lunedì 24 novembre 2014

(Lc 21,5-11 ) Non sarà lasciata pietra su pietra.

VANGELO
(Lc 21,5-11 ) Non sarà lasciata pietra su pietra.
 Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni o Spirito del signore a fare nuove tutte le cose vieni e mostraci come interpretare la parola, i segni di cui il Signore ci parla, e più d’ogni altra cosa, insegnaci ad essere pronti per il giorno del giudizio. Fa che non vi preoccupiamo di salvare solo noi stessi, ma che siamo capaci come Gesù di rinunciare a noi stessi, per la salvezza dei fratelli. Grazie, amen.

In quei tempi, in questi tempi, in ogni tempo, l'uomo cerca di capire e d’essere pronto per quel momento, per quando l'inevitabile fine della nostra vita sulla terra, si compirà.
Ci preoccupiamo di noi, della nostra famiglia, e già ci sembra d’essere buoni e giusti se arriviamo a temere il giorno del giudizio, se ci preoccupiamo di poter essere graditi a Dio.
Eppure non era questo che Gesù faceva, non si preoccupava di se stesso, né pregava solo per la sua famiglia, ma voleva e predicava per la salvezza di tutti i suoi fratelli, di tutti i figli di Dio.
Spesso si sente parlare della croce da portare, ma non si comprende bene il senso di questa croce.La croce è una sofferenza che si deve riuscire a comprendere per sentire l'amore che l' ha fatta accettare a Gesù, per poterlo condividere sul serio, per arrivare a non giudicare chi fa del male, chi è in peccato, perché noi non siamo migliori di nessuno, ma viviamo solo situazioni e tempi diversi.
E' proprio il nostro attaccamento a quello che è materiale che è sbagliato, ma fa parte del nostro essere terreni, e per uscire da questo dannato equivoco, dobbiamo capire che il tempio non è seguire gli uomini, ma seguire Cristo.
Gesù ha lasciato che gli strappassero la vita, che lo umiliassero, lo ingiuriassero, per farci capire che neanche il suo corpo di carne doveva essere un freno all'amore che prova per noi, neanche la sofferenza più atroce gli avrebbero impedito di donarci la salvezza.
Quindi il tempio che gli uomini debbono venerare è Cristo, che si fa corpo per noi nel tabernacolo, Cristo che diventa Eucaristia, e non il tempio fatto di pietra e oro, perché del  tempio non rimarrà pietra su pietra, dice il Signore.Una chiesa costruita sull'apparenza, non porta la verità; una chiesa attaccata all'oro, non vive la carità; una chiesa che esercita il potere, non parla di comunione.Gli uomini che vogliono essere pastori di Cristo, e con Cristo, devono camminare nell'amore di Cristo, non di se stessi e delle loro organizzazioni.
Gesù non ci ha promesso una vita facile, né ci propone di credere a chi ci parla di catastrofi, a chi si spaccerà per Lui, ci mette in guardia dal cercare i segni di un’imminente fine del mondo, ma c’invita a vivere la nostra umanità pensando che ha una fine inevitabile e che deve e può essere vissuta ,non come se fosse fine a se stessa, ma in funzione della nostra appartenenza alla famiglia di Dio e alla gioia che ci aspetta nel riunirci a Lui.

domenica 23 novembre 2014

(Lc 21,1-4) Vide una vedova povera, che gettava due monetine.

VANGELO
 (Lc 21,1-4) Vide una vedova povera, che gettava due monetine. 
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, e disse: «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l' hai voluta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione. Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito.
Amen.

Gli occhi di Gesù si posano su una vedova che timidamente entra nel tempio e fa la sua offerta, frettolosamente, mestamente, come chi sa che sta dando poco al Signore, ma che quel poco è tutto quello che può dare, perché non ha altro, e affida a Dio tutti i suoi desideri, i suoi sogni e le sue paure.
Non voglio soffermarmi con voi a riflettere su chi dà di più, su chi non dà mai abbastanza, ma voglio essere con voi la povera vedova che non sa neanche come arriverà alla fine della giornata, ma mette tutto quello che è a disposizione di Dio.
Non sappiamo cosa è scritto nel libro della vita per noi.  A volte ci sentiamo miseri di tutto, senza nessuna possibilità, senza nulla da poter donare... ma non è così, non lo è mai.
In ognuno di noi c'è un miracolo vivente, che può trasformarsi in grazia per un altro fratello.
A volte basta un sorriso, una carezza, un orecchio  prestato all'ascolto, una mano a portare la busta della spesa, un passaggio in auto... mille piccole cose che possono rompere il muro della solitudine di tante persone.
Siamo qui, su internet ed anche in questo network, troviamo delle persone che hanno bisogno di non sentirsi sole, e che trovano qui un po' di compagnia. Oggi il mondo taglia fuori chi è malato, chi non rende al massimo, chi non segue le mode, chi rifiuta di adeguarsi al pensiero moderno, e considerato che sono i numeri che fanno la massa, spesso i numeri decretano la sconfitta.
La povera vedova rappresenta la parte debole di una società che  emargina chi è meno fortunato, e noi sappiamo che c'è anche chi vive proprio fuori dei margini, c'è chi ha fame, quella vera, quella che per la quale un pugno di riso rappresenta la sopravvivenza, ma noi siamo distratti da un altro tipo di mondo, quello sfavillante delle luci e degli addobbi che si prepara al Natale, siamo attirati dalle vetrine piene di bell'abbigliamento e di regali e se vediamo un barbone coperto di stracci, volgiamo lo sguardo altrove.
Come siamo poveri Signore mio, abbiamo un animo arido ed impregnato del nostro egoismo, posa il tuo sguardo su di noi e trasforma il nostro piccolo cuore di pietra in un cuore di carne per imparare ad amare, per riempirci del tuo amore.Eppure in questa pericope io voglio cercare anche altro, perchè Gesù mi ha insegnato a leggere nella disgrazia la grazia di Dio e so che ce n'è sempre in abbondanza. Troviamo infatti nel gesto timido della vedova, la capacità di dare il suo nulla, di non fermarsi e di sperare anche nella sua utilità. Vediamo che quello che la vedova compie, non è il gesto di chi si mette in mostra nel suo offrire, ma di chi cerca invece la COMUNIONE con un Dio in cui crede .I ricchi donano solo il superfluo e trattengono per se la ricchezza e la superbia di sentirsi migliori, non credono e non sperano in una comunione di beni, perchè accorcerebbe le distanze che secondo loro si misurano proprio nel denaro e nella classe sociale.
Molto diverso è il metro di misura del Signore, che dice:
 "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Non c'è altro comandamento più importante di questo » (Mc 12,29-31).
- “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40) -

sabato 22 novembre 2014

(Mt 25,31-46) Siederà sul trono della sua gloria e separerà gli uni dagli altri.

VANGELO
(Mt 25,31-46) Siederà sul trono della sua gloria e separerà gli uni dagli altri.
+ Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Parola del Signore

La mia riflessione
Preghiera
A Te o Santo Spirito mi rivolgo per capire quello che non posso capire, aiutami, secondo quello che tu ritieni giusto.
Una vita non basta per imparare a vivere da cristiani, ma la nostra aspirazione dovrebbe essere quella di vivere imitando Cristo, quella di vivere già sulla terra da Santi, come il Santo di Dio, ma poiché il divario è troppo, spesso rinunciamo.
Quello che però riusciamo a percepire è che la nostra vita da cristiani non finisce qui, non si ferma con la morte del corpo come un qualsiasi ingranaggio che si rompe e che si butta, ma ha in se qualcosa di più, qualcosa di santo, di divino, che ci permette di passare oltre.
L’immortalità è stato sempre il sogno degli uomini, ma non è di quest’immortalità che Gesù ci parla, ma dell’immortalità dell’anima e ci promette cieli nuovi e terra nuova, perché tutti quelli che muoiono in Adamo possano rinascere in Gesù ed in Lui risorgere.
Farci troppe domande non serve, bisogna imparare a conoscere Gesù Cristo, ascoltare la sua parola, e solo così potremo imparare a fidarci di Lui, perché senza fede, potremmo parlare di tante forme di vita, ma non potremmo mai comprendere il mistero dell’eternità che ci dona solo Dio.Quello che il Signore ci fa oggi , non è una proposta, ma un avvertimento.
Un avvertimento è un messaggio che ci avverte di un pericolo vero, che incombe, ed in questo caso quello che incombe è il giudizio finale che, sia che crediamo o no, toccherà a tutti.
Come dico io, quando passeremo alla cassa a pagare il conto, non ci saranno sconti, non potremo dire nulla in nostra discolpa, che possa cambiare le cose, perchè saremo davanti al Signore che conosce ogni cosa, e credo che allora avremo anche una piena coscienza del peccato.Io penso che quando l' anima, si sarà staccata dal corpo, perderà quella terrena incoscienza, perdendo la parte mortale contaminata dal peccato di superbia, e si riconoscerà in tutta la sua innocenza, tanto che ogni peccato sarà come una macchia enorme sull' abito candido e sarà visibile anche a noi.
Però Gesù parla chiaramente anche di premio ed è chiaro che un Dio giusto, emetterà una sentenza giusta. Pertanto a colui che pecca consapevolmente e mortalmente è dovuta la pena di essere totalmente escluso dal conseguire l’ultimo fine se non si ravvede, ma non posso non pensare che Davide supplicava piangendo il Signore:" Distogli il tuo sguardo dal mio peccato " e che Dio ha lo ha ascoltato, quindi, non disperiamo di poterci salvare, perchè nella sua misericordia egli terrà conto anche delle buone opere che compiremo e ripetiamo con Davide:
"Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nel tuo grande amore cancella il mio peccato."

venerdì 21 novembre 2014

(Lc 20,27-40) Dio non è dei morti, ma dei viventi.

VANGELO
(Lc 20,27-40) Dio non è dei morti, ma dei viventi.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». E non osavano più rivolgergli alcuna domanda.
Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Signore, di aiutarmi ad entrare con te nel mistero della vita dopo la morte, per vivere con te la resurrezione così come una figlia di Dio deve riuscire a vivere.
Devo dirvi con molta onestà di non aver problemi nel credere all’ immortalità dell’ anima e alla vita dopo la morte, e questo sicuramente per grazia di Dio. Nonostante questo però, mi riesce difficile pensare a come sarà la vita nell’ aldilà, un po’ come credo che sia per tutti, ma non come per i sadducei, che poiché non credevano nella resurrezione, provocavano Gesù con domande sibilline.
Chiaramente siamo attaccati alle persone con le quali condividiamo la nostra vita, il nostro cammino sulla terra e questo ci porta, molto umanamente, a desiderare di poterci ritrovare anche nell’ aldilà, con le stesse persone e gli stessi affetti, ma da questo brano si evince che questi sono ragionamenti terreni e che forse non sarà come speriamo; allora mi sembra di capire che l’amore di cui Dio ci darà modo di vivere è qualcosa di molto più spirituale e meno carnale di quello che viviamo oggi.
Tutto ha in se la vita, anche quelle cose che per noi hanno qui pochissimo senso, un filo d’erba o una goccia d’ acqua, perché tutto ha in se l’impronta di Dio. Dovremmo imparare ad apprezzare in ogni cosa Dio, a distinguere tra il rispetto e il disprezzo per la natura e a vincere in tutto la nostra ignoranza, che si vince con l'amore, la dove la sapienza non ci appartiene; amandoci e amando il mondo, uniamo cielo e terra.Sicuramente l'amore che conosceremo nel regno di Dio,sarà così grande da non poter essere basato su egoismi terreni, e sarà per tutto quello e uelli che ci circonderanno, sarà l'amore per il quale siamo stati creati.
Un amore per l’altro come per noi stessi, per la vita di ogni essere vivente come dono di Dio e che quando finalmente avremo la conoscenza della magnificenza del regno che il Signore ha preparato per noi, la gioia di vivere a contatto con tutto questo ci darà delle sensazioni che neanche riusciremmo mai ad immaginare.

giovedì 20 novembre 2014

I DOLORI MENTALI DI GESÙ NELLA SUA PASSIONE DI SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO

I DOLORI MENTALI DI GESÙ NELLA SUA PASSIONE
DI SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO

(Presentazione dello scritto)
Quello che qui segue sono quei dolori interiori di Cristo benedetto, che come ho detto mi ha comandato di scrivere.
Ma notate: quando io tornai a Camerino [nel 1484], qualche volta dicevo qualcosa di questi dolori interiori con le mie suore, per loro e mia consolazione. E, perché esse non pensassero che fossero farina del mio sacco, dicevo che una suora di quelle del monastero di Urbino aveva confidato a me queste cose.
Suor Pacifica mi pregò molte volte di scrivere queste cose. Io rispondevo che non le avrei mai scritte finché non fosse morta quella suora.
Quando mi fu comandato [da Gesù] di scriver­le, era già più di due anni che lei non mi aveva più parlato né accennato all'argomento. Però dovendo io scriverli, li indirizzai a lei perché allora era mia reverenda Abbadessa e io sua indegna vicaria, e finsi – come avevo detto – che una suora di quelle di Urbino mi avesse confidato tali cose devote, perciò qualche volta scrivo: “Quella anima santa, quella anima beata mi disse così”, e questo per dare fede all'oste, affinché i lettori non pensassero che fossi io [l'autrice].

GESÙ FIGLIO DI MARIA
Queste sono alcune devotissime cose riguardanti i dolori interiori di Gesù Cristo benedetto, che Egli per sua pietà e grazia si degnò comunicare ad una devota religiosa del nostro Ordine di santa Chiara, la quale, volendolo Dio, li confidò a me. Ora io le riferisco qui di seguito per utilità delle anime innamorate della passione di Cristo.

PRIMO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE PER TUTTI I DANNATI
Dopo una breve introduzione, viene presentato il primo dolore del Cuore di Cristo causato da coloro che prima di morire non si pentirono dei propri peccati. In queste pagine si trova eco della dottrina del “corpo mistico” di san Paolo sulla Chiesa che, come il corpo fisico, è formata da tante membra, i cristiani, e dal Capo che è Gesù stesso. Da qui la sofferenza che questo corpo mistico e in particolare il Capo prova se gli ven­gono strappate le membra. Ci deve far riflettere quanto Camilla Battista afferma circa la pena del Cuore di Cristo per ogni amputazione causata dal peccato mortale, impegnandoci ad evitarlo.

Vi fu un'anima molto desiderosa di cibarsi e saziarsi dei cibi, amarissimi come il veleno, della passione dell'amoroso e dolcissimo Gesù, la quale, dopo molti anni e per meravigliosa sua grazia, fu introdotta nei dolori mentali del mare amarissimo del suo Cuore appassionato.
Lei mi disse che per molto tempo aveva pregato Dio che la facesse annegare nel mare dei suoi dolori interiori e che il dolcissimo Gesù si degnò per sua pietà e grazia introdurla in quel mare amplissimo non una sola volta, ma molte volte e in modo così straordinario tanto che era costretta a dire: “Basta, Signore mio, perché non posso sostenere tanta pena!”.
E questo – credo – perché so che Egli è generoso e benigno verso chi domanda queste cose con umiltà e perseveranza.
Quell'anima benedetta mi disse che, quando si trovava in preghiera, diceva a Dio con grande fervore: “O Signore, io ti prego di introdurmi in quel sacratissimo talamo dei tuoi dolori mentali. Annegami in quel mare amarissimo perché lì io desidero morire se piace a Te, dolce vita e amore mio.
Dimmi, o Gesù mia speranza: quanto fu grande il dolore di questo tuo angustiato cuore?”.
E Gesù benedetto le diceva: “Sai quanto fu grande il mio dolore? Quanto fu grande l'amore che portavo alla creatura”.
Quell'anima benedetta mi disse che già altre volte Dio l'aveva resa capace, per quanto a Lui era piaciuto, di accogliere l'amore che Egli portava alla creatura.
E sopra l'argomento dell'amore che Cristo portava alla creatura mi disse cose devote e tanto belle che, se le volessi scrivere, sarebbe una cosa lunga. Ma poiché ora intendo narrare solo i dolori menta­li di Cristo benedetto che quella suora mi comu­nicò, tacerò il resto.
Torniamo dunque all'argomento.
Riferiva che quando Dio le diceva: “Tanto gran­de fu il dolore quanto grande era l'amore che por­tavo alla creatura”, le sembrava di venir meno a causa dell'infinita grandezza dell'amore che le veniva partecipato. Solo all'udire quella parola, bisognava che appoggiasse la testa da qualche parte per il grande affanno che le attanagliava il cuore e per la debolezza che percepiva in tutte le sue membra. E dopo che era stata alquanto così, riprendeva un po' di forze e diceva: “O Dio mio, avendomi detto quanto fu grande il dolore, dimmi quante furono le pene che hai por­tato nel tuo cuore”.
Ed Egli le rispondeva dolcemente:
“Sappi, figliola, che furono innumerevoli ed infi­nite, perché innumerevoli ed infinite sono le anime, mie membra, che si separavano da me per il peccato mortale. Ciascuna anima infatti si separa e disgiunge tante volte da me, suo Capo, per quante volte pecca mortalmente.
Questa fu una delle pene crudeli che io portai e sentii nel mio cuore: la lacerazione delle mie membra.
Pensa quanta sofferenza sente chi è martirizzato con la corda con cui vengono strappate le membra del suo corpo. Ora immagina che martirio fu il mio per tante membra da me separate quante saranno le anime dannate e ogni membro per tante volte quante peccava mortalmente. La disgiunzione di un membro spirituale rispetto a quella fisica è molto più dolorosa perché è più preziosa l'anima rispetto al corpo.
Quanto sia più preziosa l'anima del corpo non lo puoi comprendere tu e nessuna altra persona vivente, perché solo io conosco la nobiltà e l'utilità dell'anima e la miseria del corpo, perché solo io ho creato sia l'una che l'altro. Di conseguenza né tu né altri potete essere veramente capaci di comprendere le mie crudelissime e amare pene.
E adesso parlo solo di questo, cioè delle anime dannate.
Dato che nel modo di peccare si ha un caso più grave rispetto ad altro, così nel dismembramento da me provavo maggiore o minore pena da uno rispetto a un altro. Da ciò deriva la qualità e la quantità di pena.
Poiché vedevo che la loro perversa volontà sarebbe stata eterna, così la pena loro destinata è eterna; nell'inferno uno ha maggiore o minore pena rispetto all'altro per quanto più numerosi e maggiori peccati ha commesso l'uno rispetto all'altro.
Ma la pena crudele che mi straziava era vedere che le suddette infinite mie membra, cioè tutte le anime dannate, mai, mai e mai più si sarebbero riunite a me, loro vero Capo. Al di sopra di tutte le altre pene che hanno e che potranno avere eterna­mente quelle povere anime sventurate, è proprio questo “mai, mai” che in eterno le tormenta e tor­menterà.
Mi straziò tanto questa pena del “mai, mai”, che io avrei immediatamente scelto di patire non una volta sola ma infinite volte tutte le disgiunzio­ni che furono, sono e saranno, purché avessi potu­to vedere non tanto tutte, ma almeno un'anima sola riunirsi ai membri vivi o eletti che vivranno in eterno dello spirito di vita che procede da me, vera vita, che do vita ad ogni essere vivente.
Considera ora quanto mi sia cara un'anima se per riunirne a me una sola avrei voluto patire infi­nite volte tutte le pene e moltiplicate. Ma sappi anche che la pena di questo “mai, mai” tanto affligge e accora per mia divina giustizia quelle anime, che anche loro ugualmente preferirebbero mille e infinite pene pur di sperare qualche istante di riunirsi qualche volta a me, loro vero Capo.
Come fu diversa la qualità e la quantità della pena che dettero a me nel separarsi da me, così per mia giustizia la pena è corrispondente al tipo e alla quantità di ogni peccato. E dato che sopra ogni altra cosa mi afflisse quel “mai, mai”, così la mia giustizia esige che questo “mai, mai” addolori ed affligga loro più di ogni altra pena che hanno ed avranno in eterno.
Pensa dunque e rifletti quanta sofferenza per tutte le anime dannate io provai dentro di me e sentii nel mio cuore fino alla morte”.
Quell'anima benedetta mi diceva che a questo punto sorgeva nella sua anima un santo desiderio, che credeva fosse per divina ispirazione, di presentargli il seguente dubbio. Allora con gran timore e riverenza per non sembrare volesse indagare sulla Trinità e tuttavia con somma semplicità, purezza e confidenza diceva: “O dolce e addolorato Gesù mio, molte volte ho inteso dire che Tu hai portato e provato in Te, o appassionato Dio, le pene di tutti i dannati. Se ti piacesse, Signore mio, vorrei sapere se è vero che Tu hai sentito quella varietà di pene dell'inferno, quali freddo, caldo, fuoco, percosse e il dilaniare le tue membra da parte degli spiriti infernali. Dimmi, o mio Signore, sentisti tu questo, o mio Gesù?
Solo per riferire quanto sto scrivendo, mi pare che mi si liquefaccia il cuore ripensando alla tua benignità nel parlare tanto dolcemente e a lungo con chi veramente ti cerca e desidera”.
Allora Gesù benedetto rispondeva graziosa­mente e a lei pareva che tale domanda non gli fosse dispiaciuta, ma l'avesse gradita: “Io, figliola mia, non sentii questa diversità delle pene dei dannati nel modo che tu dici, perché erano membra morte e staccate da me, loro corpo e Capo.
Ti faccio questo esempio: se tu avessi una mano oppure un piede o qualsiasi altro membro, mentre viene tagliato o separato da te tu sentiresti grande e indicibile dolore e sofferenza; ma dopo che quel­la mano è stata tagliata, anche se fosse buttata nel fuoco, la straziassero o la dessero in pasto ai cani o ai lupi, tu non sentiresti né sofferenza né dolore, perché è ormai un membro putrido, morto e com­pletamente separato dal corpo. Ma sapendo che fu un tuo membro, soffriresti molto nel vederlo getta­to sul fuoco, straziato da qualcuno oppure divora­to da lupi e cani.
Proprio così avvenne per me riguardo alle innu­merevoli mie membra o anime dannate. Finché durò lo smembramento e quindi ci fu speranza di vita io sentii impensabili ed infinite pene e anche tutti gli affanni che esse patirono durante questa vita, perché fino alla loro morte vi era speranza di potersi riunire a me, se lo avessero voluto.
Ma dopo la morte non provai più alcuna pena perché erano ormai membra morte, putride, staccate da me, tagliate e del tutto escluse dal vivere in eterno in me, vera vita.
Considerando però che erano state mie vere e proprie membra, mi causava una pena impensabile e incomprensibile il vederli nel fuoco eterno, in bocca agli spiriti infernali e in preda ad altre innumerevoli sofferenze.
Questo dunque è il dolore interiore che provai per i dannati”.
SECONDO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER TUTTI I MEMBRI ELETTI
Sin dall'inizio di questo capitolo è Gesù che parla, dicendo che la sofferenza per lo strappo di un membro dal corpo fu provata dal suo cuore anche quando peccava un credente che poi si sarebbe pentito, salvandosi. Tale sofferenza è paragonabile ad un membro malato che provoca dolore a tutta la parte sana del corpo.
Vi troviamo anche pensieri riguardanti le pene sofferte da chi si trova nel purgatorio.
Alcune espressioni, attribuite alla suora che aveva raccontato le confidenze divine, confermano la gravità del peccato, anche veniale.
“L'altro dolore che mi trafisse il cuore fu per tutti gli eletti.
Sappi infatti che tutto ciò che mi afflisse e tormentò per i membri dannati, allo stesso modo mi afflisse e tormentò per la separazione e disgiunzione da me di tutti i membri eletti che avrebbero peccato mortalmente.
Quanto erano grandi l'amore che eternamente avevo per loro e la vita alla quale essi si univano operando il bene e da cui si separavano peccando mortalmente, altrettanto era grande il dolore che sentii per loro, vere mie membra.
Il dolore che provai per i dannati differiva da quello che sentii per gli eletti solo in questo: per i dannati, essendo membra morte, non provai più la loro pena dato che erano separati da me con la morte; per gli eletti invece sentii e provai ogni loro pena e amarezza in vita e dopo la morte, cioè nella vita le sofferenze e i tormenti di tutti i martiri, le penitenze di tutti i penitenti, le tentazioni di tutti i tentati, le infermità di tutti i malati e poi persecuzioni, calunnie, esili. In breve, provai e sentii così chiaramente e vivamente ogni sofferenza piccola o grande di tutti gli eletti ancora in vita, come tu vivamente proveresti e sentiresti se ti percuotessero l'occhio, la mano, il piede o qualche altro membro del tuo corpo.
Pensa allora quanti furono i martiri e quante specie di torture sostenne ciascuno di essi e poi quante furono le sofferenze di tutti gli altri mem­bri eletti e la varietà di quelle pene.
Considera questo: se tu avessi mille occhi, mille mani, mille piedi e mille altre membra e in ognu­no di essi provassi mille diverse pene che contem­poraneamente provocano un unico lancinante dolore, non ti sembrerebbe raffinato supplizio?
Ma le mie membra, figliola mia, non furono migliaia né milioni, ma infinite. E nemmeno la varietà di quelle pene furono migliaia, ma innume­revoli, perché tali furono le pene dei santi, martiri, vergini e confessori e di tutti gli altri eletti.
In conclusione, come non ti è possibile com­prendere quali e quante siano le forme di beatitu­dine, di gloria e di premi preparati in paradiso per i giusti o eletti, così non puoi comprendere o sape­re quante siano state le pene interiori che io sop­portai per i membri eletti. Per divina giustizia biso­gna che a queste sofferenze corrispondano le gioie, le glorie e i premi; ma io provai e sentii nella loro diversità e quantità le pene che gli eletti, avrebbero sofferto dopo la morte in purgatorio a causa dei loro peccati, chi più e chi meno secondo quanto avevano meritato. Questo perché non erano membra putride e staccate come i dannati, ma erano membra vive che vivevano in me Spirito di vita, prevenute con la mia grazia e benedizione.
Allora, tutte quelle pene che tu mi chiedevi se le avessi sentite per i membri dannati, non le sentii o provai per la ragione che ti ho detto; ma riguardo agli eletti sì, perché sentii e provai tutte le pene del purgatorio che loro avrebbero dovuto sostenere.
Ti faccio questo esempio: se la tua mano per qualche motivo si slogasse o rompesse e, dopo che un esperto l'abbia rimessa a posto, qualcuno la mettesse sul fuoco o la picchiasse oppure la portasse in bocca al cane, proveresti un dolore fortissimo perché è membro vivo che deve ritornare perfettamente unito al corpo; così io ho provato e sentito dentro di me tutte le pene del purgatorio che i miei membri eletti dovevano patire perché erano membra vive che attraverso quelle sofferenze dovevano riunirsi perfettamente a me, loro vero Capo.
Tra le pene dell'inferno e quelle del purgatorio non c'è alcuna diversità o differenza, salvo che quelle dell'inferno mai, mai, mai avranno fine, mentre quelle del purgatorio sì; e le anime che si trovano qui, volentieri e con gioia si purificano e, benché nel dolore, soffrono in pace rendendo grazie a me, somma giustizia.
Questo è ciò che riguarda il dolore interiore che ho sofferto per gli eletti”.

Volesse dunque Iddio che io mi potessi ricorda­re delle devote parole che lei a questo punto con un pianto dirotto riferiva, dicendo che, essendo stata resa capace di comprendere – per quanto era pia­ciuto al Signore – la gravità del peccato, conosce­va ora quanta pena e martirio aveva dato al suo amatissimo Gesù separandosi da Lui, sommo Bene, per unirsi a cose tanto vili di questo mondo che offrono occasioni di peccare.
Mi ricordo anche che lei, parlando tra molte lacrime, esclamava:
“Oh, Dio mio, molte volte ti ho procurato grandi ed infinite pene, o dannata o salva che io sia. O Signore, non ho mai saputo che il peccato ti offen­desse tanto, credo allora che mai avrei peccato neppure leggermente. Tuttavia, Dio mio, non tener conto di ciò che dico, perché nonostante questo farei anche peggio se la tua pietosa mano non mi sostenesse.
Però tu, dolce e benigno mio amante, non mi sembri più un Dio ma piuttosto un inferno perché queste tue pene che mi fai conoscere sono tante. E veramente mi sembri più che infernale”.
Così molte volte, per santa semplicità e compassione, lo chiamava inferno.
TERZO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER LA GLORIOSA VERGINE MARIA
Un terzo motivo di profonda sofferenza al cuore dell'uomo-Dio fu il dolore della sua dolcissima Madre. Per la particolare tenerezza che Maria nutriva verso questo Figlio che era contemporaneamente Figlio dell'Altissimo, il suo dolore fu straordinario rispetto a quello di altri genitori che possono fare l'esperienza di assistere al martirio di un figlio.
Gesù, oltre il vedere soffrire la Madre, provò grande sofferenza nel sentirsi impedito di poterle risparmiare il dolore.

L’ amoroso e benedetto Gesù continuava: “Ascolta, ascolta, figliola mia; non dire subito così, perché devo ancora dirti cose amarissime e specialmente circa quell'acuto coltello che passò e trafisse la mia anima, cioè il dolore della mia pura e innocente Madre, che per la mia passione e morte doveva essere tanto afflitta e accorata che mai fu né sarà una persona più addolorata di lei.
Perciò in paradiso l'abbiamo giustamente glori­ficata ed innalzata e premiata sopra tutte le schie­re angeliche ed umane.
Noi facciamo sempre così: quanto più la crea­tura in questo mondo è per amor mio afflitta, abbassata ed annientata in se stessa, tanto più nel regno dei beati per giustizia divina è innalzata, glorificata e premiata.
E dato che in questo mondo non ci fu una madre o alcuna persona più angustiata della mia dolcissima e accorata madre, così lassù non c'è, né vi sarà mai persona simile a lei.
E come in terra lei fu simile a me per pene e afflizioni, così in cielo è simile a me per potenza e gloria, però senza la mia divinità di cui siamo partecipi solo noi tre divine persone, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ma sappi che tutto quello che soffrii e sopportai io, Dio umanato, soffrì e patì la mia poveri e santissima Madre: salvo che io soffrii in grado pio alto e perfetto perché ero Dio e uomo, mentre lei era pura e semplice creatura priva affatto di divinità.
Mi afflisse talmente il suo dolore che, se fosse piaciuto al mio eterno Padre, sarebbe stato per me un sollievo se i suoi dolori fossero ricaduti sopra la mia anima e lei fosse rimasta libera da ogni sofferenza; è vero che le mie sofferenze e ferite sarebbero state come raddoppiate con una freccia acuminata e velenosa, ma ciò sarebbe stato per me grandissimo sollievo e lei sarebbe rimasta senza alcuna pena. Ma perché il mio indescrivibile martirio doveva essere senza alcuna consolazione, non mi fu concessa tale grazia benché più volte l'avessi domandata per tenerezza filiale e con molte lacrime”.
Allora, racconta la suora, le sembrava che le venisse meno il cuore per il dolore della gloriosa Vergine Maria. Dice che provava una certa tensione interiore da non poter proferire altra parola che questa:
“O Madre di Dio, non ti voglio più appellare Madre di Dio quanto piuttosto Madre di dolore, Madre di pena, Madre di tutte le afflizioni che si possano contare e pensare. Ebbene, d'ora in poi ti chiamerò sempre Madre di dolore.
Egli mi pare un inferno e tu mi sembri altrettanto. Allora come ti posso appellare se non Madre di dolore? Anche tu sei proprio un secondo infer­no”.
E aggiungeva:
“Basta, Signore mio, non mi parlare più dei dolori della tua benedetta Madre, perché sento di non poterli più sopportare. Mi basta questo finché sarò in vita, anche se potessi vivere mille anni”.

QUARTO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER LA SUA INNAMORATA DISCEPOLA MARIA MADDALENA
La dolorosa esperienza di Maria Maddalena, presente alla passione del Signore, fu seconda solo a quella della Vergine Maria, perché lei amava senza riserve Gesù, diremmo noi come suo “sposo”, mancando il quale lei non si dette pace. Questa è l'esperienza delle anime consacrate, specie quelle contemplative come lo fu Camilla Battista la cui vicenda possiamo riconoscere nell'espressione dettale da Gesù: “Così vuol essere ogni anima quando mi ama e desidera affettuosamente: non si dà pace né riposa se non in me solo, suo amato Dio”. Simile a Maria Maddalena, la Beata durante la dolorosa prova della notte spirituale non si dette pace.


Allora Gesù, tacendo su tale argomento perché vedeva che lei non poteva più sopportarlo, inco­minciò a dirle:
“E che dolore pensi tu che io abbia sostenuto per la pena e l'afflizione della mia diletta discepola e benedetta figliola Maria Maddalena?
Mai potreste comprenderlo né tu né altra perso­na, perché da lei e da me hanno avuto fondamento e origine tutti i santi amori spirituali che mai furo­no e saranno. Infatti la mia perfezione, di me che sono il Maestro che ama, e l'affetto e la bontà di lei, discepola amata, non possono essere compresi se non da me. Qualche cosa ne potrebbe compren­dere chi ha fatto esperienza dell'amore santo e spi­rituale, amando e sentendosi amato; mai però in quella misura, perché non esiste un tale Maestro e neppure una tale discepola, poiché di Maddalena non ne fu ne sarà mai altra che ella sola.
Giustamente si dice che dopo la mia amatissi­ma Madre non ci fu persona che più di lei si afflig­gesse per la mia passione e morte. Se un altro si fosse afflitto più di lei, dopo la mia risurrezione io sarei apparso a lui prima che a lei; ma poiché dopo la mia benedetta Madre fu lei più afflitta e non altri, così dopo la mia dolcissima Madre fu lei la prima ad essere consolata.
Io resi capace il mio amatissimo discepolo Giovanni, nel gioioso abbandono sul mio sacratis­simo petto durante la desiderata e intima cena, di vedere chiaramente la mia risurrezione e l'immenso frutto che sarebbe scaturito agli uomini dalla mia passione e morte. Sicché, per quanto il mio amato fratello Giovanni abbia provato dolore e sofferenza per la mia passione e morte più di tutti gli altri discepoli pur sapendo quanto dicevo, non pensare che abbia superato l'innamorata Maddalena. Lei non aveva la capacità di comprendere cose alte e profonde come Giovanni, il quale non avrebbe mai impedito – se gli fosse stato possibile – la mia passione e morte per l'immenso bene che ne sarebbe provenuto.
Ma non era così per l'amata discepola Maddalena. Infatti quando mi vide spirare, parve a lei che le venissero a mancare il cielo e la terra, perché in me erano tutta la sua speranza, tutto il suo amore, pace e consolazione, giacché mi amava senza ordine e misura.
Per questo anche il suo dolore fu senza ordine e misura. E potendolo conoscere solo io, lo portai volentieri nel mio cuore e provai per lei ogni tenerezza che per santo e spirituale amore si può provare e sentire, perché mi amava svisceratamente.
E osserva, se vuoi saperlo, che gli altri discepoli dopo la mia morte ritornarono alle reti che avevano abbandonato, perché non erano ancora del tutto staccati dalle cose materiali come invece questa santa peccatrice. Lei invece non ritornò alla vita mondana e scorretta; anzi, tutta infuocata e bruciante di santo desiderio, non potendo più spe­rare di vedermi vivo, mi cercava morto, convinta che nessun'altra cosa poteva ormai piacerle o sod­disfarla se non io suo caro Maestro, vivo o morto che fossi.
Che ciò sia vero lo prova il fatto che lei, per tro­vare me morto, ritenne secondaria e pertanto lasciò la viva presenza e compagnia della mia dol­cissima Madre, che è la più desiderabile, amabile e piacevole che dopo di me si può avere.
E anche la visione e i dolci colloqui con gli angeli le sembrarono niente.

Così vuoi essere ogni anima quando mi ama e desidera affettuosamente: non si dà pace né riposa se non in me solo, suo amato Dio.
Insomma, fu tanto il dolore di questa mia bene­detta cara discepola che, se io somma potenza non l'avessi sostenuta, sarebbe morta.
Questo suo dolore si ripercuoteva nel mio appassionato cuore, perciò fui molto afflitto ed angustiato per lei. Ma non permisi che lei venisse meno nel suo dolore, dato che di lei volevo fare ciò che poi feci, cioè apostola degli apostoli per annunziare loro la verità della mia trionfale risurrezione, come essi poi fecero a tutto il mondo.
La volevo fare e la feci specchio, esempio, modello di tutta la beatissima vita contemplativa nella solitudine di trentatré anni rimanendo ignota al mondo, durante i quali lei poté gustare e provare gli ultimi effetti dell'amore per quanto è possibile gustare, provare, sentire in questa vita terrena.
Questo è tutto quello che riguarda il dolore che provai per la mia diletta discepola”.

QUINTO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE PER I SUOI AMATI E CARI DISCEPOLI
Gesù, dopo aver scelto gli apostoli tra molti altri discepoli, nei tre anni di vita comune li trattò con particolare familiarità per istruirli e prepa­rarli alla missione a cui li destinava. Proprio per lo speciale rapporto di amore che intercorse tra Cristo e gli apostoli, Egli provò una sofferenza particolare nel suo cuore prendendo su di sé le sofferenze a cui essi sarebbero andati incontro per testimoniare la sua risurrezione.

“L'altro dolore che accoltellava l'anima mia era la continua memoria del santo collegio degli Apostoli, colonne del cielo e fondamento della mia Chiesa in terra, che io vedevo come sarebbe stato disperso quali pecorelle senza pastore e conoscevo tutte le pene e martirii che avrebbero dovuto patire per me.
Sappi dunque che mai un padre ha amato con tanto cuore i figli né un fratello i fratelli né un maestro i discepoli come io amavo gli Apostoli benedetti, dilettissimi miei figlioli, fratelli e discepoli.
Benché io abbia sempre amato tutte le creature con amore infinito, tuttavia ci fu un particolare amore per quelli che effettivamente vissero con me.
Di conseguenza provai un particolare dolore per loro nella mia afflitta anima. Per essi infatti, più che per me, pronunciai quell'amara parola: 'La mia anima è triste fino alla morte', data la grande tenerezza che provavo nel lasciarli senza di me, loro padre e fedele maestro. Ciò mi procurava tanta angustia che questa separazione fisica da loro mi sembrava una seconda morte.
Se si riflettesse attentamente sulle parole dell'ultimo discorso che rivolsi loro, non ci sarebbe un cuore tanto indurito da non commuoversi di fronte a tutte quelle affettuose parole che mi sgorgarono dal cuore, che sembrava scoppiarmi in petto per l'amore che portavo loro.
Aggiungi che vedevo chi sarebbe stato crocifis­so a causa del mio nome, chi decapitato, chi scor­ticato vivo e che comunque tutti avrebbero chiuso l'esistenza per amore mio con vari martirii.
Per poter comprendere quanto questa pena mi fosse pesante, fai questa ipotesi: se tu avessi una persona che ami santamente e alla quale per causa tua e proprio perché l'ami vengano indirizzate parole ingiuriose oppure fatto qualche cosa che le dispiace, oh, come ti farebbe veramente male che proprio tu sia la causa di tale sofferenza per lei che tu ami tanto! Vorresti invece e cercheresti che lei per causa tua potesse avere sempre pace e gioia.
Ora proprio io, figliola mia, diventavo per loro causa non di parole ingiuriose, ma della morte, e non per uno solo ma per tutti. E di questo dolore che provai per loro non ti posso dare altro esem­pio: ti basti quanto ho detto, se vuoi provare com­passione per me”.

SESTO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER L’INGRATITUDINE DEL SUO AMATO DISCEPOLO GIUDA TRADITORE
Gesù aveva scelto Giuda Iscariota come apostolo insieme agli altri undici, anche a lui aveva concesso il dono di compiere miracoli e gli aveva dato particolari incarichi. Nonostante questo egli progettò il tradimento che, ancor prima che si realizzasse, lacerò il cuore del Redentore.
Al'ingratitudine di Giuda si contrappose la sensibilità dell'apostolo Giovanni, che si sarebbe accorto della sofferenza del suo Signore, secondo quanto scrive la Varano in queste pagine cariche di profonda commozione.

“Ancora un altro sviscerato e intenso dolore mi affliggeva continuamente e mi feriva il cuore. Era come un coltello con tre punte acutissime e vele­nose che continuamente trapassava come una saet­ta e torturava il mio cuore amareggiato come la mirra: cioè la perfidia e ingratitudine del mio amato discepolo Giuda iniquo traditore, la durezza e perversa ingratitudine del mio eletto e prediletto popolo giudaico, la cecità e maligna ingratitudine di tutte le creature che furono, sono e saranno.
Considera prima di tutto quanto fu grande l'in­gratitudine di Giuda.
Io lo avevo eletto nel numero degli apostoli e, dopo avergli perdonato tutti i peccati, lo resi ope­ratore di miracoli e amministratore di quanto mi veniva donato e gli mostrai sempre continui segni di particolare amore perché tornasse indietro dall’iniquo suo proposito. Ma quanto più amore gli mostravo, tanto più progettava cattiverie contro di me.
Con quanta amarezza credi tu che io ruminassi nel mio cuore queste cose e tante altre?
Ma quando venni a quel gesto affettuoso e umile di lavargli i piedi insieme a tutti gli altri, allora il mio cuore si liquefece in un pianto svisce­rato. Uscivano veramente fontane di lacrime dai miei occhi sopra i suoi disonesti piedi, mentre nel mio cuore esclamavo:
‘O Giuda, che ti ho fatto perché tu così crudelmente mi tradisca? O sventurato discepolo, non è questo l'ultimo segno d'amore che ti voglio mostrare? O figliolo di perdizione, per quale motivo ti allontani così dal tuo padre e maestro? O Giuda, se desideri trenta denari, perché non vai dalla Madre tua e mia, pronta a vendere se stessa per scampare te e me da un pericolo così grande e mortale?
O discepolo ingrato, io ti bacio con tanto amore i piedi e tu con grande tradimento mi bacerai la bocca? Oh, che pessimo contraccambio mi darai! Io piango la tua perdizione, o caro e diletto figliolo, e non la mia passione e morte, perché non sono venuto per altro motivo'.
Queste ed altre parole simili gli dicevo con il cuore, rigandogli i piedi con le mie abbondantissime lacrime.
Però lui non se ne accorgeva perché io stavo inginocchiato davanti a lui con la testa inclinata come avviene nel gesto di lavare i piedi altrui, ma anche perché i miei folti lunghi capelli, stando così piegato, mi coprivano il volto bagnato di lacrime.
Ma il mio diletto discepolo Giovanni, poiché gli avevo rivelato in quella dolorosa cena ogni cosa della mia passione, vedeva e annotava ogni mio gesto; si accorse allora dell'amaro pianto che avevo fatto sopra i piedi di Giuda. Egli sapeva e capiva che ogni mia lacrima aveva origine dal tenero amore, come quello di un padre in prossi­mità della morte che sta servendo il proprio unico figlio e gli dice in cuor suo: 'Figliolo, stai tran­quillo, questo è l'ultimo affettuoso servizio che ti potrò fare'. E io feci proprio così a Giuda quando gli lavai e baciai i piedi accostandomeli e stringen­doli con tanta tenerezza alla mia sacratissima fac­cia.
Tutti questi miei gesti e modi non consueti stava notando il benedetto Giovanni evangelista, vera aquila dagli alti voli, che per grande meraviglia e stupore era più morto che vivo. Essendo egli anima umilissima, si sedette all'ultimo posto di modo che lui fu l'ultimo davanti al quale mi ingi­nocchiai per lavare i piedi. Fu a questo punto che non si poté più contenere ed essendo io a terra e lui seduto, mi buttò le braccia al collo e mi strinse a lungo come fa una persona angustiata, versando abbondantissime lacrime. Egli mi parlava col cuore, senza voce, e diceva:
‘O caro Maestro, fratello, padre, Dio e Signore mio, quale forza d'animo ti ha sorretto nel lavare e baciare con la tua sacratissima bocca quei male­detti piedi di quel cane traditore? O Gesù, mio caro Maestro, ci lasci un grande esempio. Ma noi poverelli che faremo senza di te che sei ogni nostro bene? Che farà la sventurata tua povera madre quando le racconterò questo tuo gesto di umiltà? E
ora, per farmi spezzare il cuore, vuoi lavare i miei piedi maleodoranti e sporchi di fango e polvere e baciarli con la tua bocca dolcissima come il miele?
O Dio mio, questi nuovi segni d'amore sono per me innegabile fonte di maggior dolore'.
Dette queste ed altre simili parole che avrebbero fatto intenerire un cuore di sasso, si lasciò lavare porgendo i piedi con molta vergogna e riverenza.
Ti ho detto tutto questo per darti qualche notizia del dolore che provai nel mio cuore per l'ingratitudine e per l'empietà di Giuda traditore, che per quanto da parte mia gli avevo dato amore e segni di affetto, tanto mi rattristò con la sua pessima ingratitudine”.

SETTIMO DOLORE
CHE CRISTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER L’INGRATITUDINE DEL SUO PREDILETTO POPOLO GIUDAICO
Il racconto di questo dolore è breve, ma suffi­ciente a descrivere la pena interiore di Cristo per il popolo ebraico dal quale aveva assunto la natu­ra umana. Dopo i benefici straordinari concessi ai padri, il Figlio di Dio incarnato durante la vita terrena aveva operato ogni genere di bene in favo­re del popolo, il quale al momento della passione lo ricambiò con il grido: “A morte, a morte!“, che lacerò il suo cuore più che i suoi orecchi.
“Pensa un poco (figliola mia) quanto grande fu il colpo come di freccia con cui mi trafisse e mi accorò il popolo giudaico, ingrato ed ostinato.
Io l'avevo reso popolo santo e sacerdotale e l'a­vevo eletto a mia parte di eredità, al di sopra di tutti gli altri popoli della terra.
L'avevo liberato dalla schiavitù d'Egitto, dalle mani del Faraone, lo avevo condotto a piedi asciut­ti attraverso il Mare Rosso, per lui ero stato colon­na ombrosa di giorno e luce nella notte.
Lo nutrii di manna per quaranta anni, gli detti con la mia propria bocca la Legge sul monte Sinai, gli concessi tante vittorie contro i suoi nemici.
Assunsi natura umana da lui e per tutto il tempo della mia vita dialogai con lui e gli mostrai la via del cielo. Durante quel tempo gli feci molti bene­fici, quali dare luce ai ciechi, l'udito ai sordi, il camminare ai paralitici, la vita ai loro morti.
Ora quando intesi che con tanto furore gridava­no che fosse rilasciato Barabba e io fossi condan­nato a morte e crocifisso, mi parve che mi scop­piasse il cuore.
Figliola mia, non lo può comprendere se non chi lo prova, che dolore sia ricevere ogni male da chi ha ricevuto ogni bene!
Quanto è duro per chi è innocente sentirsi urlare da tutta la gente: 'Muoia! muoia!', mentre a chi è prigioniero come lui ma si sa che merita mille morti viene gridato dal popolo: 'Viva! Viva!'.
Queste sono cose da meditare e non da raccontare”.

OTTAVO DOLORE
CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE
PER L’INGRATITUDINE DI TUTTE LE CREATURE
Questo capitolo presenta alcune delle pagine più belle della Varano che riconosce gli innumerevoli benefici divini: «Tu, Signore, per grazia sei nato nell'anima mia... Nelle tenebre e oscurità del mondo tu mi hai fatta capace di vedere, udire, par­lare, camminare, perché veramente io ero cieca, sorda e muta a tutte le cose spirituali; mi hai risu­scitata in Te, vera vita che dai vita a ogni cosa vivente...». Contemporaneamente sente il peso della propria ingratitudine: «Tutte le volte che ho vinto, da te solo e per te è venuta la mia vittoria, mentre tutte le volte che ho perso e perdo è stato ed è per mia malizia e poco amore che porto a te». Di fronte all'infinito amore divino e al dolore del Salvatore la Beata sente la gravità del peccato anche minimo, perciò si identifica in coloro che hanno flagellato e crocifisso Gesù e, dimenticando tutti gli altri peccatori, si ritiene sintesi dell'ingra­titudine di tutte le creature.
Illuminata da Cristo, sole di giustizia, quell'anima benedetta espone questa ingratitudine con parole pronunciate per sé e per ogni creatura con riferimento alle grazie e ai benefici ricevuti.
Dice infatti che si sentiva nel cuore tanta umiltà che veramente confessava a Dio e a tutta la corte celeste di aver ricevuto da Dio più doni e benefici di Giuda e addirittura di averne ricevuti più lei sola di tutto il popolo eletto messo insieme e che lei aveva tradito Gesù molto peggio e più ingratamente di Giuda e che molto peggio e più ostinatamente di quel popolo ingrato lei lo aveva condannato a morte e crocifisso.
E con questa santa riflessione lei collocava la sua anima sotto i piedi dell'anima del dannato e maledetto Giuda e da quell'abisso elevava voci, urla e pianti al suo amato Dio da lei offeso, quali: “Signore mio benigno, come potrò ringraziarti per ciò che hai sofferto per me che ti ho trattato mille volte peggio di Giuda?
Tu avevi reso lui tuo discepolo, mentre hai eletto me tua figlia e sposa.
A lui hai perdonato i peccati, a me pure per tua pietà e grazia hai perdonato tutti i peccati come se non li avessi mai fatti.
A lui desti l'incarico di dispensare le cose materiali, a me ingrata hai dispensato tanti doni e grazie del tuo tesoro spirituale.
A lui hai concesso la grazia di fare miracoli, a me hai fatto più che un miracolo conducendomi volontariamente in questo luogo e nella vita con­sacrata.
O Gesù mio, io ti ho venduto e tradito non una volta come lui, ma mille ed infinite volte. O mio Dio, sai bene che peggio di Giuda io ti ho tradito col bacio quando, anche sotto parvenza di amicizia spirituale, ti ho abbandonato e mi sono accostata ai lacci di morte.
E se tanto ti ha turbato l'ingratitudine di quel popolo eletto, cosa sarà stata ed è per te la mia ingratitudine? Io ti ho trattato peggio di loro, ben­ché abbia ricevuto da te, mio vero bene, molti più benefici di loro.
O Signore mio dolcissimo, io con tutto il cuore ti ringrazio che, come gli ebrei dalla schiavitù egiziana, mi hai strappato dalla schiavitù del mondo, dai peccati, dalle mani del crudele faraone qual è il demonio infernale che dominava a suo piacimento l'anima mia poverella.
O mio Dio, condotta a piedi asciutti attraverso l'acqua del mare delle vanità mondane, per tua grazia sono passata alla solitudine del deserto della santa religione claustrale dove molte volte mi hai nutrito con la tua dolcissima manna, ricolma di ogni sapore. Ho infatti sperimentato che tutti i piaceri del mondo sono nauseabondi di fronte alla pur minima tua consolazione spirituale.
Ti ringrazio, Signore e Padre mio benigno, che molte volte sul monte Sinai della santa orazione mi hai dato con la tua dolcissima santa Parola la legge scritta con il dito della tua pietà sulle tavole di pietra del mio durissimo cuore ribelle.
Ti ringrazio, Redentore mio benignissimo, per tutte le vittorie che mi hai dato su tutti i miei nemici, i vizi capitali: tutte le volte che ho vinto, da te solo e per te è venuta la mia vittoria, mentre tutte le volte che ho perso e perdo è stato ed è per la mia malizia e il poco amore che porto a te, mio desiderato Dio.
Tu, Signore, per grazia sei nato nell'anima mia e mi hai mostrato la via e donato la luce e il lume della verità per giungere a Te, vero paradiso. Nelle tenebre e oscurità del mondo tu mi hai fatta capace di vedere, udire, parlare, camminare, perché veramente io ero cieca, sorda e muta a tutte le cose spirituali; mi hai risuscitata in Te, vera vita che dai vita a ogni cosa vivente.
Ma chi ti ha crocifisso? lo.
Chi ti ha flagellato alla colonna? Io.
Chi ti ha coronato di spine? Io.
Chi ti ha abbeverato di aceto e fiele? Io”.

Rifletteva in tal modo su tutti questi dolorosi misteri piangendo con molte lacrime, secondo la grazia che Dio le dava.
E concludendo diceva:
“Signore mio, sai perché ti dico che io ti ho fatto tutte queste cose? Perché alla tua luce ho visto la luce, cioè [ho capito] che molto più ti afflissero e procurarono dolori i peccati mortali che io ho commesso, di quanto allora non ti affliggessero e procurassero dolori le persone che ti inflissero tutti quegli strazi fisici.
Allora, Dio mio, non è necessario che tu mi fac­cia conoscere il dolore che ti dette l'ingratitudine di tutte le creature, perché, dopo che mi hai fatto la grazia di conoscere almeno in parte la mia ingrati­tudine, posso ora - sempre per la grazia che mi infondi – riflettere quanto ti hanno fatto tutte le creature complessivamente.
In questa riflessione quasi vengo meno per lo stupore che suscitano, o Gesù mio, la tua immensa carità e la pazienza verso di noi, tue creature ingratissime, poiché mai, mai tu smetti di provvedere a tutti i nostri bisogni spirituali, materiali e temporali.
E come non si possono conoscere, Dio mio, le cose innumerevoli che hai compiuto per queste tue ingrate creature in cielo, in terra, nell'acqua, nell'aria, così non riusciremo a comprendere la nostra ingratissima ingratitudine.
Confesso allora e credo che solo tu, Dio mio, puoi conoscere e sapere quanta e quale sia stata la nostra ingratitudine che come freccia avvelenata ti ha trafitto il cuore tante volte quante sono le creature che furono, sono e saranno e ogni volta che ognuna di esse ha esercitato tale ingratitudine.
Riconosco dunque e dichiaro per me e per tutte le creature tale verità: come non passa un istante né ora né giorno né mese che non usiamo appieno i tuoi benefici, così non passa un istante né un'ora né un giorno né un mese senza molte e infinite ingratitudini.
E io credo e riconosco che questa nostra pessima ingratitudine sia stata uno dei più crudeli dolori della tua afflitta anima”.

(Sottoscrizioni finali)

Concludo queste poche parole sui dolori inte­riori di Gesù Cristo a sua lode, venerdì 12 settem­bre dell'anno del Signore 1488. Amen.
Potrei riferire molte altre cose che mi disse quella suora, ad utilità e consolazione dei lettori; ma Dio sa che per prudenza mi trattengo nono­stante l'impulso interiore especialmente perché quell'anima benedetta si trova ancora nel carcere di questa misera vita.
Forse un'altra volta in futuro Dio mi ispirerà di riferire altre sue parole che ora per prudenza tac­cio.


PREGHIERE TRATTE DA “I DOLORI MENTALI DI CRISTO”
DELLA BEATA CAMILLA BATTISTA DA VARANO

La Beata nel corpo dell'opera si esprime con preghiere che possiamo utilizzare facendo nostro quanto lei esprimeva al Signore durante i colloqui e le meditazioni, chiedendole che ci aiuti nella riflessione e nella preghiera.

Preghiera di pentimento e di fiducia
(cap. II dei Dolori Mentali)

Dio mio, molte volte ti ho procurato grandi ed infinite pene, o dannata o salva che io sia.
O Signore, non ho mai saputo che il peccato ti offendesse tanto, credo allora che mai avrei peccato neppure leggermente.
Tuttavia, Dio mio, non tener conto di ciò che dico, perché nonostante questo farei anche peggio se la tua pietosa mano non mi sostenesse.

PREGHIERA DI PENTIMENTO DEI PROPRI PECCATI
(cap. VIII dei Dolori Mentali)

Signore mio benigno, come potrò ringraziarti per ciò che hai sofferto per me che ti ho trattato mille volte peggio di Giuda?
Tu avevi reso lui tuo discepolo, mentre hai elet­to me tua figlia e sposa.
A lui hai perdonato i peccati, a me pure per tua pietà e grazia hai perdonato tutti i peccati come se non li avessi mai fatti.
A lui desti l'incarico di dispensare le cose materiali, a me ingrata hai dispensato tanti doni e grazie del tuo tesoro spirituale.
A lui hai concesso la grazia di fare miracoli, a me hai fatto più che un miracolo conducendomi volontariamente in questo luogo e nella vita con­sacrata.
O Gesù mio, io ti ho venduto e tradito non una volta come lui, ma mille ed infinite volte.
O Dio mio, sai bene che peggio di Giuda io ti ho tradito col bacio quando, anche sotto parvenza di amicizia spirituale, ti ho abbandonato e mi sono accostata ai lacci della morte.
E se tanto ti ha turbato l'ingratitudine di quel popolo eletto, cosa sarà stata ed è per te la mia ingratitudine? Io ti ho trattato peggio di loro, ben­ché abbia ricevuto da te, mio vero bene, molti più benefici di loro.
O Signore mio dolcissimo, io con tutto il cuore ti ringrazio che, come gli ebrei dalla schiavitù egi­ziana, mi hai strappato dalla schiavitù del mondo, dai peccati, dalle mani del crudele faraone qual è il demonio infernale che dominava a suo piacimento l'anima mia poverella.
O mio Dio, condotta a piedi asciutti attraverso l'acqua del mare delle vanità mondane, per tua grazia sono passata alla solitudine del deserto della santa religione claustrale dove molte volte mi hai nutrito con la tua dolcissima manna, ricolma di ogni sapore. Ho infatti sperimentato che tutti i pia­ceri del mondo sono nauseabondi di fronte alla pur minima tua consolazione spirituale.
Ti ringrazio, Signore e Padre mio benigno, che molte volte sul monte Sinai della santa orazione mi hai dato con la tua dolcissima santa Parola la legge scritta con il dito della tua pietà sulle tavole di pietra del mio durissimo cuore ribelle.
Ti ringrazio, Redentore mio benignissimo, per tutte le vittorie che mi hai dato su tutti i miei nemi­ci, i vizi capitali: tutte le volte che ho vinto, da te solo e per te è venuta la mia vittoria, mentre tutte le volte che ho perso e perdo è stato ed è per la mia malizia e il poco amore che porto a te, mio desi­derato Dio.
Tu, Signore, per grazia sei nato nell'anima mia e mi hai mostrato la via e donato la luce e il lume della verità per giungere a Te, vero paradiso. Nelle tenebre e oscurità del mondo tu mi hai fatta capace di vedere, udire, parlare, camminare, perché veramente io ero cieca, sorda e muta a tutte le cose spirituali; mi hai risuscitata in Te, vera vita che dai vita a ogni cosa vivente.
Ma chi ti ha crocifisso? Io.
Chi ti ha flagellato alla colonna? Io.
Chi ti ha coronato di spine? lo.
Chi ti ha abbeverato di aceto e fiele? Io.
Signore mio, sai perché ti dico che io ti ho fatto tutte queste cose? Perché alla tua luce ho visto la luce, cioè [ho capito] che molto più ti afflissero e procurarono dolori i peccati mortali che io ho commesso, di quanto allora non ti affliggessero e procurassero dolori le persone che ti inflissero tutti quegli strazi fisici.
Allora, Dio mio, non è necessario che tu mi faccia conoscere il dolore che ti dette l'ingratitudine di tutte le creature, perché, dopo che mi hai fatto la grazia di conoscere almeno in parte la mia ingratitudine, posso ora - sempre per la grazia che mi infondi – riflettere su quanto ti hanno fatto tutte le creature complessivamente.
In questa riflessione quasi vengo meno per lo stupore che suscitano, o Gesù mio, la tua immensa carità e la pazienza verso di noi, tue creature ingratissime, poiché mai, mai tu smetti di provvedere a tutti i nostri bisogni spirituali, materiali e temporali.
E come non si possono conoscere, Dio mio, le cose innumerevoli che hai compiuto per queste tue ingrate creature in cielo, in terra, nell'acqua, nel­l'aria, così non riusciremo a comprendere la nostra ingratissima ingratitudine.
Confesso allora e credo che solo tu, Dio mio, puoi conoscere e sapere quanta e quale sia stata la nostra ingratitudine che come freccia avvelenata ti ha trafitto il cuore tante volte quante sono le crea­ture che furono, sono e saranno e ogni volta che ognuna di esse ha esercitato tale ingratitudine.
Riconosco dunque e dichiaro per me e per tutte le creature tale verità: come non passa un istante né ora né giorno né mese che non usiamo appieno i tuoi benefici, così non passa un istante né un'ora né un giorno né un mese senza molte e infinite ingratitudine.
E io credo e riconosco che questa nostra pessi­ma ingratitudine sia stata uno dei più crudeli dolo­ri della tua afflitta anima.

PREGHIERA ALLA VERGINE MARIA
(cap. III dei Dolori Mentali)

O Madre di Dio, non ti voglio più appellare Madre di Dio quanto piuttosto Madre di dolore, Madre di pena, Madre di tutte le afflizioni che si possano contare e pensare.
Ebbene, d'ora in poi ti chiamerò sempre Madre di dolore.

PREGHIERA NELLE AFFLIZIONI

Signore Gesù Cristo, che con la meditazione dei tuoi dolori interiori hai attratto a sublimi vette di santità la beata Camilla Battista, sollevaci dalle miserie di questa vita con il tuo infinito amore.
Tu che le hai fatto dono di vedere scritto il suo nome a lettere d'oro nel tuo sacratissimo Cuore, fa che non venga mai meno la certezza che ci ami e che le sofferenze di questa vita sono scala per giungere alla gloria.
Per sua intercessione, donaci prima di tutto di corrispondere alla salvezza che ci hai meritato con la tua passione e la tua morte e, se è tua volontà, donaci la grazia particolare che, ti chiediamo (esporre la grazia richiesta).