giovedì 4 agosto 2011

CAPITOLO 7Caritas non aemulatur. L'anima che ama Gesù Cristo non invidia i grandi del mondo, ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.

CAPITOLO VII

Caritas non aemulatur.
L'anima che ama Gesù Cristo
non invidia i grandi del mondo,
ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.
1. Spiega S. Gregorio quest'altro contrassegno della carità, e dice che la carità non invidia, poichè non sa invidiare a' mondani quelle terrene grandezze ch'ella non desidera, ma disprezza: Non aemulatur, quia per hoc quod in praesenti mundo nihil appetit, invidere terrenis successibus nescit (Mor. l. 10. c. 8). Quindi bisogna distinguere due sorta di emulazioni, una malvagia e l'altra santa. La malvagia è quella che invidia e si rattrista per li beni mondani che gli altri possedono in questa terra. L'emulazione poi santa è quella che non già invidia, ma più tosto compatisce i grandi di questo mondo che vivono tra gli onori e piaceri terreni. Ella non cerca nè desidera altro che Dio, ed altro non pretende in questa vita che di amarlo quanto può; e perciò santamente invidia chi l'ama più di lei, mentr'ella nell'amarlo vorrebbe superare anche i serafini.
2. Questo è quell'unico fine che hanno in terra le anime sante, fine che innamora e ferisce di amore talmente il cuore di Dio che gli fa dire: Vulnerasti cor meum, soror mea sponsa, vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum (Cant. IV, 9). Quell'uno degli occhi significa l'unico fine che ha l'anima sposa in tutti i suoi esercizi e pensieri, di piacere a Dio. Gli uomini del mondo nelle loro azioni guardano le cose con più occhi, cioè con diversi fini disordinati, di piacere agli uomini, di farsi onore, di acquistar ricchezze e, se non di altro, di contentare se stessi; ma i santi non hanno che un occhio, per guardare in tutto ciò che fanno il solo gusto di Dio; e dicono con Davide: Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25 et 26): che altro io voglio, mio Dio, in questo e nell'altro mondo, se non voi solo? Voi solo siete la mia ricchezza, voi l'unico signore del mio cuore. Si godano pure, dicea san Paolino, i ricchi i loro tesori di terra, si godano i re i loro regni, voi, Gesù mio, siete il mio tesoro e 'l regno mio: Habeant sibi divitias suas divites, regna sua reges, Christus mihi gloria et regnum est.
3. Quindi avvertiamo che non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Acciocchè le opere nostre sian buone e perfette è necessario farle col puro fine di piacere a Dio. Questa fu la degna lode che fu data a Gesù Cristo: Bene omnia fecit (Marc. VII, 37). Molte azioni saranno in sè lodevoli, ma perchè saran fatte per altro fine che della divina gloria, poco o niente varranno appresso Dio. Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi: «Iddio rimunera le nostre opere a peso di purità». Viene a dire che secondo è pura la nostra intenzione, così il Signore gradisce e premia le nostre azioni. Ma oh Dio, e quanto è difficile a trovare un'azione fatta solo per Dio! Io mi ricordo d'un santo religioso vecchio che molto avea faticato per Dio e morì in concetto di santità; ora costui un giorno, dando un'occhiata alla sua vita, tutto mesto ed atterrito mi disse: «Oimè, che guardando tutte le opere di mia vita, non ne trovo una fatta solo per Dio». Maledetto amor proprio che ci fa perdere o tutto o la maggior parte del frutto delle nostre buone azioni. Quanti nei loro impieghi più santi di predicatori, confessori, missionari, faticano, stentano, e poco o niente guadagnano, perchè non guardano Dio solo, ma la gloria mondana o l'interesse o la vanità di comparire o almeno la propria inclinazione!
4. Dice il Signore: Attendete a non fare il bene per essere veduti dagli uomini, altrimenti non avrete alcun premio dal Padre celeste: Attendite ne iustitiam vestram faciatis coram hominibus, ut videamini ab eis: alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum, qui in caelis est (Matth. VI, 1). Chi fatica per contentare il suo genio, già riceve il suo premio: Amen dico vobis, receperunt mercedem suam (Ibid. 5). Mercede però che si riduce ad un poco di fumo o ad una effimera soddisfazione che presto passa, e niente profitto ne resta all'anima. Dice il profeta Aggeo che chi fatica per altro che per piacere a Dio, ripone le sue mercedi in un sacco rotto che quando va ad aprirlo niente più vi ritrova: Et qui mercedes congregavit misit eas in sacculum pertusum (Agg. I, 6). E da ciò poi nasce che costoro, se dopo le loro fatiche non ottengono l'intento di qualche cosa che imprendono, molto s'inquietano. Questo è il segno che non hanno avuto per fine la sola gloria di Dio: chi fa un'opera per la sola gloria di Dio, ancorchè poi quella non riesca, niente si turba: mentre egli già ha ottenuto il suo fine di dar gusto a Dio, avendo operato con retta intenzione.
5. Ecco i segni per vedere se uno che s'impiega in qualche affare spirituale opera solo per Dio. 1º Se non si disturba allorchè non ottiene l'intento, perchè non volendolo Dio neppur egli lo vuole. 2º Se gode egualmente del bene che han fatto gli altri, come se esso l'avesse fatto. 3º Se non desidera più un impiego che un altro, ma gradisce quello che vuole l'ubbidienza de' superiori. 4º Se dopo le sue operazioni non cerca dagli altri nè ringraziamenti nè approvazioni: e perciò se mai dagli altri ne vien mormorato o disapprovato, non si affligge, contentandosi solamente di aver contentato Dio. E se mai ne riceve qualche lode dal mondo, non se ne invanisce, ma risponde alla vanagloria che gli si presenta innanzi per esser accettata, ciò che le rispondea il Ven. Giovanni d'Avila: «Va via, sei arrivata tardi, perchè l'opera già me la trovo data tutta a Dio».
6. Questo è l'entrare nel gaudio del Signore, cioè godere del godimento di Dio, come sta promesso ai servi fedeli: Euge, serve bone et fidelis quia super pauca fuisti fidelis... intra in gaudium domini tui (Matth. XXV, 23). Ma se noi arriviamo ad aver la sorte di fare qualche cosa che piace a Dio, dice il Grisostomo, che altro andiamo cercando? Si dignus fueris agere aliquid quod Deo placet, aliam praeter id mercedem requiris? (Chrys. L. 2. de Compunct. cord.). Questa è la maggior mercede, la maggior fortuna a cui può giungere una creatura, il dar gusto al suo Creatore.
7. E ciò è quello che pretende Gesù Cristo da un'anima che l'ama: Pone me, le dice, ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum(Cant. VIII, 6). Vuole che lo metta come segno sopra il suo cuore e sopra il suo braccio: sopra il suo cuore, acciocchè quanto ella medita di fare, intenda di farlo sol per amore di Dio; sopra il suo braccio, acciocchè quanto opera, tutto lo faccia per dar gusto a Dio; sicchè Dio sia sempre l'unico scopo di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue azioni. Dicea S. Teresa che chi vuol farsi santo bisogna che viva senza altro desiderio che di dar gusto a Dio. E la sua prima figlia, la Ven. Beatrice dell'Incarnazione, dicea: «Non v'è prezzo con cui possa pagarsi qualunque cosa, benchè minima, fatta per Dio». E con ragione, perchè tutte le cose fatte per piacere a Dio sono atti di carità che ci uniscono a Dio e ci acquistano beni eterni.
8. Dicesi che la purità d'intenzione è l'alchimia celeste per la quale il ferro diventa oro, cioè le azioni più triviali, come il lavorare, il cibarsi, il ricrearsi, il riposare, fatte per Dio, diventano oro di santo amore. Quindi credea per certo S. Maria Maddalena de' Pazzi che quei che fanno con pura intenzione tutto quel che fanno, vadano diritto in paradiso senza entrar nel purgatorio. Si narra nell'Erario Spirit. (to. 4. cap. 4) che un santo solitario prima di fare qualunque azione solea fermarsi per un poco ed alzare gli occhi al cielo. Richiesto perchè ciò facesse, rispose: «Procuro di accertare il colpo». E volea dire che siccome il sagittario prima di scoccar la saetta prende la mira per indovinare il tiro, così egli prima di metter mano a qualunque azione prendea di mira Iddio, acciocchè quell'opera riuscisse di suo piacere. Così dobbiamo fare ancor noi; anzi nel proseguire l'opera incominciata è bene che rinnoviamo da quando in quando l'intenzione di dar gusto a Dio.
9. Quei che ne' loro affari non guardano altro che il volere divino godono quella santa libertà di spirito che hanno i figli di Dio, la quale fa che abbraccino ogni cosa che piace a Gesù Cristo, non ostante qualunque ripugnanza dell'amor proprio o del rispetto umano. L'amore a Gesù Cristo mette i suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto ad essi è eguale, il dolce e l'amaro: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono di quel che piace a Dio. Colla stessa pace s'impiegano nelle cose grandi e nelle picciole, nelle cose grate e nelle dispiacevoli: basta loro che piacciano a Dio.
10. Molti all'incontro voglion servire a Dio, ma in quell'impiego, in quel luogo, con quei compagni, con quelle circostanze, altrimenti o lasciano l'opera o la fanno di mala voglia. Questi non hanno la libertà di spirito, ma sono schiavi dell'amor proprio, e perciò poco meritano anche in ciò che fanno; e vivono inquieti, mentre riesce loro grave il giogo di Gesù Cristo. I veri amanti di Gesù Cristo amano di fare solo quel che piace a Gesù Cristo, e perchè piace a Gesù Cristo; quando vuole, dove vuole e nel modo che vuole Gesù Cristo; ed o che voglia Gesù Cristo impiegarli in una vita onorata dal mondo, o in una vita oscura e negletta. Ciò importa l'amar Gesù Cristo con puro amore; ed in ciò noi dobbiamo affaticarci, combattendo contra gli appetiti dell'amor proprio che vorrebbe vederci occupati in opere grandi di onore e di nostra inclinazione.
11. E bisogna che siamo distaccati da tutti gli esercizi anche spirituali, quando il Signore ci vuole impiegati in altre opere di suo gusto. Un giorno il P. Alvarez, trovandosi molto occupato, desiderava sbrigarsene per andare a fare orazione, poichè gli parea che in quel tempo egli non era con Dio; ma il Signore allora gli disse: «Quantunque io non ti tenga meco, ti basti che io mi serva di te». Ciò vale per quelle persone che talvolta s'inquietano per vedersi obbligate dall'ubbidienza o dalla carità a lasciare le loro solite divozioni: sappiano che tal inquietudine allora certamente non viene da Dio, ma viene o dal demonio o dal loro amor proprio. Diasi gusto a Dio, e si muoia. Questa è la prima massima de' santi.
Affetti e preghiere.
Eterno mio Dio, io vi offerisco tutto il mio cuore; ma oh Dio, e qual cuore vi offerisco? Cuore bensì creato per amarvi, ma che, in vece d'amarvi, tante volte si è ribellato da voi. Ma guardate, Gesù mio, che se un tempo questo mio cuore vi è stato ribelle, ora sta tutto addolorato e pentito de' disgusti che vi ha dati. Sì, mio caro Redentore, mi pento di avervi disprezzato, e sto risoluto di volervi ubbidire ed amare ad ogni costo. Deh tiratemi tutto al vostro amore; fatelo per quell'amore che mi portaste morendo in croce per me.
V'amo, Gesù mio, v'amo con tutta l'anima, v'amo più di me stesso, o vero, o unico amante dell'anima mia, mentre non trovo altri che voi che per amor mio avete sacrificata la vita.
Mi fa piangere il vedere l'ingratitudine che vi ho usata. Povero me, io già mi era perduto, ma spero che voi colla grazia vostra mi abbiate restituita la vita. Questa sarà la mia vita, l'amarvi sempre, sommo mio bene.
Fate ch'io v'ami, o amore infinito, e niente più vi dimando.
O Maria, madre mia, accettatemi per vostro servo, e fatemi accettare da Gesù vostro figlio.

CAPITOLO 6 Caritas benigna est. Chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza.

CAPITOLO VI

Caritas benigna est.
Chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza.
1. Lo spirito di dolcezza è proprio di Dio: Spiritus enim meus super mel dulcis (Eccli. XXIV, 27). Quindi l'anima amante di Dio ama tutti coloro che sono amati da Dio, quali sono i nostri prossimi; onde volentieri va sempre cercando di soccorrer tutti, consolar tutti, e tutti contentar, per quanto l'è permesso. Dice S. Francesco di Sales che fu il maestro e l'esempio della santa dolcezza: «L'umile dolcezza è la virtù delle virtù che Dio tanto ci ha raccomandata; perciò bisogna praticarla sempre e da per tutto». Onde il santo ci dà poi questa regola: «Ciò che vedrete potersi far con amore, fatelo; e ciò che non può farsi senza contrasto, lasciatelo». S'intende sempre che può lasciarsi senza offesa di Dio, perchè l'offesa di Dio dee impedirsi sempre e subito che si può, da chi è tenuto ad impedirla.
2. Questa dolcezza dee specialmente praticarsi co' poveri, i quali ordinariamente, perchè son poveri, son trattati aspramente dagli uomini. Dee usarsi particolarmente ancora cogli infermi i quali si trovano afflitti dall'infermità, e per lo più sono poco assistiti dagli altri. Più particolarmente poi dee usarsi la dolcezza coi nemici. Vince in bono malum (Rom. XII, 21). Bisogna vincer l'odio coll'amore, e la persecuzione colla dolcezza; così han fatto i santi, e si han conciliato l'affetto de' loro più ostinati nemici.
3. «Non vi è cosa, dice S. Francesco di Sales, che tanto edifichi i prossimi, quanto la caritatevole benignità nel trattare». Il santo perciò ordinariamente facea vedersi colla bocca a riso e colla faccia che spirava benignità, accompagnata dalle parole e dai gesti. Onde dicea S. Vincenzo de' Paoli non aver egli conosciuto uomo più benigno. Dicea di più sembrargli che monsignor di Sales avesse l'immagine espressa della benignità di Gesù Cristo. Egli anche nel negare quel che non potea concedere senza offesa della coscienza, si dimostrava talmente benigno, che gli altri, benchè non avessero l'intento, ne partivano affezionati e contenti. Era egli benigno con tutti, co' superiori, co' suoi eguali e cogl'inferiori, in casa e fuor di casa. A differenza di coloro, come lo stesso santo dicea, che sembrano angeli fuori di casa e demoni in casa. Anche trattando co' servi, il santo non si lagnava mai de' loro mancamenti; appena qualche volta gli avvertiva, ma sempre con parole benigne. Cosa molto lodevole a tutti i superiori. Il superiore dee usare tutta la benignità co' suoi sudditi. Nell'imponere ciò che quelli hanno da eseguire, dee più presto pregare che comandare. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «Non v'è modo a' superiori di esser meglio ubbiditi da' sudditi, che la dolcezza». E parimente S. Giovanna di Chantal dicea: «Ho sperimentato più modi nel governo, ma non ho trovato migliore che il dolce e sofferente».
4. Anche nel riprendere i difetti, il superiore dee essere benigno. Altro è il riprendere con fortezza, altro il riprendere con asprezza; bisogna talvolta riprendere con fortezza, quando il difetto è grave, e specialmente quando è replicato, dopo che il suddito n'è stato già ammonito; ma guardiamoci di riprender mai con asprezza ed ira; chi riprende con ira fa più danno che profitto. Questo è quel zelo amaro riprovato da S. Giacomo. Taluni si vantano di tener la famiglia a registro col modo aspro che usano, e dicono che così bisogna governare; ma non dice così S. Giacomo: Quod si zelum amarum habetis,... nolite gloriari (Iac. III, 14). Se mai in qualche caso raro bisognasse dire qualche parola aspra per indurre il difettoso ad apprender la gravezza del suo difetto, sempre non però all'ultimo bisogna lasciarlo colla bocca dolce, con qualche parola benigna. Bisogna sanar le ferite, come fece il Samaritano del Vangelo, col vino e coll'olio. «Ma siccome l'olio, dicea S. Francesco di Sales, va sempre di sopra tutti i liquori, così bisogna che in tutte le nostre azioni vada sopra la benignità». E quando avviene che la persona la quale dee esser corretta sta disturbata, bisogna allora trattener la riprensione ed aspettare che cessi la sua collera, altrimenti più la provocheremo a sdegnarsi. Dicea S. Giovanni canonico regolare: «Quando la casa arde non bisogna aggiunger legna al fuoco».
5. Nescitis cuius spiritus estis (Luc. IX, 55). Così disse Gesù Cristo a' suoi discepoli Giacomo e Giovanni, allorchè essi voleano che fossero corretti con castighi i Samaritani, i quali gli aveano discacciati dal lor paese. Ah, disse loro il Signore, e quale spirito è questo? Questo non è lo spirito mio, il quale è tutto dolce e benigno; giacchè io non son venuto a perdere, ma a salvare le anime: Filius hominis non venit animas perdere sed salvare (Ibid. 56). E voi volete indurmi a perderle? Tacete, e non mi fate più simili domande, perchè non è questo lo spirito mio. — Ed in fatti con quanta dolcezza Gesù Cristo trattò l'adultera! Mulier, le disse, nemo te condemnavit? nec ego te condemnabo: Vade, et iam amplius noli peccare (Io. VIII, 10 et 11). Si contentò di solo ammonirla a non più peccare, e la mandò in pace. Con quanta benignità parimente cercò di convertire la Samaritana, e così già la convertì. Prima le domandò da bere; dipoi le disse: Oh sapessi tu chi è colui che ti cerca da bere! Indi le rivelò ch'egli era il Messia aspettato. In oltre con quanta dolcezza procurò di convertire l'empio Giuda, ammettendolo a mangiare nello stesso suo piatto, lavandogli i piedi, ed avvertendolo nell'atto stesso del suo tradimento: Giuda, così con un bacio mi tradisci? Iuda, osculo Filium hominis tradis? (Luc. XXII, 48). Come poi convertì Pietro, dopo che Pietro l'avea rinnegato? Eccolo: Conversus Dominus respexit Petrum (Ibid. 61). In uscir dalla casa del pontefice, senza rimproverargli il suo peccato, lo mirò con un tenero sguardo, e così lo convertì; e lo convertì in modo, che Pietro finchè visse non lasciò mai di piangere l'ingiuria fatta al suo maestro.
6. Oh quanto si guadagna più colla dolcezza che coll'amarezza! Dicea S. Francesco di Sales che non v'è cosa più amara della noce; ma se quella si confetta, diventa dolce ed amabile: così le correzioni, benchè sono in sè dispiacenti, nondimeno quando si fanno con amore e dolcezza, diventano gradevoli, e così riescono di maggior profitto. Narrava di sè S. Vincenzo de' Paoli che nel governo tenuto nella sua congregazione non aveva mai corretto alcuno con asprezza, se non tre volte credendo aver avuto ragione di farlo, ma che poi sempre se n'era pentito, perchè sempre gli era riuscito male; dove il correggere con dolcezza sempre gli era riuscito bene.
7. S. Francesco di Sales colla sua benignità ottenea dagli altri quanto voleva; e così gli riusciva di tirar a Dio anche i peccatori più ostinati. Lo stesso praticava S. Vincenzo de' Paoli, il quale insegnava a' suoi questa massima: «L'affabilità, dicea, l'amore e l'umiltà mirabilmente si guadagnano i cuori degli uomini, e gl'inducono ad abbracciare le cose più ripugnanti alla natura». Una volta egli consegnò ad un padre de' suoi un gran peccatore, affinchè l'avesse ridotto a penitenza; ma quel padre, per quanto avesse faticato, niente profittò; onde pregò il santo a dirgli esso qualche cosa. Allora gli parlò il santo e lo convertì. Quel peccatore disse poi che la singolar dolcezza e carità del P. Vincenzo gli aveano guadagnato il cuore. Quindi il santo non potea soffrire che i suoi missionari trattassero i penitenti con asprezza, e dicea loro che lo spirito infernale si serve del rigore di alcuni per maggiormente rovinare le anime.
8. Bisogna praticar la benignità con tutti, ed in ogni occasione, ed in ogni tempo. Avverte S. Bernardo che taluni sono mansueti finchè le cose avvengono a loro genio, ma appena poi che son toccati con qualche avversità o contraddizione, subito si accendono, e cominciano a fumare come il monte Vesuvio. Costoro posson dirsi carboni ardenti, ma nascosti sotto la cenere. Chi vuol farsi santo bisogna che in questa vita sia come un giglio tra le spine, che per quanto venga da quelle punto non lascia di esser giglio, cioè sempre egualmente soave e benigno. L'anima amante di Dio conserva sempre la pace nel cuore, e la dimostra anche nel volto, comparendo sempre eguale a se stessa negli eventi, così prosperi come avversi, siccome cantò il cardinal Petrucci:
Mira cangiarsi in variate forme
Fuori di sè le creature, e dentro
Il suo più cupo centro
Sempre unita al suo Dio vive uniforme.
9. Nelle cose avverse si conosce lo spirito di una persona. S. Francesco di Sales amava con tenerezza l'ordine della Visitazione che gli costava tante fatiche. Più volte egli lo vide in pericolo di perdersi per le persecuzioni che pativa, ma il santo non perdè mai la sua pace, sempre contento di vederlo anche distrutto, se così piaceva a Dio; ed allora fu che disse: «Da qualche tempo in qua le tante opposizioni e contraddizioni che mi sono venute mi recano una pace sì dolce che non ha pari, e mi presagiscono il prossimo stabilimento dell'anima mia in Dio ch'è l'unico mio desiderio».
10. Quando ci occorre di dover risponder a chi ci maltratta, stiamo attenti a rispondere sempre con dolcezza: Responsio mollis frangit iram (Prov. XV, 1): una risposta dolce basta a spegnere ogni fuoco di collera. E quando ci sentiamo sturbati, allora meglio è tacere, perchè allora ci sembra giusto di dir quel che ci viene in bocca; ma sedata poi la passione, vedremo che tutte le parole da noi proferite sono state difetti.
11. E quando accade che noi stessi commettiamo qualche difetto, bisogna che ancora con noi medesimi usiamo la dolcezza: l'adirarci con noi dopo il difetto commesso non è umiltà, ma è fina superbia, come se noi non fossimo quei deboli e miserabili che siamo. Dicea S. Teresa: «Umiltà che inquieta non viene mai da Dio, ma dal demonio». L'adirarci con noi stessi dopo il difetto è un difetto più grande del difetto fatto, il quale porterà seco la conseguenza di molti altri difetti: ci farà lasciare le nostre divozioni, l'orazione, la comunione; e se le faremo riusciranno poco ben fatte. Dicea S. Luigi Gonzaga che nell'acqua torbida più non si vede, ed ivi pesca il demonio. Quando l'anima sta disturbata poco conosce Dio e quel che dee fare. Bisogna dunque, allorchè cadiamo in qualche difetto, voltarsi a Dio con umiltà e confidenza, e, cercandogli perdono, dirgli come dicea S. Caterina di Genova: «Signore, queste sono l'erbe dell'orto mio». V'amo, con tutto il cuore, e mi pento di avervi dato questo disgusto. Non voglio farlo più, datemi il vostro aiuto.
Affetti e preghiere.
O beate catene che legate le anime con Dio, deh stringete me ancora, e stringetemi tanto che io non possa più sciogliermi dall'amore del mio Dio!Gesù mio, io vi amo; v'amo, o tesoro, o vita dell'anima mia; a voi mi stringo e vi dono tutto me stesso. No, che non voglio, amato mio Signore, lasciarvi più d'amare. Voi che per pagare i miei peccati avete sofferto d'esser legato qual reo, e così legato essere condotto per le vie di Gerusalemme alla morte, voi che voleste essere inchiodato alla croce, e non la lasciaste se non dopo avervi lasciata la vita, deh, per lo merito di tante pene, non permettete ch'io mai abbia a separarmi da voi!
Mi pento più d'ogni male di avervi un tempo voltate le spalle, e propongo colla grazia vostra di prima morire che darvi più disgusto nè grave nè leggiero.
O Gesù mio, in voi mi abbandono. Io v'amo con tutto il cuore, v'amo più di me stesso. Vi ho offeso per lo passato, ma ora me ne pento, e vorrei morirne di dolore. Deh tiratemi tutto a voi. Io rinunzio a tutte le consolazioni sensibili, voi solo voglio e niente più. Fate ch'io v'ami e poi fate di me quel che vi piace.
O Maria, speranza mia, ligatemi a Gesù; e fate ch'io sempre viva a lui ligato, e ligato muoia per venire un giorno al beato regno, dove non avrò più timore di vedermi sciolto del suo santo amore.

CAPITOLO 5 Caritas patiens est. L'anima che ama Gesù Cristo ama il patire.

CAPITOLO V

Caritas patiens est.
L'anima che ama Gesù Cristo ama il patire.
1. Questa terra è luogo di meriti, e perciò è luogo di patimenti. La patria nostra, ove Dio ci ha preparato il riposo in un gaudio eterno, è il paradiso. In questo mondo poco tempo abbiamo da starvi; ma in questo poco tempo molti sono i travagli che abbiamo da soffrire. Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis (Iob. XIV, 1). Si ha da patire, e tutti han da patire: siano giusti, siano peccatori, ognuno ha da portar la sua croce. Chi la porta con pazienza si salva, chi la porta con impazienza si perde. Le stesse miserie, dice S. Agostino, mandano altri al paradiso, altri all'inferno: Una eademque tunsio bonos perducit ad gloriam, malos reducit in favillam. Colla pruova del patire, dice lo stesso santo, si distingue la paglia dal grano nella chiesa di Dio: chi nelle tribolazioni si umilia e si rassegna al divino volere è grano per lo paradiso; chi s'insuperbisce e si adira, e perciò lascia Dio, è paglia per l'inferno.
2. Nel giorno in cui avrà da giudicarsi la causa della nostra salute, per aver la sentenza felice de' predestinati, la nostra vita dovrà trovarsi uniforme alla vita di Gesù Cristo: Nam quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui (Rom. VIII, 29). Questo fu il fine per cui l'Eterno Verbo discese in terra, per insegnarci col suo esempio a portare con pazienza le croci che Dio ci manda: Christus passus est pro vobis, scrisse S. Pietro, vobis relinquens exemplum ut sequamini vestigia eius (I Petr. II, 21). Sicchè Gesù Cristo volle patire per animarci a patire. — Oh Dio! qual fu la vita di Gesù Cristo? Vita d'ignominie e di pene. Il Profeta chiamò il nostro Redentore: Despectum, novissimum virorum, virum dolorum (Is. LIII, 3): l'uomo disprezzato e trattato come l'ultimo, il più vile di tutti gli uomini, l'uomo de' dolori; sì, perchè la vita di Gesù Cristo fu tutta piena di travagli e di dolori.
3. Or siccome Iddio ha trattato il suo Figlio diletto, così tratta ancora ognuno che ama e riceve per suo figlio: Quem enim diligit Dominus castigat; flagellat autem omnem filium quem recipit (Hebr. XII, 6). Onde disse un giorno a S. Teresa: «Sappi che le anime più care al mio Padre sono quelle che sono afflitte da patimenti più grandi». Quindi la santa, quando vedeasi travagliata, dicea che non avrebbe cambiati i suoi travagli con tutti i tesori del mondo. Comparve ella dopo morte ad un'anima, e le rivelò che godeva un gran premio in cielo, non tanto per le sue opere buone, quanto per le pene sofferte in vita volentieri per amor di Dio; e che se per alcuna causa avesse desiderato di tornare al mondo, l'unica sarebbe stata per poter patire qualche altra cosa per Dio.
4. Chi ama Dio patendo fa doppio guadagno per lo paradiso. Dicea S. Vincenzo de' Paoli che in questa vita il non patire dee riputarsi per una gran disgrazia. E soggiungeva che una congregazione o persona che non patisce, ed a cui tutto il mondo applaudisce, è vicina alla caduta. Perciò S. Francesco d'Assisi in quel giorno che passava senza patire qualche croce per Dio, temeva che Dio si fosse quasi scordato di lui. — Scrive S. Giovanni Grisostomo che quando il Signore dona ad alcuno la grazia di patire, gli fa maggior grazia che se gli donasse la podestà di risuscitare i morti, perchè nel far miracoli l'uomo resta debitore a Dio, ma nel patire Dio si rende debitore all'uomo. E soggiungea che chi patisce qualche cosa per Dio, se non avesse altro dono che il poter soffrire per Dio che ama, questa sarebbe per lui una gran mercede. Pertanto dicea ch'egli stimava più la grazia di Paolo in esser incatenato per Gesù Cristo che in esser rapito al terzo cielo.
5. Patientia autem opus perfectum habet (Iac. I, 4). Ciò vuol dire che non vi è cosa che più gradisca a Dio, quanto il vedere un'anima che con pazienza e pace soffre tutte le croci ch'egli le manda. Ciò fa l'amore, rende l'amante simile all'amato. Dicea S. Francesco di Sales: «Tutte le piaghe del Redentore son tante bocche le quali c'insegnano come bisogna per lui patire. Questa è la scienza de' santi, soffrire costantemente per Gesù; e così diverremo presto santi». Chi ama Gesù Cristo desidera vedersi trattato come fu Gesù Cristo, povero, straziato e disprezzato. — Da S. Giovanni furono veduti tutti i santi vestiti di bianco e colle palme in mano: Amicti stolis albis et palmae in manibus eorum (Ap. VII, 9). La palma è l'insegna de' martiri, ma non tutti i santi hanno avuto il martirio; come tutti i santi portano le palme in mano? Risponde S. Gregorio che tutti i santi sono stati martiri o di ferro o di pazienza; e così poi soggiunge: Nos sine ferro martyres esse possumus, si patientiam custodimus.
6. Qui sta il merito di un'anima che ama Gesù Cristo, nell'amare e patire. Ecco quel che disse il Signore a S. Teresa: «Pensi tu, figlia mia, che 'l merito consiste nel godere? no, consiste in patire ed amare. Mira la vita mia tutta piena di pene. Credi, figlia, che chi è più amato da mio Padre maggiori travagli da lui riceve, ed a ciò corrisponde l'amore. Mira queste piaghe, chè non giungeranno mai a tanto i tuoi dolori. Il pensare che mio Padre ammette alla sua amicizia gente senza travaglio, è sproposito». Ed aggiunge S. Teresa per nostra consolazione: «Iddio non manda mai un travaglio che non lo paghi subito con qualche favore».
Apparve un giorno Gesù Cristo alla B. Battista Varani, e le disse che tre sono i maggiori benefici ch'egli fa all'anime sue dilette: il primo, di non peccare: il secondo, ch'è maggiore, di far opere buone: il terzo, ch'è il massimo, di patire per suo amore. Onde dicea S. Teresa che quando alcuno fa per Dio qualche bene, il Signore ce lo rende con qualche travaglio. E perciò i santi nel ricevere i travagli ne rendeano le grazie a Dio. S. Luigi re di Francia, parlando della schiavitù da lui sofferta in Turchia, disse: «Io godo, e ringrazio Dio più della pazienza che mi concesse nel tempo della mia prigionia, che se avessi acquistata tutta la terra». E S. Lisabetta principessa di Turingia, quando, morto il marito, fu discacciata dallo stato insieme col figlio, e si vide raminga e abbandonata da tutti, andò ad un convento di Francescani, ed ivi fe' cantare il Te Deum in ringraziamento a Dio, perchè così la favoriva con farla patire per di lui amore.
7. Diceva S. Giuseppe Calasanzio: «Per guadagnare il paradiso ogni fatica è poca». E prima lo disse l'Apostolo: Non sunt condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis (Rom. VIII, 18). Sarebbe un gran guadagno il patire tutte le pene che han patite i santi martiri, in tutta la nostra vita, per godere un sol momento di paradiso; or quanto più noi dobbiamo abbracciar le nostre croci, sapendo che 'l patire della nostra breve vita ci farà acquistare una beatitudine eterna? Momentaneum et leve tribulationis nostrae... aeternum gloriae pondus operatur in nobis (II Cor. IV, 17). — S. Agapito, giovinetto di pochi anni, quando fu minacciato dal tiranno di fargli bruciar la testa con un elmo infocato, rispose: «E che maggior fortuna posso aver io, che perder la mia testa per vederla poi coronata in paradiso?» Ciò facea dire a S. Francesco: «Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto». Ma chi vuol la corona del paradiso bisogna che combatta e soffra: Si sustinebimus, et conregnabimus (II Tim. II, 12). Non si può aver premio senza merito, nè merito senza pazienza. Non coronatur, nisi qui legitime certaverit (Ibid. 5). E chi combatte con maggior pazienza, avrà maggior corona — Gran cosa! quando si tratta de' beni temporali di questa terra, i mondani procurano di acquistarne quanto più si può; quando si tratta poi de' beni eterni, dicono: «Basta che abbiamo un cantone in paradiso!» Non dicono così i santi. Essi in questa vita si contentano di ogni cosa, anzi si spoglian di questi beni terreni; ma parlando de' beni eterni procurano guadagnarne quanto più possono. Dimando: Chi di costoro opera più da savio e da prudente?
8. Ma parlando anche di questa vita, è certo che chi patisce con più pazienza gode più pace. Dicea S. Filippo Neri che in questo mondo non vi è purgatorio: o vi è paradiso o inferno: chi sopporta le tribolazioni con pazienza gode il paradiso: chi no, patisce l'inferno. Si, perchè, come scrive S. Teresa, chi abbraccia le croci che Dio gli manda non le sente. — S. Francesco di Sales, ritrovandosi in un certo tempo cinto da molte tribulazioni, disse: «Da qualche tempo in qua le tante opposizioni e segrete contraddizioni che mi sono avvenute mi recano una pace sì dolce che non ha pari: e mi presagiscono il prossimo stabilimento dell'anima mia nel suo Dio, che con tutta verità è l'unica ambizione e l'unico desiderio del mio cuore». — Eh che la pace non può trovarsi da chi fa una vita sconcertata, ma solo da chi vive unito con Dio e colla sua santa volontà. Un certo religioso missionario, ritrovandosi nell'Indie a vedere un condannato che stava già sul palco per essere giustiziato, fu chiamato da quell'uomo che gli disse: «Sappiate, Padre, ch'io sono stato nella vostra religione; quando io osservai le regole, vissi una vita sempre contenta; ma quando poi cominciai a rilasciarmi, subito cominciai a sentir pena in ogni cosa; tanto che lasciai la religione, e mi abbandonai a' vizi, i quali finalmente mi han ridotto a questo termine infelice in cui mi vedete». E finì dicendo: «Vi ho detto questo, affinchè il mio esempio possa giovare ad altri». Dicea il Ven. P. Luigi da Ponte: «Piglia le cose dolci di questa vita per amare e le amare per dolci, e così goderai sempre pace». Sì, perchè le dolci, benchè piacciono al senso, lasciano nonperò sempre l'amaro del rimorso di coscienza per la compiacenza difettosa che per lo più in quelle abbiamo; ma le amare, prese con pazienza dalla mano di Dio, diventano dolci e care alle anime che l'amano.
9. Persuadiamoci che in questa valle di lagrime non può aversi vera pace di cuore, se non da chi tollera ed abbraccia con amore i patimenti per dar gusto a Dio: così porta lo stato di corruzione, dalla quale siamo rimasti tutti infettati per lo peccato. Lo stato dei santi in terra è di patire amando: lo stato de' santi in cielo è di godere amando. Scrisse una volta il P. Paolo Segneri juniore ad una sua penitente, per animarla a patire, che tenesse scritte a' piedi del Crocifisso queste parole: Così si ama. Non il patire, ma il voler patire per amor di Gesù Cristo è il segno più certo per vedere se un'anima l'ama. «E qual maggior acquisto, dicea S. Teresa, può aversi, che in aver qualche testimonianza che diamo gusto a Dio?» Oimè che la maggior parte degli uomini si sgomentano al solo nome di croce, di umiliazione e di pena! Ma non mancano tante anime amanti che trovano tutto il lor contento nel patire, e sarebbero quasi inconsolabili se vivessero quaggiù senza patire. «Il mirar Gesù crocifisso, dicea una persona santa, mi rende così amabile la croce, che parmi non potere essere felice senza patire; l'amore di Gesù Cristo mi basta per tutto». Ecco quello che Gesù consiglia a chi vuole seguitarlo, il prendere e portar la sua croce: Tollat crucem suam... et sequatur me (Luc. IX, 23). Ma bisogna prenderla e portarla non a forza e con ripugnanza, ma con umiltà, pazienza ed amore.
10. O che gusto dà a Dio chi con umiltà e pazienza abbraccia le croci che Dio gli manda! Dicea S. Ignazio di Loyola: «Non vi è legno più atto a produrre e conservare l'amore verso Dio, che il legno della santa croce», cioè l'amarlo in mezzo a' patimenti. Un giorno S. Gertrude dimandò al Signore che cosa potea ella offerirgli di suo maggior gusto; ed egli le rispose: «Figlia, tu non puoi farmi cosa più grata che soffrir con pazienza tutte le tribulazioni che ti si presentano». Quindi diceva la gran serva di Dio Suor Vittoria Angelini, che vale più una giornata crocifissa che cento anni di tutti gli altri esercizi spirituali. E 'l Venerabile P. Giovanni d'Avila dicea: «Vale più un Benedetto sia Dio nelle cose contrarie, che mille ringraziamenti nelle cose prospere». Oimè che non è conosciuto dagli uomini il valore de' patimenti sofferti per Dio! Dicea la B. Angela da Foligno che il patire per Dio, se noi lo conoscessimo, «sarebbe oggetto di rapina»: viene a dire che ognuno anderebbe in cerca di rapire agli altri le occasioni di patire. Perciò S. Maria Maddalena de' Pazzi, conoscendo la preziosità del patire, desiderava che si prolungasse la sua vita più tosto che morire e andare in cielo; perchè, diceva, «in cielo non si può patire».
11. L'intento di un'anima che ama Dio non è che di unirsi tutta con Dio; ma per giungere a questa perfetta unione, udiamo quel che dicea S. Caterina da Genova: «Per arrivare all'unione di Dio son necessarie le avversità; perchè Dio attende per mezzo di quelle a consumar tutt'i nostri pravi movimenti di dentro e di fuori. E però tutte le ingiurie, disprezzi, infermità, abbandonamenti de' parenti e d'amici, confusioni, tentazioni ed altre cose contrarie, tutte ci sono sommamente di bisogno, affinchè combattiamo, finchè per via di vittorie vengano ad estinguersi in noi tutt'i malvagi movimenti, sicchè più non li sentiamo; e finchè più non ci paiano amare, ma soavi per Dio tutte le avversità, non giungeremo mai alla divina unione».
12. Da tutto ciò, un'anima che desidera di esser tutta di Dio dee risolversi, come scrive S. Giovanni della Croce, a cercare in questa vita non di godere, ma di patire in tutte le cose, abbracciando con avidità tutte le mortificazioni volontarie e con maggior avidità ed amore le involontarie, perchè queste sono più care a Dio. Disse Salomone: Melior est patiens viro forti (Prov. XVI, 32). Piace a Dio chi si mortifica con digiuni, cilizi e discipline, per la fortezza che vi esercita in mortificarsi; ma molto più gli piace chi è forte in soffrire con pazienza ed allegrezza le croci che Iddio gli manda. Dicea S. Francesco di Sales: «Le mortificazioni che ci vengono per parte di Dio o degli uomini per sua permissione, sono sempre più preziose di quelle che sono figlie della nostra volontà; essendo regola generale che dove meno vi è di nostra elezione, vi è di maggior gusto di Dio e maggior nostro profitto». Lo stesso avvertimento dava S. Teresa: «Si acquista più in un sol giorno co' travagli che ci vengon da Dio o dal prossimo, che in dieci anni co' patimenti pigliati da noi». Quindi dicea generosamente S. Maria Maddalena de' Pazzi non trovarsi al mondo pena così acerba che ella non avrebbe sofferta con allegrezza, pensando che veniva da Dio; ed in fatti in quei gran travagli che la santa patì nella prova di cinque anni, bastava ricordarle essere volontà di Dio che così patisse, per farla rimettere in pace. Ah che per acquistare un Dio, questo gran tesoro, ogni cosa è poca. Dicea il P. Ippolito Durazzo: «Costi Dio quanto vuol, non fu mai caro».
13. Deh preghiamo il Signore che ci faccia degni del suo santo amore; che se perfettamente l'ameremo, ci sembreranno fumo e loto tutti i beni di questa terra, e ci diverranno delizie le ignominie e i patimenti. Udiamo quel che dice il Grisostomo di un'anima che si è data tutta a Dio: «Giunto ch'è uno al perfetto amore di Dio, diventa come se fosse egli solo sovra la terra. Non cura più nè la gloria nè l'ignominia, disprezza le tentazioni e i patimenti, perde il gusto e l'appetito di tutte le cose. E non trovando appoggio nè riposo in cosa alcuna, va continuamente in cerca dell'amato senza mai stancarsi; in modo che quando lavora, quando mangia, quando veglia, quando dorme, in ogni sua operazione e discorso, tutto il suo pensiero e tutto il suo studio è di trovare l'amato, perchè ivi ha egli il suo cuore, ov'è il suo tesoro».
In questo capo abbiamo parlato della pazienza in generale; nel capo XV tratteremo di più cose particolari nelle quali dobbiamo specialmente esercitare la nostra pazienza.
Affetti e preghiere.
Caro ed amato Gesù mio e mio tesoro, io per le offese che vi ho fatte non meriterei più di potervi amare; ma per li meriti vostri, vi prego, fatemi degno del vostro puro amore. Io v'amo sopra ogni cosa, e mi pento con tutto il cuore di avervi disprezzato un tempo, e discacciato dall'anima mia; ma ora io v'amo più di me stesso, v'amo con tutto il cuore, o bene infinito, io v'amo, io v'amo, io v'amo, ed altro non desidero che di perfettamente amarvi; e d'altro non ho timore, che di vedermi privo del vostro santo amore.
Deh innamorato mio Redentore, fatemi conoscere il gran bene che siete, e l'amore che mi avete portato per obbligarmi ad amarvi.
Ah mio Dio, non permettete ch'io viva più ingrato a tanta vostra bontà. Basta quanto v'ho offeso, io non voglio lasciarvi più; gli anni che mi restano di vita voglio tutti impiegarli in amarvi e darvi gusto. Gesù mio, amor mio, soccorretemi; soccorrete un peccatore che vuole amarvi ed esser tutto vostro.
O Maria, speranza mia, il vostro figlio vi sente, pregatelo per me, ed ottenetemi la grazia di amarlo perfettamente.

CAPITOLO 4 Quanto noi siamo obbligati ad amar Gesù Cristo.

CAPITOLO IV

Quanto noi siamo obbligati
ad amar Gesù Cristo.
1. Gesù Cristo come Dio merita per sè da noi tutto l'amore; ma egli, coll'amore che ci ha dimostrato, ha voluto metterci per così dire in necessità di amarlo almeno per gratitudine di quanto ha fatto e patito per noi. Egli ci ha amati assai per esser assai da noi amato. Ad quid amat Deus, nisi ut ametur?scrisse S. Bernardo. E prima lo disse Mosè: Et nunc, Israel, quid Dominus Deus petit a te, nisi ut timeas Dominum Deum tuum... et diligas eum? (Deut. X, 12). Perciò il primo precetto ch'egli ci diede fu questo: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo (Deut. VI, 5).
2. E dice S. Paolo che l'amore è la pienezza della legge: Plenitudo legis est dilectio (Rom. XIII, 10). Plenitudo, dice il testo greco complexio legis, il compimemto della legge è l'amore. Ma chi mai, a vista d'un Dio crocifisso che muore per amore nostro, potrà resistere a non amarlo? Troppo gridano quelle spine, quei chiodi, quella croce, quelle piaghe e quel sangue, cercando da noi che amiamo chi ci ha tanto amato. È troppo poco un cuore per amar questo Dio così innamorato di noi. Per compensar l'amore di Gesù Cristo, bisognerebbe che un altro Dio morisse per suo amore. «Ah perchè, esclamava S. Francesco di Sales, non ci gettiamo sovra di Gesù crocifisso per morir sulla croce con colui che ha voluto morirvi per amore di noi?» Ben ci fa sapere l'Apostolo che Gesù Cristo a questo fine ha voluto morire per tutti noi, acciocchè tutti non viviamo più a noi, ma solo a quel Dio che per noi è morto: Pro nobis mortuus est Christus, ut et qui vivunt iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est (II Cor. V, 15).
3. Qui fa quello che raccomanda l'Ecclesiastico: Gratiam fideiussoris ne obliviscaris, dedit enim pro te animam suam (Eccli. XXIX, 20). Non ti dimenticare del tuo mallevadore che, per soddisfare i tuoi peccati, ha voluto pagare colla sua morte la pena da te dovuta. — Oh quanto gradisce Gesù Cristo che noi spesso ci ricordiamo della sua Passione! e quanto gli rincresce che noi trascuriamo di pensarci! Se uno patisse per un suo amico ingiurie, percosse e carceri, quanto si affliggerebbe in saper che l'amico niente poi se ne ricorda, e neppure vuol sentirne parlare! All'incontro quanto gradirebbe il saper che l'amico sempre ne parla con tenerezza, e sempre ne lo ringrazia! Così Gesù Cristo molto si compiace che noi ci ricordiamo con riconoscenza d'amore de' suoi dolori e della morte che per noi sofferse.
Gesù Cristo è stato il desiderio di tutti gli antichi padri, egli è stato il desiderio di tutte le genti, quando ancora non era venuto in questa terra. Or quanto più egli dee esser l'unico nostro desiderio ed unico nostro amore, ora che il vediamo già venuto, e sappiamo quanto ha fatto ed ha patito per noi, sino a morir crocifisso per nostro amore?
4. A questo fine egli istituì il sagramento dell'Eucaristia nel giorno antecedente alla sua morte, e ci raccomandò che semprechè ci fossimo cibati delle sue carni sagrosante, ci fossimo ricordati della sua morte: Accipite et manducate: hoc est corpus meum...: hoc facite in meam commemorationem etc. Quotiescumque enim manducabitis panem hunc... mortem Domini annuntiabitis (I Cor. XI, 24 et 26). Quindi poi la S. Chiesa prega: Deus qui nobis sub Sacramento mirabili Passionis tuae memoriam reliquisti etc. Ed inoltre canta: O sacrum convivium, in quo Christus sumitur, recolitur memoria Passionis eius etc. Da ciò argomentiamo quanto gradisce Gesù Cristo coloro che spesso pensano alla sua Passione, giacchè a posta si è lasciato sagramentato sugli altari, affinchè noi avessimo continua e grata memoria di quel che ha patito per noi, e così sempre crescesse in noi l'amore verso di lui. S. Francesco di Sales chiamava il monte Calvario, il monte degli amanti. Non è possibile ricordarsi di quel monte e non amar Gesù Cristo che volle ivi morire per nostro amore.
5. Oh Dio, e perchè gli uomini non amano questo Dio che tanto ha fatto per essere amato dagli uomini! Prima dell'Incarnazione del Verbo potea dubitare l'uomo se Dio lo amasse con vero amore; ma dopo la venuta del Figlio di Dio, e dopo essere egli morto per amore degli uomini, come mai possiamo più dubitarne? Uomo, dice S. Tommaso da Villanova, guarda quella croce, quei dolori e quella morte acerba che per te ha sofferta Gesù Cristo: dopo tali e tanti testimoni del suo amore non puoi aver più dubbio ch'egli t'ama e t'ama assai: Testis crux, testes dolores, testis amara mors quam pro te sustinuit.E S. Bernardo dice che grida la croce ed ogni piaga del nostro Redentore per farci intendere l'amore che ci porta.
6. In questo gran mistero della Redenzione umana bisogna considerare il pensiero e la premura ch'ebbe Gesù Cristo di trovar diverse maniere per farsi da noi amare. Se voleva egli morire per salvarci, bastava che morisse insieme cogli altri bambini uccisi da Erode; ma no, volle prima di morire fare per 33 anni una vita piena di stenti e di pene, ed in questa sua vita, per tirarci ad amarlo, volle a noi comparire in tante sembianze diverse. Prima si fe' vedere nato da povero bambino in una stalla, poi da garzoncello in una bottega, e finalmente da reo giustiziato su d'una croce. Ma prima di morire in croce volle prendere altre diverse sembianze compassionevoli, e tutte per farsi amare: volle farsi vedere nell'orto agonizzante e tutto bagnato di sudore di sangue: di poi nel pretorio di Pilato lacerato da' flagelli: di poi trattato da re di scena con una canna in mano, uno straccio purpureo sulle spalle ed una corona di spine sulla testa: indi in mezzo alla via pubblica strascinato alla morte colla croce sulle spalle: e finalmente sul Calvario appeso a tre uncini di ferro. Merita o no di essere da noi amato un Dio che ha voluto soffrir tante pene e praticar tanti modi per cattivarsi il nostro amore? Diceva il P. Giovanni Rigoleu: «Io non farei altro che piangere d'amore per un Dio condotto dall'amore a morire per la salute degli uomini».
7. Magna res amor, dice S. Bernardo (Ser. 83 in Cant.). Gran cosa, preziosa cosa è l'amore. Parlando Salomone della divina sapienza, ch'è la santa carità, la chiamò tesoro infinito, poichè chi ha la carità è fatto partecipe dell'amicizia di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). Dice S. Tommaso l'Angelico (Tr. de virt. a. 3) che la carità non solo è la regina di tutte le virtù, ma è quella che dove regna trae seco tutte le altre virtù come in suo corteggio, e tutte le indrizza a più unirci con Dio; ma la carità propriamente è quella che con Dio ci unisce, come dice S. Bernardo: Caritas est virtus coniungens nos Deo. E ben più volte sta espresso nelle sagre Scritture che Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17). Si quis diligit me... Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus (Io. XIV, 23). Qui manet in caritate in Deo manet et Deus in eo (I Io. IV, 16). Ecco la bella unione che opera la carità: unisce l'anima con Dio. — Inoltre l'amore dà forza di fare e patire ogni gran cosa per Dio. Fortis ut mors dilectio (Cant. VIII, 6). Scrive S. Agostino: Nihil tam durum, quod non amoris igne vincatur (Lib. de Mor. Eccl. c. 22): non vi è cosa così difficile che non si superi col fervor dell'amore; perocchè, dice il santo, in ciò che si ama, o non si sente la fatica o la stessa fatica è amata: In eo quod amatur aut non laboratur aut labor amatur.
8. Udiamo quel che dice S. Giovanni Grisostomo di quel che fa il divino amore in quell'anime ove regna: «Quando l'amore di Dio si è impadronito di un'anima, produce in essa un'insaziabile brama di operar per l'amato; tanto che, per molte e grandi opere che faccia, e per molto tempo che spenda in suo servigio, tutto le sembra nulla, e sempre si affligge di far poco per Dio; e se le fosse lecito di morire e distruggersi per lui, ne resterebbe contenta. Ond'è ch'ella si tiene sempre per inutile in tutto ciò che fa; poichè insegnandole l'amore quel che Dio merita, a quel chiaro lume vede tutti i difetti delle sue azioni, e così cava da tutto confusione e pena, conoscendo esser molto basso il suo operare per un Signore sì grande».
9. Oh quanto s'inganna, dice S. Francesco di Sales, chi ripone la santità in altro che in amare Dio! «Altri, scrive il santo, pongono la perfezione nell'austerità, altri nelle limosine, altri nell'orazione, altri nella frequenza de' sagramenti. Io per me non conosco altra perfezione che quella di amare Iddio di tutto cuore; poichè tutte le altre virtù senza l'amore non sono che una massa di pietre. E se non godiamo perfettamente questo santo amore, il difetto viene da noi, perchè non finiamo di darci tutti a Dio».
10. Disse un giorno il Signore a S. Teresa: «Ogni cosa che non dà gusto a me è vanità». Oh intendessero tutti questa verità! — Porro unum est necessarium. Non è già necessario l'esser ricchi in questa terra, il farci stimare dagli altri, il fare una vita comoda, l'avere dignità, l'aver fama di dotto; solo è necessario l'amare Dio e far la sua volontà. A questo solo fine egli ci ha creati e ci conserva la vita, e solamente così noi possiamo esser ammessi al paradiso. — Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum (Cant. VIII, 6). Così dice il Signore ad ogni anima sua sposa: mettimi come segno sovra il tuo cuore e sovra il tuo braccio, affinchè a me indirizzi tutti i tuoi desideri e tutte le tue azioni; sovra il tuo cuore, acciocchè non v'entri altro amore fuori del mio; sovra il tuo braccio, acciocchè in tutto quel che fai non abbi altro fine che me. — Oh come ben corre alla perfezione chi in ogni sua operazione non guarda che Gesù crocifisso, e non pretende altro che dargli gusto!
11. Questa dunque ha da essere tutta la nostra cura, di acquistare un vero amore verso Gesù Cristo.
I maestri di spirito descrivono i segni del vero amore. L'amore, dicono, è timoroso, e 'l suo timore non è altro che di dar disgusto a Dio. È generoso, poichè, fidato in Dio, non si sgomenta d'imprendere ogni gran cosa di sua gloria. È forte, mentre vince tutti gli appetiti malvagi, anche in mezzo alle tentazioni più violente ed alle desolazioni più tenebrose. È ubbidiente, perchè subito cerca di eseguir le voci divine. È puro, poichè ama Iddio solo, e solo perchè merita d'esser amato. È ardente, perchè vorrebbe accender tutti e vederli consumati di divino amore. È inebriante, che fa vivere l'anima quasi fuori di sè, come più non vedesse, non sentisse, nè avesse più sensi per le cose terrene, intenta solo ad amare Dio. È unitivo, che unisce strettamente la volontà della creatura colla volontà del suo Creatore. È sospirante, perchè riempie l'anima di desideri di lasciar questa terra per volare ad unirsi perfettamente con Dio nella patria beata, affin di amarlo ivi con tutte le forze.
12. Ma niuno meglio insegna quali siano i caratteri e la pratica della vera carità, che il gran predicatore della carità S. Paolo. Egli nella sua prima lettera a' Corinti al Capo XIII dice primieramente che senza la carità l'uomo è nulla, e nulla gli giova: Et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum. Et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas, et si tradidero corpus meum, ita ut ardeam, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest. Sicchè se uno avesse una tal fede che giungesse a smuovere i monti, come fece S. Gregorio Taumaturgo, ma non avesse la carità, egli niente vale. Se dispensasse tutti i suoi beni a' poveri, se anche soffrisse volontariamente il martirio, ma senza la carità, in modo che ciò facesse per altro fine che per piacere a Dio, niente gli giova. — Indi S. Paolo ci addita i contrassegni della vera carità, ed insieme c'insegna la pratica di quelle virtù che sono figlie della carità; e siegue a dire così: Caritas patiens est, benigna est: caritas non aemulatur, non agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum, non gaudet super iniquitate, congaudet autem veritati: omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
Anderemo dunque nel presente libro considerando queste sante pratiche, così per vedere se veramente in noi regna l'amore che dobbiamo a Gesù Cristo, come anche per intendere in quali virtù dobbiamo principalmente esercitarci per conservare in noi ed aumentare questo santo amore.
Affetti e preghiere.
O amabilissimo ed amantissimo Cuore di Gesù, misero quel cuore che non v'ama! Oh Dio, voi moriste sulla croce per amore degli uomini, abbandonato da ogni sollievo, e come poi gli uomini vivono così scordati di voi?
O amore divino! o ingratitudine umana! O uomini, uomini, deh guardate l'Agnello di Dio innocente che agonizza su quella croce e muore per voi, affin di pagare alla divina giustizia i vostri peccati e così tirarvi al suo amore. Mirate, come nello stesso tempo sta pregando l'Eterno Padre che vi perdoni. Miratelo ed amatelo.
Ah Gesù mio, quanto son pochi quelli che v'amano! Misero me, che anch'io per tanti anni son vivuto scordato di voi, e perciò vi ho tanto offeso. Caro mio Redentore, non tanto mi fa piangere la pena che mi sono meritata, quanto l'amore che voi m'avete portato.
O dolori di Gesù, o ignominie di Gesù, o piaghe di Gesù, o morte di Gesù, o amore di Gesù, fissatevi nel mio cuore, e resti ivi per sempre la vostra dolce memoria a ferirmi continuamente ed infiammarmi d'amore.
V'amo, Gesù mio; v'amo, mio sommo bene; v'amo, mio amore, mio tutto: v'amo e voglio sempre amarvi.
Deh! non permettete ch'io vi lasci e vi perda più.
Rendetemi tutto vostro; fatelo per li meriti della vostra morte. A questa io fermamente confido.
E molto confido ancora alla vostra intercessione, o Maria. Regina mia, fatemi amare Gesù Cristo, e fatemi amare ancora voi, madre e speranza mia.

CAPITOLO 3 Della gran confidenza che dobbiamo mettere nell'amore che ci ha dimostrato Gesù Cristo, ed in tutto quello che ha fatto per noi.

CAPITOLO III

Della gran confidenza
che dobbiamo mettere nell'amore
che ci ha dimostrato Gesù Cristo,
ed in tutto quello che ha fatto per noi.
1. Davide riponeva tutta la speranza della sua salute nel suo Redentore futuro, e diceva: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; redemisti me, Domine, Deus veritatis (Ps. XXX, 6). Or quanto più noi dobbiamo riporre la nostra fiducia in Gesù Cristo, dopo ch'egli è già venuto ed ha compita l'opera della redenzione? Onde con maggior fiducia dee dire e sempre replicare ognuno di noi: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; redemisti me, Domine, Deus veritatis.
2. Se abbiamo noi gran motivi di temere la morte eterna per causa delle offese fatte a Dio, abbiamo all'incontro motivi assai più grandi di sperare la vita eterna ne' meriti di Gesù Cristo, i quali sono di valore infinitamente maggiore a salvarci, di quel che vagliono i nostri peccati a farci perdere. Noi abbiam peccato e ci siamo meritato l'inferno; ma il Redentore è venuto a caricarsi di tutte le nostre colpe per soddisfarle co' suoi patimenti: Vere languores nostros ipse tulit, et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII, 4).
3. Nello stesso punto infelice in cui peccammo, fu già contra di noi da Dio scritta la condanna di morte eterna; ma il nostro pietoso Redentore che ha fatto? Delens quod adversus nos erat chirographum decreti... et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. II, 14). Egli cancellò col suo sangue il decreto della nostra condanna, e poi l'affisse alla croce, acciocchè noi, guardando la sentenza di nostra dannazione per li peccati commessi, guardassimo insieme la croce ove Gesù Cristo, morendo, l'ha cancellata col suo sangue, e così ripigliassimo la speranza del perdono e della salute eterna.
4. Oh quanto meglio parla per noi e ci ottiene la divina misericordia il sangue di Gesù Cristo, che non parlava contra Caino il sangue di Abele! Accessistis ad mediatorem Iesum, et sanguinis aspersionem melius loquentem quam Abel (Hebr. XII, 24). Come dicesse l'Apostolo: Peccatori, felici voi che dopo il peccato siete ricorsi a Gesù crocifisso il quale ha sparso tutto il sangue per rendersi con ciò mediatore di pace fra i peccatori e Dio, ed ottenere ad essi il perdono. Gridano contra di voi le vostre iniquità, ma perora a vostro favore il sangue del Redentore; ed alla voce di questo sangue non può non restar placata la divina giustizia.
5. È vero che di tutti i nostri peccati è rigoroso il conto che ne abbiamo da rendere all'eterno Giudice. Ma chi ha da essere il nostro giudice? Pater... omne iudicium dedit Filio (Io. V, 22). Consoliamoci, l'Eterno Padre ha commesso il giudizio di noi al medesimo nostro Redentore. Dunque ci fa coraggio San Paolo dicendo: Quis est qui condemnet? Christus Iesus qui mortuus est... qui etiam interpellat pro nobis (Rom. VIII, 34). Chi è il giudice che ha da condannarci? È quel medesimo Salvatore che, per non condannarci alla morte eterna, ha voluto condannare se stesso, ed è morto; e, di ciò non contento, ora in cielo seguita presso il suo padre a procurarci la salute. Quindi scrive S. Tommaso da Villanova e dice: Che temi, peccatore, se detesti il tuo peccato? come ti condannerà colui che muore per non condannarti? Come ti discaccerà, se ritorni a' suoi piedi, quegli ch'è venuto dal cielo a cercarti quando tu lo fuggivi? Quid times, peccator? Quomodo damnabit poenitentem, qui moritur ne damneris? Quomodo abiiciet redeuntem, qui de caelo venit quaerens te?
6. E se temiamo, per cagion della nostra debolezza, di cadere negli assalti de' nostri nemici contra i quali ci resta a combattere, ecco quel che abbiam da fare, come ci ammonisce l'Apostolo: Curramus ad propositum nobis certamen, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Iesum, qui, proposito sibi gaudio, sustinuit crucem, confusione contempta (Hebr. XII, 1 et 2). Andiamo con animo grande a combattere, mirando Gesù crocifisso che dalla sua croce ci offerisce il suo aiuto, la vittoria e la corona. Per lo passato siam caduti perchè abbiamo lasciato di mirar le piaghe e le ignominie sofferte dal nostro Redentore, e così non siamo ricorsi a lui per aiuto. Ma se per l'avvenire ci metteremo davanti gli occhi quanto egli ha patito per nostro amore e come sta pronto a soccorrerci se a lui ricorriamo, no che certamente non resteremo vinti da' nostri nemici. Dicea S. Teresa col suo spirito sì generoso: «Io non intendo certi tremori, demonio, demonio, dove possiamo dire, Dio, Dio, e farlo tremare». All'incontro diceva la santa che se non riponiamo tutta la nostra confidenza in Dio, poco o niente ci serviranno tutte le nostre diligenze: «Tutte le diligenze — sono le sue parole — giovano poco, se tolta via affatto la confidenza in noi, non la mettiamo in Dio».
7. Oh che due gran misteri di speranza e di amore sono per noi la Passione di Gesù Cristo e il Sagramento dell'altare! Misteri che, se la fede non ce ne accertasse, e chi mai potrebbe crederli? Un Dio onnipotente voler farsi uomo, spargere tutto il suo sangue e morir di dolore sovra d'un legno; e perchè? per pagare i nostri peccati e salvare noi vermi ribelli! E poi il medesimo suo corpo, un giorno sagrificato per noi sulla croce, volercelo dare in cibo per così unirsi tutto con noi! Oh Dio che questi due misteri dovrebbero incenerire d'amore tutti i cuori degli uomini. E qual peccatore, dissoluto che sia, potrà disperare del perdono, se si pente del male che ha fatto, vedendo un Dio così innamorato degli uomini ed inclinato a far loro bene? Quindi tutto fiducia dicea S. Bonaventura: Fiducialiter agam, immobiliter sperans nihil ad salutem necessarium ab eo negandum, qui tanta pro mea salute fecit et pertulit.Come, dicea, può negarmi le grazie necessarie alla salute colui che tanto ha fatto e sofferto per salvarmi?
8. Adeamus ergo — ci esorta l'Apostolo — cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno(Hebr. IV, 16). Il trono della grazia è la croce ove Gesù siede come in suo trono per dispensar grazie e misericordie a chi vi ricorre. Ma bisogna ricorrervi presto, or che possiam trovare l'aiuto opportuno a salvarci, perchè poi verrà forse tempo che non potremo più trovarlo. Andiam dunque presto ad abbracciarci alla croce di Gesù Cristo, ed andiamoci con gran confidenza. Non ci sgomentino le nostre miserie: in Gesù crocifisso troveremo per noi ogni ricchezza, ogni grazia: In omnibus divites facti estis in illo... ita ut nihil vobis desit in ulla gratia (I Cor. I, 5 et 7). I meriti di Gesù Cristo ci han fatti ricchi di tutti i divini tesori, e ci han renduti capaci di ogni grazia che desideriamo.
9. Dice S. Leone che Gesù colla sua morte ci apportò maggior bene che non ci recò di danno il demonio col peccato: Ampliora adepti sumus per Christi gratiam, quam per diaboli amiseramus invidiam (Serm. 1 de Ascens.). E con ciò dichiarasi quel che disse prima S. Paolo, che il dono della Redenzione è stato maggiore che non fu il peccato: la grazia ha superato il delitto: Non sicut delictum, ita et donum; ubi abundavit delictum, superabundavit gratia(Rom. V, 15 et 20). Quindi il Salvatore ci animò a sperare ogni favore ne' suoi meriti, ed ogni grazia. Ed ecco come c'insegnò il modo per ottener quanto vogliamo dall'eterno suo Padre: Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo dabit vobis (Io. XVI, 25). Quanto, dice, voi desiderate, chiedetelo al mio Padre in mio nome, ed io vi prometto che sarete esauditi. Ma come il Padre potrà negarci alcuna grazia, se egli ci ha dato l'unigenito suo Figlio ch'egli ama quanto se stesso? Pro nobis omnibus tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? (Rom. VIII, 32). Dice l'Apostolo omnia; dunque niuna grazia sta eccettuata, non il perdono, non la perseveranza, non il santo amore, non la perfezione, non il paradiso, omnia, omnia nobis donavit. Ma bisogna pregarlo: Iddio è tutto liberale con chi lo prega: Dives in omnes qui invocant illum (Rom. X, 12).
10. Voglio qui ancora soggiungere molti altri belli sentimenti che scrisse nelle sue lettere il Ven. Giovanni d'Avila, della gran confidenza che noi dobbiamo avere ne' meriti di Gesù Cristo.
11. «Non vi dimenticate, che tra il Padre Eterno e noi ci è mezzano Gesù Cristo, per cui siamo amati e stretti con tali forti legami d'amore che niuna cosa li può sciogliere se l'uomo non gli spezza con qualche colpa mortale. Il sangue di Gesù grida chiedendo per noi pietà, e grida in modo che il romore de' nostri peccati non è udito. La morte di Gesù Cristo ha fatto morire le nostre colpe: O mors, ero mors tua. Quei che si perdono, non si perdono per mancanza di soddisfazione, ma per non volersi approfittare, per mezzo de' sagramenti, della soddisfazione data da Gesù Cristo.
12. «Il negozio del nostro rimedio Gesù l'ha preso a suo carico come se fosse suo proprio; onde i peccati nostri, benchè non gli abbia egli commessi, gli ha chiamati suoi e per quelli ha cercato perdono; e con amore sviscerato ha pregato, come pregasse per sè, che tutti quei che vogliono accostarsi a lui fossero amati. E come l'ha cercato così l'ha ottenuto: poichè Iddio ha disposto che Gesù e noi siamo talmente uniti in uno, che o abbiamo ad essere amati egli e noi, o egli e noi odiati; e giacchè non è odiato Gesù nè può essere odiato, nello stesso modo, se noi siamo uniti con Gesù coll'amore, ancor noi siamo amati. Per essere egli amato da Dio siamo amati ancora noi, attesochè vale più Gesù Cristo a far che noi siamo amati, che non vagliamo noi a far che siamo odiati; mentre l'Eterno Padre più ama il Figlio, che non odia i peccatori.
13. «Gesù disse al Padre: Voglio, Padre, che dove sono io siano ancora quelli che mi avete dati: Pater, quos dedisti mihi, volo ut ubi sum ego et illi sint mecum (Io. XVII, 24). Vinse il maggior amore l'odio minore, e così noi siamo stati perdonati ed amati, sicuri di non essere mai abbandonati, dov'è un nodo sì forte d'amore. Dice il Signore per Isaia (IL, 15): Può scordarsi una madre del suo figlio? E se mai quella se ne scorderà, io non mi scorderò di te, perchè ti tengo scritto nelle mie mani. Egli ci ha scritti nelle sue mani col suo proprio sangue. Per tanto non dobbiamo turbarci per cosa alcuna, mentre tutto vien disposto da quelle mani che sono state inchiodate alla croce, in testimonianza dell'amore che ha per noi.
14. «Niuna cosa può tanto atterrirci, quanto Gesù Cristo può assicurarci. Mi circondino pure i peccati fatti, i timori del futuro mi accusino, i demoni mi tendano lacci, che con chieder misericordia a Gesù Cristo tutto benigno, mio amatore sino alla morte, io non posso diffidare; mentre mi veggo talmente prezzato che un Dio si è dato per me. — O Gesù mio, porto sicuro di coloro che stando in tempesta a te ricorrono, o pastor vigilante, s'inganna chi di te non si fida, purchè voglia emendarsi. Perciò dicesti: Io sono, non vogliate temere: io son quello che tribolo e consolo. Metto talvolta alcuni in desolazioni che sembrano un inferno, ma poi ne li cavo e gli sollevo. Io son vostro avvocato, che ho presa la vostra causa per mia. Io vostro mallevadore, che son venuto a pagare i vostri debiti. Io vostro Signore, che col mio sangue vi ho ricomprati non per abbandonarvi, ma per arricchirvi, avendovi riscattati a gran prezzo. Come fuggirò da chi mi va cercando, essendo andato incontro a coloro che mi cercavano per oltraggiarmi? Non ho voltata la faccia a chi mi percoteva, e la volterò a chi vuole adorarmi? Come possono i miei figli dubitare se io l'amo, vedendomi posto in mano de' miei nemici per loro amore? Chi mai ho disprezzato, che mi abbia amato? Chi mai ho abbandonato, che mi ha cercato aiuto? Io vado cercando ancora chi non mi cerca.
15. «Se credi che il Padre Eterno ti ha donato il suo Figlio, credi ancora che ti donerà il resto, che tutto è assai meno del Figlio. Non pensare che Gesù Cristo siasi scordato di te, mentre ti ha lasciato in memoria del suo amore il maggior pegno che avesse, quanto fu se medesimo nel Sagramento dell'altare».
Affetti e preghiere.
Ah Gesù mio, amor mio, e che belle speranze mi dà la vostra Passione! Come posso temere di non ricevere il perdono de' miei peccati, il paradiso e tutte le grazie che mi bisognano, da un Dio onnipotente che mi ha dato tutto il suo sangue?
Ah Gesù mio, speranza mia ed amore mio, voi per non perdere me avete voluto perder la vita.
Io v'amo sovra ogni bene, mio Redentore e Dio. Voi vi siete dato tutto a me, io vi dono tutta la mia volontà, e con questa ripeto ch'io v'amo, io v'amo, e voglio sempre replicarlo, io v'amo, io v'amo. Così voglio sempre dire in questa vita, e così voglio morire, spirando l'ultimo fiato con questa cara parola in bocca, mio Dio io v'amo, per cominciar da quel punto un amore verso di voi continuo, che durerà in eterno, senza cessar mai più d'amarvi.
Io v'amo dunque, e, perchè v'amo, mi pento sovra ogni male di avervi così offeso. Misero, per non perdere una breve soddisfazione, ho voluto tante volte perdere voi, bene infinito! Questo pensiero mi tormenta più d'ogni pena; ma mi consola il pensare che ho che fare con una bontà infinita che non sa disprezzare un cuore che l'ama. Oh potessi morire per voi che siete morto per me!
Caro mio Redentore, io spero certamente da voi la salute eterna nell'altra vita, ed in questa spero la santa perseveranza nell'amor vostro; perciò propongo di cercarvela sempre. E voi per li meriti della vostra morte datemi la perseveranza a pregarvi.
Questa ancora domando e spero da voi, regina mia Maria.

CAPITOLO 2 Quanto merita Gesù Cristo d'esser amato da noi per l'amore che ci ha dimostrato nell'istituire il SS. Sacramento dell'altare.

CAPITOLO II

Quanto merita Gesù Cristo
d'esser amato da noi per l'amore
che ci ha dimostrato nell'istituire
il SS. Sacramento dell'altare.
1. Sciens Iesus quia venit hora eius ut transeat ex hoc mundo ad Patrem, cum dilexisset suos... in finem dilexit eos (Io. XIII, 1). L'amantissimo nostro Salvatore, sapendo esser già arrivata l'ora di partirsi da questa terra, prima di andare a morire per noi, volle lasciarci il segno più grande che potea darci del suo amore, qual fu appunto questo dono del SS. Sagramento. — Dice S. Bernardino da Siena che i segni d'amore che si dimostrano in morte, più fermamente restano a memoria, e si tengono più cari: Quae in fine in signum amicitiae celebrantur, firmius memoriae imprimuntur et cariora tenentur.Onde sogliono gli amici, morendo, lasciare alle persone che hanno amate in vita, qualche dono, una veste, un anello, in memoria del loro affetto. Ma voi, Gesù mio, partendo da questo mondo che cosa ci avete lasciato in memoria del vostro amore? Non già una veste, un anello, ma ci avete lasciato il vostro corpo, il vostro sangue, l'anima vostra, la vostra divinità, tutto voi stesso, senza riserbarvi niente. Totum tibi dedit, dice S. Giovanni Grisostomo,nihil sibi reliquit.
2. Dice il Concilio di Trento che, in questo dono dell'Eucaristia, Gesù Cristo volle quasi cacciar fuori tutte le ricchezze dell'amore ch'egli serbava per gli uomini: Divitias sui erga homines amoris velut effudit (Sess. XIII, c. 2). E nota l'Apostolo che Gesù volle far questo dono agli uomini in quella stessa notte appunto in cui gli uomini gli apparecchiavano la morte: In qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens, fregit et dixit: Accipite et manducate, hoc est corpus meum (I Cor. XI, 23, 24). Dice S. Bernardino da Siena che Gesù Cristo, ardendo per noi d'amore e non contento di apparecchiarsi a dar la vita per noi, prima di morire fu costretto dall'eccesso del suo amore a fare un'opera più grande, qual fu di darci in cibo il suo medesimo corpo: In illo fervoris excessu, quando paratus erat pro nobis mori, ab excessu amoris maius opus agere coactus est, quam umquam operatus fuerat, dare nobis corpus in cibum (S. Bern. Sen., T. 2. serm. 54. art. 1. cap. 1).
3. Ben dunque da S. Tommaso fu chiamato questo sagramento sacramentum caritatis, pignus caritatisSagramento d'amore, perchè il solo amore indusse Gesù Cristo a donarci in quello tutto se stesso; e pegno d'amore, acciocchè se noi avessimo mai dubitato del suo amore, in questo sagramento ne avessimo ricevuto il pegno. Come se avesse detto il nostro Redentore nel lasciarci questo dono: Anime, se mai voi dubitate del mio amore, ecco ch'io vi lascio me stesso in questo sagramento; con tal pegno in mano, non potete aver più dubbio ch'io v'amo, e v'amo assai. — Ma inoltre da S. Bernardo fu chiamato questo sagramento amor amorum, amore degli amori, perchè questo dono comprende tutti gli altri doni che il Signore ci ha fatti, la creazione, la redenzione, la predestinazione alla gloria; mentre l'Eucaristia non solo è pegno dell'amore di Gesù Cristo, ma è pegno ancora del paradiso che vuol darci: In quo, parla la Chiesa, futurae gloriae nobis pignus datur. Quindi S. Filippo Neri non sapeva nominar Gesù Cristo nel sagramento se non col nome di amore. Così appunto fu udito esclamare allorchè gli fu portato il SS. Viatico: «Ecco l'amor mio, disse, datemi il mio amore».
4. Voleva il profeta Isaia che si manifestassero a tutti le invenzioni amorose che ha trovate Iddio per farsi amare dagli uomini. E chi mai avrebbe potuto pensare, s'egli stesso non l'avesse fatto, che il Verbo Incarnato si fosse posto sotto le specie di pane per farsi nostro cibo? Non sembra una pazzia, dice S. Agostino, il dire: Mangiate la mia carne, bevete il mio sangue? Nonne insania videtur dicere: Manducate meam carnem, bibite meum sanguinem?Quando Gesù Cristo svelò ai suoi discepoli questo sagramento che voleva lasciarci, essi non poterono giungere a crederlo, e si licenziarono da lui dicendo: Quomodo potest hic carnem suam dare ad manducandum? (Io. VI, 53). Durus est hic sermo, et quis potest eum audire? (Io. VI, 61). Ma quel che gli uomini non potevano pensare e credere, l'ha pensato e fatto il grande amore di Gesù Cristo. Accipite et manducate, egli disse ai suoi discepoli, e per essi a tutti noi, prima di andare a morire: Ricevete e mangiate! Ma qual cibo sarà mai questo, o Salvatore del mondo, che prima di morire volete donarci? Accipite et manducate: hoc est corpus meum (I Cor. XI, 24). Questo cibo non è terreno: sono io stesso che mi do tutto a voi.
5. Ed oh con qual desiderio Gesù Cristo anela di venire all'anime nostre nella santa comunione! Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum(Luc. XXII, 15). Così egli disse in quella notte in cui istituì questo sagramento d'amore. Desiderio desideravi: così gli fe' dire, scrive S. Lorenzo Giustiniani, l'amore immenso che ci portava: Flagrantissimae caritatis est vox haec. Ed acciocchè facilmente ognuno avesse potuto riceverlo, volle lasciarsi sotto le specie di pane. Se si fosse lasciato sotto le specie di qualche cibo raro o di gran prezzo, i poveri ne sarebbero rimasti privi; ma no, Gesù ha voluto ponersi sotto le specie di pane che poco costa e da per tutto si trova, affinchè tutti in ogni paese possan trovarlo e riceverlo.
6. Acciocchè poi anche noi c'invogliassimo a riceverlo nella santa comunione, non solo ci esorta a ciò con tanti inviti: Venite, comedite panem meum et bibite vinum quod miscui vobis (Prov. IX, 5); comedite, amici, et bibite, parlando di questo pane e vino celeste (Cant. V, 1), ma anche ce l'impone per precetto: Accipite et manducate: hoc est corpus meum (I Cor. XI, 24). Di più, acciocchè noi andiamo a riceverlo, ci alletta colla promessa del paradiso:Qui manducat meam carnem, habet vitam aeternam (Io. VI, 55). Qui manducat hunc panem vivet in aeternum (Ibid. 59). Di più ci minaccia l'inferno coll'esclusione del paradiso, se noi ricusiamo di comunicarci: Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in vobis (Ibid. 54). Quest'inviti, queste promesse e queste minacce, tutte nascono dal gran desiderio ch'egli ha di venire a noi in questo sagramento.
7. Ma perchè mai tanto desidera Gesù Cristo che noi lo riceviamo nella santa comunione? Ecco la ragione. Dice S. Dionisio che l'amore aspira sempre e tende all'unione; e, come si dice presso S. Tommaso: Amantes desiderant ex ambobus fieri unum (1. 2. q. 28. a. 1. ad 2): gli amici che si amano di cuore vorrebbero talmente esser uniti che fossero un solo uomo. Or ciò ha fatto che l'immenso amore di Dio verso gli uomini non solo si desse tutto loro nel regno eterno, ma che in questa terra ancora si lasciasse dagli uomini possedere coll'unione più intima che possa darsi, dandosi tutto loro sotto le apparenze di pane nel Sagramento. Ivi egli sta come dietro un muro, e di là ci guarda come per mezzo di stretti cancelli: En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per fenestras, prospiciens per cancellos (Cant. II, 9). Sì che noi non lo vediamo, ma egli di là ci guarda, ed ivi è realmente presente: è presente per lasciarsi da noi possedere, ma si nasconde per farsi da noi desiderare; e finchè noi non perveniamo alla patria, Gesù vuol darsi a noi tutto, e star tutto unito con noi.
8. Ei non potè contentare il suo amore con darsi tutto al genere umano colla sua Incarnazione e Passione, morendo per tutti gli uomini; ma volle trovare il modo di darsi tutto a ciascuno di noi; e perciò istituì il Sagramento dell'altare, affin di unirsi tutto con ognuno di noi. Qui manducat meam carnem, egli disse, in me manet et ego in eo (Io. VI, 57). Nella santa comunione Gesù si unisce all'anima, e l'anima a Gesù, e questa unione non è di mero affetto, ma è vera e reale. Quindi ebbe a dire S. Francesco di Sales: «In niun'altra azione può considerarsi il Salvatore nè più tenero nè più amoroso, che in questa, in cui si annichila, per così dire, e si riduce in cibo per penetrar l'anime nostre, ed unirsi al cuore de' suoi fedeli». Dice S. Giovanni Grisostomo che Gesù Cristo, per l'ardente amore che ci portava, volle talmente con noi unirsi che diventassimo la stessa cosa con esso: Semetipsum nobis immiscuit ut unum quid simus: ardenter enim amantium hoc est (Chrysost. Hom. 61, ad Pop. Ant.).
9. Volesti in somma, soggiunge S. Lorenzo Giustiniani, o Dio innamorato delle anime nostre, con questo Sagramento far che il tuo Cuore col nostro divenisse un solo cuore inseparabilmente unito: O mirabilis dilectio tua, Domine Iesu, qui tuo corpori taliter nos incorporari voluisti, ut tecum unum Cor et animam unam haberemus inseparabiliter colligatam! Aggiunge S. Bernardino da Siena che il darsi Gesù Cristo a noi in cibo fu l'ultimo grado d'amore, poichè si diede a noi per unirsi totalmente con noi, come si unisce insieme il cibo con chi lo mangia: Ultimus gradus amoris est, cum se dedit nobis in cibum, quia dedit se nobis ad omnimodam unionem, sicut cibus et cibans invicem uniuntur (S. Bern. Sen., T. 2. serm. 54). Oh quanto Gesù Cristo si compiace di stare unito colle anime nostre! Disse egli un giorno dopo la comunione alla sua diletta serva Margarita d'Ipres: «Vedi, figlia mia, la bella unione fatta tra me e te; orsù amami, e stiamoci sempre uniti in amore, e non ci separiamo più».
10. Quindi dobbiam persuaderci che un'anima non può fare nè pensare di far cosa più grata a Gesù Cristo, che di andare a comunicarsi colla disposizione conveniente ad un tanto ospite che ha da ricevere nel suo petto; mentre così si unisce a Gesù Cristo, ch'è l'intento di questo innamorato Signore. Ho detto: colla disposizione conveniente, non già colla degna, perchè se bisognasse la degna, e chi mai potrebbe più comunicarsi? Solo un altro Dio sarebbe degno di ricevere un Dio. Intendo conveniente quella che conviene ad una misera creatura vestita dell'infelice carne di Adamo. Basta che la persona, ordinariamente parlando, si comunichi in grazia, e con vivo desiderio di crescere nell'amore verso Gesù Cristo. «Solo per amore dee riceversi Gesù Cristo nella comunione, dicea S. Francesco di Sales, giacch'egli solo per amore a noi si dona». Del resto quanto spesso poi ciascuno debba comunicarsi, in ciò dee regolarsi secondo il giudizio del suo padre spirituale. Sappiasi non però, che niuno stato o impiego, anche di maritato o negoziante, impedisce la comunione frequente, quando il direttore la stima opportuna, come dichiarò il Pontefice Innocenzo XI nel suo decreto dell'anno 1679, ove si disse:Frequens accessus — ad Eucharistiam — confessariorum iudicio est relinquendus, qui... laicis negotiatoribus et coniugatis, quod prospiciunt eorum saluti profuturum, id illis praescribere debebunt.
11. Bisogna poi intendere che non vi è cosa da cui possiam cavar tanto profitto quanto dalla comunione. L'Eterno Padre ha fatto padrone Gesù Cristo di tutte le sue ricchezze divine: Omnia dedit ei Pater in manus (Io. XIII, 3). Onde quando viene Gesù in un'anima colla santa comunione, egli le porta seco immensi tesori di grazie. E perciò ben può dire una persona che si è comunicata: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11). Dice S. Dionisio che il sagramento dell'Eucaristia ha una somma virtù di santificare l'anime, più che tutti gli altri mezzi spirituali: Eucharistia maximam vim habet perficiendae sanctitatis. E S. Vincenzo Ferreri scrisse che più profitta l'anima con una comunione, che con una settimana di digiuni in pane ed acqua.
12. Primieramente, come insegna il Concilio di Trento, la comunione è quel gran rimedio che ci libera dai peccati veniali e ci preserva dai mortali:Antidotum quo a culpis quotidianis liberemur et a mortalibus praeservemur (Trid. Sess. XIII, cap. 2). Dicesi liberemur a culpis quotidianis, perchè, secondo S. Tommaso (3 p. q. 79. a. 4), per mezzo di questo Sagramento l'uomo viene eccitato a far atti d'amore, per cui poi si cancellano i peccati veniali. E dicesi a mortalibus praeservemur, perchè la comunione conferisce l'aumento della grazia che ci preserva dalle colpe gravi. Quindi scrisse Innocenzo III che Gesù Cristo colla sua Passione ci liberò dalla podestà del peccato, ma coll'Eucaristia ci libera dalla podestà di peccare: Per crucis mysterium liberavit nos a potestate peccati; per Eucharistiae sacramentum liberat nos a potestate peccandi.
13. Di più questo Sagramento principalmente infiamma l'anime del divino amore. Iddio è amore: Deus caritas est (I Io. IV, 8). Ed è fuoco che consuma ne' nostri cuori tutti gli affetti terreni: Ignis consumens est (Deut. IV, 24). Or questo fuoco d'amore venne appunto il Figlio di Dio ad accendere in terra:Ignem veni mittere in terram; e soggiunse che altro non bramava che di vedere acceso questo santo fuoco nell'anime nostre: Et quid volo, nisi ut accendatur? (Luc. XII, 49). Ed oh quali fiamme di divino amore accende Gesù Cristo in ognuno che divotamente lo riceve in questo Sagramento! S. Caterina da Siena vide un giorno in mano d'un sacerdote Gesù sagramentato come un globo di fuoco da cui la santa si ammirava come da quella fiamma non restassero arsi ed inceneriti tutti i cuori degli uomini. S. Rosa di Lima dopo la comunione mandava tali raggi dalla faccia che abbagliavano la vista, ed usciva tal calore dalla sua bocca che chi vi accostava la mano sentiva scottarsi. Narrasi di S. Venceslao che col solo andar visitando le chiese ove stava il Sagramento, s'infiammava di tanto ardore che il servo il quale l'accompagnava, camminando sulla neve e mettendo i piedi sulle pedate del santo, non sentiva più freddo. Dicea per tanto il Grisostomo che il SS. Sagramento è fuoco che c'infiamma, acciocchè partendo dall'altare spiriamo tali fiamme d'amore che ci rendano terribili all'inferno: Carbo est Eucharistia, quae nos inflammat, ut tamquam leones ignem spirantes ab illa mensa recedamus, facti diabolo terribiles (Hom. 61, ad Pop.).
14. Diceva la sposa de' Cantici: Introduxit me rex in cellam vinariam, ordinavit in me caritatem (Cant. II, 4). Scrive S. Gregorio Nisseno che appunto la comunione è quella cella di vino ove l'anima resta talmente inebriata di divino amore, che si dimentica e perde di vista tutte le cose create; e questo è quel languire d'amore, del quale poi parla dicendo: Fulcite me floribus, stipate me malis, quia amore langueo (ibid. 5). — Dirà taluno: Ma perciò io non mi comunico spesso, perchè mi vedo freddo nel divino amore. Risponde a costui il Gersone e dice: «Dunque perchè ti vedi freddo, per questo vuoi allontanarti dal fuoco?» Anzi perchè ti senti freddo, tanto più dei accostarti spesso a questo Sagramento, sempre che hai vero desiderio di amar Gesù Cristo. Licet tepide, scrisse S. Bonaventura, tamen confidens de misericordia Dei accedas; tanto magis eget medico, quanto quis senserit se aegrotum(De prof. rel., c. 78). Parimente dicea S. Francesco di Sales nella sua Filotea (cap. 21): «Due sorte di persone debbono comunicarsi spesso: i perfetti per conservarsi nella perfezione, e gl'imperfetti per giungere alla perfezione». Ma per comunicarsi spesso, almeno è necessario avere un gran desiderio di farsi santo e crescere nell'amore verso Gesù Cristo. Disse un giorno il Signore a S. Metilde: «Quando dei comunicarti, desidera tutto quello amore che mai un cuore ha avuto verso di me, ed io riceverò un tale amore come tu vorresti che fosse» (Ap. Blos., in Conc. an. fidel. c. 6, n. 6).
Affetti e preghiere.
O Dio d'amore, o amante infinito, degno d'infinito amore, ditemi, ci è più che inventare per farvi amare da noi? Non vi è bastato di farvi uomo e soggettarvi a tante nostre miserie. Non vi è bastato il dare per noi tutto il sangue a forza di tormenti, e poi morire consumato da' dolori sovra d'un tronco destinato a' rei più scellerati. Vi siete ridotto in fine a mettervi sotto le specie di pane per farvi nostro cibo, e così unirvi tutto con ciascuno di noi. Ditemi, replico, ci è più che inventare per farvi amare? Ah miseri noi se in questa vita non vi amiamo! Quando saremo entrati nell'eternità, qual rimorso ci apporterà il non avervi amato!
Gesù mio, io non voglio morire senza amarvi, ed amarvi assai.
Troppo mi rincresce e mi dà pena l'avervi dati tanti disgusti; me ne pento e vorrei morirne di dolore.
Ora v'amo sopra ogni cosa, v'amo più di me stesso, e vi consagro tutti gli affetti miei. Voi che mi date già questo desiderio, datemi la forza di eseguirlo.
Gesù mio, Gesù mio, io non voglio da voi altro che voi. Or che mi avete tirato al vostro amore, io lascio tutto, rinunzio a tutto, ed a voi mi stringo; voi solo mi bastate.
O madre di Dio Maria, pregate Gesù per me, e fatemi santo. Aggiungete quest'altro a tanti prodigi da voi operati di mutare i peccatori in santi.