giovedì 20 dicembre 2012

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)SECONDA PARTE DA 1 A 6


Parte seconda
L’amore della solitudine
1.
Vivere nella solitudine e cercarla non vuol dire spostarsi continuamente da una
possibilità geografica a un’altra. Si diventa solitari nel momento preciso in cui,
non importa quale sia l’ambiente che ci circonda, si ha l’improvvisa percezione
della propria inalienabile solitudine e si vede che non si vuol essere mai altro che
un solitario. Da quell’istante la solitudine non è più in potenza — ma in atto. Però
la solitudine attuale ci pone sempre direttamente di fronte a una possibilità
irrealizzata e anche irrealizzabile di “solitudine  perfetta”. Ma questo bisogna
capirlo nel giusto senso: perché se cerchiamo con troppa ansietà di realizzare la
possibilità materiale di una maggior solitudine esteriore, che sembra sempre al di
là della nostra portata, perdiamo quella solitudine attuale che già possediamo.
Essa ha, come uno dei suoi elementi costitutivi, proprio la insoddisfazione e la
incertezza che derivano dal trovarsi faccia a faccia con una possibilità
irrealizzabile. Non è una folle ricerca di possibilità — è l’umile acquiescenza che si
stabilizza nella presenza di una realtà sconfinata, in un senso già posseduta, e in
un altro, pura «possibilità» — oggetto di speranza.
Soltanto quando muore e va in cielo, il solitario vede chiaramente che questa
possibilità era già attuata nella sua vita ed egli  non lo sapeva — perché la sua solitudine consisteva soprattutto nel “possibile” possesso di Dio e di nient’altro
che Dio, nella pura speranza.
2.
Mio Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada
che mi è davanti. Non posso sapere con certezza dove andrà a finire. E non
conosco neppure davvero me stesso, e il fatto che penso di seguire la tua volontà
non significa che lo stia davvero facendo. Ma sono  convinto che il desiderio di
piacerti, in realtà ti piaccia. E spero di averlo in tutte le cose. Spero di non far mai
nulla senza un tale desiderio. E so che se agirò così la tua volontà mi condurrà
per la giusta via, quantunque possa non saperne nulla. Però avrò sempre fiducia
in Te per quanto mi possa sembrare di essere perduto e avvolto dall’ombra di
morte. Non avrò paura, perché Tu sei sempre con me e non mi lascerai mai solo
di fronte ai pericoli.
3.
Nell’età nostra tutto deve costituire un «problema». Il nostro è un tempo di
ansietà perché siamo stati noi a volerlo così. L’ansietà non ci viene imposta da
una, forza che sia al di fuori di noi: siamo noi che dal nostro intimo la imponiamo
al nostro mondo e agli altri.
In una età come questa la santità significa senza dubbio un passaggio dal
dominio dell’ansietà a quello in cui non vi è ansietà, oppure può voler dire
imparare da Dio a esser privi di ansietà pur vivendo in mezzo a essa.
Sostanzialmente, come nota Max Picard, si giunge probabilmente a questo:
vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi in
modo tale, che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (dal Mondo
del silenzio).
Le contraddizioni sono sempre esistite nell’animo umano. Ma soltanto quando
preferiamo l’analisi al silenzio divengono un problema continuo e insolubile. Non
dobbiamo risolverle tutte, ma vivere con esse, innalzarci al disopra di esse e
vederle nella luce di valori esterni e oggettivi che, al confronto, li rendono banali.
Il silenzio allora fa parte della sostanza stessa della santità. Nel silenzio e nella
speranza si foggia la forza dei Santi (Is 30,15).
Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine.
Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già
e che potevo averla sempre posseduta. Eppure costituiva ancora un problema
perché sapevo dopo tutto che una solitudine puramente soggettiva ed interiore,
frutto di uno sforzo di interiorizzazione, non sarebbe mai bastata. La solitudine
deve essere oggettiva e concreta: bisogna che sia una comunione con qualche
cosa di più grande del mondo, grande come l’Essere  stesso, in modo da poter
trovare Dio nella sua pace profonda.
Mettiamo parole fra noi e le cose. Persino Iddio è  diventato un’altra irrealtà
concettuale in quella terra di nessuno che è il linguaggio, che non serve più come
mezzo di comunicazione con la realtà. La vita solitaria, essendo silenziosa,
dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose.
Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose.
Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di
paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e
questo silenzio è legato all’amore. Il mondo che le nostre parole hanno tentato di
classificare, di controllare e persino di disprezzare (perché non riuscivano a circoscriverlo), si fa presso di noi, perché il silenzio ci insegna a conoscere la
realtà rispettandola là dove le parole l’hanno disonorata.
Quando abbiamo vissuto abbastanza a lungo con la realtà che ci circonda, la
nostra venerazione ci insegnerà come trarre dal silenzio, che è la madre della
Verità, parecchie parole su di essa.
Le parole stanno tra silenzio e silenzio: tra il silenzio delle cose e quello del
nostro essere. Tra il silenzio del mondo e il silenzio di Dio. Quando davvero
incontriamo e conosciamo il mondo nel silenzio, le parole non ci separano più dal
mondo e dagli uomini, e neppure da Dio, né da noi stessi perché non ci fidiamo
più completamente del linguaggio per esprimere la realtà.
La Verità si leva dal silenzio dell’essere di fronte alla quieta e terribile presenza
della Parola. Allora, rituffandosi di nuovo nel silenzio, la verità delle parole ci
lancia nel silenzio di Dio.
O piuttosto Dio si leva dal mare come un tesoro nelle onde, e quando il
linguaggio cessa, lo splendore divino rimane sul lido del nostro essere.
4.
L’uomo sa di aver trovato la propria vocazione quando cessa di cercare come si
deve vivere e incomincia a vivere. Cosi, se uno e chiamato alla vita solitaria,
cesserà di preoccuparsi come si deve vivere e incomincerà a farlo in pace
soltanto quando sarà in solitudine.
Ma se uno non è chiamato a una vita solitaria, più è solo più si preoccupa intorno
al modo di vivere e dimentica di vivere. Quando non si vive la propria vera
vocazione, il pensiero offusca la vita, o si sostituisce a essa, o si sottomette a
essa in modo che la vita soffoca il pensiero ed estingue la voce della coscienza.
Quando troviamo la nostra vocazione pensiero e vita sono una cosa sola.
Supponiamo che uno abbia trovato la sua completezza nella sua vera vocazione.
Ora tutto è unitario, in ordine, nella pace. Ora il lavoro non interferisce più con la
preghiera, né la preghiera con il lavoro. Ora la contemplazione non deve essere
più uno «stato» particolare che rimuove dalle ordinarie occupazioni che lo
circondano, perché Dio penetra ogni cosa. Non si deve più rendere conto di se
stessi ad altri che a Dio.
5.
È necessario che troviamo il silenzio di Dio non solo in noi stessi, ma anche l’uno
nell’altro. Se gli altri non ci parlano con parole  che scaturiscono da Dio e
comunicano con il silenzio di Dio che e nelle anime nostre, rimaniamo isolati nel
nostro stesso silenzio, da cui Dio tende a sottrarsi. Perché il silenzio interiore
dipende da una continua ricerca, da un grido incessante nella notte, da un
ripetuto chinarsi sull’abisso. Se ci attacchiamo a un silenzio che pensiamo di aver
trovato per sempre, desistiamo dalla ricerca di Dio ed il silenzio muore in noi. Un
silenzio in cui non si cerca più Iddio cessa dal parlarci di Lui. Un silenzio da cui
Dio non sembra assente, minaccia pericolosamente la sua continua presenza.
Perché Lo si trova quando Lo si cerca e quando non Lo cerchiamo più ci sfugge.
Lo si ode solo quando si spera di sentirlo, e se cessiamo di ascoltarlo, credendo
che la nostra speranza sia stata realizzata, Egli non parla più; il suo silenzio non
è più vita, ma diviene morte, anche se lo ricarichiamo con l’eco del nostro
strepito emotivo.
6.
Signore, non è orgoglioso il mio cuore (Sal 130,1).Tanto l’orgoglio quanto l’umiltà cercano il silenzio interiore. L’orgoglio tenta di
imitare il silenzio di Dio con una forzata immobilità. Ma il silenzio di Dio è la
perfezione della Vita Pura ed il silenzio dell’orgoglio è silenzio di morte.
L’umiltà cerca il silenzio non dell’inattività, ma  dell’attività ordinata, in  quella
che è più consona alla nostra povertà e alla nostra miseria di fronte a Dio.
L’umiltà va a pregare e trova il silenzio per mezzo delle parole: ma siccome è per
noi naturale passare dalle parole al silenzio e dal silenzio alle parole, l’umiltà è
silenziosa in tutto. Anche quando parla, l’umiltà ascolta. Le sue parole sono così
semplici, gentili e povere che giungono senza sforzo al silenzio di Dio. Infatti ne
sono l’eco, e non appena vengono pronunciate, il suo silenzio e già in esse
presente.
L’orgoglio teme di uscire da se stesso per paura di perdere ciò che ha prodotto
dentro di sé. Il suo silenzio e quindi minacciato dagli atti caritatevoli. Siccome
invece l’umiltà non trova niente in se stessa (perché umiltà è il suo stesso
silenzio), non può perdere pace e silenzio uscendo da se stessa per ascoltare gli
altri o per parlare loro per amore di Dio. In tutte le cose l’umiltà è silenziosa e
quieta e perfino il suo lavoro è riposo. In omnibus requiem quaesivi. Non è il
parlare che rompe il nostro silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole
dell’orgoglioso impongono silenzio agli altri in modo che si possa udire solo la
sua voce. L’umile parla solamente perché gli si parli. Non chiede altro che una
elemosina, poi aspetta e ascolta.
Il silenzio e ordinato alla ricapitolazione finale che si farà in parole di tutto ciò
per cui si è vissuto. Riceviamo Cristo ascoltandolo nella parola della fede. Ci
costruiamo la nostra salvezza nel silenzio e nella  speranza, ma presto o tardi
viene il momento di dover confessare Dio apertamente di fronte agli uomini e poi
dinanzi a tutti gli abitanti del cielo e della terra.
Se la nostra vita si è effusa in parole inutili, non ascolteremo nulla, non
diverremo nulla, e alla fine, siccome avremo detto  tutto prima di aver qualche
cosa da dire, rimarremo senza parole al momento della nostra più grande
decisione.
Ma il silenzio è ordinato alla dichiarazione finale. Non è fine a se stesso. Tutta la
nostra vita è una meditazione della nostra ultima decisione la sola che importi. E
meditiamo in silenzio. Eppure in certo senso abbiamo l’obbligo di parlare agli
altri, di aiutarli a veder il modo di prendere le loro decisioni, di insegnare loro
Cristo. E nel far ciò, proprio le nostre parole insegnano a essi un nuovo silenzio: il
silenzio della Resurrezione. In questo silenzio si formano e si preparano in modo
da pater dire anch’essi quanto hanno udito: Io ebbi fede, perciò parlai (Sal
115,1).

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)DA 13 A 19...



13.
Il più povero in una comunità religiosa non è necessariamente chi ha in uso il
minor numero di oggetti. La povertà non è semplicemente questione di non
possedere «le cose». È un’attitudine dell’animo che ci porta a rinunciare ad
alcuni dei vantaggi che derivano a noi dall’uso delle cose. Uno può non possedere
nulla, ma attribuire una grande importanza alla soddisfazione personale e al
gusto che trae da cose che sono comuni a tutti — il canto in coro, i sermoni in
capitolo, la lettura in refettorio — il tempo libero, il tempo degli altri ...
Spesso il più povero in una comunità è quello che è a disposizione di tutti. Tutti
se ne possono servire, ed egli non si prende mai il tempo per fare qualche cosa
per se stesso.
Povertà — può riguardare cose come la nostra opinione, il nostro “stile”, tutto ciò
che tende ad affermarci come diversi dagli altri, come superiori agli altri in
maniera tale che prendiamo soddisfazione da queste particolarità e le trattiamo
come «cose nostre». La “povertà” non dovrebbe mai renderci particolari.
L’eccentrico non è un povero in spirito.
Persino l’attitudine ad aiutare gli altri e a dar loro il nostro tempo e tutto ciò che
abbiamo può venir «posseduta» con attaccamento, se con tali atti c’imponiamo sugli altri e ce li rendiamo debitori. In tal caso cerchiamo infatti di comprarli e di
impadronircene per mezzo dei favori che a essi facciamo.
Chi di noi, o Signore, può parlare di povertà senza vergognarsi? Noi che abbiamo
fatto voto di povertà in monastero, siamo poveri davvero? Sappiamo che cosa sia
amare la povertà? Ci siamo mai fermati per un momento a pensare perché si
debba amare la povertà?
Eppure, o Signore, Tu sei venuto nel mondo per esser povero tra i poveri, perché
è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel
Regno dei cieli. E noi, con i nostri voti, ci accontentiamo del fatto che di fronte
alla legge non possediamo nulla e che per tutto quello che abbiamo dobbiamo
chiedere il permesso di un altro?
La povertà è questa? Può un tale che ha perduto il  suo impiego e che non ha
denaro con cui pagare i suoi debiti, e che vede la moglie e i figli diventare sempre
più scarni e che sente il timore e l’angoscia rodergli il cuore — può egli ottenere
le cose delle quali ha disperatamente bisogno, semplicemente chiedendole? Che
provi a farlo. Eppure noi, che possiamo avere tante cose delle quali non abbiamo
bisogno, e tante altre che è scandaloso da parte nostra possedere — noi, siamo
poveri, perché le abbiamo e c’è permesso di averle.
La povertà significa bisogno. Fare voto di povertà e non mancare mai di nulla, e
mai aver bisogno di qualche cosa senza averla, vuol dire tentare di farci beffe del
Dio Vivente.
14.
Leggere dovrebbe essere un atto di omaggio al Dio di ogni verità.
Apriamo il cuore a parole che riflettono la realtà che Egli ha creato o la realtà più
grande che è Egli stesso. Leggere è anche un atto di umiltà e di riverenza nei
confronti di altri che sono gli strumenti per mezzo dei quali Iddio ci comunica la
sua verità.
La lettura dà maggior gloria a Dio quando ne ricaviamo un profitto maggiore,
quando è un atto profondamente vitale non soltanto della nostra intelligenza, ma
di tutta la nostra personalità assorbita e ristorata nel pensare, nel meditare, nel
pregare, o anche nel contemplare Dio.
I libri possono parlarci come Dio, come gli uomini o come il rumore della città
nella quale viviamo. Ci parlano come Dio quando ci  recano luce e pace e ci
colmano di silenzio. Ci parlano come Dio quando desideriamo di non lasciarli mai.
Ci parlano come gli uomini allorché desideriamo di ascoltarli di nuovo. Ci parlano
come il frastuono della città quando ci tengono prigionieri con una noia che non
ci dice nulla, non ci danno pace, né conforto, nulla da ricordare, eppure non ci
lasciano andare.
I libri che ci parlano come Dio lo fanno con troppa autorità per divertirci: quelli
che ci parlano come gli uomini ci avvincono con il loro interesse umano: finiamo
col trovarvi noi stessi. Ci insegnano a conoscerci  meglio, riconoscendoci negli
altri. I libri che ci parlano come il chiasso della folla ci riducono alla disperazione
con il puro peso della loro vacuità. Ci intrattengono come le luci nelle vie della
città, la notte, con speranze che non possono appagare. Per quanto grandi e per
quanto amici possano essere, i libri non sostituiscono le persone, ma sono
soltanto mezzi di contatto con grandi personalità,  con uomini che posseggono
una parte maggiore di umanità di quella che a essi  compete, uomini che sono
personalità nei confronti del mondo intero e non soltanto di se stessi. Non sono le idee e le parole che nutrono l’intelligenza, ma la verità. E non una verità astratta.
La Verità che un uomo spirituale ricerca è la Verità tutta intera che comprende
realtà, esistenza ed essenza, qualche cosa che si può abbracciare e amare,
qualche cosa che può ricevere l’omaggio e il dono delle nostre azioni: più che una
cosa: si tratta di persone, anzi di una Persona. Colui che è al di sopra di tutto, la
cui essenza è esistere: Dio.
Cristo, il Verbo Incarnato, è il Libro della vita in cui leggiamo Iddio.
15.
L’umiltà è una virtù, non una neurosi.
Ci rende liberi di agire virtuosamente, di servire Iddio, e di conoscerlo. Quindi la
vera umiltà non può mai proibirci un’azione davvero virtuosa e non può neppure
impedirci di completare noi stessi compiendo la volontà di Dio.
L’umiltà ci rende liberi di fare ciò che è veramente buono, mostrandoci le nostre
illusioni e distogliendo il nostro volere da ciò che è un bene soltanto apparente.
Una umiltà che agghiaccia il nostro essere e frustra ogni sana forma di attività
non è affatto umiltà, ma solo una forma di orgoglio travestito che sovverte le
radici della vita spirituale e ci rende impossibile il darci a Dio.
Signore, Tu ci hai insegnato ad amare l’umiltà, ma  non lo abbiamo imparato.
Abbiamo imparato soltanto ad amare l’apparenza esteriore dell’umiltà —
quell’umiltà che rende simpatici e attraenti. Talvolta ci soffermiamo a riflettere
su queste qualità, e spesso pretendiamo di possederle e di averle acquistate con
“la pratica dell’umiltà”. Se fossimo veramente umili, conosceremmo fino a qual
punto siamo bugiardi!
Insegnami a sopportare una umiltà che mi mostri incessantemente che sono un
bugiardo ed un mentitore e che, pur essendo tale, ho l’obbligo di lottare per
giungere alla verità, per essere quanto più posso sincero, anche se troverò
inevitabilmente che tutta la mia verità è avvelenata dall’inganno. Ecco il terribile
dell’umiltà: non ha mai pieno successo. Se fosse almeno possibile essere davvero
umili su questa terra. Ma no, ecco il guaio. Tu, o Signore, sei stato umile. Ma la
nostra umiltà consiste nell’essere orgogliosi e nel saperlo bene, e nell’essere
schiacciati da questo peso insopportabile e nel poter fare tanto poco per
liberarcene.
Come sei severo nella tua misericordia, eppure devi esserlo. La tua misericordia
dev’essere giusta perché la tua verità dev’essere vera. Eppure, come sei severo
nella tua misericordia: perché più lottiamo per essere sinceri, più scopriamo la
nostra falsità. È misericordioso da parte della tua; luce di portarci,
inesorabilmente, alla disperazione No — non è alla disperazione che Tu mi porti,
ma all’umiltà. Perché l’umiltà vera è in certo senso una reale disperazione:
dispero di me stesso per pater porre soltanto in Te tutta la mia speranza. Chi può
sopportare di cadere in una tale oscurità?
16.
Le campane vogliono ricordarci che Dio solo è buono, che noi gli apparteniamo e
che non viviamo per questo mondo. Irrompono nel mezzo delle nostre
occupazioni per ricordarci che tutte le cose passano e che le nostre ansietà non
hanno importanza. Ci parlano della nostra libertà, che le responsabilità e le cure
transeunti ci fanno dimenticare.
Sono la voce della nostra alleanza con il Dio del Cielo.
Ci dicono che noi siamo il suo vero tempio. Ci invitano alla pace con Lui e con noi
stessi. Al termine della benedizione della campana di una chiesa si legge il Vangelo di
Marta e Maria per ricordarci tutto questo. Le campane dicono: gli affari non
hanno importanza. Riposa in Dio ed esulta, perché questo mondo è soltanto
figura e promessa di un mondo avvenire, e soltanto  chi è distaccato dalle cose
transeunti può possedere la sostanza di una eterna promessa.
Le campane dicono: abbiamo parlato per secoli dalle torri delle grandi chiese.
Abbiamo parlato ai santi, ai vostri padri, nelle loro terre. Li abbiamo chiamati alla
santità così come ora chiamiamo voi. Qual è la parola con cui li abbiamo
chiamati?
Non abbiamo detto semplicemente:”Sii buono, vieni alla chiesa” E neppure
soltanto: “Osserva i comandamenti”, ma soprattutto: “Cristo è risorto! Cristo è
risorto!” E abbiamo detto: “Vieni con noi, Dio è buono; salvarsi non è difficile, il
suo amore lo ha reso facile.” E questo nostro messaggio è stato sempre rivolto a
tutti, a chi è venuto e a chi non è venuto, perché il nostro canto è perfetto come è
perfetto il Padre che è nei cieli e noi riversiamo la nostra carità su tutti.
17.
Per Adamo nel Paradiso si rese necessario dare un nome agli animali.
E così anche noi bisogna che diamo un nome alle cose che condividono il nostro
silenzio, non per violarne l’intimità e disturbarne il silenzio pensando a esse, ma
per far sì che il silenzio nel quale dimorano e che in esse dimora, possa essere
concretizzato e definito per quel che è. Le cose immerse nel silenzio lo rendono
reale, perché esso si identifica con il loro essere. Dare un nome a questo essere
vuol dire darlo al silenzio. E quindi dovrebbe essere un atto di riverenza.
( Le benedizioni le rendono maggiormente degne di rispetto).
La preghiera conosce delle parole di omaggio per gli esseri in Dio. La magia fa
uso di parole per violare il silenzio e la santità degli esseri trattandoli come se
fosse possibile strapparli a Dio, possederli e vilmente abusarne, proprio in
cospetto del silenziò divino. La magia insulta un tale silenzio presentandolo come
la maschera di un intruso, di un potere maligno che usurpa il trono di Dio e si
sostituisce alla sua presenza. Ma che cosa può mai  sostituirsi a “Colui che è”?
Soltanto chi non è può pretendere di usurparne il posto. E facendolo non fa altro
che affermarlo ancora più chiaramente perché se si  sopprime il non dalla frase
«non è» non resta altro che “è”.
Nel silenzio di Dio abbiamo vinto la magia riuscendo a vedere attraverso ciò che
non è, e convincendoci che “Colui che è” ci è più vicino di “chi non è” e tenta in
ogni attimo di porsi tra noi stessi e Lui. La sua presenza è presente nella mia
stessa presenza. Se io sono, allora Egli “è”. E nel conoscere che sono, se penetro
nelle profondità della mia stessa esistenza e della mia realtà attuale, quel “sono”
indefinibile che costituisce la mia essenza nelle sue più profonde radici, allora
attraverso questo centro profondo, passo nell’infinito “Io sono” che è il vero
nome dell’Onnipotente.
La conoscenza che ho di me stesso nel silenzio (non riflettendo su di me, ma
penetrando nel mistero del mio essere che sorpassa parole e concetti perché è
del tutto particolare) sfocia nel silenzio e nella “soggettività” dell’essere stesso
di Dio.
La grazia di Cristo mi identifica con la “Parola inculcata” (insitum verbum) che è
Cristo vivente in me. Vivit in me Christus. L’identificazione attuata dall’amore conduce alla conoscenza, al riconoscimento,
intimo e oscuro, ma rivestito di una inesprimibile  certezza, nota solo nella
contemplazione.
Quando «conosciamo» (nella oscura certezza della fede illuminata da una
comprensione spirituale) che siamo figli di Dio nel suo unico Figlio, allora
sperimentiamo qualche cosa del grande mistero del nostro essere in Dio e
dell’essere Dio in noi. Perché afferriamo, senza sapere come, la terribile e
mirabile verità che Dio, chinandosi sull’abisso del suo inesauribile essere, ci ha
tratto fuori da se stesso, ci ha rivestito della luce della sua Verità, ci ha purificato
nel fuoco del suo amore, ci ha fatto, per la potenza della Croce, una cosa sola con
il suo Figlio Unigenito. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen
1,26); “Dal mio seno ti generai prima dell’aurora.” (Sal 109,3).
O gran Dio, Padre di tutte le cose, la cui luce infinita è per me tenebra, la cui
immensità è per me come il vuoto, Tu mi hai chiamato alla vita traendomi da Te
perché Tu in Te mi ami ed io sono una espressione transeunte della tua realtà
inesauribile ed eterna. Non potrei conoscerti, sarei perduto in questa tenebra,
cadrei lontano da Te in questo vuoto se Tu non mi tenessi per Te nel Cuore del
tuo Figlio Unigenito.
Padre, amo Te che non conosco, Ti abbraccio pur senza vederti, mi abbandono a
Te che ho offeso, perché Tu ami in me il tuo Figlio Unigenito.
Tu lo vedi in me, lo abbracci in me perché Egli ha  voluto identificarsi
completamente con me per mezzo di quell’amore che lo ha portato a morire per
me sulla Croce.
Vengo a Te come Giacobbe nelle vesti di Esaù, ossia nei meriti e nel prezioso
Sangue di Gesù Cristo. E Tu, o Padre, che hai voluto essere come cieco nella
oscurità di questo grande mistero che è la rivelazione del tuo amore, passi la tua
mano sui mio capo e mi benedici come il tuo Unigenito. Tu hai voluto vedermi
soltanto in Lui, ma nel decidere così hai voluto vedermi più realmente di quanto
io non sia. Perché il mio stato di peccatore non è quello mio vero, non è quello
che Tu hai voluto per me, ma solo quello che ho scelto liberamente. Ma ora,
Padre, io non lo voglio più questo falso io, vengo a Te nella persona stessa del
Figlio tuo, perché è il suo Sacro Cuore che ha preso possesso di me, ha distrutto i
miei peccati, ed è Lui che mi presenta a Te. E dove? Nel santuario del suo stesso
Cuore, che è il tuo palazzo ed il tempio ove i santi Ti adorano in cielo.
18.
È necessario dare un nome a Colui il cui silenzio io condivido e adoro, perché è
nel suo silenzio che Egli pronuncia il mio nome. Egli solo conosce il mio nome, nel
quale anch’io conosco il suo. Perché nell’istante in cui mi chiama «figlio mio», ho
la percezione di Lui come “Padre mio”. Questo riconoscimento è in me un atto, in
Lui una Persona. L’atto in me è il movimento della sua Persona, del suo Spirito,
del suo Amore in me. Quando Egli agisce sono io che agisco con Lui e sono quindi
anch’io ad agire. E nel mio muovermi ho contemporaneamente la percezione “che
sono” e grido: “Abba, Padre”.
Ma siccome non sono il padre mio, è inutile che cerchi di risvegliare questa
nozione di Lui, chiamandomi «figlio» in seno al mio silenzio. Quando grida a se
stessa, la mia voce è soltanto capace di suscitare una morta eco. Non esisterà in
me alcun risveglio se non sono chiamato fuori dalla tenebra da Colui che è la mia
luce. Soltanto Colui che è Vita è capace di suscitare dalla morte. E se non mi
chiama io rimango morto ed il mio silenzio è quello della morte.  Non appena pronuncia il mio nome, il mio silenzio è il silenzio della vita infinita e
so di essere perché il mio cuore si è aperto al Padre mio nell’eco degli anni eterni.
La mia vita è un ascoltare, la sua un parlare. La salvezza sta per me nell’ascoltare
e nel rispondere. Per questo la mia vita dev’essere silenziosa. Il mio silenzio è
quindi la mia salvezza. Il sacrificio che piace a Dio è l’offerta della mia anima – e
di quella degli altri.
L’anima Gli viene offerta quando Gli è completamente attenta. Il mio silenzio, che
mi distoglie dalle altre cose, è quindi il sacrificio di tutte le cose e l’offerta della
mia anima a Dio. Per questo è il sacrificio più gradito che posso fargli. Se riesco a
insegnare agli altri a vivere in questo stesso silenzio, offro a Lui un sacrificio
ancora più accetto. La conoscenza di Dio vale più che gli olocausti (Os 6,6).
Il silenzio interiore è impossibile senza misericordia e senza umiltà.
Differenza tra una vocazione ed una categoria. Quelli che realizzano la loro
vocazione alla santità — o che la stanno realizzando — sono per questo semplice
fatto incatalogabili: non rientrano in nessuna categoria. Se, per parlarne, ricorri a
una categoria, bisogna che spieghi immediatamente la tua affermazione come se
essi appartenessero a categorie completamente diverse. In realtà non rientrano
in nessuna categoria, sono propriamente se stessi,  e per questo non sono
giudicati degni di grande amore e rispetto agli occhi degli uomini, perché la loro
individualità è un segno che sono grandemente amati da Dio e che Egli solo
conosce il loro segreto, troppo prezioso per essere, rivelato agli uomini.
Quel che veneriamo nei Santi al di là e al di sopra di quello che sappiamo, é
questo segreto; il mistero di una innocenza e di una identità perfettamente
nascoste in Dio.
19.
“La fine di tutto il discorso ascoltiamola insieme: Temi Dio e osserva i suoi
comandamenti: perché tutto l’uomo sta qui” (Eccl 12,13). E la sapienza di Dio,
che tutte le cose precede, chi mai la scrutò? ... La pienezza della sapienza è
temere Iddio, e soddisfazione piena si ritrae dai suoi frutti ...
Corona della sapienza è il timore del Signore, che fa fiorire la pace e il frutto della
salvezza ...
Figliuolo, desideri la sapienza? Osserva i comandamenti, e Dio te la darà ... (Eccl.
1,3. 20. 22. 23).
Nelle profondità del nostro essere è Dio che impera e vive. Ma non lo troviamo
scoprendo semplicemente il nostro essere.
Quando ci comanda di vivere, ci ingiunge anche di vivere in una determinata
maniera. Suo decreto non è soltanto che viviamo in un modo qualunque, ma che
viviamo bene e diventiamo infine perfetti vivendo in Lui. Per questo ci ha posto
nelle profondità dell’essere la luce della coscienza che ci dice la legge della vita.
La vita non è vita se non si conforma a questa legge che è la volontà di Dio.
Vivere a questa luce è tutto per l’uomo perché in tal modo egli giunge a vivere in
Dia e per Lui. Estinguere la luce della coscienza con atti contrari a questa legge
significa tradire la natura umana. Ci rende insinceri verso noi stessi, e fa di Dio
un bugiardo: ogni peccato ha questa conseguenza, e  ci porta all’idolatria,
sostituendo, alla verità di Dia, la falsità.
Una coscienza falsa è un dio falso, un dio che non ci dice nulla perché è muto e
che non fa nulla perché non ne ha il potere. È una specie di maschera di cui ci
serviamo per dare degli oracoli a noi stessi, dicendoci false profezie, dandoci tutte quelle risposte che desideriamo udire “Scambia la verità di Dio con la
menzogna” (Rom 1,25).
Il timore di Dio è l’inizio della sapienza.
La sapienza è la conoscenza della Verità nella sua  realtà ultima, è l’esperienza
alla quale si arriva con la rettitudine del cuore. La sapienza conosce Dia in noi e
noi in Dio.
Il timore, che è il primo passo verso la sapienza, è la paura di essere insinceri
con Dio e con se stessi. È il timore di esserci ingannati, di aver gettato la propria
vita ai piedi di un falso dio.
Ma ogni uomo è un mentitore, perché ognuno è peccatore. Siamo stati tutti falsi
nei confronti di Dio. “Ma Dio è Verace: e ogni uomo menzognero, conforme sta
scritto” (Rom 3,4).
Il timore di Dia, che è l’inizio della sapienza, è quindi il riconoscere la “menzogna
che tengo nella mia destra” (Is 44,20).
“Se diremo di esser senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi
... Se diremo di non aver peccato, facciamo bugiardo Lui e la sua parola non è in
noi” (1Gv 1,8-10).
L’inizio della sapienza è quindi il riconoscimento del peccato. Questa confessione
ci merita la misericordia di Dio. Fa sì che nella nostra coscienza rifulga la luce
della sua verità, senza la quale non possiamo evitare il peccato. Porta nell’anima
nostra la forza della sua grazia, legando gli atti del nostro volere alla verità che
brilla nella intelligenza.
Soluzione del problema della vita è la vita stessa. La vita non è circoscritta dà
ragionamenti e analisi, ma innanzi tutto dal viverla.
Perché fino a che non abbiamo incominciato a vivere, la nostra prudenza non ha
materia su cui lavorare. E finché non abbiamo cominciato a cadere, non ci è data
l’opportunità di lavorare al nostro successo.

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)DA 7 A 12


7.
Il cristiano ideale è persona che vive completamente al di fuori di sé nel Cristo —
vive nella fede della Redenzione da Lui operata, nell’amore del suo Redentore, il
quale ha amato tutti noi ed è morto per noi. Ma soprattutto vive nella speranza di
un mondo avvenire. La speranza è il segreto del vero ascetismo. Nega desideri e
giudizi personali e respinge il mondo nel suo aspetto presente, non perché noi o
il mondo siamo cattivi, ma perché non siamo in condizioni di fare di noi stessi e
della bontà del mondo l’uso migliore. Ma nella speranza esultiamo. Nella
speranza godiamo delle cose create. Ne godiamo non per quello che sono in se
stesse, ma per ciò che sono in Cristo — colme di promessa. Perché la bontà di
tutte le cose è una testimonianza della bontà di Dio e la sua bontà è garanzia
della sua fedeltà alle promesse. Ci ha promesso un nuovo cielo e una terra nuova,
una vita risorta nel Cristo. Qualsiasi rinnegamento di sé che non si basi
interamente sulla sua promessa, è meno che cristiano. Mio Signore, io non ho
altra speranza se non nella tua Croce. Tu, con la tua umiltà, le tue sofferenze e la
tua morte mi hai liberato da ogni vana speranza. Hai ucciso in Te la vanità della
vita presente, e, risorgendo da morte, mi hai dato tutto ciò che è eterno.
Perché dovrei desiderare di essere ricco, quando Tu sei stato povero?
Perché dovrei desiderare di essere famoso e potente agli occhi degli uomini,
quando i figli di coloro che hanno esaltato i falsi profeti e lapidati i giusti, Ti
hanno rigettato e inchiodato alla Croce? Perché dovrei carezzare in cuor mio una
speranza che mi divora la speranza di una felicità  perfetta in questa vita —
quando tale speranza, condannata a esser delusa, non è altro che disperazione?
La mia speranza sta in ciò che gli occhi non hanno  mai visto. Dunque, non
lasciarmi credere in ricompense visibili. La mia speranza sta in ciò che il cuore
umano non sa percepire: non lasciarmi credere ai sentimenti del mio cuore. La
mia speranza sta in ciò che la mano dell’uomo non ha mai toccato: non lasciarmi
credere a quanto posso afferrare tra le dita. La morte allenterà la loro stretta e la
mia vana speranza si dileguerà.
Fa’ che tutta la mia fiducia stia nella tua misericordia, non in me stesso. Fa’ che
la mia speranza sia riposta nel tuo amore, non nella salute, o nella forza, o
nell’abilità, o nelle risorse umane.
Se credo in Te, tutto il resto diventerà per me forza, salute, sostegno. Ogni cosa
mi porterà verso il cielo. Ma se non mi fido di Te, tutto sarà la mia rovina.
8.
Ogni peccato è una punizione per il primo peccato di non conoscere Dio: è
dunque un castigo dell’ingratitudine. Perché, come dice san Paolo (Rom 1,21), i
Gentili che «conobbero» Dio, non Lo conobbero perché non gli furono grati di
questa conoscenza. Non Lo conobbero perché questa loro conoscenza di Lui non li colmò della gioia del suo amore. Se non Lo amiamo dimostriamo di non
conoscerlo. Egli è amore. Deus charitas est.
La conoscenza che abbiamo di Dio si perfeziona con la gratitudine: ringraziamo
ed esultiamo sperimentando la verità del suo amore. L’Eucaristia — il Sacrificio di
lode e di ringraziamento — è il focolare sempre acceso della conoscenza di Dio
perché nel Sacrificio, Gesù, rendendo grazie al Padre, offre ed immola se stesso
interamente per la gloria del Padre e per salvarci dai nostri peccati. Se non Lo
«conosciamo» nel suo Sacrificio, come è possibile che questo abbia per noi tutto
il suo valore? «La conoscenza di Dio vale più degli olocausti» (Os 6,6). Se non
siamo grati e non lodiamo il Padre con Lui, non Lo conosciamo.
Non esiste alternativa tra la gratitudine e l’ingratitudine. Chi non è grato
comincerà presto a lamentarsi di tutto. Chi non ama, odia. Nella vita spirituale
non esiste una specie di indifferenza all’odio o all’amore. Ecco perché la
tiepidezza (che ha la parvenza di essere indifferente) è tanto detestabile. Si
tratta di odio camuffato da amore. La tiepidezza, in cui l’anima non è “né calda
né fredda” — non odia decisamente e neppure decisa- mente ama — è uno stato
nel quale si rigetta Dio e la sua volontà pur mantenendo una parvenza esteriore
di amore per lui, per tenersi lontani dagli impicci e salvare la presunta buona
fama. È la condizione a cui arrivano ben presto coloro che sono abitualmente
ingrati per le grazie che Dio fa loro. Chi risponde davvero alla bontà di Dio e
riconosce di aver tutto ricevuto, non può normalmente essere un cristiano a
metà. La vera gratitudine e l’ipocrisia non possono esistere insieme: sono
assolutamente incompatibili. La gratitudine di per  sé ci rende sinceri —
altrimenti, vuol dire che non è vera.
Ma la gratitudine è più che un esercizio mentale o  un giuoco di parole. Non ci
possiamo accontentare di fare dentro di noi un elenco delle cose che Dio ha fatto
per noi e poi casualmente ringraziarlo dei favori ricevuti.
Essere grati vuol dire riconoscere l’amore di Dio in tutto quello che Egli ci ha dato
— ed Egli ci ha dato tutto. Ogni nostro respiro è un dono dell’amor suo, ogni
attimo della nostra esistenza è una grazia, perché porta con sé grazie immense
che ci vengono da Lui. La gratitudine non considera perciò nulla come se le fosse
dovuto, non è mai svagata, ma percepisce sempre nuove meraviglie ed è pronta a
lodare di continuo la divina bontà. Chi è riconoscente sa che Dio è buono, non per
sentito dire, ma per esperienza. E qui sta tutta la differenza.
9.
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio “nulla”?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da
essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello
che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione,
una pretesa umiltà che nel dire “non sono nulla” intende in effetto affermare
“vorrei essere diverso da quel che sono”.
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità,
ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro
«nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è
buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e
apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità  morale e metafisica nei
confronti di Dio. Per amare così il nostro “nulla” non dobbiamo ripudiare niente
di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo,  nulla di ciò che siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona: buona
nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra deficienza,
perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e spirituale,
attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama
quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi.
L’orgoglioso ama se stesso perché pensa di essere, di per sé, degno di amore, di
rispetto, di venerazione: crede di dover essere amato da Dio e dagli uomini.
Perché pensa di meritare più degli altri di venir amato, onorato, ossequiato.
Anche l’umile ama se stesso, e cerca di essere amato e onorato, non perché
affetto e stima gli siano dovuti, ma perché non se li merita. Cerca di essere amato
dalla misericordia di Dio. Domanda alla bontà dei fratelli che lo si ami e aiuti.
Sapendo di non avere nulla, sa anche di aver bisogno di tutto e non teme di
chiedere in elemosina questo tutto e di riceverlo da dove lo può avere.
L’orgoglioso ama la sua illusione e la sua autosufficienza. Chi è povero in spirito
ama proprio la sua insufficienza. L’orgoglioso esige rispetto perché crede di
avere ciò che gli altri non hanno. L’umile chiede in elemosina una parte di ciò che
ogni altro ha ricevuto. Egli pure desidera di essere colmato della bontà e della
misericordia di Dio.
10.
La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come
ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è
innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene  santificato dalla presenza e
dall’azione dello Spirito Santo. La vita spirituale non è quindi una vita
completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli.
Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se
dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto
della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero
dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli
uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha
vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria
degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi
tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni
inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio.
Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio
e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo.
Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di
Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo
prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia
soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo
maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci
accorgiamo neppure di essere caduti. Per mantenerci spiritualmente vivi
dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave
immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle
altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere
la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al
minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità
dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene
all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior
parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si
addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara
se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile
perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un
compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una
maniera diversa di indicare un fallimento. Meditare vuol dire pensare. Eppure una
buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli
“affetti”, molto più che una serie di “atti” per cui si passa. Nella preghiera
meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in
certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente
una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere
a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito.
Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una
specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un
interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle
preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente
si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo
slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso
richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza,
e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con
sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e  si va a finire in una specie di
incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a
passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere
giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare
esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi
della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza
sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il
privilegio di “pregare non facendo nulla”.
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale  «non si faccia nulla», o
«non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non
si sente, non si percepisce o non si pensa nulla. Ogni vera preghiera, non importa
quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e
finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o
passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella
“contemplazione” e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per
stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver
completamente rivolto verso di Lui il nostro volto  interiore, finiremo
inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente
nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si
tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi. D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci
volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci
fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa
anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio
solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza
che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra
ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi
verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un  certo numero di cose che
sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera
meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno
sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a
tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da
meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani
sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità
spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa
dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da
parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che
siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una
completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né
immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una
“idea” di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in
linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e
riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui
nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di
percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di
essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza  della nostra personalità, lo
siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua
propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di
persona a persona che che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò
che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere.
L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra
umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura
spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.
11.
Nutriti dai Sacramenti e formati dalla preghiera e dall’insegnamento della Chiesa,
non abbiamo bisogno di cercare altro all’infuori del posto particolare voluto per
noi da Dio in seno alla Chiesa. Quando lo abbiamo trovato, vita e preghiera
insieme diventano per noi all’improvviso estremamente semplici.
Allora scopriamo che cosa sia in realtà la vita spirituale. Non si tratta di fare
un’opera buona piuttosto che un’altra, di vivere in un luogo piuttosto che in un
altro, di pregare in una maniera piuttosto che in un’altra.
Non è questione di un particolare effetto psicologico nell’anima nostra. È il
silenzio di tutto il nostro essere nella compunzione e nell’adorazione davanti a
Dio, nella abituale consapevolezza del fatto che Egli è tutto e che noi non siamo
nulla, che Egli è il centro a cui tendono tutte le  case, e al quale devono venire
dirette tutte le nostre azioni; che vita e forza ci vengono da Lui e che tanto la vita
quanto la morte da Lui esclusivamente dipendono; che tutto il corso della nostra vita è da Lui previsto e rientra nel piano della sua Provvidenza, sapiente e
misericordiosa; che è assurdo vivere come se Egli non vi fosse, ossia vivere per
noi, come se fossimo soli; che tutti i nostri progetti e le nostre ambizioni
spirituali sono vani se non vengono da Lui e non terminano in Lui e che, alla fine,
la sola cosa che importi è la sua gloria.
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di  continuo a esaminarla e a
ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico.
La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con
successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si
mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo
avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo  vicini a Dio perché allora
l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati nell’ansietà e
nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma perché non
trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non possedere niente
che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di particolare che meriti di
essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci riposiamo in Colui che è tutta la
nostra speranza.
Vi è uno stadio della vita spirituale in cui troviamo Dio in noi questa sua presenza
è un effetto creato dal suo amore. È un suo dono per noi. Rimane in noi. Tutti i
doni di Dio sono buoni, ma se ci riposiamo in essi perdono la loro bontà nei nostri
riguardi. Ed è così anche di questo dono.
Quando viene per noi il tempo di darci alle altre cose, Iddio sottrae il senso della
sua presenza per fortificare la nostra fede. Ed è allora inutile cercarlo con uno
sforzo psicologico: inutile voler trovare nel cuore un senso di Lui. È venuto il
momento di uscire da noi stessi ed elevarci al di sopra di noi e di non cercarlo più
in noi, ma al di fuori e al di sopra. Lo facciamo con la nuda fede, con una
speranza che brucia come carbone acceso sotto la cenere della nostra povertà. Lo
cerchiamo anche nell’umile carità a servizio dei fratelli. Allora, quando vuole, Dio
ci solleva fino a sé nella semplicità.
A che vale la conoscenza della nostra miseria se non imploriamo Dio di sostenerci
con la sua potenza? Che valore ha il riconoscere la nostra povertà, se non ce ne
serviamo mai per sollecitare la sua misericordia? È male abbastanza compiacersi
nel pensiero di essere virtuoso, ma è peggio rimanere in una pigra inerzia, se
siamo consci della nostra debolezza e dei nostri peccati. Il valore della nostra
miseria e della nostra povertà sta nel fatto che esse costituiscono il terreno in cui
Iddio sparge il seme del desiderio. E non importa quanto grande possa sembrare
lo stato di abbandono in cui ci troviamo: il fiducioso desiderio del suo amore
malgrado la nostra avvilente miseria è il segno della sua presenza e il pegno della
nostra salvezza.
12.
Se desideri possedere una vita spirituale, devi unificare la tua vita. La vita è
spirituale per davvero o non lo è affatto. Nessuno può servire a due padroni. La
tua vita viene forgiata dal fine per cui tu vivi. Tu sei fatto a immagine di ciò che
desideri.
Per unificare la tua vita, unifica i tuoi desideri. Per spiritualizzarla, spiritualizza i
tuoi desideri. Per spiritualizzarli bisogna che tu desideri di non aver desideri. Vivere nello spirito vuol dire vivere per un Dio in cui crediamo, ma che non
possiamo vedere. Desiderare ciò vuol dire rinunciare al desiderio di tutto quello
che si vede. Possedere Colui che non può venire compreso, vuol dire rinunciare a
tutto ciò che può comprendersi. Per riposare in Colui che è al di sopra di ogni
pace creata, rinunciamo al desiderio di riposare nelle cose create.
Rinunciando al mondo lo conquistiamo, ci eleviamo al di sopra della sua
molteplicità e la ricapitoliamo nella semplicità di un amore che trova in Dio tutte
le cose. E Gesù intendeva proprio questo quando diceva che chi avrebbe voluto
salvare la propria vita l’avrebbe perduta e chi invece l’avrebbe perduta per amore
di Dio, sarebbe riuscito a salvarla.
Il ventottesimo capitolo di Giobbe (e anche il terzo di Baruch) ci dice che la
sapienza di Dio è nascosta ed è impossibile trovarla — eppure finisce con
l’ammettere che la si può facilmente trovare perché il timore di Dio è sapienza.
Un monaco non deve mai cercare la sapienza al di fuori della sua vocazione. Se lo
facesse non la troverebbe mai, perché per lui la sapienza è nella sua vocazione.
Sapienza è la stessa vita del monaco nel suo monastero. Ed è col vivere questa
vita che il monaco trova Dio, e non già aggiungendo a questa vita qualche altra
cosa che Iddio non vi ha messo. Perché la sapienza è Dio stesso che vive in noi,
che a noi si rivela. La vita ci si rivela soltanto per quel che la viviamo. La vita
monastica è piena della misericordia di Dio. Tutto quello che il monaco fa è voluto
da Dio e ordinato alla sua gloria. Nel fare la volontà di Dio riceviamo la sua
misericordia, perché è solo per un dono della sua misericordia che possiamo
compiere la sua volontà con una intenzione pura e soprannaturale. Ed Egli ci
dona questa intenzione come una grazia che serve soltanto come mezzo, per
ottenere più grazia e più misericordia, dilatando la nostra capacità di amarlo.
Maggiore è la nostra capacità di ricevere la sua misericordia, maggiore è il potere
che abbiamo di dargli gloria, perché Egli è glorificato solamente dai suoi doni, ed
è maggiormente glorificato da coloro nei quali la sua misericordia ha fatto
nascere un amore più grande. «Ama meno colui al quale è stato meno
perdonato» (Lc 7, 47).

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)PARTE DA1 A 6




Parte Prima
Aspetti della vita spirituale
1.
Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella
irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale
che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la
nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è
costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile
morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono
completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la
rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono
considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
 Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali,
dobbiamo avere una netta visione della loro realtà.
Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà
delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così
come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che
non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le
osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si
vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne
distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto
possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di
avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in
Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un
grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente
nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai
potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse,
nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per
quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito
la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma
era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel
futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con
Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire
trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e
per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente
altro che se stesso ossia una creatura solitaria e  povera che non dipende da
nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di
interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo,
il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato “nel
deserto dell’Alto Egitto” perché “vagasse per   luoghi aridi”. La sete fa impazzire
l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia
perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto. E così chi vaga
nel deserto per essere se stesso deve badare a non  impazzire e a non farsi
schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione
nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di
annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste
tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più
bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può
costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al
vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più
immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua
visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele
che sorse un giorno nel deserto di Senaar, “perché l’uomo rendesse famoso il suo
nome e arrivasse fino al cielo” (Gen 11,4). Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca
di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e
dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per
rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue
macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già
combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse
sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il
deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella
solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e  combattere il nemico e
purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova
dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista
nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a  nulla dando il nostro tacito
assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di
colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti,
ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce.
Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il  nostro deserto. Se la
condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo
affrontarla, non lo troveremo mai.
2.
Il temperamento non predestina uno alla santità ed  un altro alla dannazione.
Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la
rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da
trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di
cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri
buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di
servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in
ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi
trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita
peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di
partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire
quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca
suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno
della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il
dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della
ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che
gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è
nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli
avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò
nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure
necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro
agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni
che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei
limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che
resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira
costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere
indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo
temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se
stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente
controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli
ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la
ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo
stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco
non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio
perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece
di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue
possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un
tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche
cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere
umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in
pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più
comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore,  pietà e dolore, felicità,
piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore
consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella
quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto
umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto
amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo. La vita
ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il
temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche
questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità —
perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente
una “persona” a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e
perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la
sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci
rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali
abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità,
all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha  per scopo di purificare ed.
arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere
disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità,
anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci
aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della
volontà, eleva anche il tono della emotività: solo  con la mancanza di
rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte
devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite
religiose. Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di
disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in  cui le emozioni non trovano
nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la
nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra
umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le
nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami
della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.
3.
La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è  soltanto pensiero. E non è
naturalmente neppure una vita di sensazioni, una vita di sentimento— “sentire»”
e sperimentare le cose dello spirito, e le cose di Dio.
La vita spirituale non esclude neppure pensiero e sentimento. Ha bisogno di
entrambi. Non è propriamente una vita concentrata alla “sommità” dell’anima,
una vita dalla quale siano esclusi mente, immaginazione e corpo. Se così fosse,
poca gente potrebbe viverla. E ancora, se tale fosse la vita spirituale, non
sarebbe affatto una vita. Se l’uomo deve vivere, dev’essere tutto vivo, corpo,
anima, mente, cuore e spirito. Tutto deve venire elevato e trasformato dall’azione
di Dio, nell’amore e nella fede.
Inutile cercare di meditare semplicemente “pensando” — ancora peggio meditare
infilando parole, passando in rivista una quantità di insulsaggini.
Una vita puramente intellettuale può essere deleteria se ci porta a sostituire il
pensiero alla vita e le idee alle azioni. L’attività propria dell’uomo non è
puramente mentale, perché egli non è propriamente un’anima disincarnata.
Nostro destino è di vivere di ciò che pensiamo perché se non viviamo di ciò di cui
abbiamo conoscenza, non possiamo neppur dire di conoscere. Soltanto col
rendere la conoscenza parte di noi stessi, trasformandola in azione, penetriamo
nella realtà significata dai nostri concetti.
Vivere da animale ragionevole non significa pensare da uomo e vivere da
animale. Dobbiamo pensare e vivere da uomini. È illusione cercare di vivere come
se le due parti astratte del nostro essere (razionalità e animalità) esistessero
davvero separatamente come due differenti realtà concrete. Siamo una cosa sola,
corpo e anima, e se non viviamo come un tutto unico, siamo destinati alla morte.
Vivere non è pensare. Il pensiero viene determinato e guidato dalla realtà
oggettiva che è al di fuori di noi. Vivere vuol dire adattare di continuo il pensiero
alla vita e la vita al pensiero, in maniera tale da crescere incessantemente, da
esperimentare sempre cose nuove nel vecchio, e cose vecchie nel nuovo. E così la
vita è sempre nuova.
4.
L’espressione «conquista di sé» può arrivare a diventare odiosa perché molto
spesso non significa la conquista di noi stessi, ma una conquista fatta da noi. Una
vittoria riportata con le nostre facoltà. Ma su che cosa? Proprio su ciò che è
all’infuori di noi.
La vera conquista di sé è la conquista di noi stessi compiuta non da noi, ma dallo
Spirito Santo. Conquista di sé vuol dire in realtà resa di sé, donazione di sé.
Eppure ancor prima di poterci arrendere dobbiamo diventare noi stessi. Perché
nessuno può dare quello che non possiede.
Più precisamente, dobbiamo avere abbastanza dominio di noi stessi da poter
rinunciare alla nostra volontà nelle mani di Cristo — in modo che Egli possa
conquistare ciò che non siamo riusciti a raggiungere con i nostri sforzi. Per poter arrivare al possesso di noi stessi, dobbiamo avere una certa
confidenza, una certa speranza di vittoria. E per poter far vivere questa speranza,
dobbiamo ordinariamente avere un certo gusto della  vittoria. Dobbiamo sapere
che cosa sia la vittoria e amarla più della sconfitta.
Non ha nulla da sperare chi combatte per raggiungere una virtù astratta — una
qualità di cui non ha esperienza. Costui non preferirà mai realmente la virtù al
vizio opposto, per quanto sembri disprezzare quest’ultimo.
Ognuno di noi ha un desiderio innato di operare bene e di evitare il male. Ma è un
desiderio, questo, che rimane sterile, finché non abbiamo fatto esperienza di quel
che significhi fare il bene. (Il desiderio di virtù viene frustrato in parecchie
persone di buon volere dal disgusto istintivo che esse provano per le false virtù
di coloro che sono creduti santi. I peccatori hanno un occhio finissimo per le false
virtù e un’idea esattissima di quello che dovrebbe essere la virtù in una persona
buona. Se in chi viene reputato buono vedono soltanto una «virtù» che è in
realtà meno viva e meno interessante dei loro vizi, concluderanno che la virtù
non ha significato e si attaccheranno a ciò che possiedono, per quanto lo trovino
odioso). Ma che possiamo fare se non possediamo la virtù? Come possiamo farne
esperienza? La grazia di Dio, attraverso Cristo nostro Signore, produce in noi un
desiderio della virtù che ne è un’esperienza anticipata. Ci rende capaci di
«gustarla» anche prima di possederla in pieno.
La grazia, che e carità, contiene in sé tutte le virtù in maniera nascosta e
potenziale, così come nella sostanza di una ghianda stanno racchiusi le foglie e i
rami di una quercia. Essere una ghianda vuol dire provare il gusto di essere una
quercia. La grazia abituale porta con sé, in germe, tutte le virtù cristiane.
Le grazie attuali ci spingono a porre in atto queste potenzialità latenti e a
realizzare ciò che significano: — Cristo che agisce in noi. La gioia che viene da
una buona azione è qualche cosa che va ricordata — non per alimentare la nostra
compiacenza, ma per ricordarci che gli atti virtuosi non solo sono possibili e
meritori, ma possono divenire più facili, più graditi e fruttuosi di quelli del vizio
che a essi si oppone e che li rende vani.
Una falsa umiltà non dovrebbe privarci della gioia della conquista, che ci è dovuta
ed è necessaria alla nostra vita spirituale, specialmente agli inizi.
È vero che più tardi ci possono venire lasciati dei difetti che siamo incapaci di
vincere — e questo avviene per procurarci l’umiliazione di combattere contro un
nemico che sembra imbattibile, senza nessuna soddisfazione di vittoria. Ci può
difatti venire richiesto di rinunciare anche alla gioia che si prova nel fare il bene,
per essere sicuri che lo facciamo per un motivo che trascende questa stessa
gioia. Ma prima di pater rinunciare a un tale piacere bisogna averlo provato. E
agli inizi la gioia che viene dalla conquista di sé è necessaria: non dobbiamo
temere di desiderarla.
5.
Pigrizia e ignavia sono due dei più grandi nemici della vita spirituale.  Tanto più
pericolosi degli altri quando si camuffano da “discrezione”. Questa illusione non
sarebbe tanto fatale se la discrezione non fosse una delle virtù .più importanti
per chi conduce una vita spirituale. Difatti è proprio la discrezione che ci fa
vedere la differenza che passa tra ignavia e discrezione. Se il tuo occhio è
semplice ...  ma se la luce che è in te è tenebra ... La discrezione ci dice quel che Dio vuole da noi e quel che non vuole. Nel far ciò,
ci mostra l’obbligo che abbiamo di corrispondere alle ispirazioni della grazia e di
obbedire a tutte le altre indicazioni della volontà di Dio.
Pigrizia ed ignavia antepongono all’amore di Dio le nostre comodità attuali;
hanno paura dell’incertezza del futuro perché non ripongono alcuna fiducia in
Dio.
La discrezione ci mette in guardia contro gli sforzi vani: ma per l’ignavo qualsiasi
sforzo è vano. La discrezione ci fa vedere quando uno sforzo è vano e quando
invece è doveroso.
La pigrizia rifugge da ogni rischio: La discrezione evita i rischi inutili ma ci fa un
obbligo di addossarci i rischi che fede e grazia di Dio esigono da noi. Perché,
quando Gesù disse che il regno dei cieli si conquistava con la violenza, voleva
proprio dire che ciò era possibile solo a prezzo di certi rischi.
E presto o tardi, se seguiamo Cristo, dobbiamo rischiare tutto per tutto
guadagnare. Dobbiamo puntare sull’invisibile e rischiare tutto ciò che ci è dato di
vedere, di provare, di sentire. Ma sappiamo che è un rischio che vale la pena di
affrontare, perché non vi è nulla di più incerto del mondo che passa. Infatti
“passa la figura del mondo attuale” (1Cor 7,31).
Senza coraggio non potremo mai arrivare alla vera semplicità.
L’ignavia ci mantiene in uno stato di “doppiezza” — esitanti tra Dio e il mondo. In
una tale esitazione non vi é fede — la fede resta semplicemente un’opinione. Non
siamo mai sicuri, perché non ci abbandoniamo mai completamente all’autorità di
un Dio invisibile. Questa esitazione è la morte della speranza. Non ci liberiamo
mai da questi sostegni visibili che, ben lo sappiamo, un giorno ci verranno
sicuramente a mancare. E questa esitazione rende impossibile la vera preghiera
non si ha mai il coraggio di chiedere nulla e si dubita talmente di venire esauditi
che proprio nell’atto stesso di chiedere si cerca superstiziosamente, per umana
prudenza, di costruirsi una risposta di proprio gusto (cfr. Gc 1,5-8).
Che vale la preghiera se nell’atto stesso in cui preghiamo abbiamo così poca fede
in Dio che ci preoccupiamo di formulare la nostra risposta alla preghiera?
6.
Non esiste vera vita spirituale all’infuori dell’amore di Cristo.
Possediamo una vita dello spirito soltanto perché siamo amati da Lui. E la vita
spirituale consiste nel ricevere il dono dello Spirito Santo e la sua carità, perché il
Sacro Cuore di Gesù ha disposto, nel suo amore, che vivessimo del suo Spirito —
di quello stesso Spirito che procede dalla Parola e dal Padre e che é l’amore di
Gesù per il Padre suo. Se conosciamo quanto è grande l’amore di Gesù per noi,
non avremo mai paura di andare a Lui in tutta la nostra povertà e debolezza e
miseria e infermità spirituale. Anzi, quando arriviamo a comprendere di che
genere sia il suo amore per noi, preferiamo di andare a Lui in veste di poveri e
derelitti: Non ci vergogneremo mai della nostra miseria. La miseria torna tutta a
nostro vantaggio quando non abbiamo da cercare altro che misericordia.
Possiamo essere contenti del nostro stato di indigenza, se siamo veramente
convinti che la potenza di Dio si perfeziona nella  nostra infermità. Il segno più
sicuro che abbiamo ricevuto una comprensione spirituale dell’amore che Dio ha
per noi, è l’apprezzare la nostra povertà alla luce della sua infinita misericordia.
Dobbiamo amare la nostra povertà come la ama Gesù. Essa ha tanto valore agli
occhi suoi, che è morto sulla Croce per presentare la nostra povertà al Padre suo
e arricchirci dei tesori della sua misericordia infinita. Dobbiamo amare la povertà degli altri come la ama Gesù. Dobbiamo vederli con
gli occhi della sua compassione. Ma non possiamo avere una vera compassione
degli altri se non siamo disposti a essere oggetto di pietà e a ricevere perdono
per i nostri peccati.
Non sappiamo realmente perdonare se non conosciamo  che cosa sia essere
perdonati. Dovremmo dunque essere contenti che i nostri fratelli ci possano
perdonare. È il perdono scambievole che rende manifesto nella nostra vita
l’amore che Gesù ha per noi, perché nel perdonarci a vicenda ci comportiamo nei
confronti degli altri così come Gesù fa con noi.

sabato 15 dicembre 2012

(Lc 3,10-18) E noi che cosa dobbiamo fare?


VANGELO
(Lc 3,10-18) E noi che cosa dobbiamo fare?
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Io credo in Te Signore, e credo che il Tuo Spirito mi parli, come fa con tutti coloro che chiedono aiuto a te, Gesù ci ha insegnato a pregare, ci ha detto: "chiedi e ti sarà dato" ed io ti chiedo con molta umiltà .... illuminami.


Leggendo mi viene davanti agli occhi una frase,e torna ,s'insinua e ripete: " Poiché il popolo era in attesa".Vedo la mia situazione di oggi,e come me molti attendono che qualcosa cambi, che la violenza sparisca, che l'uomo diventi più buono, che non ci sia più la fame, la guerra; insomma attendiamo che Gesù ritorni e metta fine a tutto questo.C'e chi parla di fine del mondo, chi dell' inizio di una nuova era di pace e d'amore; io credo che la cosa più sensata sia quella di non aspettare, ma di cercare di cambiare questo mondo, cominciando da quello che ci è possibile, e chiedendo a Dio di aiutarci per cambiare quello che non sembra possibile.Siamo cristiani perchè battezzati con acqua,come dice Giovanni? O perchè battezzati con lo Spirito Santo e il fuoco di Gesù Cristo?La differenza la facciamo noi; in questa domenica definita della gioia, quale gioia possiamo provare nell'essere salvati, ma anche tanta angoscia per chi rifiuta questa salvezza, per chi rifiuta Dio.Non possiamo stare fermi,essere inermi ed aspettare che Dio ami anche per noi, che perdoni anche per noi, che spezzi il pane anche per noi! Essere Cristiani significa essere un tutt' uno con Gesù, ma ancor di più, significa capire che se non facciamo la cosa giusta, se non ci preoccupiamo dei fratelli che hanno più bisogno, se lasciamo vincere il nostro egoismo e la nostra superbia, faremo la fine della paglia,che brucerà nel fuoco inestinguibile.Essere nella gioia non vuol dire vivere con ilarità, preoccupandoci solo di divertirci, ma vivere nella consapevolezza di fare quello che è meglio per noi e per la nostra vita,presente e futura.

sabato 8 dicembre 2012

Lc 3,1-6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!


VANGELO
Lc 3,1-6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! 
+ Dal Vangelo secondo Luca

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:«Voce di uno che grida nel deserto:Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri!Ogni burrone sarà riempito,ogni monte e ogni colle sarà abbassato;le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate.Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Oh Spirito Santo, ti prego,abbracciami, avvolgimi e insegnami a capire la parola che Dio ha voluto trasmetterci attraverso l' evangelista Luca, che da Te si è lasciato guidare.
Con molta precisione, Luca ci racconta gli eventi  della storia della salvezza, cominciando da Giovanni il Battista. La storia che nasce, che si rende protagonista degli eventi, così com' era scritto.
Prima che tutti noi nascessimo, Dio scelse per noi, come scelse anche per Gesù qualcuno che preparasse la strada alla sua venuta, come scelse Maria per il suo ingresso nel mondo. 
Mi viene alla mente la frase : " non temere " che Dio ripete attraverso l' angelo a Maria, attraverso Gesù ai discepoli e attraverso i discepoli  a noi.  Non temere Maria, perchè anche Elisabetta che era detta sterile è stata toccata dalla grazia di Dio ed aspetta un bambino. 
Sarà proprio questo bambino a precedere Gesù nella sua missione, a preparargli la strada. Questo è un messaggio ancora forte per noi, che fatichiamo a sentirlo nostro. Non dobbiamo avere paura di seguire Gesù, di mostrarci Cristiani e neanche di sembrare fuori moda. Non dobbiamo avere paura degli ostacoli che possiamo incontrare, perchè non siamo chiamati ad essere paurosi, ma Santi; ma ancora più importante, non dobbiamo aver paura di amare tutti, anche i nostri nemici, perchè è questo che ci rende forti e non permette al male di contaminarci.
Bellissima l'ultima frase scelta dalla nostra Madre Chiesa per chiudere la lieta notizia di oggi: " Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! " ogni uomo, nessuno escluso, potrà essere salvato.

sabato 1 dicembre 2012

(Lc 21,25-28.34-36) La vostra liberazione è vicina.


VANGELO 
(Lc 21,25-28.34-36) La vostra liberazione è vicina.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Parola del Signore
 LA MIA RIFLESSIONE
 PREGHIERA
A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido: che io non sia confuso. Non trionfino su di me i miei nemici. Chiunque spera in te non resti deluso. (Sal 25,1-3) Oggi Signore scelgo questa preghiera dall'antifona d'ingresso,mettendo tutto il mio cuore e la mia mente nelle tue mani.

Mentre l' uomo continua a vivere facendo dei suoi giorni il suo regno, Gesù continua a ricordarci che questo regno non ci appartiene come crediamo, ma è solo un'occasione da non perdere. Mentre tutti parlano della fine del mondo, Gesù dice che quando accadranno queste cose, dovremo alzare la testa, perchè la salvezza è vicina.Spesso si cerca di dare una connotazione, un significato ai segni, alle profezie e ai messaggi, ma forse quello che ne vien fuori, alla fine, è più confusione che altro.Nel Vangelo c' è tutto quello che serve all' uomo di Dio, senza cercare altro e, se qualcosa ci colpisce, se crediamo in un' apparizione o in una rivelazione privata,  questo nulla toglie al Vangelo,se non va in contrapposizione con esso. Il mio invito quindi,  è a conoscere bene il Vangelo e poi, magari,  anche ascoltare altro.Ricordiamo che satana esiste, ce ne parla Gesù proprio nel Vangelo, ed è molto astuto, non per niente era un angelo, quindi non pensiamo che satana è un'invenzione dei preti e non diamo retta a chi ci dice che non esiste.
In futuro ci sarà il giudizio sull'umanità e anche sugli angeli caduti:"Allora [il Signore] dirà anche a quelli della sua sinistra: 'Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli'" (Matteo 25:41)."...Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li inabissò, confinandoli in antri tenebrosi per esservi custoditi per il giudizio" (2 Pietro 2:4)."Egli ha pure custodito nelle tenebre e in catene eterne, per il gran giorno del giudizio, gli angeli che non conservarono la loro dignità e abbandonarono la loro dimora" (Giuda 6)."Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli" (Apocalisse 12:9).
Satana e i suoi angeli operano oggi nel mondo, nei cuori degli esseri umani, guidandoli nella ribellione, nei divertimenti, nell'accumulare beni materiali, nelle molte forme di religiosità e spiritualità, ecc. impedendo loro di riconoscere il loro stato di peccatori perduti, e tenendoli lontani dalla salvezza che Dio offre a ognuno personalmente in Gesù Cristo, che morì per noi sulla croce e risuscitò."Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno" (1 Giovanni 5:19)."...per gli increduli, ai quali il dio di questo mondo (Satana) ha accecato le menti, affinché non risplenda loro la luce del vangelo della gloria di Cristo, che è l'immagine di Dio" (2 Corinzi 4:4)."Seguendo l'andazzo di questo mondo,satana opera negli uomini ribelli; Satana ha anche introdotto numerose vie di salvezza "alternative",e spesso quando non riesce ad allontanarci da Dio,riesce a far entrare nella nostra fede, la superstizione. Stiamo quindi molto attenti a non farci fuorviare ,a non perdere la rotta, come ci ricorda il Papa che ha proclamato l'anno dellafede il cui logo rappresenta una barca, immagine della Chiesa, in navigazione sui flutti. L’albero maestro è una croce che issa le vele le quali, con segni dinamici, realizzano il trigramma di Cristo (IHS). Sullo sfondo delle vele è rappresentato il sole che associato al trigramma, rimanda all’Eucarestia. 
Logo dell'anno della fede. Esso rappresenta una barca, immagine della Chiesa, in navigazione sui flutti. L’albero maestro è una croce che issa le vele le quali, con segni dinamici, realizzano il trigramma di Cristo (IHS). Sullo sfondo delle vele è rappresentato il sole che associato al trigramma, rimanda all’Eucaristia.