’Egli è fuggito.
Nella vera preghiera, quantunque ogni attimo silenzioso rimanga lo stesso, pure ogni momento è una nuova scoperta di un nuovo silenzio, una nuova penetrazione in quella eternità nella quale tutte le cose sono sempre nuove. Conosciamo, per una scoperta recente, la profonda realtà costituita dalla nostra esistenza concreta hinc et nunc e nelle profondità di quella realtà riceviamo dal Padre luce, verità, sapienza e pace. Sono questi i riflessi di Dio nelle anime nostre fatte a sua immagine e somiglianza.
10.
Lascia che questa sia la mia sola consolazione: che dovunque io sono, Tu, o Signore, sia amato e lodato.
Gli alberi invero Ti amano senza conoscerti. I gigli dei campi e i fiori del grano sono là a proclamare che Tu li ami, senza essere consapevoli della tua presenza. Le belle nuvole nere cavalcano lentamente per il cielo meditando su di Te come fanciulli che non sanno che cosa sognano mentre giocano.
Ma in mezzo a tutte queste cose, io Ti conosco e sono consapevole della tua presenza. In esse ed in me conosco l’amore che esse non conoscono e, quel che è ancora più grande, mi vergogno per la presenza del tuo amore in me. O amore dolce e terribile, che Tu mi hai dato e che non potrebbe mai essere nel mio cuore se Tu non mi amassi! Perché tra questi esseri che non Ti hanno mai offeso, io sono da Te amato, e in apparenza più di tutti gli altri proprio perché Ti ho offeso. Sono visto da Te sotto il cielo, e le mie offese sono state da Te dimenticate, ma io non le ho dimenticate.
Chiedo soltanto una cosa: che il ricordo di esse non mi faccia temere di ricevere nel mio cuore il dono dell’Amore che hai posto in me. Lo accoglierò perché ne sono indegno. Nel far ciò Ti amerò sempre più e darò maggior gloria alla tua misericordia.
Ricordando che sono stato un peccatore, voglio amarti malgrado quello che sono stato, sapendo che il mio amore è prezioso perché è tuo, piuttosto che mio. Prezioso ai tuoi occhi perché Viene dal Figlio tuo, ma ancor più prezioso perché mi fa tuo figlio.
11.
Vocazione alla solitudine. Darsi, consegnarsi, affidarsi completamente al silenzio di un vasto paesaggio di boschi e colline, o mare, o deserto: star fermo, mentre il sole sale sulla terra e ne colma di luce i silenzi. Pregare e lavorare il mattino, lavorare e riposare il pomeriggio e fermarsi di nuovo a meditare alla sera quando la notte cade su quel paesaggio e quando il silenzio si riempie di tenebra e di stelle. Questa è una vocazione vera e speciale. Pochi sono disposti a immergersi completamente in un tale silenzio, a lasciar che se ne impregnino le loro ossa, a respirare solo silenzio, a nutrirsi di silenzio e a mutare la sostanza della loro vita in un silenzio vivo e vigile.
Martire è chi ha preso una decisione così forte da poter essere provata dalla morte.
Solitario è chi ha preso una decisione così forte da poter essere provata dal deserto: ossia dalla morte.
Perché il deserto e pieno di incertezza, di pericolo, di umiliazione e di timore, e il solitario vive tutto il giorno di fronte alla morte.
È dunque evidente che il solitario è il fratello minore del martire. È lo stesso Spirito Santo che prende la decisione di segregare in Cristo martiri e solitari.
La vocazione al martirio è carismatica e straordinaria. Così è anche in un certo senso la vocazione alla solitudine.
Non si diventa martiri per un piano umano e non si diventa solitari per un nostro disegno personale.
Persino il desiderio di solitudine dev’essere soprannaturale se si vuole che sia effettivo e se è soprannaturale sarà probabilmente anche in contraddizione con parecchi dei nostri piani e desideri. Possiamo sì studiare, prevedere e desiderare il sentiero che ci porta al deserto, ma alla fine è Dio e non gli uomini che fa i solitari.
Non importa se siamo chiamati alla vita di comunità o alla solitudine, la nostra vocazione è quella di essere costruiti sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, e sulla pietra angolare, Cristo. Questo significa che siamo chiamati a compiere e realizzare il grande mistero della potenza di Cristo in noi, di quella potenza che Lo ha risuscitato dalla morte e che ci ha chiamato dagli estremi confini della terra a vivere per il Padre in Lui. Qualunque sia la nostra vocazione, siamo chiamati a essere testimoni e ministri della divina Misericordia.
Il solitario cristiano non cerca la solitudine soltanto come un’atmosfera o uno stato propizio a una spiritualità speciale e superiore. E non la cerca neppure come mezzo favorevole per ottenere quello che desidera la contemplazione. La cerca come un’espressione del dono totale di se stesso a Dio. La sua solitudine non è un mezzo per ottenere qualche cosa, ma un dono di sé. Come tale può implicare rinuncia e disprezzo del «mondo» nel senso peggiorativo. Non è mai una rinuncia alla comunità cristiana. Può invero esprimere la convinzione del solitario di non essere abbastanza buono per la maggior parte delle pratiche esteriori della comunità, la convinzione che suo compito è quello di adempiere qualche funzione segreta nella cantina spirituale della comunità.
12.
La vita solitaria è soprattutto una vita di preghiera.
Non preghiamo per pregare, ma per essere ascoltati. Non preghiamo per udirci pregare, ma perché Dio possa ascoltarci e risponderci. E anche non preghiamo per ricevere una risposta qualsiasi: dev’essere la risposta di Dio.
Quindi un solitario sarà un uomo sempre in preghiera, sempre intento a Dio, sempre sollecito della purezza di questa sua preghiera, attento a non sostituire le sue risposte a quelle di Dio, attento a non fare della preghiera fine a se stessa, attento a mantenerla segreta, semplice e pura. Così facendo può misericordiosamente dimenticare che la sua «perfezione» dipende dalla sua preghiera: può dimenticare se stesso e la vita in attesa delle risposte di Dio.
Mi sembra che ciò non sia del tutto comprensibile se dimentichiamo che la vita di preghiera si fonda sulla preghiera disupplica — qualunque sia, più tardi, il suo sviluppo.
Lungi dal distruggere la purità della preghiera solitaria, la supplica ne conserva e difende la purezza. Il solitario, più di ogni altro, è sempre consapevole della sua povertà e dei suoi bisogni di fronte a Dio. Siccome dipende direttamente da Dio per ogni cosa materiale e spirituale, deve tutto chiedere. La sua preghiera è espressione della sua povertà. La domanda, per lui, può difficilmente diventare una pura formalità, una concessione che si fa a consuetudini umane, come se non avesse bisogno di Dio in tutto.
Il solitario, essendo uomo di preghiera, arriverà a conoscere Dio, riconoscendo che la sua preghiera è sempre esaudita. Di lì può procedere, se Dio vuole, alla contemplazione.
La gratitudine è quindi il cuore della vita solitaria come lo è della vita cristiana.
Dal primo giorno passato nella solitudine, l’eremita dovrebbe applicarsi a comprendere come deve affliggere tutto il suo essere con lacrime e desideri di fronte a Dio. Allora sarà come Daniele a cui l’Angelo portò la risposta di Dio (cf. Dn 10,12): «Non temere, Daniele: perché dal primo giorno che, per ottenere intelligenza, ti sei messo in cuore di darti alla penitenza nel cospetto del tuo Dia, le tue parole sono state esaudite...»
Qualità della preghiera:
Una fede incrollabile (Mt 21,21; Gc 1,6), che dipende dalla «semplicità» di cuore e di intenzione.
Una fiducia perseverante (Lc 11).
13.
Mi sembra che la vita solitaria contemplativa sia una imitazione e una realizzazione in noi delle parole di Gesù «Il Figlio non può fare nulla da sé, ma solo quello che vede fare dal Padre, lo fa parimenti il Figlio. Perché il Padre ama il Figlio e gli mostra quanto Egli fa» (Gv 5,19-20).
Questa imitazione consiste nell’essere e nell’agire nei confronti di Gesù come Egli fece nei confronti del Padre (Gv 5,24). «Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna.» Il Padre ci attira a Gesù (Gv 6,37; 6,44-45). «Chiunque ha udito il Padre ed ha appreso, viene a me.» Ascoltiamo meglio il Padre nella solitudine. Gesù è il Pane di vita che ci vien dato nella solitudine (Gv 6,58). «Come il Padre, che vive, ha inviato me, ed io vivo per il Padre, così chi mangia me, vivrà per me.»
La vita solitaria è quindi la vita di uno che il Padre ha tratto nel deserto ove non sarà nutrito da altro cibo spirituale all’infuori di Gesù. Perché in Gesù il Padre si dà a noi e ci nutre con la sua vita inesauribile. La vita di solitudine deve essere quindi una continua comunione ed un continuo ringraziamento in cui contempliamo per fede tutto quello che passa nelle profondità di Dio e perdiamo il gusto per ogni altra vita e per qualsiasi altro cibo spirituale.
Mi sembra anche che la vita solitaria realizzi il testo suddetto con l’abbandono del salmista: «Io son misero e poverello, ma il Signore si prende cura di me» (Sal 139,18).
Viviamo in continua dipendenza da questa misericordiosa bontà del Padre, e così tutta la nostra vita è una vita di gratitudine — una continua risposta al suo aiuto che viene a noi in ogni momento. Penso che ciascuno lo scopra nella sua vocazione, se è veramente la sua.
La vita solitaria è una vita nella quale rimettiamo a Dio le nostre preoccupazioni e godiamo soltanto dell’aiuto che da Lui ci viene. Tutto quel ch’Egli fa è la nostra gioia. Riproduciamo in noi la sua bontà mediante la gratitudine. (O meglio, la nostra gratitudine è il riflesso della sua misericordia. È ciò che ci rende simili a Lui).
La vita veramente solitaria differisce completamente da quella solitudine parziale che possiamo godere di tanto in tanto negli intervalli permessi dalle consuetudini sociali. Quando riceviamo la nostra solitudine a periodi, ne gustiamo il valore per contrasto con un altro valore. Quando viviamo veramente soli, non esiste contrasto.
Non devo andare nella solitudine per immobilizzare la mia vita, per ridurre ogni cosa a una gelida concentrazione su qualche esperienza interiore. Allorché si alterna alla vita comune, la solitudine può prendere questo carattere di una sosta, di un momento di quiete, di un intervallo di concentrazione. Dove essa non è un periodo, ma un tutto continuo, possiamo ben rinunciare e al senso di concentrazione e alla quiete spirituale. Tutta la nostra vita può sfociare nell’incontro dell’Essere e del Silenzio dei giorni in cui siamo immersi, e possiamo operare la nostra salvezza con un’azione quieta e continua.
È anche possibile che nella solitudine ritorni agli inizi e riscopra il valore e la perfezione della semplice preghiera vocale — e trovi maggior gioia in essa che nella contemplazione.
Così che il cenobita può avere un’alta contemplazione, mentre l’eremita ha soltanto il suo Pater e la sua Ave Maria.In tal caso scelgo la vita di un eremita nella quale vivo sempre in Dio, parlandogli con semplicità, piuttosto che una vita discontinua sublimata da momenti di fuoco e di esaltazione.
Il solitario è necessariamente uno che fa quello che vuole. Difatti non ha niente altro da fare. Ecco perché la sua vocazione è pericolosa e disprezzata insieme. Pericolosa, perché, in effetti, deve diventare santo facendo quello che vuole, invece di fare quello che non vorrebbe. È molto difficile essere santi facendo quello che ci piace. Significa che ciò che ti piace è sempre volontà di Dio. Vuol dunque dire che non può piacerti ciò che non è volontà di Dio e che Iddio stesso coprirà i tuoi sbagli accettandoli in buona parte, come «sua volontà».
Questa vocazione è grandemente disprezzata da quelli che hanno paura di fare ciò che desiderano, ben sapendo che quel che desiderano non è volontà di Dio. Ma il solitario deve essere un uomo che ha il coraggio di far la cosa che maggiormente desidera in questo mondo — vivere in solitudine. Ciò richiede umiltà eroica ed eroica speranza la folle speranza che Dio lo proteggerà contro se stesso, che Dio lo ama tanto da accettare una tale scelta come se fosse fatta da Lui. Questa speranza è un segno che la scelta della solitudine è una scelta che viene da Dio. Che il desiderio di solitudine è probabilmente una vocazione divina, che implica la grazia di piacere a Dio prendendo le nostre decisioni nella umiliante incertezza di un perpetuo silenzio che mai approva o disapprova una singola scelta da noi fatta.
Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il luogo il cui silenzio ha generato una vita interiore a nessun altri nota fuori che a Dio solo.
14.
Preghi meglio quando lo specchio della tua anima è vuoto di ogni immagine all’infuori di quella del Padre invisibile. Questa immagine è la Sapienza del Padre, il Verbo del Padre, Verbum spirans amorem, la gloria del Padre.
Glorifichiamo il Padre nella speranza, attraverso la oscurità della sua immagine che esclude ogni altra somiglianza dall’anima nostra, facendoci vivere di una pura amicizia e dipendenza dal Padre. Questa vita di dipendenza, perfezionata nella fede pura, è la sola vita che si accorda con il nostro carattere sacramentale di figli del Padre in Cristo.
Escludendo le immagini.
Soltanto il puro amore può svuotare perfettamente l’anima di ogni immagine delle dose create ed elevarti al di sopra del desiderio.
Nel disporci a ciò, non dobbiamo intraprendere da noi stessi il vano compito di svuotarci di ogni immagine: dobbiamo cominciare col sostituire le buone alle cattive, rinunciando poi anche a quelle buone che sono inutili o che ci portano inutilmente alla passione e all’emozione. Il paesaggio è molto adatto a liberare da tutte queste immagini, perché calma e pacifica la fantasia e le emozioni e lascia libera la volontà di cercare Iddio nella fede.
La delicata azione della grazia in un’anima viene profondamente disturbata da qualsiasi violenza umana. La passione, quando è disordinata, fa violenza allo spirito e la violenza più pericolosa è quella nella quale ci sembra di trovare la pace. La violenza non è del tutto fatale se non quando cessa di disturbarci.
La pace prodotta dalla grazia è una stabilità spirituale troppo profonda per la violenza — è incrollabile, a meno che non facciamo entrare la forza della passione nel nostro santuario. L’emozione può turbare la superficie del nostro essere, ma non ne muoverà le profondità se queste sono occupate e possedute dalla grazia.
La violenza spirituale è più pericolosa quando è più spirituale ossia meno emotiva. La violenza che opera nelle profondità della volontà senza nessun turbamento superficiale, rende schiavo tutto il nostro essere senza una lotta apparente. Tale è la violenza del peccato deliberato e al quale non si resiste e che sembra non essere violenza, ma pace.
Esiste anche una violenza del desiderio disordinato a cui si consente, generalmente non peccaminosa, ma che impedisce l’opera della grazia e rende più facile che per carità siamo tratti completamente al di fuori di noi. Un tale consenso ci implica a fondo nelle decisioni della passione e può anche farlo col pretesto del servizio di Dio. La più pericolosa violenza spirituale è quella che trascina la nostra volontà con un falso entusiasmo che sembra venga da Dio, ma che in realtà è ispirato dalla passione.
Parecchi dei nostri piani che ci sono più cari per la gloria di Dio non sono altro che disordinate passioni travestite. E la prova se ne ha nell’eccitazione che producono. Il Dio della pace non è mai glorificato dalla violenza.
Vi è un solo genere di violenza che s’impadronisce del regno dei cieli— quella violenza che impone pace alle profondità delle anime nel bel mezzo della passione. Questa violenza è ordine in se stessa ed è prodotta in noi dall’autorità e dalla voce del Dio della pace, che parla dal suo luogo santo.
Eppure nel santuario tu risiedi, lode d’Israele! (Sal 21,4).
15.
Non appena sei davvero solo, tu sei con Dio.
Alcuni vivono per Dio, alcuni con Dio, altri in Dio.
Quelli che vivono per Dio, vivono in mezzo agli altri e nell’attività propria della loro comunità. La loro vita è ciò chefanno.
Quelli che vivono con Dio vivono anche per Lui, ma non vivono in ciò che fanno per Lui, bensì in quello che essi sono dinanzi a Lui. Loro vita è rifletterlo nella loro semplicità e nella perfezione del suo essere che si riflette nella loro povertà.
Quelli che vivono in Dio non vivono con gli altri o in se stessi e ancor meno in ciò che fanno, perché Egli compie in essi ogni cosa.
Sedendo sotto questo stesso albero posso vivere per Dio o con Lui o in Lui. Se stessi scrivendo per Lui, non basterebbe.
Per vivere con Lui è necessario trattenersi di continuo dal parlare e frenare il desiderio di comunicare con gli uomini, anche parlando di Dio.
Eppure non è difficile comunicare contemporaneamente con gli altri e con Lui, se li troviamo in Lui. Vita solitaria — essenzialmente la più semplice. La
vita comune ci prepara a essa in quanto troviamo Dio nella semplicità di tale vita — poi lo cercheremo di più e lo troveremo meglio nella maggior semplicità della solitudine.
Ma se la nostra vita di comunità è assai complicata — (per colpa nostra) — diventeremo certamente ancor più complicati nella solitudine.
Non fuggire alla solitudine dalla comunità. Trova prima Dio in comunità e poi Egli ti condurrà alla solitudine.
Non si può comprendere il vero valore del silenzio se non si ha un sincero rispetto per la validità del linguaggio: perché nel silenzio ci si trova faccia a faccia, senza nessun intermediario, con la realtà che si esprime nel linguaggio. E non potremmo neppure trovarla in se stessa, vale a dire nel suo stesso silenzio, se non vi siamo prima portati dal parlare.
Parole del Vangelo:
Gesù adempie le parole dei profeti (Gv 12,32) e di Mosè in particolare (Gv 5,47),I suoi miracoli erano «parole» — essi non credettero alle sue parole. «Chi ha creduto a quel che ha udito da noi?» (Is 53,1). Le parole di Gesù giudicheranno il mondo (Gv 12,41; Gv 15,22).
Le parole di Gesù sono le parole del Padre (Gv 12,49; Gv 17,8).
Le sue parole ci santificano (Gv 15,3).
Specialmente in quanto sono o implicano dei precetti che ci mantengono nell’amor suo (Gv 15,10-11. 12) e ci portano attraverso Lui al Padre (Gv 17,6-10).
Parole nella Genesi (Gen 2,19-20). Adamo dà il nome agli animali (23). Dà il nome alla donna (3,20). La chiama Eva.
Parole in san Paolo. «Che il Verbo di Cristo abiti in voi con pienezza» (Col 3,16). Vedi la ragione per non mentire. Confronta la parabola del seminatore. «Il seme è la parola di Dio» (Lc 8).
16.
Troviamo Iddio nel nostro essere che è lo specchio di Dio.
Ma come troviamo il nostro essere?
Le azioni sono le porte e le finestre dell’essere. Se non agiamo, non abbiamo nessun mezzo per conoscere ciò che siamo. E l’esperienza della nostra esistenza è impossibile senza una qualche esperienza del conoscere e una qualche esperienza dell’esperienza.
Non possiamo quindi scoprire le profondità del nostro essere rinunciando a ogni attività.
Se rinunciamo all’attività spirituale, possiamo cadere in una certa oscurità e in una certa pace, ma sono l’oscurità e la pace della carne.
Sentiamo di esistere, ma l’essere di cui facciamo esperienza è l’essere carnale e se ci addormentiamo in questa oscurità e ci innamoriamo della sua dolcezza, ci sveglieremo per compiere le opere della carne.
Per scoprire il nostro essere spirituale dobbiamo quindi percorrere il sentiero tracciato dalla nostra attività spirituale.
Ma quando operiamo secondo la grazia, i nostri atti non sono soltanto nostri, appartengono a Dio. Se li seguiamo sino alla loro sorgente, diventeremo capaci in potenza di una esperienza di Dio. Perché il suo agire in noi ci rivela il suo essere in noi.
Tutto il vivere consiste nello spiritualizzare le nostre attività per mezzo dell’umiltà e della fede, nell’imporre silenzio alla nostra natura per mezzo della carità.
«Uscire da se stessi» vuol dire operare alla sommità del nostro essere, mossi non dalla natura, ma da Dio, che è infinitamente al di sopra di noi e ciò nondimeno dimora nelle profondità dell’anima nostra.
Riposarsi da ciò, ossia gustare il frutto di un tale atto — vuol dire riposare nell’essere stesso di Dio al di sopra di noi. Dov’è il tuo tesoro ivi è anche il nostro cuore.
Consideriamo allora che tutto il pregio (tesoro) dei nostri atti spirituali viene da Dio e il nostro cuore riposa alla sorgente da cui promana tutto ciò che vi è di buono in noi. Non possediamo il nostro essere in noi, ma soltanto in Colui dal quale il nostro essere scaturisce.
Per la fede trovo in Dio il mio vero essere.
Un atto perfetto di fede dovrebbe essere in pari tempo un perfetto atto di umiltà.
Iddio non dice i suoi più puri segreti a quelli che sono pronti a rivelarli. Ha sì dei segreti che dice a quanti ne diranno qualche cosa agli altri. Ma tali segreti sono proprietà comune di parecchi. Ne ha poi altri che non possono dirsi e che il semplice desiderio di dirli ci rende incapaci di riceverli.
Il più grande dei segreti di Dio è Dio stesso.
Egli è pronto a comunicarsi a me in una maniera che io non potrò mai esprimere ad altri e neppure pensare tra me con una certa coerenza. Devo desiderarlo nel silenzio. Ed è per questo che devo lasciare tutte le cose.
17.
Il grande compito della vita solitaria è la gratitudine. L’eremita è uno che conosce meglio degli altri la misericordia di Dio perché tutta la sua vita dipende completamente, nel silenzio e nella speranza, dalla segreta bontà del nostro Padre celeste.
Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose.
Per poter vivere con gioia in solitudine devo avere una conoscenza piena di comprensione della bontà degli altri, una conoscenza piena di riverenza della bontà di tutta la creazione ed una umile conoscenza del mio corpo e della mia anima. Come potrò vivere in solitudine se non scorgo dovunque la bontà di Dio, mio Creatore e Redentore e Padre di ogni bene?
Che cosa è che mi ha reso cattivo e odioso a me stesso? È la mia follia, la mia cecità, che, per il peccato, mi ha posto contro la luce che Dio ha messo nella mia anima perché sia riflesso della sua bontà e testimonianza della sua misericordia.
Scaccerò dunque il male dalla mia anima lottando contro la mia cecità? Non è questo che Dio ha disposto per me. Basta che mi distolga dalla mia tenebra e mg
volti verso la luce. Non devo fuggire da me stesso: basta che mi ritrovi non come mi sono fatto da me, per la mia sciocchezza, ma come mi ha fatto Lui nella sua sapienza e mi ha rifatto nella sua misericordia infinita. Perché è sua volontà che il mio corpo e la mia anima siano il tempio del suo santo Spirito, che la mia vita rifletta il fulgore del suo amore e tutto il mio essere riposi nella sua pace. Allora lo conoscerò davvero, perché io sono in Lui ed Egli è realmente in me.
18.
I Salmi sono il vero giardino del solitario e le Scritture sono il suo Paradiso. Essi gli rivelano i loro segreti perché egli, nella sua estrema povertà ed umiltà, non ha null’altro di cui vivere se non dei loro frutti. Per il vero solitario il leggere la Scrittura non è più un «esercizio» tra gli altri, un mezzo di «coltivare» l’intelletto o «la vita spirituale» o di «apprezzare la liturgia». A chi legge la Scrittura in un modo accademico o da un punto di vista estetico o puramente devozionale la Bibbia offre veramente un gradito sollievo e buoni pensieri. Ma per apprendere gl’intimi segreti della Scrittura dobbiamo fare di essa il nostro pane veramente quotidiano, trovarvi Dio quando siamo in maggiore necessità — e sempre allorché non riusciamo a trovarlo in nessun’altra parte e non abbiamo dove cercarlo!
Nella solitudine ho finalmente scoperto che Tu, o mio Dio, hai desiderato l’amore del mio cuore, l’amore del mio cuore così com’è — l’amore di un cuore di uomo.
Ho scoperto ed ho conosciuto, per tua grande misericordia, che ti piace tanto e attira lo sguardo della tua pietà l’amore di un cuore di uomo fiducioso contrito povero, e che è tuo desiderio e tua consolazione, o mio Signore, essere vicinissimo a chi Ti ama e Ti invoca su di sé come suo Padre. Che Tu non hai forse maggior «consolazione» (se così posso dire) di quella di consolare i tuoi figli doloranti e tutti coloro che vengono a Te poveri e con le mani vuote, senz’altra cosa all’infuori della loro umanità, della loro limitatezza e di una grande fiducia nella tua misericordia.
Soltanto la solitudine mi ha insegnato che per piacerti non devo essere un dio o un angelo, non devo divenire un puro spirito senza sentimento e senza imperfezioni umane perché Tu ascolti la mia voce.
Tu, per essere con me, per ascoltarmi, udirmi e rispondermi, non aspetti che io diventi qualcosa di grande. Sono state la mia bassezza e la mia umanità che Ti hanno spinto a rendermi uguale a Te, facendoti scendere fino al mio livello e vivere in me per la tua sollecitudine misericordiosa.
E ora è tuo desiderio non che io Ti dia il ringraziamento e la lode che ricevi dai tuoi angeli eccelsi, ma l’amore e la gratitudine che vengono da un cuore di fanciullo, un figlio di donna, il tuo figlio.
Padre mio, so che mi hai chiamato a vivere solo con Te e ad apprendere che se non fossi una semplice creatura umana, capace di ogni errore e di ogni male e capace altresì di un affetto umanamente fragile e fluttuante nei tuoi riguardi, non potrei essere tuo figlio. Tu desideri l’amore di un cuore d’uomo perché anche il tuo Figlio divino Ti ama con cuore d’uomo ed Egli si è fatto uomo perché il mio cuore ed il suo potessero amarti di un unico amore, che è un amore umano nato e mosso dal tuo santo Spirito.
Allora, se non Ti amo con amore e semplicità di uomo e con l’umiltà di voler essere me stesso, non gusterò mai tutta la dolcezza della tua paterna misericordia, e il Figlio tuo, per quanto riguarda la mia vita, sarà morto invano.
È necessario che sia uomo e uomo rimanga perché la Croce di Cristo non sia vana. Gesù non è morto per gli angeli, ma per gli uomini.
Ecco ciò che apprendo dai Salmi nella solitudine, perché essi sono pieni della semplicità umana di uomini come David, che conobbero Dio da uomini, e da uomini Lo amarono e conobbero Lui, l’Unico vero Dio, che avrebbe mandato il suo Unigenito agli uomini sotto sembianze umane perché essi, pur rimanendo uomini, potessero amarlo con amore divino.
Ed è questo il mistero della nostra vocazione: non che cessiamo di essere uomini per diventare angeli o dei, ma che l’amore del mio cuore di uomo possa diventare amore di Dio per Dio e per gli uomini, e le mie lacrime umane possano cadere dai miei occhi come lacrime di Dio, perché sgorganti dal moto del suo Spirito nel cuore del suo Figlio incarnato. Ecco perché il dono della pietà cresce nella solitudine, alimentato dai Salmi.
Quando si impara questo, l’amore che portiamo agli altri uomini si fa puro e forte. Possiamo avvicinarci a essi senza vanità e senza compiacenza, amandoli con un po’ della purità, delicatezza e segretezza che sono nell’amore di Dio per noi.
Ecco il vero frutto e il vero scopo della solitudine cristiana.
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