Il significato e la proprietà del nome
Anzitutto i nomi hanno un loro significato intrinseco, come appare dai
nomi teofori (evocatori della divinità) e da quelli di alcuni eroi, che
sono il simbolo della missione adempiuta da costoro nella storia.
In secondo luogo, il nome ha un contenuto dinamico; rappresenta e in
qualche modo racchiude in sé una forza. Esso designa l’intima natura di
un essere, poiché contiene una presenza attiva di quell’essere.
Platone diceva che “Chiunque sa il nome, sa anche le cose”; conoscerlo
vuol dire conoscere la ‘cosa’ in se stessa. Il nome “occupa” uno spazio,
ha la “proprietà” della cosa e la spiega.
Il nome di nascita indica in primo luogo, l’”essenza” di una persona, le
sue prerogative, le qualità e i difetti; pronunciandolo si è come in
presenza di colui che si nomina, si dà ad esso una precisa dimensione.
Così come fra i ‘primitivi’ che cercavano di conoscere il nome al fine
di esercitare un potere su una persona o su qualsiasi cosa vivente, il
nome è ancora indispensabile nel praticare un incantesimo; infatti i
cosiddetti ‘maghi’ vogliono conoscerlo, per inciderlo su amuleti e
talismani, accanto a quello delle Entità Invisibili.
Il nome nelle società antiche
Nell’antica Grecia i nomi provenivano da due categorie: 1) nomi di un
dio o derivati da quello portato dalla divinità (Apollodoro, Apollonio,
Eròdoto, Isidoro, Demetrio, Teodoro, ecc.); 2) nomi scelti come augurio
per la futura vita del bambino, seguiti da quello della località di
residenza o provenienza.
I Romani imponevano ai neonati tre nomi: Il prenome scelto fra i
diciotto più usati, che si abbreviava con la lettera iniziale, es. P =
Publius (Publio), C = Caius (Caio), ecc. Il nome indicava la gens di appartenenza, es. Julius (della gens Julia). Il cognome indicante la famiglia, quando la gens d’origine si divideva in molte famiglie.
Nei nomi di origine ebraica, particolarmente quelli maschili, si nota
quasi sempre una invocazione a Dio, l’eterno creatore, dal quale il
popolo ebraico trasse sempre forza nella sua travagliata esistenza.
Il nome nella mentalità semitica
Per i semiti i nomi propri avevano un significato intrinseco; questo era
indicato dalla loro stessa composizione, dalla etimologia od era
evocato dalla pronuncia.
Nel costume popolare, due usanze sembrano comunemente diffuse; in primo
luogo l’imposizione di nomi teofori, con cui si voleva porre il bambino
sotto la protezione della divinità, oppure si intendeva ringraziare e
pregare la divinità per il lieto evento (es. Isaia = Iahvé salva; Giosuè
= Iahvé è salvezza, ecc.).
In secondo luogo, l’attribuzione di nomi che esprimono qualche circostanza o particolarità della nascita dei bambini, es. (Gen. 35, 16-18)
“… Rachele, sul punto in cui le sfuggiva l’anima, perché stava morendo a
causa del penoso parto, chiamò il figlio appena nato, col nome di
Ben-Oni (figlio del mio dolore)…”.
Così pure, per gli ebrei c’era la tendenza a fare del nome, il simbolo
del significato religioso o politico degli eroi nazionali e religiosi;
così interpretato, il nome era in un rapporto molto più significativo
con la persona che caratterizzava; Eva è “la madre di tutti i viventi”,
Abramo è “il padre di una moltitudine”, Giacobbe è “colui che
soppianta”, ecc.
Nella concezione semitica, il nome ha anche un aspetto dinamico, che
corrisponde alla forza, alla potenza che il nome rappresenta e in
qualche modo include; dove c’è il nome c’è la persona, con la sua forza,
pronta a manifestarsi.
Conoscere qualcuno per nome, vuol dire conoscerlo fino in fondo e poter
disporre della sua potenza. Questo concetto svolge un ruolo importante
applicato agli esseri superiori, che non sono conoscibili normalmente da
parte dell’uomo; la sola conoscenza che si può avere di essi è quella
del loro nome.
Il nome del dio nasconde la sua presenza misteriosa e rappresenta il
mezzo più accessibile di comunicazione tra l’uomo e lui. Quindi nella
sfera del ‘mistero’ sia esso magico che religioso, chi conosce il nome
del dio e lo pronunzia, ha la forza di farsi ascoltare da lui e di farlo
intervenire a suo favore.
Infine nella Tradizione semitica c’è inoltre il concetto, che chi impone
a qualcuno il nome che deve portare o gli cambia il nome che possiede,
esprime il potere assoluto, la sovranità, che detiene su quello (Ge. 2), così come Adamo impose i nomi a tutto il bestiame di cui poteva usufruire.
Anche il Dio degli Ebrei esprime il suo dominio assoluto, imponendo e mutando i nomi di Abram in Abraham e Sarai in Sara (Ge. 17, 5-15) e di Giacobbe in Israel (Ge. 32, 29), acquistando così tali nomi nuovi significati.
Il nome di Dio nella Bibbia
L’esigenza di sapere il nome della divinità in cui si crede, è stato
sempre intrinseco nell’animo umano, perché il nome stesso è garanzia
della sua esistenza; a tal proposito si riporta un passo dell’opera di
Francesco Albergamo “Mito e Magia” che scrive: “Una bambina di nove anni
chiede al padre se Dio esiste; il padre risponde che non ne è troppo
sicuro, al che la piccola osserva: Bisogna pure che esista, dal momento
che ha un nome”.
Quindi quando Mosè (Es. 3) viene chiamato da Dio alla sua
missione fra il popolo ebraico, logicamente gli chiede il suo Nome da
poter comunicare al popolo, che senz’altro gli chiederà “Chi ti ha
riconosciuto principe su di noi?”. E il Dio di Israele, conosciuto
inizialmente come il “Dio degli antenati”, il “Dio di Abramo di Isacco
di Giacobbe”, oppure con espressioni particolari: “El Shaddai”, “Terrore
di Isacco”, “Forte di Giacobbe”, rivela il suo nome “Iahvé”, che significa “Egli è”;
e questo Nome entrò così a far parte della vita religiosa degli
israeliti, e mediante gli interventi sovrani nella storia, il nome di
Iahvé divenne famoso e noto.
I profeti ed i sommi sacerdoti, lungo tutta la storia d’Israele, posero
al centro della liturgia il nome di Iahvé, con la professione di fede
del profeta, l’invocazione solenne di Dio, la fede e la glorificazione
di tutto il popolo (Commemorazione, invocazione, glorificazione del suo
Nome).
Nel tardo giudaismo però, per il bisogno di sottolineare la trascendenza
divina, il nome di Iahvé non è stato più pronunciato e Dio è stato
designato col termine Nome e con altri appellativi, come Padre a sottolineare lo speciale rapporto che lega Dio e il suo popolo.
Il nome del Padre
Ma solo nel Nuovo Testamento, sulla bocca di Gesù e dei credenti, il
nome di Padre attribuito a Dio, assume il suo vero significato.
Solo Gesù, infatti conosce il Padre e può efficacemente rivelarlo (Mt.11, 27-28).
Gesù si è riferito spesso a Dio chiamandolo Padre, nel Vangelo di s.
Giovanni, Padre viene usato addirittura come sinonimo di Dio e secondo
l’evangelista questa è la sua vera definizione, questo è il nome che
esprime più profondamente l’essere divino. Tale nome è stato manifestato
agli uomini da Gesù, ed essi ora sanno che, se credono, sono figli
insieme a lui.
Inoltre Gesù ha anche insegnato a pregare Dio con questo titolo “Padre
nostro…” e questa è diventata la preghiera per eccellenza della comunità
cristiana.
Gesù aveva chiesto al Padre di glorificare il suo nome (Giov. 12, 28)
e aveva invitato i discepoli a pregare così: “Sia santificato il tuo
nome”; Dio ha risposto a queste preghiere, manifestando la potenza del
suo nome e glorificando il proprio figlio.
Ai credenti è affidato il compito di prolungare questa azione di
glorificazione; essi lodano, testimoniano il nome di Dio e devono
comportarsi in modo che il nome divino non riceva biasimo e bestemmie (Rom. 2, 24).
Il nome del Signore Gesù
Il Messia ha portato durante la sua vita terrena il nome di Gesù, nome
che gli fu imposto da san Giuseppe dopo che l’angelo di Dio in sogno gli
disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te
Maria, tua sposa, perché ciò che in lei è stato concepito è opera dello
Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli
infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt.1, 21-25).
Quindi il significato del nome Gesù è quello di salvatore; gli
evangelisti, gli Atti degli Apostoli, le lettere apostoliche, citano
moltissimo il significato e la potenza del Nome di Gesù, fermandosi
spesso al solo termine di “Nome” come nell’Antico Testamento si indicava
Dio.
Nel corso della vita pubblica di Gesù, i suoi discepoli, appellandosi al
suo nome, guariscono i malati, cacciano i demoni e compiono ogni sorta
di prodigi:
Luca, 10, 17, “E i settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”; Matteo 7, 22, “… Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti prodigi nel tuo nome?”.
Atti 4, 12, “…Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale possiamo avere la salvezza”.
Risuscitando Gesù e facendolo sedere alla sua destra, Dio “gli ha donato il nome che è sopra di ogni nome” (Ef. 1, 20-21); si tratta di un “nome nuovo” (Ap. 3, 12) che è costantemente unito a quello di Dio.
Questo nome trova la sua espressione nell’appellativo di Signore, che conviene a Gesù risorto, come allo stesso Dio Padre (Fil. 2, 10-11).
Infatti i cristiani non hanno avuto difficoltà ad attribuire a Gesù,
gli appellativi più caratteristici che nel giudaismo erano attribuiti a
Dio.
Atti 5, 41: “Ma essi (gli apostoli) se ne partirono dalla
presenza del Sinedrio, lieti di essere stati condannati all’oltraggio a
motivo del Nome”.
La fede cristiana consiste nel professare con la bocca e credere nel
cuore “che Gesù è il Signore, e che Dio lo ha ridestato dai morti” e
nell’invocare il nome del Signore per conseguire la salvezza (Rom. 10, 9-13).
I primi cristiani, appunto, sono coloro che riconoscono Gesù come
Signore e si designano come coloro che invocano il suo nome, esso avrà
sempre un ruolo preminente nella loro vita: nel nome di Gesù i cristiani
si riuniranno, accoglieranno chiunque si presenti nel suo nome,
renderanno grazie a Dio in quel nome, si comporteranno in modo che tale
nome sia glorificato, saranno disposti anche a soffrire per il nome del
Signore.
L’espressione somma della presenza del Nome del Signore e dell’intera
SS. Trinità nella vita cristiana, si ha nel segno della croce, che
introduce ogni preghiera, devozione, celebrazione; e conclude le
benedizioni e l’amministrazione dei sacramenti: “Nel Nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo”.
Il culto liturgico del Nome di Gesù
Il SS. Nome di Gesù, fu sempre onorato e venerato nella Chiesa fin dai
primi tempi, ma solo nel XIV secolo cominciò ad avere culto liturgico.
Grande predicatore e propagatore del culto al Nome di Gesù, fu il
francescano san Bernardino da Siena (1380-1444) e continuato da altri
confratelli, soprattutto dai beati Alberto da Sarteano (1385-1450) e
Bernardino da Feltre (1439-1494).
Nel 1530, papa Clemente VII autorizzò l’Ordine Francescano a recitare
l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù; e la celebrazione ormai presente
in varie località, fu estesa a tutta la Chiesa da papa Innocenzo XIII
nel 1721.
Il giorno di celebrazione variò tra le prime domeniche di gennaio, per
attestarsi al 2 gennaio fino agli anni Settanta del Novecento, quando fu
soppressa.
Papa Giovanni Paolo II ha ripristinato al 3 gennaio la memoria facoltativa nel Calendario Romano.
Il trigramma di san Bernardino da Siena
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente,
Bernardino con profondo intuito psicologico inventò un simbolo dai
colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati,
sostituendo blasoni e stemmi delle varie Famiglie e Corporazioni spesso
in lotta fra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in
ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia
enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio
Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi
discepoli abbiano predicato o soggiornato.
Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano
Bernardino, quando arrivava in una nuova città a predicare e sulle
tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove
celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al
termine benediceva i fedeli.
Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato
patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in
campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del
nome Gesù in greco ΙΗΣΟΥΣ (Iesûs), ma si sono date anche altre
spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)” il motto
costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”.
Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato, il sole
centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e
suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità.
Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi
serpeggianti come i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che
rappresentano le beatitudini, la fascia che circonda il sole rappresenta
la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è
simbolo della fede, l’oro dell’amore.
Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per
farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana
dell’H.
Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una
litania; 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3°
rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei
credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto
dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti;
11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in
latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di san Paolo: “Nel Nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e
degli inferi”.Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo,
diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo
sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti.
Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e
chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando
che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo Nome
rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la
modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della
carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della
Resurrezione e dell’Ascensione.
In effetti Bernardino ribadiva la devozione già presente in san Paolo e
durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco
d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi
decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal
senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e
così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.
La Compagnia di Gesù, prese poi queste tre lettere come suo emblema e
diventò sostenitrice del culto e della dottrina, dedicando al Ss. Nome
di Gesù le sue più belle e grandi chiese, edificate in tutto il mondo.
Fra tutte si ricorda, la “Chiesa del Gesù” a Roma, la maggiore e più
insigne chiesa dei Gesuiti; vi è nella volta il “Trionfo del Nome di
Gesù”, affresco del 1679, opera del genovese Giovanni Battista Gaulli
detto ‘il Baciccia’; dove centinaia di figure si muovono in uno spazio
chiaro con veloce impeto, attratte dal centrale Nome di Gesù.
Autore: Antonio Borrelli
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