giovedì 4 agosto 2011

CAPITOLO 16 Caritas omnia sperat. Chi ama Gesù Cristo spera tutto da Gesù Cristo.

CAPITOLO XVI

Caritas omnia sperat.
Chi ama Gesù Cristo
spera tutto da Gesù Cristo.
1. La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Certamente la speranza nella divina bontà fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. Scrive S. Tommaso che nello stesso tempo che noi speriamo qualche bene da alcuno, cominciamo ancora ad amarlo: Ex hoc enim quod per aliquem speravimus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare (S. Thom. 2. 2. q. 40. a. 7). Perciò il Signore non vuole che mettiamo confidenza nelle creature: Nolite confidere in principibus (Ps. CXLV, 2); e maledice chi confida nell'uomo: Maledictus homo qui confidit in homine (Ier. XVII, 5). Non vuole Dio che confidiamo nelle creature, perchè non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore. Quindi S. Vincenzo de' Paoli dicea: «Avvertiamo di non molto fondarci sulla protezione degli uomini, perchè il Signore quando ci vede appoggiati ad essi si ritira da noi. All'incontro quanto più noi confidiamo in Dio, tanto più ci avanziamo in amarlo». Viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum(Ps. CXVIII, 32). Oh come corre nella via della perfezione colui che ha il cuor dilatato dalla confidenza in Dio! Non solo corre, ma vola, perchè, avendo riposta tutta la sua speranza nel Signore, lascierà di esser debole qual era e diventerà forte colla fortezza di Dio che vien comunicata a tutti coloro che in Dio confidano. Qui confidunt in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas ut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient(Is. XL, 31). L'aquila volando in alto più si avvicina al sole; e così l'anima, confortata dalla confidenza, si stacca dalla terra e più si unisce a Dio coll'amore.
2. Or siccome la speranza giova ad aumentar l'amore verso Dio, così l'amore aumenta la speranza; poichè la carità ci rende figli di Dio adottivi. Nell'ordine naturale noi siamo fatture delle sue mani, ma nell'ordine sovrannaturale, per li meriti di Gesù Cristo, noi siam fatti figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive S. Pietro: Ut... efficiamini divinae consortes naturae (II Pet. I, 4). E se la carità ci rende figliuoli di Dio, per conseguenza ci rende ancora eredi del paradiso, come parla S. Paolo: Si autem filii, et heredes (Rom. VIII, 17). Or a' figliuoli tocca l'abitare in casa del padre, agli eredi tocca l'eredità, e perciò la carità fa crescere la speranza del paradiso; onde l'anime amanti non lasciano di continuamente esclamare a Dio: Adveniat, adveniat regnum tuum.
3. In oltre Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); e colma di grazie chi con amore lo cerca: Bonus est Dominus... animae quaerenti illum (Theren. III, 25). Onde per conseguenza chi più ama Dio, più spera nella sua bontà. E da tal confidenza nasce ne' santi quella inalterabile tranquillità che gli fa stare sempre lieti ed in pace anche in mezzo alle avversità; perchè, amando essi Gesù Cristo e sapendo quanto egli è liberale de' suoi doni con chi l'ama, in lui solo confidano e trovano riposo. Questa è la ragione per cui la sagra sposa abbondava di delizie, perchè, non amando ella altri che il suo diletto, solo a lui si appoggiava; e sapendo quanto egli è grato con chi l'ama, stava tutta contenta: onde di lei fu scritto: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens, innixa super dilectum suum? (Cant. VIII, 5). Troppo è vero quel che diceva il Savio: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11): insieme colla carità viene all'anima ogni bene.
4. L'oggetto primario della speranza cristiana è Dio che dall'anime si gode nel regno beato. Ma non crediamo che la speranza di godere Dio nel paradiso sia di ostacolo alla carità; poichè la speranza del paradiso è inseparabilmente annessa alla carità, la quale nel paradiso si perfeziona e trova il suo pieno compimento. La carità è quel tesoro infinito, come dice il Savio, che ci rende amici di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). — Scrive S. Tommaso l'Angelico (2. 2. q. 65, a. 5) che l'amicizia ha per fondamento la comunicazione de' beni, perchè non essendo altro l'amicizia che un amor reciproco tra gli amici, è necessario ch'essi reciprocamente si faccian del bene quanto a ciascuno conviene. Onde dice il santo: Si nulla esset communicatio, nulla esset amicitia. Che perciò disse Gesù Cristo a' suoi discepoli: Vos autem dixi amicos, quia omnia quaecumque audivi a Patre meo nota feci vobis (Io. XV, 15). Perchè gli avea fatti suoi amici, avea lor comunicati tutti i suoi segreti.
5. Dice S. Francesco di Sales: «Che se per impossibile vi fosse una bontà infinita, cioè un Dio, a cui non appartenessimo in alcun modo e con cui non potessimo avere alcuna unione e comunicazione, noi certamente la stimeremmo più di noi stessi; onde potremmo aver desideri di poterla amare, ma non l'ameremmo, perchè l'amore riguarda l'unione; mentre la carità è un'amicizia, e l'amicizia ha per fondamento la comunicazione e per fine l'unione». Per tanto insegna S. Tommaso che la carità non esclude il desiderio della mercede che Iddio ci prepara nel cielo, ma anzi ce la fa riguardare come principale oggetto del nostro amore, quale è Dio che da' beati si fa godere; poichè l'amicizia importa che l'amico goda scambievolmente dell'altro: Amicorum est, quod quaerant invicem perfrui; sed nihil aliud est merces nostra quam perfrui Deo videndo ipsum: ergo caritas non solum non excludit, sed etiam facit habere oculum ad mercedem (S. Thom. in III Sen. Dist. 29. q. 1. a. 4).
6. E questa è quella scambievol comunicazione di doni della quale parlava la sposa de' Cantici: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). L'anima in cielo si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima per quanto ella n'è capace, secondo la misura dei suoi meriti. Ma conoscendo l'anima il suo niente a rispetto dell'infinita amabilità di Dio, e per conseguenza vedendo che Iddio ha un merito infinitamente maggiore di essere amato che non è il merito suo di essere amata da Dio, desidera ella più il gusto di Dio che il suo godimento; e perciò più gioisce in darsi ella tutta a Dio per compiacerlo, che in darsi Dio tutto a lei; ed in tanto si compiace che Dio tutto a lei si dona, in quanto ciò l'infiamma a darsi tutta a Dio con amore più intenso. Gode già della gloria che Dio le comunica, ma ne gode per riferirla allo stesso Dio e così accrescergli gloria per quanto ella può. In cielo l'anima, in veder Dio, non può non amarlo con tutte le forze: all'incontro Iddio non può odiare chi l'ama; ma se per impossibile potesse Dio odiare un'anima che l'ama, e l'anima beata potesse vivere senza amare Dio, più presto ella si contenterebbe di patire tutte le pene dell'inferno, purchè le fosse concesso di amare Dio quantunque Dio l'odiasse, che vivere senza amare Dio, ancorchè potesse godere tutte le altre delizie del paradiso. Sì, perchè l'anima, conoscendo che Dio merita d'essere amato infinitamente più di lei, desidera molto più di amare Dio che di essere amata da Dio.
7. Caritas omnia sperat. La speranza cristiana, come insegna S. Tommaso col Maestro delle sentenze, si definisce un'aspettazione certa della felicità eterna: Spes est expectatio certa beatitudinis. E la certezza nasce dall'infallibil promessa di Dio di dar la vita eterna a' servi fedeli. Or la carità, siccome toglie il peccato, così toglie insieme l'impedimento a conseguir la beatitudine; e perciò la carità quanto è più grande, ella rende più grande e ferma la nostra speranza; la quale all'incontro certamente non può esser di ostacolo alla purità dell'amore, perchè l'amore, come dice S. Dionigi l'Areopagita, naturalmente tende all'unione dell'oggetto amato. Anzi, come dice S. Agostino, lo stesso amore è come un laccio d'oro che unisce insieme i cuori dell'amante e dell'amato: Amor est quasi iunctura quaedam duo copulans. E perchè quest'unione non può farsi da lontano, perciò chi ama desidera sempre la presenza dell'amato. La sagra sposa stando lontana dal suo diletto languiva, e pregava le sue compagne che gli facessero intendere la sua pena, acciocch'egli venisse a consolarla colla sua presenza: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nuncietis ei quia amore langueo (Cant. V, 8). Un'anima che ama assai Gesù Cristo non può, vivendo in questa terra, non desiderare e sperare di presto andar al cielo ad unirsi col suo amato Signore.
8. Sicchè il desiderare di andare a veder Dio nel cielo, non tanto per lo contento nostro che ivi proveremo in amare Dio, quanto per lo contento che daremo a Dio in amarlo, è puro e perfetto amore. Nè il gaudio che si prova da' beati in cielo in amare Dio osta alla purità del loro amore; un tal gaudio è inseparabile dall'amore; ma i beati si compiacciono principalmente assai più dell'amore ch'essi portano a Dio, che del gaudio che provano in amarlo. — Dirà taluno: Ma il desiderar la mercede è amor di concupiscenza, non già d'amicizia. Ma bisogna distinguere le mercedi temporali promesse dagli uomini, dalla mercede del paradiso promessa da Dio a chi l'ama. Le mercedi che danno gli uomini son distinte dalle loro persone, poichè gli uomini, nel rimunerare gli altri, non danno già se stessi, ma solamente i loro beni; la principal mercede all'incontro che Dio dà a' beati è il dar loro se stesso: Ego... merces tua magna nimis (Gen. XV, 1); onde è lo stesso desiderar il paradiso che desiderar Dio, il quale è l'ultimo nostro fine.
9. Voglio qui proponere un dubbio che facilmente può venire in mente di un'anima che ama Dio e che cerca di uniformarsi in tutto a' suoi santi voleri. Se mai a costei fosse rivelata la sua dannazione eterna, è obbligata ella ad accettarla per uniformarsi alla volontà di Dio? No, insegna S. Tommaso: anzi dice che pecca se vi acconsente, perchè acconsentirebbe a vivere in uno stato che va unito col peccato ed è contrario al suo ultimo fine datogli da Dio, il quale non crea l'anime per l'inferno, ove l'odiano, ma per lo paradiso ove l'amano: e perciò egli non vuole la morte neppure del peccatore, ma vuol che tutti si convertano e si salvino. Dice il S. Dottore che il Signore non vuole alcuno dannato se non per lo peccato; e per tanto se uno acconsentisse alla sua dannazione, non già si uniformerebbe alla volontà di Dio, ma alla volontà del peccato. Unde velle suam damnationem absolute non esset conformare suam voluntatem voluntati divinae, sed voluntati peccati (S. Thom., De verit. q. 3. a. 8). — Ma se Dio, prevedendo già il peccato di alcuno, avesse fatto il decreto della sua dannazione, ed un tal decreto fosse a lui rivelato, è tenuto egli ad acconsentirvi? Neppure, dice l'Angelico nel luogo citato; poichè dovrebbe intender quella rivelazione non come decreto irrevocabile, ma fatto per modum comminationis, come minaccia se egli persiste nel peccato.
10. Ma ognuno procuri di scacciar dalla mente pensieri così funesti che non servono ad altro che a raffreddare la confidenza e l'amore. Amiamo Gesù Cristo quanto possiamo quaggiù, sospiriamo ogni momento di andarlo a vedere in paradiso per amarlo ivi perfettamente; e questo sia il principale oggetto di tutte le nostre speranze, l'andare ivi ad amarlo con tutte le nostre forze. Abbiamo sì bene anche in questa vita il precetto di amare Dio con tutte le forze: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex omnibus viribus tuis etc. (Luc. X, 27), ma dice l'Angelico che questo precetto non può dagli uomini perfettamente adempirsi in questa terra. Solamente Gesù Cristo che fu uomo e Dio, e Maria SS. che fu piena di grazia e libera dalla colpa originale, perfettamente l'adempirono; ma noi, miseri figli di Adamo infetti dalla colpa, non possiamo amar Dio senza qualche imperfezione, e solo in cielo, allorchè vedremo Dio da faccia a faccia, l'ameremo, anzi saremo necessitati ad amarlo con tutte le forze.
11. Ecco dunque lo scopo ove han da tendere i nostri desideri, tutti i sospiri, tutti i pensieri e tutte le nostre speranze, di andare a goder Dio in paradiso per amarlo con tutte le forze e godere del godimento di Dio. Godono sì i beati della loro felicità in quel regno di delizie, ma il lor godimento principale, che assorbisce tutti gli altri diletti, sarà quello di conoscere la felicità infinita che gode il loro amato Signore, mentre essi amano Dio immensamente più che se stessi. Ogni beato, per l'amore che porta a Dio, si contenterebbe di perdere tutti i suoi godimenti e di patire ogni pena, purchè non mancasse a Dio, se mai potesse mancare, una minima particella della felicità che gode. Onde, vedendo che Dio è infinitamente felice nè mai la sua felicità può mancare in eterno, questo è tutto il suo paradiso. Così s'intende quel che dice il Signore ad ogni anima nel possesso che le dà della gloria: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Non già il gaudio entra nel beato, ma il beato entra nel gaudio di Dio, mentre il gaudio di Dio è l'oggetto del gaudio del beato. Sicchè il bene di Dio sarà il bene del beato, la ricchezza di Dio sarà la ricchezza del beato, e la felicità di Dio sarà la felicità del beato.
12. Subito che un'anima entra in cielo e vede alla scoperta col lume della gloria l'infinita bellezza di Dio, si troverà tutta presa e consumata dall'amore. Allora avviene che il beato resta felicemente perduto e sommerso in quel mare infinito della divina bontà. Allora si dimentica di se stesso, ed inebriato dell'amore di Dio, non pensa ad altro che ad amare il suo Dio: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae (Ps. XXXV, 9). Gli ubbriachi non pensano più a sè, e così l'anima beata non pensa che ad amare ed a compiacere l'amato: desidera di possederlo tutto, e già tutto lo possiede senza timore di poterlo più perdere; desidera di darsegli tutta per amore ogni momento, e già l'ottiene poichè in ogni momento si dà tutta a Dio senza riserba: e Dio con amore l'abbraccia, e così abbracciata la tiene e la terrà per tutta l'eternità.
13. Sicchè in cielo l'anima sta unita tutta a Dio e l'ama con tutte le sue forze, con un amor consumato e compito, il quale sebbene è finito, perchè la creatura non è capace di amore infinito, nondimeno è tale che la rende appieno contenta e sazia, sì ch'ella niente più desidera. Iddio all'incontro si comunica e si unisce tutto all'anima, riempiendola di se stesso, per quanto ella n'è capace secondo i suoi meriti; e si unisce a lei, non già per mezzo de' soli suoi doni, lumi ed attratti amorosi, come fa con noi in questa vita, ma colla sua medesima essenza. Siccome il fuoco penetra un ferro e par che tutto in sè lo converta, così Dio penetra l'anima e di sè la riempie; ond'ella benchè non perda il suo essere, non però viene ad essere talmente ripiena ed assorbita in quel mare immenso della sostanza divina, che resta come annientata e più non fosse. Questa era la sorte felice che implorava l'Apostolo a' suoi discepoli: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph. III, 19).
14. E questo è l'ultimo fine che il Signore per sua bontà ci ha dato a conseguire nell'altra vita. Onde finchè l'anima non giunge ad unirsi con Dio in cielo ove si fa l'unione perfetta, non può avere qui in terra il suo pieno riposo. È vero che gli amanti di Gesù Cristo nell'uniformarsi alla divina volontà trovano la loro pace; ma non possono trovare in questa vita il lor pieno riposo, perchè questo si ottiene coll'ottenere l'ultimo fine, qual è di vedere Dio da faccia a faccia ed esser consumati dall'amor divino; e fintanto che l'anima non conseguisce tal fine, sta inquieta e geme, e sospirando dice: Ecce in pace amaritudo mea amarissima (Is. XXXVIII, 17).
15. Sì, mio Dio, io vivo in pace in questa valle di lagrime, perchè questa è la vostra volontà, ma non posso non provare un'inesplicabile amarezza vedendomi da voi lontano e non ancor perfettamente unito con voi che siete il mio centro, il mio tutto e 'l pieno mio riposo.
E perciò i santi benchè ardessero d'amore verso Dio in questa terra pure non faceano che sospirare il paradiso. Davide esclamava: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est! (Ps. CXIX, 5). Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15). S. Paolo dicea di sè: Desiderium habens... esse cum Christo (Phil. I, 23). S. Francesco d'Assisi dicea: «Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto». Questi erano tutti atti di carità perfetta. — Insegna l'Angelico che il grado più alto di carità a cui può ascendere un'anima in questa vita è il desiderare intensamente di andare ad unirsi con Dio ed a goderlo in cielo: Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat, ut Deo inhaereat et eo fruatur, et hoc pertinet ad perfectos qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo (S. Thom. 2. 2. q. 24. a. 9). Ma questo godere di Dio in cielo, come abbiam detto, non tanto consiste nel ricevere l'anima il godimento che ivi Iddio le dona, quanto nel godere del godimento di Dio, amato dall'anima assai più che se stessa.
16. La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio. Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida. E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.
Affetti e preghiere.
O Dio, mio Creatore e mio Redentore, voi mi avete creato per lo paradiso, mi avete redento dall'inferno per condurmi in paradiso, ed io tante volte con offendervi vi ho rinunziato in faccia il paradiso, e mi son contentato di vedermi condannato all'inferno! Ma sia sempre benedetta la vostra misericordia infinita che perdonandomi, come spero, tante volte mi ha cacciato dall'inferno. Ah, Gesù mio, non vi avessi mai offeso! oh vi avessi sempre amato! Mi consolo che ancora mi resta tempo di farlo.
V'amo, o amore dell'anima mia, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso.
Vedo che voi mi volete salvo, acciocch'io v'ami per tutta l'eternità in quel regno di amore. Vi ringrazio, e vi prego ad assistermi nella vita che mi resta, nella quale voglio amarvi assai per amarvi assai poi in eterno.
Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch'io mi vedrò libero dal pericolo di potervi più perdere, e consumato dall'amore verso di voi in vedere alla scoverta la vostra infinita bellezza, sì ch'io sarò necessitato ad amarvi? Oh dolce necessità! oh felice, oh amata, oh desiderata necessità, che mi esimerà da ogni timore di darvi disgusto e mi costringerà ad amarvi con tutte le mie forze!
La mia coscienza mi spaventa, e mi dice: Come tu puoi pretendere il paradiso? Ma i meriti vostri, caro mio Redentore, sono la speranza mia.
O regina del paradiso Maria, la vostra intercessione è onnipotente appresso Dio, in voi confido.

CAPITOLO 15 Caritas omnia credit. Chi ama Gesù Cristo crede a tutte le sue parole.

CAPITOLO XV

Caritas omnia credit.
Chi ama Gesù Cristo
crede a tutte le sue parole.
1. Una persona che ama dà fede a tutto quel che dice l'amato; e perciò quanto è più grande l'amore di un'anima verso Gesù Cristo, tanto è più ferma e viva la sua fede. Il buon ladrone vedendo il nostro Redentore che stava sulla croce morendo senza aver fatto male, e pativa con tanta pazienza, cominciò ad amarlo; onde preso da questo amore ed illuminato poi dalla divina luce, credè esser egli veramente il Figlio di Dio, e quindi lo pregò a ricordarsi di lui quando fosse giunto al suo regno.
2. La fede è il fondamento della carità, sovra cui la carità sta fondata, ma la carità poi è quella che perfeziona la fede. Chi più perfettamente ama Dio più perfettamente crede. La carità fa che l'uomo creda non solo coll'intelletto, ma ancora colla volontà. Quei che credono col solo intelletto, ma non colla volontà, come sono i peccatori i quali conoscono esser troppo vere le verità della fede ma poi non vogliono vivere secondo i divini precetti, essi hanno una fede molto debole; poichè se avessero una fede viva, credendo che la divina grazia è un bene maggior d'ogni bene e che il peccato è un male maggior d'ogni male, mentre ci priva della grazia divina, certamente muterebbero vita. Se dunque preferiscono a Dio i miseri beni di questa terra è perchè o non credono o molto debolmente credono. Chi all'incontro crede non solo coll'intelletto, ma ancora colla volontà, in modo che non solo crede ma vuol credere a Dio rivelante per l'amore che gli porta, e gode nel credere, costui perfettamente crede, e quindi cerca di conformar la sua vita alle verità che crede.
3. La mancanza nonperò della fede in coloro che vivono in peccato non nasce già dall'oscurità della fede, poichè sebbene le cose della fede ha voluto Dio che fossero a noi oscure e nascoste, acciocchè acquistassimo merito nel crederle, nondimeno la verità della fede si è renduta a noi così evidente da' contrassegni che ce la manifestano, che il non crederla non solo sarebbe imprudenza, ma empietà e pazzia. Nasce dunque la debolezza della fede di molti da' loro mali costumi. Chi disprezza la divina amicizia per non privarsi de' piaceri proibiti vorrebbe che non ci fosse legge che gli proibisse nè castigo per chi pecca, e perciò procura di sfuggire la vista delle verità eterne, della morte, del giudizio, dell'inferno, della divina giustizia; e perchè questi oggetti troppo lo spaventano ed amareggiano i suoi diletti, giunge perciò ad assottigliarsi il cervello per trovar ragioni almeno verisimili, con cui possa persuadersi o lusingarsi che non vi sia nè anima nè Dio nè inferno, affin di vivere e morire come le bestie che non hanno nè legge nè ragione.
4. E questa è la fonte, cioè la rilassatezza de' costumi, dalla quale poi son nati e tutto dì escono tanti libri e sistemi di materialisti, indifferentisti, politichisti, deisti e naturalisti; altri de' quali negano la divina esistenza, altri negano la divina provvidenza, dicendo che Dio dopo aver creati gli uomini non si prende più alcuna cura di loro, se l'amano o l'offendono, se si salvano o si perdono; altri negano la divina bontà, dicendo che Dio molte anime l'ha create per l'inferno inducendole egli stesso a peccare, affinchè si dannino e vadano a maledirlo per sempre nel fuoco eterno.
5. Oh ingratitudine e malvagità degli uomini! Un Dio gli ha creati per sua misericordia affin di renderli eternamente beati nel cielo; gli ha colmati di tanti lumi, di benefici e grazie, acciocchè si acquistassero la vita eterna; per lo stesso fine gli ha redenti con tanti dolori e con tanto amore; ed eglino si affaticano di non credere a niente per vivere ne' vizi a loro voglia! Ma no, che per quante fatiche faranno non potranno mai i miseri liberarsi dal rimorso della mala coscienza e dal timore della divina vendetta.
Di questa materia ultimamente diedi alle stampe un'opera intitolata La verità della Fede, nella quale dimostrai con chiarezza l'insussistenza di tutti i sistemi di quest'increduli moderni. — Oh, se essi lasciassero i vizi e si applicassero ad amar Gesù Cristo, certamente che non metterebbero più in dubbio le cose della fede e crederebbero fermamente a tutte le verità da Dio rivelate!
6. Chi ama Gesù Cristo di cuore tiene sempre avanti gli occhi le massime eterne, e secondo quelle dirige le sue operazioni. Chi ama Gesù Cristo, oh come bene intende quel detto del Savio: Vanitas vanitatum et omnia vanitas (Eccl. I, 2), che ogni grandezza terrena è fumo, loto ed inganno; che l'unico bene e felicità di un'anima consiste in amare il suo creatore e adempir la di lui volontà; che tanto noi siamo quanto siamo avanti a Dio; che non serve guadagnar tutto il mondo se l'anima si perde; che tutti i beni della terra non possono contentare il cuore dell'uomo, ma solo Dio lo contenta; in somma che bisogna lasciar tutto per acquistare il tutto.
7. Caritas omnia credit. Alcuni altri cristiani poi non sono così perversi, come quelli che abbiam nominati, i quali vorrebbero non credere a niente per vivere ne' vizi con maggior libertà e senza rimorso; alcuni altri, dico, credono, ma hanno una fede languida; credono i sagrosanti misteri, credono le verità rivelate negli Evangeli, la Trinità, la Redenzione, i sagramenti, ed altre; ma non le credono tutte. — Gesù Cristo ha detto: Beati i poveri; Beati i tribulati; Beati quei che si mortificano; Beati quei che sono perseguitati, mormorati e maledetti dagli uomini: Beati pauperes (Luc. VI, 20); Beati qui lugent (Matth. V, 5); Beati qui esuriunt (Ibid. 6); Beati qui persecutionem patiuntur (Ibid. 10); Beati estis cum maledixerint vobis,... et dixerint omne malum adversum vos (Ibid. 11). Così parla Gesù Cristo negli Evangeli. Ma come può dirsi poi che credono agli Evangeli coloro che dicono: Beato chi ha denari? Beato chi non patisce? Beato chi si piglia spasso? Povero chi è perseguitato e maltrattato dagli altri? Di costoro si ha da dire che o non credono agli Evangeli o che vi credono in parte. — Chi vi crede in tutto, stima sua fortuna e favore divino in questo mondo l'esser povero, l'essere infermo, l'esser mortificato, l'esser disprezzato e maltrattato dagli uomini. Così crede, e così dice chi crede tutto quel che si dice negli Evangeli, ed ha vero amore a Gesù Cristo.
Affetti e preghiere.
Amato mio Redentore, o vita dell'anima mia, io credo che voi siete l'unico bene degno d'essere amato. Credo che voi siete il più grande amante dell'anima mia, mentre sol per amore siete giunto a morire consumato da' dolori per amor mio. Credo che in questa vita e nell'altra non vi è maggior fortuna che l'amarvi e far la vostra volontà. Tutto io lo credo fermamente, e perciò rinunzio a tutto per esser tutto vostro e possedere non altro che voi. Per li meriti della vostra Passione aiutatemi e rendetemi qual voi mi volete.
Verità infallibile, in voi credo: misericordia infinita, in voi confido: infinita bontà, io v'amo: amore infinito che tutto a me vi siete donato nella vostra Passione e nel Sagramento dell'altare, tutto a voi mi dono.
E mi raccomando a voi, o rifugio de' peccatori e madre di Dio Maria.

CAPITOLO 14 Caritas omnia suffert. Chi ama Gesù Cristo soffre tutto per Gesù Cristo, e specialmente le infermità, la povertà e i disprezzi.

CAPITOLO XIV

Caritas omnia suffert.
Chi ama Gesù Cristo
soffre tutto per Gesù Cristo,
e specialmente le infermità,
la povertà e i disprezzi.
1. Parlammo nel capo V della virtù della pazienza in generale. Qui tratteremo di alcune cose particolari circa le quali bisogna specialmente esercitar la pazienza.
Diceva il P. Baldassarre Alvarez che non pensasse un cristiano di aver fatto alcun profitto se non è giunto a tener fissi nel cuore i dolori, la povertà e i disprezzi di Gesù Cristo, per soffrir con pazienza amorosa ogni dolore, ogni povertà ed ogni disprezzo per amor di Gesù Cristo.
Parliamo in primo luogo de' dolori e delle infermità del corpo, le quali fanno acquistarci una gran corona di meriti, quando le soffriamo con pazienza.
S. Vincenzo de' Paoli dicea: «Se conoscessimo il prezioso tesoro che si racchiude nelle infermità, le riceveressimo con quel giubilo con cui si ricevono i maggiori benefici». E quindi il santo, essendo continuamente travagliato da tante infermità che spesso non lo lasciavano riposare nè di giorno nè di notte, le sopportava con tanta pace e serenità di volto, senza lamentarsene, che sembrava di non aver alcun male. Oh che bella edificazione dà un infermo che con volto tranquillo tollera le malattie, come facea S. Francesco di Sales! Egli, stando infermo, esponea semplicemente al medico il suo male, l'ubbidiva puntualmente nel prendere tutti i rimedi quantunque dispiacevoli che gli prescriveva, e poi se ne restava in pace senza lamentarsi di quel che pativa. A differenza di taluni che per ogni picciolo incomodo che soffrono non si saziano di lamentarsene con tutti, e vorrebbero che tutti, parenti ed amici, loro stessero d'intorno a compatire i lor mali. Ma S. Teresa esortava le sue religiose: «Sorelle, sappiate soffrir qualche cosa per amor del Signore senza che tutti la sappiano». Il Ven. P. Luigi da Ponte in un venerdì santo fu regalato da Gesù Cristo con tanti dolori corporali che non vi era parte del corpo che non patisse il suo particolar tormento; egli narrò questo suo patimento sì acerbo ad un amico, ma, dopo averlo detto, talmente se ne pentì che fece voto di non mai palesare più a verun altro i suoi patimenti.
2. Ho detto che fu regalato; sì, perchè i santi stimano regali le infermità e i dolori che Dio lor manda. Un giorno S. Francesco d'Assisi stava sul letto molto cruciato da dolori; gli disse un compagno che l'assisteva: «Padre, pregate Dio che vi alleggerisca questo travaglio, e non calchi tanto la mano sovra di voi». In udire ciò il santo subito sbalzò dal letto e, inginocchiato a terra, si pose a ringraziare Iddio di quei dolori; e poi rivolto al compagno: «Sentite, gli disse, se non sapessi che voi avete parlato per semplicità, io non vorrei vedervi più».
3. Dirà quell'infermo: A me non tanto dispiace il patire questa infermità, quanto mi dispiace che non posso andare alla chiesa a far le mie divozioni, a comunicarmi, a sentir la Messa; non posso andare al coro a dir l'officio co' miei fratelli, non posso celebrare, non posso neppure fare orazione, perchè tengo la testa tutta addolorata e svanita. Ma ditemi, di grazia: Voi perchè volete andare alla chiesa, o al coro? perchè volete comunicarvi e dire o sentire la Messa? per dar gusto a Dio? Ma il gusto di Dio ora non è che voi diciate l'officio, vi comunichiate o udiate la Messa; ma che con pazienza vi tratteniate in questo letto e sopportiate le pene di questa infermità. Ma questo mio parlare a voi non piace; dunque voi non cercate di fare quel che piace a Dio, ma quel che piace a voi. Il Ven. P. Maestro d'Avila scrisse (Epist. II) ad un sacerdote che appunto di ciò si lagnava: «Amico, non istate a fare il conto di quel che fareste essendo sano, ma contentatevi di stare infermo per quanto a Dio piacerà. Se voi cercate la volontà di Dio, che cosa più v'importa lo star sano che infermo?»
4. Dite che non potete neppur far orazione perchè la testa non vi regge. Sì, signore, non potete meditare; ma perchè non potete far atti di uniformità alla volontà di Dio? E se fate questi atti, questa è la più bella orazione che mai potete fare, abbracciando con amore i dolori che vi affliggono. Così faceva S. Vincenzo de' Paoli; quando egli stava gravemente infermo, si metteva dolcemente alla presenza di Dio senza far violenza di applicar la mente a qualche punto particolare; e solamente si esercitava in fare qualche atto da quando in quando or di amore, or di confidenza, or di ringraziamento, e più spesso poi di rassegnazione sempre che incalzavano i dolori. Dicea S. Francesco di Sales: «Le tribulazioni considerate in se stesse sono spaventose; ma considerate nella volontà di Dio sono amore e delizie». Non potete fare orazione? E che più bella orazione che andar rimirando il Crocifisso da quando in quando, ed offerirgli le pene che soffrite, unendo quel poco che voi patite ai dolori immensi che patì Gesù Cristo sulla croce?
5. Stando in letto una santa donna travagliata da molti mali, una sua domestica le diede in mano un Crocifisso, e poi le disse che 'l pregasse a liberarla da quelle pene. Rispose l'inferma: «Ma come volete ch'io cerchi di scendere dalla croce, mentre tengo nelle mani un Dio crocifisso? Iddio me ne guardi. Voglio patir per colui che ha voluto patire per me dolori molto più grandi de' miei». E questo appunto disse Gesù medesimo a S. Teresa, mentr'ella stava inferma e molto travagliata; egli le apparve tutto impiagato, e poi così le disse: «Mira, figlia, l'acerbità delle mie pene, e considera se le tue posson paragonarsi colle mie». Quindi la santa solea poi dire, allorchè era afflitta dalle infermità: «Quando io penso in quanti modi patì il Signore essendo affatto innocente, non so dov'io mi abbia il cervello in lamentarmi de' miei patimenti». — S. Liduvina per 38 anni patì continuamente molti mali, febbre, podagra, chiragra, schiranzia e piaghe per tutta la vita; e, perchè tenea sempre davanti gli occhi i dolori di Gesù Cristo, sempre se ne stava nel suo letto allegra e gioviale. Parimente S. Giuseppe da Leonessa cappuccino, dovendo il cerusico dargli un gran taglio e volendo i frati ligarlo colle funi, acciocchè non facesse moto per la veemenza del dolore, egli prese in mano il Crocifisso e disse: «Che funi, che funi! Ecco chi mi lega a soffrire con pace ogni dolore per amor suo»; e così soffrì il taglio senza lagnarsi. S. Giona martire, essendo stato una notte dentro il ghiaccio per ordine del tiranno, disse la mattina di non avere avuta notte più tranquilla di quella, perchè si avea rappresentato Gesù pendente in croce, e così i suoi dolori, a paragone di quelli di Cristo, gli erano sembrati più tosto carezze che tormenti.
6. Oh quanti meriti si possono acquistare col solo soffrir con pazienza le infermità! Al P. Baldassarre Alvarez fu data a vedere la gran gloria che Dio avea preparata ad una divota religiosa per un'infermità da lei sofferta con gran pazienza; e disse ch'ella aveva meritato più in otto mesi di quell'infermità che alcune altre religiose divote in più anni. — Col patire pazientemente i dolori delle nostre infermità si compisce una gran parte e forse la maggior parte della corona che Dio ci apparecchia in paradiso. Ciò appunto fu rivelato a S. Liduvina. Ella dopo aver patito tante infermità così dolorose, come di sopra si disse, desiderava di morir martire per Gesù Cristo; or mentre un giorno stava sospirando questo martirio, vide una bella corona, ma non ancor finita, ed intese che quella per lei si preparava: onde la santa, anelando che si compisse, pregò il Signore ad accrescerle i dolori. Il Signore la esaudì, mentre le mandò alcuni soldati che non solo con ingiurie, ma anche con bastonate molto la maltrattarono. Indi le apparve un angiolo colla corona già compita, e le disse che quegli ultimi strapazzi vi avean poste le gemme che vi mancavano, e poco appresso se ne morì.
7. Ah che all'anime che ardentemente amano Gesù Cristo, son troppo graditi e soavi i dolori e l'ignominie! E perciò con tanta allegrezza andavano i santi martiri ad incontrare gli eculei, le unghie di ferro, le piastre infuocate e le mannaie. S. Procopio martire, mentre il tiranno lo tormentava, gli disse: «Tormentami quanto vuoi, ma sappi, che a chi ama Gesù Cristo non vi è cosa più cara che il patire per suo amore». Similmente S. Gordiano anche martire disse al tiranno che gli minacciava la morte: «Tu mi minacci la morte, ma a me dispiace che non posso morire più d'una volta per Gesù Cristo mio». Ma che forse, dimando, questi santi parlavano così perchè erano insensibili a' tormenti o erano stupidi di mente? No, risponde S. Bernardo: Hoc non fecit stupor, sed amor. Non erano già stupidi, ben sentivano essi i dolori de' tormenti che loro davano; ma, perchè amavano Dio, stimavano gran guadagno il patir tutto e 'l perder tutto, sin anche la vita, per amore di Dio.
8. Sovra tutto in tempo d'infermità dobbiamo esser pronti ad accettar la morte, e quella morte che piace a Dio. Si ha da morire, e nell'ultima infermità ha da finir la nostra vita, e non sappiamo quale sarà l'ultima infermità per noi. Onde bisogna che in ogni malattia ci apparecchiamo ad abbracciar la morte che da Dio ci sta determinata. — Dice quell'infermo: Ma io ho fatti tanti peccati e niente di penitenza. Vorrei vivere non per vivere, ma per rendere a Dio qualche soddisfazione prima di morire. Ma ditemi, fratello mio, come sapete voi che vivendo farete penitenza, e non farete peggio di prima? Ora ben potete sperare che Dio v'abbia perdonato; che più bella penitenza è questa che accettar con rassegnazione la morte, se Dio così vuole? S. Luigi Gonzaga, morendo giovine di 23 anni, con questo pensiero abbracciò allegramente la morte: «Ora, disse, io mi trovo, come spero, in grazia di Dio. Appresso non so che ne sarebbe di me; onde contento io muoio, se ora piace a Dio di chiamarmi all'altra vita». Era sentimento del P. Giovanni d'Avila che ognuno il quale si ritrova con buona disposizione, ancorchè mediocre, dee desiderar la morte per uscir dal pericolo in cui viviamo sempre su questa terra di poter peccare e perdere la grazia di Dio.
9. Inoltre in questo mondo non si può vivere, per la nostra natural fragilità, senza commettere peccati almeno veniali; onde almeno a questo riguardo, per non offendere più Dio, dobbiamo abbracciare con allegrezza la morte. Di più, se noi veramente amiamo Dio, dobbiamo ardentemente sospirare di andare a vederlo e ad amarlo con tutte le forze in paradiso, il che niuno può farlo perfettamente in questa vita: ma se la morte non ci apre la porta, non possiamo entrare in quella beata patria d'amore. Perciò esclamava l'innamorato di Dio S. Agostino: Eia moriar, Domine, ut te videam: Signore, fatemi morire, perchè se non muoio non posso venire a vedervi e ad amarvi da faccia a faccia.
10. In secondo luogo bisogna esercitar la pazienza nel soffrire la povertà.
È certo che bisogna molto esercitar la pazienza allorchè ci mancano i beni temporali. Dice S. Agostino: «Chi non ha Dio ha niente; chi ha Dio ha tutto». Chi ha Dio e sta unito colla divina volontà, in Dio trova ogni bene. Ecco un S. Francesco, scalzo, vestito di un sacco, e povero di tutto, che in dire Deus meus et omnia, si trova più ricco che tutti i monarchi della terra. Povero si chiama chi desidera quei beni che non ha; ma chi non desidera alcuna cosa e si contenta della sua povertà è ricco appieno. Di costoro dice S. Paolo: Nihil habentes et omnia possidentes (II Cor. VI, 10). Niente hanno ed hanno tutto i veri amanti di Dio; perchè, quando mancan loro i beni temporali, dicono: Gesù mio, tu solo mi basti, e così restano contenti.
I santi non solo hanno avuto pazienza nella loro povertà, ma han cercato di spogliarsi di tutto per vivere distaccati da tutto ed uniti solamente a Dio. Se noi non abbiamo lo spirito di rinunziare a tutti i beni di questa terra, almeno contentiamoci di quello stato in cui ci vuole il Signore; e la nostra sollecitudine non sia per le ricchezze terrene, ma per quelle del paradiso che sono immensamente più grandi e sono eterne; e persuadiamoci di ciò che dice S. Teresa: «Quanto meno avremo di qua, tanto più godremo di là».
11. Dicea S. Bonaventura che l'abbondanza de' beni temporali non è altro che un vischio all'anima, che l'impedisce di volare a Dio. E così all'incontro scrisse S. Giovan Climaco che la povertà è una via di camminare a Dio senza impedimento. — Disse il Signore: Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum caelorum (Matth. V, 3). Alle altre beatitudini, de' mansueti, de' mondi di cuore, sta promesso il cielo in futuro; ma ai poveri sta promesso il cielo, cioè il gaudio celeste, anche in questa vita, ipsorum est regnum caelorum; sì, perchè anche in questa vita i poveri godono un paradiso anticipato.Poveri di spirito, viene a dire che non solo son poveri di beni terreni, ma che neppure li desiderano; ed avendo quanto loro basta per alimentarsi e vestirsi, come esorta l'Apostolo, vivono contenti: Habentes autem alimenta et quibus tegamur, his contenti simus (I Tim. VI, 8).
«O beata povertà, esclamava S. Lorenzo Giustiniani, che niente possiede e niente paventa! Ella è sempre allegra e sempre abbondante, mentre ogni incomodo che prova lo fa servire al profitto dell'anima». Scrive S. Bernardo: Avarus terrena esurit ut mendicus, pauper contemnit ut dominus (Serm. 2 in Cant.): l'avaro sempre sta famelico qual mendico, perchè non mai arriva a saziarsi de' beni desiderati; il povero all'incontro, qual signore del tutto, li disprezza, perchè niente desidera.
12. Disse un giorno Gesù Cristo alla B. Angela da Foligno: «Se la povertà non fosse un gran bene, io non l'avrei eletta per me nè l'avrei lasciata per porzione a' miei eletti». Ed infatti i santi vedendo Gesù povero, perciò hanno tanto amata la povertà. Dice S. Paolo che il desiderio di farsi ricco è un laccio del demonio col quale ha fatti perdere più uomini: Qui volunt divites fieri, incidunt... in laqueum diaboli, et desideria... nociva, quae mergunt homines in interitum et perditionem (I Tim. VI, 9). Infelici, che per li miseri beni di questo mondo perdono un infinito bene ch'è Dio!
Ben dunque ebbe ragione S. Basilio martire, quando Licinio imperatore gli fe' proporre che se lasciava Gesù Cristo lo faceva principe de' suoi sacerdoti, ebbe ragione, dico, di rispondergli: «Dite all'imperatore che se volesse darmi tutto il suo imperio non mi potrebbe dar tanto quanto mi toglierebbe, facendomi perdere Dio». Ci basti dunque Iddio, e ci bastino quei beni che ci dà, rallegrandoci di vederci poveri allorchè ci manca quel che vorressimo e non l'abbiamo: poichè qui sta il merito. Non paupertas, dice S. Bernardo, virtus reputatur, sed paupertatis amor (Epist. ad Duc. Conrad.). Molti son poveri, ma, perchè non amano la loro povertà, niente meritano; perciò dice S. Bernardo che la virtù della povertà non consiste nell'esser povero, ma nell'amare la povertà.
13. E quest'amore alla povertà debbono specialmente averlo le persone religiose che han fatto voto di povertà. Molti religiosi, dice il medesimo S. Bernardo: Pauperes esse volunt, eo tamen pacto ut nihil eis desit (Serm. de adv. Dom.): vogliono esser poveri, ma non vogliono che lor manchi niente. Sicchè, dice S. Francesco di Sales, «vogliono l'onore della povertà, ma non gl'incomodi della povertà». Per costoro vale quel che dicea la B. Solomea monaca di S. Chiara: «Sarà burlata dagli angeli e dagli uomini quella monaca che vuol esser povera e poi si lamenta quando le manca qualche cosa». Non fanno così le buone religiose: amano la loro povertà più d'ogni ricchezza. La figlia dell'imperator Massimiliano II, monaca scalza di S. Chiara, chiamata Suor Margarita della Croce, comparendo all'arciduca Alberto suo fratello con un abito rappezzato, quegli se ne ammirò come di cosa sconvenevole alla di lei nobiltà; ma ella gli rispose: «Fratello, io sto più contenta con questo straccio che tutti i monarchi colle loro porpore». Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi: «Oh fortunati i religiosi che, staccati da tutto per mezzo della santa povertà, possono dire: Dominus pars hereditatis meae! (Ps. XV, 5): Dio mio, tu sei la mia parte, ed ogni mio bene!» — S. Teresa, avendo ricevute più limosine da un mercante, gli mandò a dire che il suo nome stava scritto nel libro della vita, e per segno di ciò le cose di questa terra gli sarebbero mancate; ed in fatti il mercante fallì e fu povero sino alla morte. Dicea S. Luigi Gonzaga che non vi è segno più certo per uno che sia del numero degli eletti, quanto in vederlo timorato di Dio e nel tempo stesso esercitato con travagli e desolazioni in questo mondo.
14. Si appartiene ancora in qualche modo alla santa povertà l'esser privato in questa vita de' parenti e degli amici colla morte; ed in ciò parimente bisogna molto esercitar la pazienza. Taluni perdendo un parente, un amico, non sanno darsi pace, si chiudono in una camera a piangere, ed, abbandonandosi alla mestizia, diventano talmente impazienti che si rendono impraticabili. Vorrei saper da costoro, con affliggersi essi in tal modo e spargere immoderatamente tante lagrime, a chi danno gusto? A Dio? A Dio no, perchè Dio vuol che ci rassegniamo alla sua volontà. A quell'anima trapassata? Neppure. Quell'anima, se mai si è perduta, odia voi e le vostre lagrime; se si è salvata e già sta in cielo, desidera che ringraziate Dio per lei; se poi sta al purgatorio, desidera che la soccorriate colle vostre orazioni, e che voi vi uniformiate al divino volere e vi facciate santo, acciocchè un giorno vi abbia per compagno in paradiso. E così quel tanto piangere a che giova? Il Ven. P. Giuseppe Caracciolo teatino, essendogli morto un fratello e stando un giorno cogli altri suoi parenti che non cessavano di piangere, disse loro: «Eh via, serbiamo queste lagrime per migliore oggetto, per piangere la morte di Gesù Cristo che ci è stato padre, fratello e sposo, ed è morto per nostro amore». — In tali occasioni bisogna fare come fece Giobbe che ricevendo la notizia d'essergli stati uccisi i figli, egli tutto uniformato al voler divino disse: Dominus dedit, Dominus abstulit: Iddio mi ha dati questi figli e Dio me l'ha tolti: Sicut Domino placuit, ita factum est: sit nomen Domini benedictum (Iob. I, 21): quel che è avvenuto è piaciuto a Dio, e così piace ancor a me: ond'egli sempre sia da me benedetto.
15. In terzo luogo dobbiam esercitar la pazienza e dimostrare il nostro amore a Dio nel soffrire con pace i disprezzi che riceviamo dagli uomini.
Quando un'anima si dà tutta a Dio, Dio stesso fa o permette che sia dagli uomini vilipesa e perseguitata. Un giorno apparve un angelo al B. Errico Susone, e gli disse «Errico, sinora ti sei mortificato a modo tuo, da oggi avanti sarai mortificato come piacerà agli altri». E nel giorno seguente il beato, affacciandosi ad una finestra, vide un cane che teneva uno straccio in bocca e l'andava tutto lacerando; allora udì una voce che gli disse: «Così tu hai da essere lacerato dalle bocche degli uomini». Allora il B. Errico calò giù e si prese quello straccio conservandolo per suo conforto nel tempo de' travagli che gli erano stati prenunziati.
16. Gli affronti e le ingiurie sono le delizie bramate e cercate da' santi. S. Filippo Neri, perchè nella casa di S. Geronimo in Roma da 30 anni vi pativa molti maltrattamenti da alcuni, non volle lasciarla e passare al nuovo oratorio della Chiesa Nuova da lui fondata, dove già abitavano i suoi diletti figli che l'invitavano a ritirarsi con essi, finchè non si vide obbligato a passarvi per comando espresso del Papa. S. Giovanni della Croce dovendo mutar aria per causa di un'infermità che poi lo portò alla morte, pospose un convento più comodo in cui trovavasi un priore suo affezionato e si elesse un convento povero ove presiedea un priore suo nemico, il quale in fatti poi per molto tempo e quasi persino alla di lui morte lo vilipese e maltrattò in molti modi, proibendo ancora agli religiosi che l'andassero a visitare. Ecco come i santi giungono sino ad andar cercando di esser vilipesi. S. Teresa scrisse questa memorabil massima: «Chi aspira alla perfezione si ha da guardar bene di dire: Mi fecero ciò senza ragione. Se tu non vuoi portar croce, se non quella che sta appoggiata alla ragione, la perfezione non fa per te». È celebre la risposta ch'ebbe dal Crocifisso S. Pietro martire, mentr'egli lamentavasi che a torto stava carcerato senza aver fatto male; il Signore gli rispose: «Ed io che male ho fatto che ho avuto a star su questa croce a patire e morire per gli uomini?»
Oh come i santi allorchè sono ingiuriati si consolano colle ignominie che patì per noi Gesù Cristo! S. Eleazaro richiesto dalla sua sposa, come facesse a soffrir con tanta pazienza le tante ingiurie che ricevea per fin da' suoi medesimi servi, rispose: «Io mi rivolgo a considerare Gesù disprezzato, e vedo che i miei affronti son niente a rispetto di quelli ch'egli ha sofferti per me, e così Dio mi dà forza a soffrir tutto con pace». In somma gli affronti, la povertà, i dolori e tutte le tribulazioni, cadendo sovra di un'anima che non ama Dio le sono occasioni di più allontanarsi da Dio; ma cadendo sovra di un'anima amante di Dio le son motivi di più stringersi con Dio e di più amarlo. Aquae multae non potuerunt exstinguere caritatem (Cant. VIII, 7). I travagli per quanto sieno molti e gravi non solo non ispegnono, ma di più aumentano le fiamme della carità in un cuore che non ama altro che Dio.
17. Ma perchè Iddio ci carica di tante croci e gode in vederci tribulati, vilipesi, perseguitati e maltrattati dal mondo? Che forse egli è un tiranno, di genio così crudele che si compiace di vederci patire? No, non è tiranno Dio nè è di genio crudele; egli è tutto pietà ed amore verso di noi; basta dire che ci ha amati sino a morire per noi. Gode sì in vederci patire, ma per nostro bene, acciocchè patendo qui, restiam liberati dalle pene che dovressimo patire nell'altra vita per li debiti da noi contratti colla divina giustizia; ne gode acciocchè non ci attacchiamo a' piaceri sensibili di questa terra: la madre quando vuole slattare il fanciullo mette fiele alle poppe, affinchè il figlio vi prenda abborrimento; ne gode acciocchè col patire con pazienza e rassegnazione gli diamo qualche prova del nostro amore; ne gode finalmente acciocchè col patire acquistiamo gloria maggiore in paradiso. Per questi fini, che son tutti fini di pietà e d'amore, gode il Signore di vederci patire.
18. Concludiamo questo capo. Affin di ben esercitare la santa pazienza in tutte le tribulazioni che ci occorrono, bisogna persuaderci che ogni travaglio viene dalle mani di Dio o direttamente o indirettamente per mezzo degli uomini; e perciò quando ci vediamo tribulati bisogna ringraziarne il Signore, ed accettar con animo allegro quanto egli dispone per noi di prospero o di avverso, perchè tutto lo dispone per nostro bene: Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Rom. VIII, 28). Di più, quando ci affligge qualche travaglio, giova dare un'occhiata all'inferno un tempo da noi meritato, poichè ogni pena a confronto dell'inferno sarà sempre immensamente minore. Ma per soffrire con pazienza ogni dolore, ogni obbrobrio ed ogni cosa contraria, più d'ogni considerazione giova la preghiera: l'aiuto divino che ci sarà dato dopo la preghiera, ci darà quella forza che noi non abbiamo. Così han fatto i santi, si son raccomandati a Dio ed han superati tutti i tormenti e le persecuzioni.
Affetti e preghiere.
Signore, io son persuaso già, che senza patire e patir con pazienza non posso acquistar la corona del paradiso. Dicea Davide: Ab ipso patientia mea (Ps. LXI, 6). Lo stesso dico ancor io: da voi ha da essermi concessa la pazienza nel patire. Io propongo di accettar con pace tutte le tribulazioni; ma poi, allorchè avvengono, subito mi attristo e mi sgomento; e se patisco, patisco senza merito e senza amore, perchè non so soffrirle per darvi gusto. Deh, Gesù mio, per li meriti della vostra pazienza in soffrir tante pene per amor mio, datemi la grazia di soffrire le croci per amor vostro.
Io v'amo con tutto il cuore, caro mio Redentore, v'amo, sommo mio bene, v'amo, mio amore, degno d'infinito amore.
Mi pento sovra ogni male di quanti disgusti vi ho dati.
Vi prometto di accettar con pazienza tutti i travagli che voi mi mandate; ma da voi spero il soccorso per eseguirlo, specialmente per soffrire con pace i dolori della mia agonia e morte.
Regina mia Maria, impetratemi voi una vera rassegnazione a quanto mi resterà da patire in vita ed in morte.

CAPITOLO 13 Caritas non cogitat malum, non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati. Chi ama Gesù Cristo non vuol altro se non quel che vuole Gesù Cristo.

CAPITOLO XIII

Caritas non cogitat malum,
non gaudet super iniquitatem,
congaudet autem veritati.
Chi ama Gesù Cristo non vuol altro
se non quel che vuole Gesù Cristo.
1. La carità va sempre unita colla verità, onde la carità conoscendo che Dio è l'unico e vero bene, perciò abborrisce l'iniquità che si oppone alla divina volontà, e di altro non si compiace, se non di quello che vuole Iddio. Quindi è che l'anima che ama Dio poco si cura di quel che gli altri dicono di lei, e solo attende a fare quel che piace a Dio. Dicea il B. Errico Susone: «Quegli veramente sta bene con Dio, il quale si studia di soddisfare alla verità, e poi nulla stima in qualunque modo sia trattato o riputato dagli uomini».
2. Già di sovra più volte abbiam detto che tutta la santità e perfezione di un'anima consiste nel negare se stessa e nel seguire la volontà di Dio; ma qui cade il parlarne più di proposito. Questo dunque dee esser tutto il nostro studio, se vogliamo farci santi, il non seguir mai la propria volontà, ma sempre quella di Dio; poichè la sostanza di tutti i precetti e consigli divini si ristringe in fare e patire quel che vuole Dio e come lo vuole Dio. Preghiamo pertanto il Signore che ci doni la santa libertà di spirito: la libertà di spirito ci fa abbracciare ogni cosa che piace a Gesù Cristo, non ostante qualunque ripugnanza dell'amor proprio o di rispetto umano. L'amore di Gesù Cristo mette i suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto loro è uguale, il dolce e l'amaro: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono quel che piace a Dio; colla stessa pace s'impiegano nelle cose grandi che nelle picciole, nelle cose piacevoli che nelle dispiacevoli: basta loro di piacere a Dio.
3. Dice S. Agostino: Ama et fac quod vis, ama Dio, e fa quel che vuoi. Chi ama veramente Iddio non va cercando altro che il gusto di Dio, ed in ciò solo trova il suo contento, in dar gusto a Dio. Scrive S. Teresa: «Chi non cerca se non la contentezza del suo diletto è contento di tutto ciò che il diletto appaga. Questa forza ha l'amore quando è perfetto, fa egli dimenticar la persona d'ogni proprio vantaggio e soddisfazione, e fa tutto rivolgere il di lei pensiero in dar gusto al suo diletto e in cercare come possa per sè e per altri onorarlo. Oh Signore, che tutto il danno ci viene dal non tenere gli occhi fissi in voi! Se non mirassimo che a camminare, presto giungeressimo; ma cadiamo ed inciampiamo mille volte ed anche erriamo la via per non mirare attentamente il vero cammino». Ecco pertanto quale dee esser l'unico scopo di tutti i nostri pensieri, delle azioni, de' desideri e delle nostre preghiere, il gusto di Dio; e questo ha da essere il nostro cammino alla perfezione, l'andare appresso alla volontà di Dio.
4. Iddio vuole che ognuno di noi l'ami con tutto il cuore: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo (Matth. XXII, 37). Quell'anima ama Gesù Cristo con tutto il suo cuore, la quale gli dice di vero cuore quel che gli disse l'Apostolo: Domine, quid me vis facere? (Act. IX, 6): Signore, fatemi sapere quel che volete da me, ch'io tutto voglio farlo. Ed intendiamo, che quando noi vogliamo ciò che vuole Dio allora vogliamo il nostro maggior bene; perchè certamente Iddio non vuole che il meglio per noi. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «La conformità al divino volere è il tesoro del cristiano ed il rimedio per tutti i mali; poichè ella contiene l'annegazione di sè e l'unione con Dio e tutte le virtù». Ecco in somma ove sta tutta la perfezione: Domine, quid me vis facere? Ci promette Gesù Cristo: Et capillus de capite vestro non peribit (Luc. XXI, 18). Viene a dire che il Signore ci paga ogni buon pensiero che abbiamo di dargli gusto ed ogni tribolazione che abbracceremo con pace uniformandoci alla sua santa volontà. Dicea S. Teresa: «Il Signore non manda mai un travaglio senza pagarlo con qualche favore, sempre che noi l'accettiamo con rassegnazione».
5. Ma la nostra uniformità al divino volere ha da essere intiera senza riserba, e costante senza rivocazione. Qui consiste il sommo della perfezione, ed a ciò, replico, debbono tendere tutte le nostre operazioni, tutti i desideri e tutte le nostre orazioni. — Alcune anime di orazione leggendo le estasi e i ratti di S. Teresa, di S. Filippo Neri e di altri santi, s'invogliano di giungere ad avere queste unioni soprannaturali. Tali desideri debbono discacciarsi, perchè son contrari all'umiltà; se vogliamo farci santi dobbiamo desiderare la vera unione con Dio ch'è l'unire totalmente la nostra volontà con quella di Dio. Scrive S. Teresa: «S'ingannano quei che credono che l'unione con Dio consiste in estasi, ratti e godimenti di lui. Ella non consiste in altro che nel soggettare la nostra volontà alla volontà di Dio; ed allora questa soggezione è perfetta, quando la volontà nostra si trova staccata da tutto, ed unicamente unita a quella di Dio, sì che ogni suo movimento sia il solo volere di Dio. Questa è la vera ed essenziale unione che sempre ho desiderata e continuamente chiedo al Signore». E poi soggiunge: «Oh quanti siamo che diciamo questo e parci di non volere altro che questo; ma, miseri noi, quanto pochi ci arriviamo!» E questa è la verità: molti diciamo: Signore, vi dono tutta la mia volontà, non voglio altro se non quel che volete voi; ma quando poi ci avvengono le cose contrarie, non sappiamo quietarci colla divina volontà. E qui ne nasce quel lamentarci di aver mala fortuna in questo mondo, e 'l dire che tutte le disgrazie son le nostre, e di fare una vita infelice.
6. Se noi stessimo uniti colla divina volontà in tutte le avversità, ci faressimo certamente santi, e saressimo i più felici del mondo. Questa dunque dee essere tutta la nostra attenzione, di tenere unita la nostra volontà a quella di Dio in tutte le cose che ci succedono, o piacevoli o dispiacevoli. — Ci avverte lo Spirito Santo: Non ventiles te in omnem ventum (Eccli. V, 11). Taluni fanno come le banderuole che si voltano secondo tira il vento; se il vento è prospero, com'essi desiderano, si vedono tutti allegri e mansueti; ma se il vento è contrario, che le cose non avvengono come vorrebbero, si vedono tutti mesti ed impazienti; e perciò non si fanno santi, e fanno una vita infelice, perchè in questa vita assai più sono le cose avverse che le prospere ad accaderci. Dicea S. Doroteo che il ricevere dalle mani di Dio tutte le cose, comunque vengano, è un gran mezzo per conservarsi in una continua pace e tranquillità di cuore. E perciò narra il santo che gli antichi padri dell'eremo non erano mai veduti adirati e malinconici, perchè quanto loro accadeva tutto lo prendeano allegramente dalle mani di Dio.
Oh beato chi vive tutto unito ed abbandonato nel divino volere! Egli non si gonfia per gli successi felici nè si abbatte per gli avversi, sapendo che tutti vengono dalla stessa mano di Dio; la sola volontà di Dio è la regola del suo volere; e perciò non fa altro se non quello che vuole Dio, e non vuole altro se non quello che fa Iddio. Non s'impegna a far molte cose, ma solo a far perfettamente ciò che intende esser gusto di Dio. Quindi antepone le più picciole obbligazioni del suo stato alle azioni più grandi e gloriose, vedendo che in queste vi può aver parte l'amor proprio, ma in quelle vi è certamente la volontà di Dio.
7. Sicchè allora noi sarem beati, se riceveremo da Dio tutte le cose ch'egli dispone, con perfetta uniformità al suo divino volere, senza badare se sono uniformi o contrarie al nostro genio. Dicea la santa madre di Chantal: «Quando sarà che noi gusteremo la dolcezza della divina volontà in tutto ciò che ci avviene, non considerando altro che il divino beneplacito dal quale è certo che, con eguale amore e per lo nostro meglio, ci vengono compartite così le avversità che le prosperità? Quando sarà che ci abbandoneremo affatto nelle braccia del nostro amorisissimo Padre celeste lasciando a lui la cura delle nostre persone e de' nostri affari, non riserbando per noi che il solo desiderio di piacere a Dio?» — Diceano gli amici del P. S. Vincenzo de' Paoli allorchè viveva: «Il signor Vincenzo è sempre Vincenzo». E voleano dire che il santo in ogni evento, prospero o avverso, si vedea sempre colla faccia serena, sempre eguale a se stesso: poichè, vivendo tutto abbandonato in Dio, di niente temeva e nulla altro volea, se non quello che piaceva a Dio. Scrive S. Teresa: «In questo santo abbandonamento si genera quella bella libertà di spirito che hanno i perfetti, in cui trovasi tutta la felicità che in questa vita si può desiderare: poichè di nulla temendo e nulla volendo o bramando delle cose del mondo, tutto possedono».
8. Molti all'incontro si formano la santità secondo la loro inclinazione: chi è malinconico, nel viver solitario: altri ch'è faccendiere, in predicare e trattar paci: altri che ha genio aspro, in far penitenze e macerazioni: altri ch'è di genio liberale, in far limosine: altri in far molte orazioni vocali: altri in visitar santuari; e qui fan consistere tutta la loro santità. Le opere esterne son frutti dell'amore a Gesù Cristo, ma il vero amore consiste nell'uniformarci in tutto alla volontà di Dio, ed in conseguenza in negare noi stessi ed eleggere quello che più piace a Dio, e solo perchè se lo merita.
9. Altri vogliono servire a Dio, ma in quello impiego, in quel luogo, con quei compagni o altre circostanze, altrimenti o lasciano l'opera o la fanno di mala voglia. Costoro non sono liberi di spirito, ma schiavi dell'amor proprio, e perciò poco meritano anche in ciò che fanno; ed all'incontro vivono sempre inquieti, perchè stando attaccati alla propria volontà, riesce poi loro grave il giogo di Gesù Cristo. I veri amanti di Gesù Cristo amano solo quel che piace a Gesù Cristo, e solo perchè piace a Gesù Cristo; e quando lo vuole e dove lo vuole e nel modo che lo vuole Gesù Cristo: o che voglia esso impiegarli in affari onorevoli o in faccende umili e vili, o in una vita di comparsa nel mondo o nascosta e negletta. Ciò importa il puro amore di Gesù Cristo; ed in ciò dobbiamo affaticarci combattendo contra gli appetiti dell'amor proprio che vorrebbe vederci occupati in quelle opere solamente che son gloriose o di nostra inclinazione. Ed a che serve l'esser in questo mondo il più onorato, il più ricco, il più grande senza la volontà di Dio? Diceva il B. Errico Susone: «Io vorrei più presto essere una vile bestiuola della terra colla volontà di Dio, che un serafino del cielo colla volontà mia».
10. Dice Gesù Cristo: Molti mi diranno: Signore, in nome tuo abbiamo discacciati i demoni e fatte gran cose: Domine, nonne in nomine tuo prophetavimus, et in nomine tuo daemonia eiecimus, et in nomine tuo virtutes multas fecimus? (Matth. VII, 22). Ma il Signore lor risponderà: Numquam novi vos; discedite a me qui operamini iniquitatem (Ibid. 23): Andate via, io non vi ho conosciuti mai per miei discepoli, mentre voi avete voluto più presto seguire il vostro genio che il mio volere. E ciò va detto specialmente per quei sacerdoti operari che si affaticano per la salute e perfezione degli altri, ed essi intanto se ne vivono sempre nel pantano delle loro imperfezioni.
La perfezione consiste: 1º in un vero disprezzo di se stesso; 2º in una total mortificazione de' propri appetiti; 3º in una conformità perfetta alla volontà di Dio; chi manca in una di queste virtù è fuori della via della perfezione. Perciò diceva un gran servo di Dio esser meglio nelle nostre azioni proporci il solo fine di fare la volontà di Dio che la gloria di Dio; perchè facendo la volontà di Dio, noi anche procuriamo la sua gloria; ma proponendoci la gloria di Dio, spesso c'inganniamo, facendo la volontà propria sotto il pretesto della gloria di Dio. Scrive S. Francesco di Sales: «Son molti quei che dicono al Signore:Io mi do tutto a voi senza riserva; ma pochi sono quei che abbracciano la pratica di questo abbandonamento. Questo consiste in una certa indifferenza a ricevere ogni sorta di accidenti, siccome arrivano, secondo l'ordine della divina provvidenza, tanto l'afflizioni quanto le consolazioni, così i dispregi e gli obbrobri come l'onore e la gloria».
11. Nel patire adunque, e nell'abbracciare con allegrezza le cose dispiacenti e contrarie al nostro amor proprio, si conosce chi veramente ama Gesù Cristo. Dice Tommaso da Kempis che non può chiamarsi degno amante chi non è apparecchiato a patire ogni cosa per l'amato ed a seguire in tutto la volontà dell'amato: Qui non est paratus omnia pati et ad voluntatem stare dilecti non est dignus amator appellari. All'incontro, diceva il P. Baldassarre Alvarez che chi si rassegna con pace ne' travagli al divino volere, «corre a Dio per le poste». E la santa madre Teresa scrisse: «E qual maggiore acquisto può esservi, che aver qualche testimonianza che diamo gusto a Dio?» Ed io soggiungo che noi non possiamo avere testimonianza più certa di dar gusto a Dio, che abbracciando con pace le croci che Dio ci manda. Gradisce il Signore che noi lo ringraziamo de' benefici che ci fa in questa terra, ma dice il P. Giovanni d'Avila, che «vale più un Benedetto sia Dio nelle cose avverse che seimila ringraziamenti nelle cose prospere».
12. E bisogna qui avvertire che non solo dobbiamo ricevere con rassegnazione le cose avverse che ci vengono direttamente da Dio, come sono le infermità, il poco talento, le perdite accidentali delle robe; ma anche quelle che ci vengono indirettamente da Dio, ma direttamente dagli uomini, come sono le persecuzioni, i furti, le ingiurie; perchè in verità tutte ci vengono da Dio. Un giorno Davide fu vilipeso da un suo vassallo chiamato Semei che lo maltrattò non solo colle ingiurie, ma anche colle pietre. Uno volea tagliar la testa a quel temerario, ma Davide rispose: Dimitte eum ut maledicat; Dominus enim praecepit ei ut malediceret David (II Reg. XVI, 10). Disse: Lasciatelo dire, perchè il Signore gli ha imposto che così mi maledica: cioè, s'intende, Iddio si avvale di costui per castigare i miei peccati, e perciò permette ch'egli così m'ingiurii.
13. Dicea per tanto S. Maria Maddalena de' Pazzi che tutte le nostre orazioni non debbono indirizzarsi ad altro fine che ad ottenere da Dio la grazia di seguire in tutto la sua santa volontà. Certe anime golose di gusti spirituali nell'orazione non van cercando altro che di aver sentimenti piacevoli e teneri per deliziarsi; ma l'anime forti e che han vero desiderio di esser tutte di Dio non cercano a Dio altro che luce per intendere la sua volontà e forza per adempirla perfettamente. — Per giungere alla purità dell'amore è necessario sottomettere in tutto la nostra volontà a quella di Dio. «Non crediate mai, dicea S. Francesco di Sales, di essere arrivati alla purità che dovete avere, finchè la vostra volontà non sia del tutto, anche nelle cose più ripugnanti, allegramente sottomessa a quella di Dio». Poichè, come dice S. Teresa, «il dono della nostra volontà a Dio lo tira ad unirsi colla nostra bassezza». Ma ciò non potrà mai ottenersi, se non per mezzo dell'orazione mentale e di continue preghiere fatte alla sua divina maestà, e senza un vero desiderio di esser tutti di Gesù Cristo senza riserba.
14. O Cuore amabilissimo del mio divin Salvatore, Cuore innamorato degli uomini, mentre ci amate con tanta tenerezza; Cuore in somma degno di regnare e possedere tutti i nostri cuori, oh potessi io fare intendere a tutti l'amore che voi loro portate e le finezze che usate con quelle anime che vi amano senza riserba! Deh gradite, Gesù amor mio, l'offerta e 'l sagrificio che vi fo oggi di tutta la mia volontà! Fatemi intendere quel che volete da me, ch'io tutto voglio farlo colla grazia vostra.
Dell'ubbidienza.
15. Ma per sapere poi ed accertare nelle nostre azioni che cosa voglia Dio da noi, quale è il mezzo più sicuro? Non vi è mezzo più sicuro e più certo che attender l'ubbidienza de' nostri superiori o direttori. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «La volontà di Dio non si eseguisce mai meglio che facendo l'ubbidienza de' superiori». Dice lo Spirito Santo: Melior est obedientia quam victimae (Eccl. IV, 17). Piace più a Dio il sagrificio che gli facciamo della propria volontà soggettandola all'ubbidienza, che tutti gli altri sagrifici che possiamo offerirgli; poichè nelle altre cose, come nelle limosine, astinenze, macerazioni e simili, noi diamo a Dio le cose nostre, ma nel donargli la volontà gli doniamo noi stessi: nel donargli i nostri beni, le nostre mortificazioni, gli diamo parte, ma nel donargli la nostra volontà gli diamo tutto. Onde quando diciamo a Dio: «Signore, fatemi intendere per mezzo dell'ubbidienza ciò che volete da me, ch'io tutto voglio farlo», non abbiamo più che offerirgli.
16. Chi dunque si è dedicato all'ubbidienza bisogna che si distacchi in tutto dalla propria opinione. «Ognuno per altro, dice S. Francesco di Sales, ha delle opinioni proprie, ma ciò non si oppone alla virtù; quello che si oppone alla virtù è l'attaccamento che noi abbiamo alle nostre opinioni». Ma oimè che questo attaccamento è la cosa più dura a lasciare; e perciò vi sono tanto poche anime che si danno tutte a Dio, perchè poche si sottomettono in tutto all'ubbidienza. Vi sono taluni che talmente stanno attaccati alla propria volontà, che quando vien loro imposta qualche ubbidienza, ancorchè quella cosa sia di loro genio, nondimeno, perchè l'han da fare per ubbidienza, vi perdono l'affetto e la voglia di farla, mentre non trovano gusto in altro che in fare quel che loro detta la propria volontà. Ma non fanno così i santi; essi non trovano pace se non in quelle operazioni che loro impone l'ubbidienza. La santa madre Giovanna di Chantal un giorno di ricreazione disse alle sue figlie che avessero impiegata quella giornata in ciò che loro piaceva. Venuta la sera andarono esse a pregarla istantemente che non avesse più data loro quella licenza, perchè non aveano provato giorno di maggior fastidio che quello in cui si erano vedute sciolte dall'ubbidienza.
17. È un inganno il pensare che qualunque altra opera possa essere migliore di quella che c'impone l'ubbidienza. Dice S. Francesco di Sales: «Il lasciare l'impiego dove ci mette l'ubbidienza per unirsi con Dio coll'orazione, colla lettura o col raccoglimento, sarebbe un ritirarsi da Dio per unirsi al suo amor proprio». Aggiunge S. Teresa che chi fa qualche opera, benchè spirituale, ma contra l'ubbidienza, opera certamente per istigazione del demonio, non già per ispirazione divina, come forse si lusinga; perchè, dice la santa, «Le ispirazioni di Dio tutte vanno unite coll'ubbidienza». Quindi ella scrive in altro luogo: «Iddio da un'anima che sta risoluta di amarlo non vuol altro che ubbidisca». «Vale più un'opera fatta per ubbidienza, scrive il P. Rodriguez, che ogni altra che noi possiam pensare. Vale più l'alzar da terra una paglia per ubbidienza, che una lunga orazione ed una disciplina a sangue fatta di proprio arbitrio». Perciò diceva S. Maria Maddalena de' Pazzi ch'ella desiderava più di stare in qualche esercizio di ubbidienza che in orazione, poichè «nell'ubbidienza, diceva, io sto sicura della volontà di Dio, ma non sono così sicura stando in ogni altro esercizio». E secondo tutt'i maestri di spirito è meglio lasciare qualche esercizio divoto per ubbidienza, che adempirlo senza l'ubbidienza. Rivelò Maria SS. a S. Brigida che chi lascia per ubbidienza una mortificazione fa doppio guadagno, mentre già ottiene il merito della mortificazione, volendola fare, ed ottiene di più il merito dell'ubbidienza per cui la lascia. Un giorno il celebre P. Francesco Arias andò a vedere il Ven. P. Giovanni d'Avila suo caro amico, e lo trovò cogitabondo e mesto; l'interrogò della causa, e 'l P. Giovanni rispose così: «O beati voi, che vivete sotto l'ubbidienza e state certi di fare quel che vuole Dio. Parlando di me, chi mi assicura che sia più grato a Dio l'andare per li villaggi istruendo i poveri contadini o pure star fisso in un confessionario a sentir le confessioni di ognuno che viene? Ma chi vive sotto l'ubbidienza sta sicuro che quanto fa per ubbidire tutto è secondo la volontà di Dio, anzi è la cosa che più gradisce a Dio». Serva ciò per consolazione di tutti coloro che vivono sotto l'ubbidienza.
18. Per esser poi perfetta l'ubbidienza, bisogna ubbidire colla volontà e col giudizio. Ubbidir colla volontà viene a dire ubbidir di buona voglia e non a forza, come fanno i schiavi. L'ubbidir poi col giudizio, importa l'uniformare il nostro giudizio a quello del superiore, senza mettere ad esame quel che ci viene imposto e come ci viene imposto. Onde diceva S. Maria Maddalena de' Pazzi: «La perfetta ubbidienza richiede un'anima senza giudizio». Dicea parimente S. Filippo Neri che per bene ubbidire non basta fare quello che l'ubbidienza comanda, ma bisogna farlo senza discorso, tenendo per certo che quel che ci viene comandato è per noi la cosa più perfetta che possiamo fare, ancorchè il contrario fosse migliore avanti a Dio.
19. E ciò corre non solo per li religiosi, ma anche per gli secolari che vivono sotto l'ubbidienza de' loro padri spirituali. Essi fansi loro assegnar dal direttore tutte le regole con cui debbono portarsi negli esercizi così spirituali come temporali, e così vanno sempre sicuri di fare il meglio. Dicea S. Filippo Neri: «Quei che desiderano far profitto nella via di Dio si sottomettano ad un confessore dotto, al quale ubbidiscano in luogo di Dio. Chi fa così si assicura di non render conto a Dio delle azioni che fa». Dicea di più: «Che al confessore si avesse fede, perchè il Signore non lo lascerebbe errare: che non vi è cosa più sicura che tagli i lacci del demonio che fare la volontà altrui nel bene: e che non v'è cosa più pericolosa che volersi reggere di proprio parere» (Vita, lib. I. cap. 20). Parimente S. Francesco di Sales (Introd. cap. 4) parlando della direzione del padre spirituale per camminar sicuro nella via di Dio, scrisse: «Questo è l'avvertimento degli avvertimenti: per quanto voi cerchiate, dice il divoto Avila, voi non troverete mai così sicuramente la volontà di Dio, quanto per lo cammino di questa umile ubbidienza tanto raccomandata e praticata da tutti gli antichi divoti». Lo stesso dicono S. Bernardo, S. Bernardino da Siena, S. Antonino, S. Giovanni della Croce, S. Teresa, Giovan Gersone e tutti i teologi e maestri di spirito; e 'l dubitar di tal verità, scrisse S. Giovanni della Croce, è presso che dubitar della fede. «Il non appagarsi, sono parole del santo, di ciò che dice il confessore è superbia e mancamento di fede» (Tratt. delle spine, t. 3. coll. 4. § 2. n. 8). Onde fra le massime di S. Francesco di Sales vi sono queste due che molto consolano l'anime scrupolose: 1º Non si è perduto mai un vero ubbidiente; 2º Conviene contentarsi saper dal padre spirituale che si cammina bene, senza cercarne la cognizione.
Insegnano molti dottori, il Gersone, S. Antonino, il Gaetano, il Navarro, il Sanchez, il Bonacina, il Corduba, il Castropalao, ed i Salmaticesi con altri (Tratt. 20. cap. 7, n. 10), che lo scrupoloso è tenuto sotto obbligo grave ad operare contra gli scrupoli, quando si può temere che per causa di tali scrupoli abbia a patirne un grave danno nell'anima o nel corpo con perdere la sanità o la mente; e perciò gli scrupolosi debbono avere maggiore scrupolo a non ubbidire al confessore che ad operare contra lo scrupolo.
Ecco dunque, per concludere tutte le cose dette in questo capo, dove consiste tutta la somma della nostra salute e perfezione: 1º In negare noi stessi; 2º In seguir la volontà di Dio; 3º In pregarlo sempre che ci dia la forza di adempire l'uno e l'altro.
Affetti e preghiere.
Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25, 26). Amato mio Redentore, o amabile infinito, giacchè voi siete sceso dal cielo per donarvi tutto a me, che altro vogl'io andar cercando nella terra e nel cielo fuori di voi che siete il sommo bene, l'unico bene degno di essere amato? Voi dunque siate l'unico signore del mio cuore, voi possedetelo tutto; e l'anima mia solo voi ami, a voi solo ubbidisca e cerchi di piacere. Si godano pure gli altri le ricchezze di questo mondo, io voi solo voglio: voi siete e sarete la mia ricchezza in questa vita e nell'eternità. Vi dono dunque, Gesù mio, intieramente il mio cuore e tutta la mia volontà. Ella vi è stata ribelle un tempo, ma ora tutta ve la consagro. Domine, quid me vis facere? (Act. IX, 6). Ditemi quel che volete da me e datemi l'aiuto, ch'io tutto voglio farlo. Disponete di me e delle cose mie come vi piace; io tutto accetto ed in tutto mi rassegno.
O amore degno d'infinito amore, voi mi avete amato fino a morire per me, io v'amo con tutto il cuore, v'amo più di me stesso, e nelle vostre mani abbandono l'anima mia. Oggi rinunzio ad ogni affetto mondano, mi licenzio da tutto il creato e mi do tutto a voi; voi accettatemi per li meriti della vostra Passione, e rendetemi fedele sino alla morte.
Gesù mio, Gesù mio, da oggi avanti voglio vivere solo a voi, non voglio altro amare che voi, non voglio altro cercare che di fare la vostra volontà. Assistetemi colla vostra grazia.
Ed aiutatemi voi colla vostra protezione, o speranza mia, Maria.

CAPITOLO 12 Caritas non irritatur. Chi ama Gesù Cristo non mai si adira col prossimo.

CAPITOLO XII
Caritas non irritatur.
Chi ama Gesù Cristo
non mai si adira col prossimo.

1. La virtù di non adirarsi nelle cose contrarie che avvengono è figlia della mansuetudine. Degli atti appartenenti alla mansuetudine già ne abbiam dette più cose ne' capi antecedenti; ma perchè questa è una virtù che continuamente dee esercitarsi da chi vive in mezzo agli uomini, ne diremo qui alcune altre cose più particolari e più utili alla pratica..
2. L'umiltà e la mansuetudine furono le virtù care a Gesù Cristo, onde disse a' suoi discepoli che ciò avessero appreso da lui, l'essere umili e mansueti:Hoc discite a me, quia mitis sum et humilis corde (Matth. XI, 29). Il nostro Redentore fu chiamato agnello, Ecce Agnus Dei (Io. I, 29), sì per ragion del sagrificio che di lui avea da farsi sulla croce per soddisfare i nostri peccati, sì per ragion della mansuetudine ch'egli dimostrò in tutta la sua vita e specialmente in tempo della sua Passione. Quando in casa di Caifas ricevè lo schiaffo da quel ministro che nello stesso tempo lo trattò da temerario dicendogli: Sic respondes pontifici? (Io. XVIII, 22), Gesù altro non rispose che queste parole: Si male locutus sum, testimonium perhibe de malo, si autem bene, quid me caedis? (Io. XVIII, 23). Questa mansuetudine poi seguì ad esercitarla sino alla morte: stando in croce, mentre tutti lo schernivano e bestemmiavano, egli altro non faceva che pregare l'Eterno Padre a perdonarli: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII, 34).
3. Oh come son cari a Gesù Cristo i cuori mansueti che nel ricevere gli affronti, le derisioni, le calunnie, le persecuzioni, ed anche le battiture e le ferite, non si adirano con chi l'ingiuria o percuote! Mansuetorum semper tibi placuit deprecatio (Iudith. IX, 16). Le preghiere de' mansueti son sempre gradite a Dio, viene a dire che sono sempre esaudite. A' mansueti sta con modo speciale promesso il paradiso: Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram(Matth. V, 4). Diceva il P. Alvarez che il paradiso è la patria dei disprezzati, perseguitati e calpestati; sì, perchè a costoro, non già a' superbi che sono onorati e stimati dal mondo, sta riserbato il possesso di quel regno eterno. Scrisse Davide che i mansueti non solo otterranno l'eterna beatitudine, ma anche in questa vita godranno una gran pace: Mansueti... haereditabunt terram, et delectabuntur in multitudine pacis (Ps. XXXVI, 11). Sì, perchè i santi non conservano rancore con chi gli maltratta, ma l'amano più di prima; ed il Signore, in premio della loro pazienza, accresce loro la pace interna. Dicea S. Teresa: «Colle persone che diceano male di me parmi ch'io ponessi in loro un nuovo amore». Onde poi la sagra Ruota scrisse della santa:Offensiones ipsi amoris escam ministrabant: le offese le porgevano materia di più amare chi più l'offendeva. Una tal mansuetudine però non può aversi se non da chi è dotato d'una grande umiltà e basso concetto di sè, per cui crede di meritare ogni disprezzo; e perciò all'incontro i superbi son sempre iracondi e vendicativi, perchè han concetto di se stessi e stimansi degni di ogni onore.
4. Beati mortui qui in Domino moriuntur (Apoc. XIV, 13). Bisogna dunque morir nel Signore per esser beato e per cominciare a godere la beatitudine sin da questa vita: s'intende quella beatitudine che può aversi prima di andare in cielo, quale certamente è molto minore di quella del cielo, ma è tale che supera tutti i piaceri sensibili di questa vita: Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra, così scrisse l'Apostolo a' suoi discepoli (Philip. IV, 7). Ma per giungere ad ottener questa pace, anche in mezzo agli affronti ed alle calunnie, bisogna esser morto al Signore.
Il morto, per quanto è maltrattato e calpestato dagli altri, niente si risente; e così il mansueto, come morto che più non vede nè sente, dee soffrire tutti i disprezzi che gli son fatti. Chi ama di cuore Gesù Cristo a ciò ben arriva, poichè, tutto uniformato alla di lui volontà, riceve con quella stessa pace ed animo eguale così le cose prospere come le avverse, così le consolazioni come le afflizioni, così le ingiurie come le cortesie. Così facea l'Apostolo, onde poi dicea: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II Cor. VII, 4). — Oh felice chi giunge a questo grado di virtù! Egli gode una continua pace, la quale è un bene che avanza tutti gli altri beni di questo mondo. Dicea S. Francesco di Sales: «Che vale tutto il mondo in paragone della pace del cuore?» Ed in verità, a che servono tutte le ricchezze, tutti gli onori del mondo a chi vive inquieto e non ha il cuore in pace?
5. In somma per istarcene sempre uniti con Gesù Cristo, bisogna che facciamo tutto con tranquillità, senza inquietarci di alcuna avversità che incontriamo. Non in commotione Dominus (III Reg. XIX, 11): il Signore non abita ne' cuori turbati.
Udiamo i belli documenti che su questa materia ci dà il maestro della mansuetudine, S. Francesco di Sales: «Non vi mettete mai in collera nè le aprite mai la porta per qualunque pretesto, perchè entrata ch'è una volta in noi, non è più in nostra mano, quando vogliamo, il discacciarla nè il moderarla. I rimedi perciò sono: 1º Rigettarla subito con divertire altrove la mente, e senza dir parola. 2º Ad imitazione degli apostoli allorchè videro il mare in tempesta, ricorrere a Dio a cui s'appartiene di mettere il cuore in pace. 3º Se vedrete che la collera per vostra debolezza ha posto già il piede nel vostro spirito, in tal caso fatevi forza per rimettervi in calma, e poi procurate di praticare atti di umiltà e di dolcezza verso la persona contra cui vi sentite adirato; ma tutto ciò bisogna farlo con soavità e senza violenza, poichè molto importa il non inasprir le piaghe». Ed a tal proposito diceva il santo ch'egli ebbe da faticare in sua vita a superare due passioni che più lo predominavano, cioè la collera e l'amore: per superar la passione della collera confessava d'aver dovuto faticare per 22 anni affin di soggiogarla; in quanto poi alla passione dell'amore, avea procurato di mutare oggetto lasciando le creature e rivolgendo tutti gli affetti suoi a Dio. E così il santo si acquistò una pace interna sì grande che la dimostrava anche da fuori, facendosi vedere quasi sempre con volto sereno e colla bocca a riso.
6. Unde bella, nisi ex concupiscentiis vestris? (Iac. IV, 1). Quando alcuno per qualche incontro si sente agitato dalla collera, allora gli sembra di trovar sollievo e pace se dà sfogo all'ira cogli atti o almen colle parole; ma no, s'inganna, perchè dopo aver fatto quello sfogo si troverà molto più turbato di prima. Chi vuol conservarsi in una continua pace si guardi dallo star mai di mal umore. E quando si accorge di esser preso da mal umore, procuri di scacciarlo subito e non farlo dormire la notte seco, disviandosi con leggere qualche libro, col cantare qualche canzoncina divota o col discorrere di fatti ameni con alcuno amico.
Dice lo Spirito Santo: Ira in sinu stulti requiescit (Eccl. VII, 10). La collera nel cuore degli stolti che poco amano Gesù Cristo vi trova alloggio per lungo tempo; ma nel cuore degli amanti di Gesù Cristo, se mai vi entra di soppiatto, presto ne vien discacciata, e non vi dimora. — Un'anima che ama di cuore il Redentore non si trova mai di malo umore, perchè non volendo ella altro che quel che vuole Iddio, ha sempre tutto quel che vuole, e perciò si ritrova sempre tranquilla e sempre eguale a se stessa. Il divino volere la rasserena in tutte le avversità che le accadono: e quindi è ch'ella esercita una mansuetudine universale con tutti. Ma questa mansuetudine non si può ottenere senza un amor grande a Gesù Cristo. Si vede infatti che noi non mai siamo più mansueti e dolci cogli altri, se non quando proviamo maggior tenerezza verso Gesù Cristo.
7. Ma perchè questa tenerezza non sempre la proviamo, bisogna che nell'orazione mentale ci apparecchiamo a soffrire gl'incontri che mai ci possono avvenire. Così han fatto i santi, e si son trovati poi pronti a ricevere con pazienza e mansuetudine le ingiurie, gli schiaffi e le ferite. In quel tempo che ci troviamo insultati dal prossimo, se non ci troviamo preparati più volte da prima, difficilmente saremo atti a discernere quel che dobbiamo fare per non farci vincere dall'ira. Allora la passione ci farà vedere esser ragionevole che rintuzziamo con audacia l'audacia di chi ci maltratta a torto: ma scrive S. Gio. Grisostomo che non è mezzo giusto di spegnere il fuoco acceso nell'animo del prossimo col fuoco d'una risposta risentita, ma è causa di più accenderlo: Igne non potest ignis exstingui (Chrysost. Hom. 98 in Gen.). — Dirà taluno: Ma non è ragione di usar cortesia e dolcezza con un temerario che senza ragione ti offende. Ma risponde S. Francesco di Sales: «Bisogna usar mansuetudine non solo colla ragione, ma contra la ragione».
8. Allora bisogna procurar di rispondere con qualche parola benigna, e questa è la via di spegnere il fuoco: Responsio mollis frangit iram (Prov. XV, 1). Ma quando l'animo sta disturbato, il miglior espediente sarà allora il tacere. Scrive S. Bernardo: Turbatus prae ira oculus rectum non videt (Lib. 2. De cons. cap. 11). L'occhio quando è offuscato dallo sdegno non vede più quel ch'è giusto e quel ch'è ingiusto; la passione è come un velo che ci si pone davanti gli occhi e non ci fa più discernere il dritto dal torto, onde bisogna fare il patto che S. Francesco di Sales avea fatto colla sua lingua: «Io ho fatto il patto, egli scrisse, colla mia lingua, di non parlare quando è turbato il cuore».
9. Ma certe volte par che sia necessario il reprimere con parole aspre alcuno insolente. Disse Davide: Irascimini et nolite peccare (Ps. IV, 5). Dunque talvolta è lecito l'adirarsi, purchè si faccia senza colpa. Ma qui sta il punto. Speculativamente parlando alle volte sembra spediente il parlare o rispondere con asprezza ad alcuni per farli ravvedere; ma in pratica è molto difficile che ciò riesca senza nostra colpa; onde la via sicura è quella di ammonire o di rispondere sempre con dolcezza e stare attento a non mai risentirsi. Dicea S. Francesco di Sales: «Io non mi son mai risentito che appresso non me ne sia pentito». E quando in quell'incontro ci sentiamo ancor noi riscaldati, come ho detto di sovra, la via più sicura è di tacere, riserbando l'ammonizione o la risposta a tempo più opportuno, quando il cuore più non fuma.
10. Questa mansuetudine dobbiamo specialmente esercitarla poi quando siamo corretti da' nostri superiori o dagli amici. Scrive S. Francesco di Sales: «Il gradir le riprensioni fa vedere che uno ama le virtù contrarie a quei difetti de' quali vien ripreso, e perciò questo è un gran segno che profitta nella perfezione». Inoltre bisogna che usiamo la mansuetudine ancora con noi stessi. Il demonio ci fa vedere che sia cosa lodevole l'adirarci con noi quando commettiamo qualche difetto; ma no, ella è opera del nemico che cerca di tenerci inquieti, acciocchè non siamo atti a far niente di bene. Dicea S. Francesco di Sales: «Tenete per certo che tutti quei pensieri che ci danno inquietudine non sono da Dio ch'è principe di pace, ma provengono o dal demonio o dall'amor proprio, o dalla stima che facciamo di noi stessi. Questi sono i tre fonti da cui nascono tutti i nostri disturbi. E perciò quando ci vengono pensieri che c'inquietano, bisogna subito rigettarli e disprezzarli».
11. Inoltre ci è sommamente necessaria la mansuetudine quando dobbiamo far qualche riprensione agli altri. Le correzioni fatte con zelo amaro fanno spesso più danno che utile, specialmente quando colui che dee esser corretto sta turbato; allora bisogna trattenersi a correggerlo, ed aspettar il tempo che in esso siasi sedato il bollore dell'ira. E così anche bisogna che noi ci asteniamo di correggere altri quando stiamo di mal umore, perchè allora l'ammonizione riuscirà sempre fatta con asprezza, e 'l reo, vedendosi ripreso in tal modo, farà poco conto dell'ammonizione come fatta per passione. Ciò corre per quel che spetta al bene del prossimo, ma per quel che si appartiene al nostro profitto, facciamo vedere che amiamo Gesù Cristo sopportando con pace ed allegrezza i maltrattamenti, le ingiurie e i disprezzi.
Affetti e preghiere.
Gesù mio disprezzato, o amore, o gioia dell'anima mia, voi col vostro esempio avete renduti troppo amabili i disprezzi a' vostri amanti. Io vi prometto da ogg'innanzi di soffrire ogni affronto per amor di voi che siete stato in questa terra così vilipeso dagli uomini per amor mio. Datemi voi la forza di eseguirlo. Fatemi conoscere e fatemi operar tutto ciò che volete da me.
Mio Dio e mio tutto, io non voglio cercare altro bene fuori di voi che siete un bene infinito. Voi che avete tanta cura del mio profitto fate ch'io non abbia altra cura che di darvi gusto. Fate che tutti i miei pensieri s'impieghino sempre a fuggire ogni vostra offesa ed a trovar modo di piacervi in ogni cosa. Allontanate da me ogni occasione che mi diverte dal vostro amore. Io mi spoglio della mia libertà e la consagro tutta al vostro divino beneplacito.
V'amo, bontà infinita, v'amo, diletto mio, o Verbo Incarnato, io v'amo più di me stesso. Abbiate pietà di me e guaritemi da tutte le piaghe che patisce l'anima mia per l'offese che vi ha fatte. Io tutto mi abbandono nelle vostre braccia, o Gesù mio: io voglio esser tutto vostro, voglio soffrire ogni cosa per vostro amore, e da voi non voglio altro che voi.
Vergine santa e madre mia Maria, io v'amo, ed in voi confido, soccorretemi colla vostra potente intercessione.