giovedì 12 luglio 2012

SANTA RITA DA CASCIA

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La piccola Rita fra le api
A Roccaporena, un pae­sino dell'Umbria vicino a Cascia, nacque, verso il 1370 da Antonio Lotti e da Amata Ferri di Foligno, una grazio­sa bambina: Margherita. Un lungo nome subito accorciato in Rita.
Non conosciamo il giorno e il mese, ma doveva esser luglio se, come narra la leg­genda, i due genitori, impe­gnati nei lavori di mietitura, non sapendo a chi lasciar la bambina, se la portavano nel campo, dentro a una cesta, avendo cura di sistemarla al­l'ombra. Un colpo di falcetto, uno sguardo al loro tesoro: la piccola è quieta.
Fa caldo, il sole arde. A un tratto si ode un grido: un mietitore si è ferito a un brac­cio, perde sangue. Eccolo che corre al fiume per lavare la ferita. Nell'impeto, per poco non travolge la cesta con la bimba. E resta di sasso.
La culla è diventata un alveare: uno sciame di api bianche ronza intorno alla bambina, qualcuna entra ed esce dalla boccuccia socchiu­sa, altre solleticano le orec­chie e s'insinuano tra i ca­pelli.
Sgomento, l'uomo alza un braccio per scacciare gli inset­ti - ed è proprio il braccio ferito! - ed ecco s'accorge che il sangue non esce più dalla ferita già del tutto rimargina­ta. Cade in ginocchio. E subito si parla di miracolo.
Lo sappiamo: le api non pungono se non sono mole­state, e forse Amata aveva messo tra i pannicelli qualche profumata spiga di lavanda, e le api, come sono solite fare tra i fiori del prato, avevano in­trecciato un loro aereo gioco. Ma il braccio improvvisa­mente guarito?
Questo episodio è raffigu­rato in una tela dipinta tra il 1457 e il 1480, e ancor oggi sono chiamate Api o Apette di santa Rita le orfanelle ospitate presso il Santuario a Cascia.
L'infanzia e la fanciullezza di Rita
Pare che Antonio e Ama­ta fossero già anziani quando nacque Rita. Non erano po­veri perché possedevano un orto vicino a casa e forse un campicello alle Capanne. Di certo si sa che erano entrambi pacieri, cioè mediatori di pace tra i contendenti: un mestiere difficile e rischioso, ma meri­torio per quei tempi e in quei luoghi in cui litigi, risse e vendette, erano una caratteri­stica della vita sociale.
Pochi giorni dopo la na­scita, Rita fu portata dai geni­tori e sicuramente in compa­gnia di parenti e amici, fino a Cascia per essere battezzata. E così la piccola Rita cre­sceva come crescono tutti i bambini del mondo, un anno dopo l'altro, mentre la vita quotidiana veniva ritmata dai fenomeni meteorologici, dall'avvicendarsi delle stagio­ni, dai lavori in campagna, dalle faccende domestiche.
Fin da piccola Rita, che non aveva né fratelli né sorel­le, manifestò tendenza alla solitudine. Saliva spesso a pregare sul monte Scoglio, si imponeva piccole penitenze. Era dolce, riflessiva e, sul­l'esempio dei genitori, impa­rò presto a occuparsi del pros­simo.
È certo che imparò a leg­gere e a scrivere dai religiosi del tempo. Ma quel che è an­cora più sicuro ed evidente e che nella fanciullezza e nell'adolescenza di Rita non c'è assolutamente niente di sensazionale e di straordinario, se non una esemplare fedel­tà all'insegnamento religio­so impartito dai suoi genitori. Possiamo tutt'al più immaginare che Rita si recasse di tanto in tanto a Cascia con i genitori o con qualche ami­ca, per partecipare alle fun­zioni più solenni, per ascoltare celebri predicatori, per con­fessarsi, per fare acquisti nei negozi di alimenti e di stoffe. O forse per una visita ai due monasteri delle suore ago­stiniane, Santa Maria Madda­lena e Santa Lucia. Nei paesi casciani le vocazioni erano numerose: a quel tempo le ra­gazze già a dodici anni pote­vano contrarre matrimonio o decidere di entrare in con­vento
Rita ubbidisce ai genitori e si sposa
Fu in quegli anni della sua adolescenza, che Rita sentì sbocciare nel suo cuore quel­l'amore a Cristo, a Cristo Crocifisso, che avrebbe alla fine dominato tutti i suoi pen­sieri e i suoi affetti. È proba­bile che avesse espresso ai genitori il desiderio di consa­crarsi a Dio, ma Antonio e Amata, ormai alle soglie della vecchiaia, avevano già altri progetti per la loro figliola.
A tredici anni Rita era una bella ragazza: non molto alta (m. 1,59), slanciata, oc­chi castani, folti capelli bion­di, zigomi pronunciati, labbra sottili, un incantevole sorriso.
Un giorno la mamma la chiamò e le disse che era tempo di pensare a un marito, anche il padre era d'accordo (anzi, insieme, avevano già posato lo sguardo su qualche giovane per bene) e subito le spiegò quali erano i doveri di una buona moglie.
Rita non si preoccupò di quell'annuncio: secondo le leggi in vigore a Cascia, un matrimonio non poteva vera­mente realizzarsi prima che la donna avesse compiuto i quin­dici anni: gliene restavano an­cora due per prepararsi a quel­l'evento, e in due anni tante cose potevano cambiare.
Ma Rita già sapeva che avrebbe ubbidito ai genitori, perché erano buoni, si preoc­cupavano per lei, e perché aveva imparato che amare e ubbidire sono la stessa cosa. Dopo tutto apprezzava la sol­lecitudine che aveva anso i suoi cari nella ricerca di un uomo che vegliasse sulla loro figliola tanto giovane ancora. E si commosse rendendosi conto - e traendone un'ulte­riore lezione - del vero amore che aveva legato la mamma e il babbo per tanti anni, e del­l'amore di entrambi per lei.
Accettò dunque di diven­tare sposa di un tal Paolo di Ferdinando Mancini, un «uo­mo d'armi», che aveva il gra­do di ufficiale e comandava una guarnigione di settanta­cinque soldati e un'alta torre quadrata di vedetta.
Il matrimonio venne ce­lebrato intorno al 1385, quando Rita aveva circa di­ciotto anni e suo padre aveva passato i novanta. C'erano modalità precise da seguire.
Il giorno stabilito Paolo mandò un gruppo di amici a prendere la sposa, già in attesa sulla soglia della casa paterna. Durante il breve tragitto Rita, radiosa di giovinezza, ricevet­te sorrisi e auguri; le ferree leggi non permettevano però che accettasse doni.
Paolo le andò incontro, l'abbracciò, l'accompagnò dentro: la tavola era apparec­chiata per un lieto convito.
La settimana seguente toccò ai Lotti offrire un pran­zo, cui Paolo partecipò coi pa­renti, tre uomini e tre donne, una delle quali aveva recato, secondo l'uso e per conto di Paolo, un canestro coltro di cibarie.
La sera gli sposi tornarono a casa per realizzare le loro speranze con l'aiuto di Dio e l'impegno della loro buona volontà.
Amata e Antonio, già anziani, non sopravvissero a lungo alla celebrazione del matrimonio della figlia.
La vita di Rita, sposa e madre
Dopo la morte dei genito­ri cominciò per Rita un pe­riodo difficile. Gli storici so­no quasi tutti concordi nel descrivere Paolo come un uo­mo rude, violento, rissoso; ma possibile che i Lotti, che adoravano la figlia, l'avessero data in sposa a un mascalzone, a un uomo corrotto? Era un giovane di buona famiglia e amava Rita.
Certo, era un soldato, non poteva aver modi da «cavalier cortese», ma Rita aveva edu­cazione, sensibilità, tempera­mento, si accontentava di poco e sicuramente amò Pao­lo per quel che era.
Fu un'ottima moglie, buo­na, allenata alla pazienza, e pregare l'aiutava. Svolgeva i suoi compiti con serenità: preparava i pasti, teneva in ordine la casa, lavava i panni al lavatoio pubblico, andava a prender acqua alla fontana e la sera attendeva con trepi­dazione l'arrivo del consorte che spesso tardava.
Rita e Paolo ebbero due figli gemelli e casa Mancini risuonò di trilli e di risate. Che bella famigliola doveva essere! Un uomo forte, una donna tutta carità e amore, due bimbi esuberanti... Trop­po bello per durare.

Un brutto episodio
Una brutta mattina Rita aprì la porta di casa e inorridì: lì sulla soglia giaceva riverso, straziato da una pugnalata al petto, il corpo senza vita di Paolo.
La donna scoppiò in un pianto disperato: che fare? Chiamar gente, o vincere l'angoscia e l'orrore e traspor­tare in casa il suo uomo, lavar­lo, comporlo per la veglia fu­nebre e nascondere ai figli l'orrendo spettacolo di quella camicia insanguinata per non suscitare in loro - fieri e ribelli come il padre - propositi di vendetta?
Rita non urlò il suo im­menso dolore, lo offerse a Dio.
Correva l'anno 1402.

Rita non vuole vendetta e prega per i figli
«A coltello si risponde col coltello».

Rita tentava in tutti i modi di cancellare dal cuore dei fi­gli l'odio e il rancore, di sosti­tuirvi sentimenti di pietà e di perdono, ma soltanto il buon Dio poteva aiutarla. Perciò sempre più spesso, d'estate e d'inverno, saliva al monte dello Scoglio per pregare l'Onnipotente affinché le concedesse la grazia di far in­tendere ai gemelli il linguag­gio della carità cristiana.
Si macerava nei digiuni, visitava gli ammalati, le per­sone anziane e sole, compiva per loro i lavori più umili, dava ai poveri tutto ciò che poteva e chiedeva a Dio che riservasse a lei sola angosce, tribolazioni e magari il marti­rio, ma liberasse i figli, che ormai avevano dodici - tredi­ci anni e conoscevano bene il nome degli assassini, dai cat­tivi proponimenti.
Un giorno, disperata, offrì i figli a Gesù: «Signore, dolce amore, non permettere che la loro anima si macchi di un'as­surda vendetta. Lévali dal mondo, piuttosto: io te li dono, fa' di loro secondo la tua vo­lontà».
Non sappiamo se, come vuole la tradizione, i ragazzi veramente si ammalarono e morirono di qualche malattia infettiva, o se - secondo altre testimonianze - Rita affidò i figli a parenti che abitavano lontano da Cascia e quindi vissero a lungo. (Un quadro dell'epoca ritrae Rita morente coi due figli inginocchiati ai piedi del letto).

In un modo o nell'altro - morte o esilio - il cuore della madre pianse lacrime di san­gue.
Rita desidera la pace di un convento



Rita ora era sola, ma an­cora molto giovane e ricca di energie. I direttori spirituali e i predicatori consigliavano volentieri il monastero alle vedove senza impegni.
Rita era una solitaria che voleva servire: anche lei sem­pre più spesso e più ardente­mente desiderò la pace e l'at­tività del chiostro.
Doveva esser facile - pen­sava Rita - trovar posto in un convento: a Cascia e nei dintorni sorgevano ben set­tanta chiese, nove monasteri e una infinità di eremi e di romitori.
Da ragazza, Rita aveva frequentato spesso il conven­to di Santa Maria Maddalena: perché non tornare lì?
Un giorno si presentò alla madre badessa e la pregò di accoglierla come novizia. Secondo l'uso la superiora con­sultò le consorelle, e la rispo­sta fu un deciso No. Le ragioni del rifiuto erano motivate: Rita si lasciava alle spalle un omicidio impunito, un conto aperto, prima o poi la faida sarebbe esplosa; era anche noto che tra Rita e i Mancini esisteva­no diversità di vedute. Meglio non correre rischi. Rita non s'adombrò: era paziente, sapeva aspettare; a chi le chiedeva come mai non si ritirasse nella pace di un convento come altre vedove casciane avevano fatto, ri­spondeva sorridendo che le porte del monastero non si erano ancora schiuse per lei. La pazienza, si sa, è una delle prove che Dio chiede agli uomini, ed è la più eroica del­le virtù, proprio perché non ha nessuna apparenza di eroico.

La conversione dei suoi parenti


Ma un giorno (erano tra­scorsi cinque anni dalla morte di Paolo), bussarono alla casa di Rita due fratelli Mancini: erano affaticati, coperti di polvere e di cicatrici, chissà da dove arrivavano e a quali peripezie erano scampati.
Salutarono Rita in modo insolito: «Pace a te, Rita. Pace a te, cara cognata». E pro­nunciarono parole consolan­ti: avevano perdonato agli as­sassini di Paolo; tutti i Manci­ni avevano perdonato. Erano pronti a firmare, davanti a testimoni, l'atto di pace che sarebbe stato trascritto nei registri del Comune. Rita scoppiò in singhiozzi e cadde in ginocchio: Dio grande e misericordioso le aveva concesso la grazia in cui non osava più sperare.

Rita «entra» in monastero

 
Ora non esisteva più ra­gione per cui la badessa di Santa Maria Maddalena non dovesse aprirle le porte. Ma non dovette nemmeno com­pierlo, questo gesto: Dio ave­va disposto altrimenti.
La leggenda narra che in una buia notte di tempesta Rita stava pregando sul mon­te Scoglio quando si sentì prender per mano e trasporta­re, lieve come piuma, fino al chiostro del monastero, al di là delle finestre ben chiuse, oltre il pesante portone sbarrato e ben munito di chiavistelli.
Nell'attimo in cui Rita pose piede a terra, le si rivela­rono prima di sparire i suoi tre misteriosi accompagnatori: erano san Giovanni Battista, sant'Agostino, Nicola da Tolentino.
Quando all'alba le suore si radunarono al suono della campanella, scoprirono Rita prostrata in preghiera «den­tro» la loro casa. Fuori di sé dalla meraviglia la subissarono di domande. Ma lei non seppe rispondere altrimenti che col suo disarmante, dol­cissimo sorriso.
Venne dunque accettata e cominciò l'anno del novizia­to, l'anno cioè di prova e di preparazione alla vita mona­cale.
In quei mesi toccarono sempre a Rita, paziente e ob­bediente, le attività più umili, come sbucciare patate, lavar panni e stoviglie, zappare l'or­to e, ohibò! vuotare e deterge­re i vasi da notte. Le sue mani diventavano rosse, gonfie, si screpolavano, sanguinavano: nel segreto della sua cella Rita offriva tutto a Gesù, lieta di soffrire con lui e per lui.

Vende i suoi beni e si consacra al Signore



Poco dopo il suo arrivo in convento, Rita si recò dal notaio Domenico Angeli, che la conosceva bene, perché intendeva liberarsi di tutti i suoi beni: casa, risparmi, ter­reno.
Il notaio, perplesso, obiet­tò: «Ma Rita, non hai ancora pronunciato i voti; aspetta, potresti sempre ripensarci!»
In effetti qualche volta la nostalgia la pizzicava, un vago tormento la inquietava: «E se tornassi alla mia casa, al mondo che sta fuori?» Ma sa­peva bene che si trattava di ten­tazioni che doveva cacciare: «Vendete tutto - ordinò al nota­io - e il ricavato sia trasformato in pane per i poveri».
E su queste parole sfilò dall'anulare anche la fede nu­ziale.
Trascorso l'anno, pronun­ciò i voti di povertà, castità e obbedienza.
In ginocchio, le mani giunte, davanti all'altare, dis­se con voce chiara: «Io Rita, liberamente e pubblicamente voglio offrire la mia persona a Dio onnipo­tente, al beato Agostino, alla beata Maria Maddalena, e prego te, madre badessa, di accettare questa mia volontà a nome e da parte di tutto il monastero, promettendo di vivere sempre in detto luogo, la conversione dei costumi in obbedienza, castità e povertà, e di privarmi di ogni cosa per­sonale per tutto il tempo della mia vita... »
Dopo la lunga cerimonia che aveva compreso il taglio delle bionde trecce, la ve­stizione, e poi le congratula­zioni e le lodi della badessa («Ecco una nuova sposa del Signore... Ecco una nuova sorella per la nostra comuni­tà... ») venne offerto nel re­fettorio un piccolo ricevi­mento con vino frizzante e paste dolci. Le monache as­saggiarono tutto, Rita non toccò nulla: si sentiva già sa­zia. Desiderava soltanto riti­rarsi nella sua cella per rin­graziare il Signore.
La sua vita nel monastero


Un anno dopo l'altro (ne sfileranno quaranta) Rita, ape laboriosa, visse nel monastero di Santa Maria Maddalena. La sua natura generosa la ren­deva indispensabile a tutte le consorelle, giovani e anziane, sane e ammalate.
«Solerte, ubbidiente, silen­ziosa» avrebbe potuto scrivere la badessa sui suoi registri.
Quando stava a Rocca­porena, Rita visitava spesso il lazzaretto situato a un centi­naio di metri da casa sua: dapprincipio le era stato dif­ficile sopportare i lamenti, le invocazioni dei pazienti, e so­prattutto il cattivo odore del­l'ambiente e della carne cor­rotta dalla malattia. Poi nel nome di quel Gesù che aveva detto: «Chi farà del bene al­l'ultimo dei miei fratelli lo farà a me» aveva superato il disa­gio e il disgusto, ed era riuscita a vedere nel povero e nell'am­malato un fratello, Gesù stesso.
Per questo un giorno aveva supplicato la badessa di permetterle di aiutare chi sof­friva. Così aveva continuato a portar piccole provviste di cibo a persone anziane sole, a me­dicare piaghe e ferite, a cam­biare fasciature, finché il Si­gnore la impegnò in una prova ancor più ardua spingendola verso i lebbrosi accampati nelle campagne fuori città.
Rita trascorreva molte ore anche in parlatorio; in com­pagnia di una consorella rice­veva ammalati, vittime di prepotenze, anziani abbando­nati, ragazze in crisi, madri dubbiose o disperate. Tutti chiedevano il conforto di una preghiera, l'aiuto di un consi­glio, e la piccola suora, esperta di problemi familiari e so­ciali, trovava ogni volta la so­luzione giusta. Col suo tratto signorile sapeva ridare fiducia e speranza. Chiunque l'avvi­cinasse era conquistato dal suo fascino indescrivibile; la be­nedizione che ella impartiva ai visitatori lasciava un segno. Era davvero una forza: vera­mente riusciva a cambiare il cuore delle persone.
Unita alle sofferenze di Gesù
Quell'anno - era forse il 1432, Rita aveva compiuto il suo cinquantesimo anno - tutta Cascia si era data conve­gno per ascoltare un famoso predicatore, Giacomo della Marca, un frate minore francescano.
Il frate parlò di Gesù e della sua passione.
Rita ascoltava con l'ani­mo colmo di compassione. Quando ritornò al convento, si fermò nell'oratorio a pian terreno e si lasciò andare da­vanti al Crocifisso. In ginoc­chio pregò fino al mattino.
Era l'alba quando sentì qualcosa sfiorarle la fronte, qualcosa di lieve come un ba­cio. Si toccò in quel punto, i polpastrelli avvertirono una specie di gonfiore. Quando ritirò la mano, le sue dita era­no tinte di sangue.
Il mistero di questa stimmate commosse le suore, oltrepassò le mura del con­vento. Dentro e fuori il mona­stero si cominciò a dire che Rita era talmente devota a Gesù sofferente che Egli ave­va voluto premiarla donando­le una spina della sua corona, e la spina aveva perforato l'os­so frontale.
E allora accadde che sempre più gente salisse al convento, e non soltanto gente umile in cerca di con­forto o di un consiglio, ma anche soldati, podestà, nobili, principi. Pare che anche Francesco Sforza, che di­venterà nel 1450 Duca di Milano, fosse andato a farle visita.
Rita non faceva niente di straordinario, si limitava a po­che frasi di esortazione al­l'amore e alla carità. Ma in quelle stente parole vibrava tanta passione che umili e potenti ne erano incantati.

Il miracolo della rosa
 






È l'anno 1447. E maggio, ma è ancora. inverno a Cascia, e Roccaporena è sepolta sotto la neve. Da molto tempo Rita è costretta a letto da fortissimi dolori. Resta lunghe ore in preghiera, così immobile che le suore la credono morta: «Parti - invocano a voce alta - o anima cristiana, da questo mondo nel nome di Dio Padre che ti ha creata, nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che è morto per te, nel nome dello Spirito Santo che è stato effuso in te, nel nome di Maria Vergine Madre di Dio, nel nome di san Giusep­pe, del padre sant'Agostino, degli apostoli, dei martiri, delle vergini. Cristo ti collochi nel­le perenni amenità del suo Paradiso, Egli che è il Figlio di Dio; ti riconosca come sua pecorella, Egli che è il vero Pastore... che tu possa vedere a faccia a faccia il tuo Reden­tore e contemplare eterna­mente la chiarissima Verità».
Con un filo di voce Rita fa eco: «Non ricordarti, Si­gnore, dei peccati della mia giovinezza e della mia igno­ranza, ma perdonami secondo la tua infinita misericordia... Vieni, Signore, non tardare».
Chiede che le pongano accanto un grande Crocifisso, vuol poggiare la testa accanto al capo di Gesù incoronato di spine.
In quel momento si af­faccia alla porta della cella una parente di Roccaporena. Rita le sorride e le chiede un favore: torni al paese, entri nell'orto della sua ex casa, colga la rosa bianca appena sbocciata e i pochi fichi ma­turati sullo stento alberello.
La donna scuote il capo: non ci sono rose e fichi quando tira vento di tramontana; gli alberi sono spogli, i cespugli inariditi e dai tetti pendono ghiaccioli come stalattiti.
Ma ubbidisce. Torna a Roccaporena, raggiunge la casa: l'orto è sì coperto di neve, ma sul cespuglio accanto al portale due rose bianche sono sbocciate e sul brullo fico al­cuni frutti sono maturati.
Rita ringrazia, aspira il profumo della rosa e se la posa sul petto; vuole i fichi accanto alla croce.
Benedice le consorelle, chiede alla badessa di bene­dirla, riceve l'Ostia Santa, poi chiude gli occhi e sorride: è pronta per il gran viaggio. Dolcemente si spegne nella notte tra il 20 e il 21 maggio, e tutte le campane di Cascia si mettono a suonare senza che alcuno le abbia toc­cate.

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