venerdì 4 ottobre 2013

SANTI é BEATI :

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San Placido Monaco

5 ottobre

sec. VI

Fu, assieme a Mauro, uno dei più noti discepoli di san Benedetto. Dei due, Placido era forse il più giovane: poco più che un fanciullo, quando venne posto sotto la guida dell'abate Benedetto. Per questo viene considerato patrono dei novizi benedettini. A Placido, oltre che a Mauro, è attribuito un celebre episodio miracoloso narrato da san Gregorio Magno nei suoi Dialoghi. Mentre Benedetto era nella sua cella, un giorno, il giovane Placido si recò ad attingere acqua nel lago. Perse l'equilibrio e cadde nella corrente, che subito lo trascinò lontano dalla riva. L'abate, nella cella, conobbe per rivelazione l'accaduto. Chiamò Mauro e gli disse di correre in soccorso del confratello. Mauro si affrettò ad obbedire correndo sull'acqua, fino a raggiungerlo e trarlo in salvo. San Placido, invocato per tutto l'Alto Medioevo come "Confessore", venne trasformato in martire alla fine dell'XI secolo. Un fantasioso biografo compose infatti un falso racconto della sua Passione, sofferta in Sicilia, per opera dei Saraceni. (Avvenire)

Patronato: Novizi monaci

Etimologia: Placido = colui che è dolce e mansueto

Martirologio Romano: Commemorazione di san Placido, monaco, che fu sin dalla fanciullezza discepolo carissimo di san Benedetto.

Il Calendario universale della Chiesa non segna oggi questa memoria, ricordata invece dal Martirologio Romano. Non esitiamo però ad ammettere che San Placido - onorato, a torto, come Martire, e vedremo perché, - sia il personaggio più noto, tra i Santi, a tale data.
E’ però una celebrità riflessa, come di una subitanea illuminazione, che esalta per un momento un oggetto, scoprendolo dall'ombra, per riconsegnarlo all'ombra.
Placido fu, con Mauro, il più docile discepolo del grande San Benedetto, il quale li ebbe ambedue, Placido e Mauro, cari come figli.
Dei due, Placido era forse il più giovane: poco più che un fanciullo, quando venne posto sotto la paterna guida dell'Abate San Benedetto. Per questo, San Placido viene considerato quale Patrono dei novizi, cioè dei giovani che si preparano alla professione religiosa nei monasteri benedettini.
A Placido, oltre che a Mauro, è attribuito un celebre episodio miracoloso narrato da San Gregorio Magno nei suoi Dialoghi. Mentre Benedetto era nella sua cella, un giorno, il giovane Placido si recò ad attingere acqua nel lago. Perse l'equilibrio e cadde nella corrente, che subito lo trascinò lontano dalla riva.
L'Abate, nella cella, conobbe per rivelazione l'accaduto. Chiamò Mauro e gli disse di correre in soccorso del confratello. Ricevuta la benedizione, Mauro si affrettò ad obbedire: valicò la riva, e seguitò a correre sull'acqua, fino a raggiungere Placido. Afferratolo, lo riportò a riva, e soltanto giungendo sulla terra asciutta, voltosi indietro, si accorse di aver camminato sull'acqua, come San Pietro sul lago di Tiberiade.
L'episodio ebbe un seguito ancor più commovente, perché San Benedetto attribuì il prodigio al merito dell'obbedienza di Mauro, mentre il discepolo lo attribuiva ai meriti dell'Abate. Il giudizio venne rimesso a Placido, il quale disse: " Quando venivo tratto dall'acqua, vedevo sopra il mio capo il mantello dell'Abate, e mi pareva che fosse egli a riportarmi a riva ".
In questo episodio narrato da San Gregorio è contenuto tutto ciò che sappiamo sul conto di Placido. An-ch'egli, come Mauro, è circonfuso e quasi confuso nella luce di San Benedetto. La sua santità fa quasi parte della aureola del Patriarca, della cui Regola fu l'interprete più pronto.
Resta da accennare al fatto che San Placido, invocato per tutto l'Alto Medioevo come Confessore ' venne trasformato in Martire alla fine dell'X1 secolo. Un fantasioso biografo compose infatti un falso racconto della sua Passione, sofferta in Sicilia, per opera dei Saraceni. Ma è un'invenzione che contrasta non soltanto con la realtà storica, ma anche con il carattere stesso della santità di Placido, che preferiamo immaginare sempre umile e obbediente, pacifico e nascosto.


Fonte:
Archivio Parrocchia

(Lc 10,17-24) Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

VANGELO
 (Lc 10,17-24) Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, i settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».

Parola del Signore
(Lc 10,17-24) Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.
(Lc 10,17-24) Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERAVieni o Spirito di Dio,tu che guidasti gli apostoli nello scrivere i Vangeli e nel vivere santamente, prenditi cura di me e di tutto il mio essere perchè ti appartiene. 
In questo brano riprendiamo un poco quello che abbiamo scritto ieri, perchè è lo stesso episodio narrato però oggi da Luca, e non da Matteo.Mi soffermerò quindi solo sulla prima parte, perchè della seconda ne ho già parlato ieri. 
Il carattere di Luca infatti, si impone nella narrazione, come quello di chi raffigura l' azione degli apostoli come un cammino pieno di esultanza e ricco ogni volta di novità e di grazie.
C'è proprio questa esultanza dei 72 che partono senza sapere quello che sarà e si rendono conto mano a mano, come seguire Gesù nella sua opera, li rende capaci di partecipare anche ai suoi miracoli.
 Scacciare i demoni, era sicuramente qualcosa che li rendeva orgogliosi, e da questo Gesù li mette in guardia: -" Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli. " -
L' orgoglio e la superbia non devono entrare nel loro cuore, neanche se scacciano i demoni e guariscono i malati, perchè non lo fanno loro, ma solo nel nome di Gesù.
Solo questa semplicità, questa umiltà , permetteranno che l' opera di Gesù si compia e prosegua.
Nell' ultima riga di questo brano, leggiamo che molti profeti e re, avrebbero voluto vivere le loro esperienze spirituali, ma non gli è stato dato in dono di viverle. Vedete come è forte il richiamo di Luca a quella che lui vive come un cammino su una via da seguire appassionatamente, e per lui la via è Gesù stesso.    
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per i commenti e le versioni in francese -inglese e spagnolo  :http://www.facebook.com/group.php?gid=136929857240 

giovedì 3 ottobre 2013

VOCE DI SAN PIO :

-"Camminiamo, dunque, sempre anche nel nostro passo lento; purché abbiamo l’affetto buono e risoluto, non possiamo se non camminare bene. No, mie carissime figliole, non è necessario per l’esercizio della virtú stare sempre attualmente attente a tutte; questo veramente imbroglierebbe e ravvolgerebbe troppo i vostri pensieri ed effetti." (Epist. III, p. 588).

SANTI é BEATI :

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San Francesco d'Assisi Patrono d'Italia

4 ottobre

Assisi, 1182 - Assisi, la sera del 3 ottobre 1226

Francesco nacque ad Assisi nel 1181, nel pieno del fermento dell'età comunale. Figlio di mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Di qui la partecipazione alla guerra contro Perugia e il tentativo di avviarsi verso la Puglia per partecipare alla crociata. Il suo viaggio, tuttavia, fu interrotto da una voce divina che lo invitò a ricostruire la Chiesa. E Francesco obbedì: abbandonati la famiglia e gli amici, condusse per alcuni anni una vita di penitenza e solitudine in totale povertà. Nel 1209, in seguito a nuova ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città mentre si univano a lui i primi discepoli insieme ai quali si recò a Roma per avere dal Papa l'approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d'Italia e dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava frati, fratelli. Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al secondo ordine francescano, e fondò un terzo ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici. Morì nella notte tra il 3 e il 4 ottobre del 1228. Francesco è una delle grandi figure dell'umanità che parla a ogni generazione. Il suo fascino deriva dal grande amore per Gesù di cui, per primo, ricevette le stimmate, segno dell'amore di Cristo per gli uomini e per l'intera creazione di Dio.

Patronato: Italia, Ecologisti, Animali, Uccelli, Commercianti, Lupetti/Coccin. AGESCI

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco

Emblema: Lupo, Uccelli

Martirologio Romano: Memoria di san Francesco, che, dopo una spensierata gioventù, ad Assisi in Umbria si convertì ad una vita evangelica, per servire Gesù Cristo che aveva incontrato in particolare nei poveri e nei diseredati, facendosi egli stesso povero. Unì a sé in comunità i Frati Minori. A tutti, itinerando, predicò l’amore di Dio, fino anche in Terra Santa, cercando nelle sue parole come nelle azioni la perfetta sequela di Cristo, e volle morire sulla nuda terra.
Ascolta da RadioVaticana:
Ascolta da RadioRai:


Nel suo 'Testamento' scritto poco prima di morire, Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo”.
Per questo è considerato il più grande santo della fine del Medioevo; egli fu una figura sbocciata completamente dalla grazia e dalla sua interiorità, non spiegabile per niente con l'ambiente spirituale da cui proveniva.
Ma proprio a lui toccò in un modo provvidenziale, di dare la risposta agli interrogativi più profondi del suo tempo.
Avendo messo in chiara luce con la sua vita i principi universali del Vangelo, con una semplicità e amabilità stupefacenti, senza imporre mai nulla a nessuno, ebbe un influsso straordinario, che dura tuttora, non solo nel mondo cristiano ma anche al di fuori di esso.

Origini e gioventù
Francesco, l'apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale.
In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di s. Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo.
Questo nome era l'equivalente medioevale di 'francese' e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse s. Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l'aveva imparata dalla madre.
Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisiani godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l'erede dell'attività di famiglia.
Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.

Combattente e sua conversione
Con la morte dell'imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l'elezione a papa del card. Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all'imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l'aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, con lo spirito dell'avventura che l'aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche.
Dopo la disfatta subita dagli assisiani a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa.
La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un'indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d'intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell'autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va' e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”.
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno.
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.

La vocazione alla povertà e l'inizio della sua missione
Nell'aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”.
Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “minoritica”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi.
Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l'esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli.
Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei massimi protagonisti.
In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente.
Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l'uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l'amore per tutte le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.

Inizio dell'Ordine dei Frati Minori
Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di 'fraternità' di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica.
Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all'interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.
Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l'assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori.
Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l'altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l'Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero; sembra che in quest'occasione Francesco abbia ricevuto il diaconato.

Chiara e le clarisse
Tutta Assisi parlava delle 'bizzarie' del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di S. Rufino, dove nell'attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell'occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c'era la giovanissima figlia Chiara.
Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall'amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro.
Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.
Francesco, davanti all'altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore.
Poi l'accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all'ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare.
Successivamente Chiara e le compagne che l'avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S. Damiano” (il nome 'Clarisse' fu preso dopo la morte di s. Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa.
Chiara con le compagne, sarà l'incarnazione al femminile dell'ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.

L'ideale missionario
Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l'evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani.
Se in quell'epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell'allora canonico regolare di S. Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova.
Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l'impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell'amore poteva essere possibile fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.

La seconda Regola
Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l'originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità.
Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle 'fraternità', piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l'Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell'apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo.
Nell'affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d'insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell'Ordine, Ugolino de' Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.
In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl'infedeli e l'equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.

Il presepe vivente di Greccio
La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l'umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi.
Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall'arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l'apporto dell'opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell'arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.

Il suo Calvario personale
Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo dell'Ordine, che aveva creato pur non avendone l'intenzione.
Nell'estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell'aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Francesco un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione; per la prima volta nella storia della santità cattolica, si era verificato il miracolo delle stimmate.
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi, inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.

Il lungo declino fisico, il “Cantico delle creature”, la morte
Dopo le ultime prediche all'inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l'adorabile presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel 'Cantico' egli coglieva il legame d'amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l'uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso 'Testamento', l'ultimo messaggio d'amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l'interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell'estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un'altra grave malattia, l'idropisia.
Dopo un'altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po' di refrigerio, i frati visto l'aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all'amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell'infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguetii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S. Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell'Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d'Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.

Il culto, Patronati
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda 'Vita', scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell'iconografia del santo e riprodotti dall'arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell'Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi, che lo storico e scrittore, don Enrico Pepe definisce “Patrimonio dell'umanità”, fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono principale d'Italia.
Il cammino dei suoi 'Frati Minori'
La Regola composta da s. Francesco su istanza del cardinale Ugolino de' Conti, futuro papa Gregorio IX e approvata solennemente da Onorio III nel 1223, era formata da 12 capitoli, essa prescriveva una rigida e assoluta povertà, il lavoro per procurasi il cibo e l'elemosina come mezzo sussidiario di sostentamento.
Capo dell'Ordine, che si propagò rapidamente al punto che, vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province, fu un Ministro Generale. Le costituzioni furono redatte da San Bonaventura da Bagnoregio.
Mentre ancora l'organizzazione del nuovo Movimento religioso si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti. I membri dell'Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall'obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell'Ordine stesso; la seconda al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX con la bolla “Quo elongati” (1230), concesse ai frati, che presero in seguito il nome di 'Conventuali', la possibilità di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, correnti definite ereticali, come quelle degli spirituali e dei fraticelli, rappresentarono l'ala estrema del francescanesimo e agitarono un programma di rinnovamento religioso misto ad un'auspicabile rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell'avvento del regno dello Spirito, ma si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali.
La divisione in due Movimenti, Osservanti e Conventuali, fu sanzionata nel 1517 da papa Leone X; nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini, guidato dal frate Minore Osservante Matteo da Bascio della Marca d'Ancona, dediti ad una più austera disciplina, povertà assoluta e vita eremitica; altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti) in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutti obbedivano al Ministro Generale dell'Osservanza.
L'Ordine francescano comprende anche il ramo femminile, le Clarisse e il Terz'Ordine dei laici o Terziari francescani, fondati dallo stesso s. Francesco nel 1221, per raccogliere i numerosi seguaci già sposati e di ogni ordine sociale.
L'Ordine, ai cui membri dei diversi rami, Leone XIII nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori, è tra i più importanti della Chiesa. Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, essi furono e sono dediti alla predicazione, ad un apostolato di tipo sociale in luoghi di cura, e soprattutto all'opera missionaria.


Cantico delle Creature

Altissimo, onnipotente, bon Signore
Tue so' le laude, la gloria et l'honore
et onne benedictione.
A te solo, Altissimo, se konfanno
Et nullo homo ene digno te mentovare.
Laudato si', mi' Signore, cum tucte le tue creature,
specialmente messer lo frate sole
lo quale è iorno et allumini noi per lui,
et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato si', mi' Signore, per sora acqua,
la quale è molto utile et humile
et pretiosa et casta.
Laudato si', mi' Signore, per frate focu
per lo quale enallumini la nocte
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano
per lo tuo amore,
et sostengo' infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si', mi' Signore,
per sora nostra morte corporale
da la quale nullo homo vivente po' skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà
ne le sue sanctissime volutati,
ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi' Signore,
et rengratiate et serviteli
cum grande humilitate.
(S. Francesco d'Assisi)


Autore: Antonio Borrelli

(Mt 11,25-30) Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.

VANGELO 
(Mt 11,25-30) Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Parola del Signore





LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Colletta
O Dio, che in san Francesco d’Assisi, povero e umile, hai offerto alla tua Chiesa una viva immagine del Cristo, concedi anche a noi di seguire il tuo Figlio nella via del Vangelo e di unirci a te in carità e letizia.
Plasmaci Signore, dacci forma, perché dalla terra ci hai creato e a te solo dobbiamo la vita; siamo figli tuoi e possiamo essere degni di te, vivere a tua immagine e somiglianza, insegnaci a farlo, proteggici dal fango del peccato che vuole impedirvi di risplendere della tua luce.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Questa si che è preghiera ragazzi!!!!!
Ti rendo lode,Padre,Signore del cielo e della terra……
Gesù non si stanca mai di ringraziare il Padre,di lodare le meraviglie del creato … e guarda caso, oggi ricordiamo il piccolo per eccellenza, San Francesco, che sapeva vedere in ogni angolo del mondo Dio.
Il collegamento che fa la Chiesa in questa pagina tra Paolo e Francesco può essere collegato al fatto che
" forse " ambedue erano stigmatizzati, come vediamo che ci dice Paolo stesso:- D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo.- Non è questo però che li accomuna ,ma il fatto che Francesco e Paolo, così diversi tra loro eppure tutti e due arrivano ad una conclusione simile, amano la croce perché amano Cristo. Quelle parole di Gesù li colpiscono e glielo fanno amare in tutta la sua bellezza.
Bellezza della croce, perché solo una cosa bella si può amare in questo modo…e questo ci porta mille miglia lontani da loro e dalla loro santità, simile a quella di Gesù, il Santo di Dio, il Figlio prediletto…
Ci pensate … il figlio prediletto di Dio…. come vorremmo raggiungere anche solo l’idea di essere graditi agli occhi di Dio, sarebbe già qualcosa, ma Francesco e Paolo hanno capito che solo attraverso l’imitazione di Cristo avrebbero potuto sperare di vedere Dio, attraverso i suoi occhi, le sue piaghe, il suo dolore… IL SUO AMORE.
Nella grande umiltà di riconoscersi ancora imperfetti, ci si lascia andare tra le braccia di Gesù e ci si lascia plasmare dal suo amore.
Lui si che sa amare e perdonare, non ci sono regole da imparare, né riti da eseguire, non è importante essere ebrei, circoncisi, preti o monache, quello che conta è diventare suoi, amarlo e accettare di amare in quel modo sublime, assurdo si, ma trascinante, che non si ferma a riflettere, a guardare l’oggetto del suo amore, se merita o no…. ama e basta, ama anche il dolore che gli dai ,come una madre ed un padre insieme, che amano il figlio che li trascura, li ferisce, che bramano un suo sguardo, una sua carezza, che aspettano solo di vederlo tornare sano e salvo per stare bene, che sono in ansia se è lontano…L’amore di Dio è quello di tutte le madri e i padri del mondo e tanto, tanto di più.
In queste letture,vediamo che la cosa più importante che dobbiamo tenere presente è che tutto dipende da Dio. Ma spesso il nostro orgoglio ci fa diventare superbi e pensiamo che siamo noi, con la nostra sapienza il nostro savoir faire, che dirigiamo i nostri passi. Noi senza il Signore non siamo nulla e non possiamo nulla, ma mettendoci al suo servizio con l’umiltà di servi avremo la possibilità di essere quei piccoli a cui Cristo rivela e si rivela. Servi per amore e non per obbligo, perché Gesù stesso ci ha detto ” non vi chiamo servi , ma amici”, quindi in nome di questa grandissima amicizia che ci dimostra, doniamo a Lui la nostra fedeltà.
Impariamo ad entrare in intimità con Lui, a conoscere Gesù così come lui ci conosce, a fidarci di quello che ci dirà di fare, a mettere la nostra vita nelle sue mani e, più di tutto, a capire che tutto quello che riusciremo a fare, non sarà opera nostra, ma sua.
Ci vuole coraggio per pensare questo, non è facile sentirsi strumenti di Dio, ma l’evidenza dei fatti ci deve far trovare il coraggio e al tempo stesso, l’ umiltà per farlo. Rispondere a Dio, accettare di essere partecipi al suo progetto, non è un’ azione isolata, ma ha bisogno di farci sentire parte di un tutt’ uno, come ingranaggi di una stessa macchina che si intrinsecano l’uno con l’altro, a cui il Signore stesso dà ordine e forma.
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mercoledì 2 ottobre 2013

SANTI é BEATI :


- San Dionigi l'Areopagita Discepolo di S. Paolo

3 ottobre

m. 95 c.

Dionigi viene citato da Luca come uno dei pochissimi ateniesi che seguirono Paolo dopo il discorso all’Areopago. Un altro Dionigi, vescovo di Corinto del II secolo, scrive che l’Areopagita fu il primo pastore di Atene. Fu, poi, confuso con l’omonimo protovescovo martire di Parigi, la cui festa cade il 9 ottobre. Sotto il nome di Pseudo-Dionigi va l’autore (forse un monaco siriaco del V-VI secolo) di celebri scritti largamente diffusi nel Medioevo: tra essi il «De coelesti Ierarchia» e il «De divinis nominibus». In essi si afferma che Dionigi avrebbe visto l’eclissi della Crocifissione e assistito alla Dormizione di Maria. Perciò furono attribuiti all’antico ateniese. (Avvenire)

Martirologio Romano: Commemorazione di san Dionigi l’Areopagita, che si convertì a Cristo annunciato da san Paolo Apostolo davanti all’Areopágo e fu costituito primo vescovo di Atene.
Ascolta da RadioMaria:


E' una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede. L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris.

Se l'autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.

Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata data: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato coperto da uno pseudonimo. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un'autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po' disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero comune in un linguaggio comune. Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. Con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in sintonia con il Vangelo. Questo principio, che egli rivela nella sua settima Epistola, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.

Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire “soprapersonale”, realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorte religione filosofica, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti anche superstiziosi potevano essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.

Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio – nell'armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio – e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini agli angeli e agli arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e rendono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura. Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin – un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica. Anzi la parola “mistica” acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola “sacramentale”, cioè quanto appartiene al mystèrion, al sacramento. Con lui la parola “mistica” diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra filosofia greca e cristianesimo, tra pensiero pagano e fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più “vero”; la Bibbia appare abbastanza “barbara”, semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri. Le immagini bibliche ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella loro semplicità noi troviamo, più che nei grandi concetti, il volto di Dio e ci rendiamo conto della nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Si parla così – è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo – di una “teologia negativa”. Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto che, d'altra parte, è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l'armonia dei cori celesti, in cui sembra che tutti dipendano da tutti, il nostro cammino verso Dio, però, rimarrebbe molto lontano da Lui, egli sottolinea che, alla fine, la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo.

E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell’interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di San Francesco: Bonaventura con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e l'esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza, Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà – nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità – c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa tocchiamo realmente il cuore di Dio.

Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col “non”, e solo entrando in questa esperienza del “non” Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.

Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l'incontro con Dio in Cristo

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 14.05.2008)

VOCE DI SAN PIO :

-" Non ti inquietare quando non puoi meditare, non puoi comunicarti e non puoi attendere a tutte le pratiche divote. Cerca in questo frattempo di supplire diversamente col tenerti unita a nostro Signore con una volontà amorosa, con le orazioni giaculatorie, con le comunioni spirituali." (Epist. III, p. 424).

I LIBRI DELLA BIBBIA ----LAMENTAZIONI---

LAMENTAZIONI
Il libro della Lamentazioni è una lunga supplica comunitaria rivolta a Dio in occasione di una
calamità nazionale. Esso contiene cinque poemi, che esprimono il dolore degli scampati alla
catastrofe che colpì Gerusalemme nel 587 a.C
Il titolo ‘Lamentazioni’ proviene dalla prima parola:“Ah! Come …” - che apre il libro e si ripete
lungo alcuni capitoli. Essa esprime lo stupore desolato dell’autore dinanzi alla catastrofe che ha
distrutto Gerusalemme. La tradizione ha attribuito questo libro al profeta Geremia. La versione
latina della Bibbia titola il libro "Preghiera di Geremia".
Il libro della Lamentazioni è, in realtà, una lunga supplica comunitaria rivolta a Dio in
occasione di una calamità nazionale. Nasce dalla coscienza del peccato commesso dai padri che
si ripercuote nei figli.
Contiene cinque poemetti di alta qualità poetica che esprimono il dolore divenuto lamento degli
scampati alla catastrofe, rimasti in patria in mezzo alle rovine che colpì Gerusalemme nel 587
a.C.
Nella prima, seconda e quarta Lamentazione emergono elementi del canto funebre, nella terza
un lamento di cordoglio individuale, nella quinta un lamento di cordoglio collettivo. In
particolare, le prime quattro Lamentazioni si presentano come "acrostici alfabetici": i singoli
versetti cominciano con la parola delle lettere dell'alfabeto ebraico in successione.
La prima Lamentazione (1,1-22) canta la desolazione della città santa che si sente
abbandonata: “Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo!”. Il ritornello: “Nessuno la
consola” ritorna cinque volte: vv 2.9.16.17.21.
La seconda Lamentazione ( 2,1-22) esprime l'amara scoperta di sentire il Signore come un
nemico per Gerusalemme: “Come il Signore ha oscurato nella sua ira la figlia di Sion!”.
La terza (3,1-66) assomiglia ad un salmo di supplica che fa appello alla fede e alla conversione
per essere liberati, nella convinzione che nella rovina vi è una ragione di speranza: “ È bene
aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (v.26).
La quarta Lamentazione (4,1-22) descrive gli orrori dell'assedio e della caduta di
Gerusalemme da parte di un testimone sopravvissuto: “Come si è annerito l’oro,come si è
alterato l’oro migliore! Sono disperse le pietre sante all’angolo di ogni strada” (v.1).
L’ultima lamentazione, la quinta (5,1-22) non più alfabetica, si compone di 22 versetti, che
sono il numero delle lettere dell'alfabeto ebraico ed esprime a Dio il desiderio di ritornare a Lui:
“ Fa' che ritorniamo a te, Signore, e noi ritorneremo. Fa' che viviamo ancora come nei tempi
passati” (v.21).
In conclusione il libro delle Lamentazioni è un poema che esprime la complessità della
sofferenza umana colma di contraddizioni in cui un credente trova il coraggio di interpellare
Dio e così anche la via per ritrovare fiducia e speranza.
Da sapere che
 Nella Bibbia ebraica le Lamentazioni sono collocate fra il libro del Qoelet e quello di
Ester, libri che, come le Lamentazioni, fanno parte degli “Scritti” o, in ebraico,
“Ketuvim”. In quella cattolica sono poste dopo il libro di Geremia.
 Questo testo biblico è usato dalla liturgia ebraica e da quella cristiana, specialmente
durante la Settimana santa, soprattutto nella liturgia del Venerdì santo.
3

I LIBRI DELLA BIBBIA --- PROVERBI----

PROVERBI
Il libro dei Proverbi è formato da una raccolta di sentenze posta sotto il nome del re Salomone,
ovvero un'antologia di detti, massime, enigmi, che sono patrimonio della sapienza popolare di
Israele.
Il Libro dei Proverbi contiene la più antica testimonianza della ricerca sapienziale dell’uomo
biblico, che nel riflettere sull’esperienza umana si avvale della sapienza egiziana e, in generale,
del vicino Oriente, ma interpretandola alla luce della sua fede religiosa. È proprio per questa
rilettura religiosa che la sapienza di Israele si distingue da quella degli altri popoli ai quali si è
pure tanto ispirata.
La chiave di lettura di questo libro è suggerita dalla dichiarazione: «Il timore del Signore è
principio della scienza» (Prv 1,7a). Il libro dei Proverbi comprende 31 capitoli che accolgono
nove raccolte di sentenze, riguardante i vri ambiti della vita e dell’esperienza umana, di varie
epoche e diversi autori. La stesura definitiva risale al periodo postesilico (V secolo a.C.).
Il libro dei Proverbi, come noi lo abbiamo, è formato da una raccolta di sentenze posta sotto il
nome del re Salomone. Il libro si apre con questa indicazione: «Proverbi di Salomone, figlio di
Davide, re d'Israele, per conoscere la sapienza e la disciplina per capire i detti profondi, per
acquistare un'istruzione illuminata, equità, giustizia e rettitudine,per dare agli inesperti
l'accortezza,ai giovani conoscenza e riflessione... per comprendere proverbi e allegorie, le
massime dei saggi e i loro enigmi (cfr. 1,1-6).
Il libro dei Proverbi è, dunque, un’antologia di detti, massime, enigmi, che sono patrimonio
della sapienza popolare di Israele, ma anche, di poemi composti da maestri della sapienza:
gente di corte, ministri, consiglieri e scrivani del re. In realtà, solo le parti più antiche (10-22 e
25-29) sono attribuite al re Salomone che, secondo 1 Re 5,12, «pronunciò tremila proverbi».
Nei «Proverbi di Salomone» il sapiente appare come un vero educatore del popolo di Dio,
specie dei giovani. L’insegnamento mira a formare i giovani, a far loro comprendere il senso
della vita umana, a educarli ad acquistare buon senso, prudenza, cautela, penetrazione,
affabilità e pazienza, autocontrollo e ottimismo, fino ad arrivare attraverso una riflessione
sull'esperienza a capire che «il principio della vera sapienza è il timore di Dio».
In due modi ci si può realizzare: con la sapienza o con la stoltezza, con la fede o l’idolatria. Alla
sapienza corrisponde la fede e alla stoltezza l’idolatria. Queste due vie corrispondono a quelle
indicate dal salmo 1. In proverbi 4,16-18 “la via dei giusti è come luce dell’aurora il cui
splendore aumenta fino all’apparire del giorno. La via degli empi invece è come l’oscurità; non
sanno in che cosa inciampano”.
Il saggio s’identifica con l’uomo religioso, lo stolto si confonde con l’ateo. La persona umana
realizza la propria felicità vivendo un giusto equilibrio umano, che proviene dalla ragione e dal
buon senso, i quali entrambi si rapportano armoniosamente alla fede del Dio biblico. Il libro
dei Proverbi termina con l’elogio della donna saggia che è felicità del marito, intraprendente e
laboriosa, lodata dai figli (30,10 -31).
Da sapere che
 La sapienza personificata descritta nel libro dei proverbi nel Nuovo Testamento richiama
Gesù, sapienza eterna di Dio e Verbo incarnato, quando invita a seguirlo e ad ascoltarlo
(cfr. Prov 3,17; 8,22-36; Gv 1,1-5; Mt 11,28-30; 1Cor 1,18-31; Col 1,15-17).
 La preghiera in Prov 30,7-9 chiede a Dio il dono di vivere nell’equilibrio e richiama
anche la richiesta del pane quotidiano del Padre nostro.
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I LIBRI DELLA BIBBIA ---- LETTERA AGLI EFESINI

I LIBRI DELLA BIBBIA
LETTERA AGLI EFESINI
La lettera agli Efesini è una lettera "circolare" a tutti i credenti, per confermarli nei valori e
negli impegni della vita nuova offerta da Cristo, superando la tentazione del sincretismo
religioso
Paolo si presenta come prigioniero, ma di Cristo (3,1; 4,1). La sua prigionia sociale è
conseguenza della sua scelta radicale per Gesù che l’ha conquistato e inviato ad annunziarlo a
tutti (Fil 3,12). La lettera agli Efesini - deutero paolina - ha molte somiglianze con quella ai
Colossesi. Come questa manifesta una seria preoccupazione per la mentalità sincretista, che
dilagava e disorientava i cristiani del primo secolo d.C. verso i valori non cristiani, ma,
diversamente da quella ai Colossesi, tratta questo problema in modo più pacato e con ulteriori
approfondimenti teologici.
Più che una lettera indirizzata a una comunità concreta, la lettera agli Efesini è una
‘circolare’ o ‘lettera enciclica’, inviata - come dice il testo - a tutti i credenti: “ a tutti coloro che
amano il Signore nostro Gesù Cristo” (cfr. 6,24). L’ articolazione dei contenuti è chiara: tra la
presentazione (1,1-2) e i saluti finali (6,21-24) vi è il corpo della lettera, introdotto, a sua
volta, da una solenne benedizione iniziale (1,3-14). Questa benedizione, che ha la forma di un
testo liturgico, mentre riprende i temi della benedizione (berakah) ebraica (1,3-14) annuncia
che in Cristo la benedizione divina è finalmente compiuta. Si sono realizzati la volontà divina di
salvezza, la figliolanza adottiva in Gesù e il mistero della ricapitolazione di tutte le cose in
Cristo.
Alla preghiera di benedizione segue la prima parte della lettera (1,15-3,21) che descrive la
rivelazione del mistero di Dio in Cristo e della Chiesa sua presenza concreta nella storia,
sacramento di unità, luogo di unione tra giudei e pagani, ma anche dell’intera umanità (1,15-
3,21). Gesù è definito ‘nostra pace’ (2,14) perché la pace non è assenza esteriore di guerra,
ma il frutto della relazione con Lui che distrugge l’inimicizia e riconcilia i diversi e i nemici. Dio
è presentato Padre di tutti (4,6); non solo misericordioso, ma ricco di misericordia che ci ama
con grande amore (2,4). I verbi, tutti al tempo indicativo, suscitano un atteggiamento di
contemplazione e stupore dinanzi alla salvezza realizzata.
La seconda parte (4,1-6,20), con i verbi all’imperativo, indica le caratteristiche della vita nuova
del cristiano. La vita etica scaturisce naturalmente dall’essere salvati da Gesù e dal vivere in
lui. La contemplazione si fa azione concreta cristiana. I cristiani impegnati a «imparare Cristo»
(4,20) testimoniano la loro fede nelle scelte etiche concrete, a partire dalla vita familiare. La
famiglia è una piccola Chiesa (5,21- 6,4) i rapporti familiari riproducono l’amore gratuito di
Gesù per la sua Chiesa, per la quale ha dato la vita. La vita cristiana è dinamica. La bellissima
metafora dell’abito vecchio da buttare e di quello nuovo da indossare in continuazione ne
descrive il dinamismo.
I cristiani si svestono dell’uomo vecchio, che è vita senza Cristo e nel peccato, per
indossare l’uomo nuovo, cioè i valori di Cristo ricevuto nel battesimo, che si fa realtà
concreta: «vi esorto di comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con
ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di
conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace… » (4,1-3)
Da sapere che
Paolo si presenta come prigioniero, ma di Cristo (3,1; 4,1). La sua prigionia sociale è
conseguenza della sua scelta radicale per Gesù che l’ha conquistato e inviato ad
annunziarlo a tutti (Fil 3,12).
La benedizione iniziale (1,3-14) è una delle preghiere più usate della liturgia cattolica,
soprattutto come Inno nella preghiera serale del Vespro.

(Lc 10,1-12) La vostra pace scenderà su di lui.

VANGELO
 (Lc 10,1-12) La vostra pace scenderà su di lui.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Ti prego Signore di illuminarmi la mente ed il cuore,di entrare nella mia pelle ed innalzare a te il mio spirito per comprenderti,fa che possa viverti come tu vuoi che io ti viva,senza paure e senza reticenze.


Il progetto di Gesù, non si ferma mai, dopo aver scelto i dodici discepoli, ne sceglie ancora e li manda a due a due…li manda come agnelli in mezzo ai lupi…
Queste due affermazioni fanno pensare, perché insieme? Per difendersi o per lottare?Io penso ad una cosa più semplice, forse per supportarsi l’un l’altro nelle lotte della vita.
Un cristiano da solo che cristiano è?anche gli eremiti, che contemplano il Signore e vivono in preghiera pregano per altri cristiani, per altri fratelli che vivendo nel mondo, possono essere portati a sbagliare strada.
Penso alla croce, alle sue braccia allargate ad abbracciare il mondo, perché Gesù ha abbracciato il mondo dalla croce ed ogni cristiano è chiamato a fare altrettanto, anche se questo mondo è lo stesso che ci mette in croce, che ci deride, che ci offende e ci prende per pazzi, ma proprio a quei fratelli che ci attaccano, dobbiamo allargare le braccia e ricordare che Gesù è morto anche per loro.
Non tutti accoglieranno la parola del Vangelo, ma non dovremo arrenderci, dovremo cercare di entrare là dove magari a Gesù hanno sbattuto la porta in faccia, là dove ci sono delle persone che provano ostilità per Dio, ed annunciare proprio a loro che si può vivere il vangelo anche nei giorni nostri, e per farlo dovremo essere esempio di ciò con la nostra vita, per non essere accusati anche d’incoerenza.
Tornando alla croce vediamo l’asse centrale che affonda nella terra e si innalza verso il cielo.Io penso che per salire al cielo, per innalzare il nostro spirito, dobbiamo rimanere ben piantati per terra, vivere la nostra essenza fatta di polvere che solo l’amore di Dio ha saputo plasmare e rendere vitale.
Il nostro io e il nostro Dio uniti sullo stesso ceppo della croce, in comunione vera, l’uno parte dell’altro, basta questo per essere discepoli di Gesù, vivere in comunione con lui l’amore per tutti gli uomini, perché figli dello stesso Dio e cercare di far comprendere che questo è l’amore di Dio; non serve molto per amare, né soldi né averi né belle cose per abbagliare, ma solo un cuore limpido per amare.

martedì 1 ottobre 2013

VOCE DI SAN PIO :

-"Guardati dalle ansietà ed inquietudini, perché non vi è cosa che maggiormente impedisca il camminare nella perfezione. Poni, figliuola mia, dolcemente il tuo cuore nelle piaghe di nostro Signore, ma non a forza di braccia. Abbi una gran confidenza nella sua misericordia e bontà, ch’egli non ti abbandonerà mai, ma non lasciare per questo di abbracciare bene la sua santa croce." (Epist. III, p. 707).

SANTI é BEATI :

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Santi Angeli Custodi


2 ottobre

Nella storia della salvezza, Dio affida agli Angeli l'incarico di proteggere i patriarchi, i suoi servi e tutto il popolo eletto. Pietro in carcere viene liberato dal suo Angelo. Gesù a difesa dei piccoli dice che i loro Angeli vedono sempre il volto del Padre che sta nei Cieli.
Figure celesti presenti nell'universo religioso e culturale della Bibbia - così come di molte religioni antiche - e quasi sempre rappresentati come esseri alati (in quanto forza mediatrice tra Dio e la Terra), gli angeli trovano l'origine del proprio nome nel vocabolo greco anghelos =messaggero. Non a caso, nel linguaggio biblico, il termine indica una persona inviata per svolgere un incarico, una missione. Ed è proprio con questo significato che la parola ricorre circa 175 volte nel Nuovo Testamento e 300 nell'Antico Testamento, che ne individua anche la funzione di milizia celeste, suddivisa in 9 gerarchie: Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù celesti, Principati, Arcangeli, Angeli. Oggi il tema degli Angeli, quasi scomparso dai sermoni liturgici, riecheggia stranamente nei pulpiti dei media in versione new age, nei film e addirittura negli spot pubblicitari, che hanno voluto recepirne esclusivamente l'aspetto estetico e formale.

Martirologio Romano: Memoria dei santi Angeli Custodi, che, chiamati in primo luogo a contemplare il volto di Dio nel suo splendore, furono anche inviati agli uomini dal Signore, per accompagnarli e assisterli con la loro invisibile ma premurosa presenza.

La memoria dei Santi Angeli, oggi espressamente citati nel “Martirologio Romano” della Chiesa Cattolica, come Angeli Custodi, si celebra dal 1670 il 2 ottobre, data fissata da papa Clemente X (1670-1676); la Chiesa Ortodossa li celebra l’11 gennaio.
Ma chi sono gli Angeli e che rapporto hanno nella storia del genere umano? Prima di tutto l’esistenza degli Angeli è un dogma di fede, definito più volte dalla Chiesa (Simbolo Niceno, Simbolo Costantinopolitano, IV Concilio Lateranense (1215), Concilio Vaticano I (1869-70)).
Tutto ciò che riguarda gli Angeli, ha costituito una scienza propria detta ‘angelologia’; e tutti i Padri della Chiesa e i teologi, hanno nelle loro argomentazioni, espresso ed elaborato varie interpretazioni e concetti, riguardanti la loro esistenza, creazione, spiritualità, intelligenza, volontà, compiti, elevazione e caduta.
Come si vede la materia è così vasta e profonda, che è impossibile in questa scheda succinta, poter esporre esaurientemente l’argomento, ci limiteremo a dare qualche cenno essenziale.

Esistenza e creazione
La creazione degli angeli è affermata implicitamente almeno in un passo del Vecchio Testamento, dove al Salmo 148 (Lode cosmica), essi sono invitati con le altre creature del cielo e della terra a benedire il Signore: “Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell’alto dei cieli. Lodatelo, voi tutti suoi angeli, lodatelo, voi tutte sue schiere… Lodino tutti il nome del Signore, perché al suo comando ogni cosa è stata creata”.
Nel nuovo Testamento (Col. 1.16) si dice: “per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose nei cieli e sulla terra”. Quindi anche gli angeli sono stati creati e se pure la tradizione è incerta sul tempo e nell’ordine di questa creazione, essa è ritenuta dai Padri indubitabile; certamente prima dell’uomo, perché alla cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva, era presente un angelo, posto poi a guardia dell’Eden, per impedirne il ritorno dei nostri progenitori.

Spiritualità
La spiritualità degli angeli, è stato oggetto di considerazioni teologiche fra i più grandi Padri della Chiesa; s. Giustino e s. Ambrogio attribuivano agli angeli un corpo, non come il nostro, ma luminoso, imponderabile, sottile; s. Basilio e s. Agostino furono esitanti e si espressero non chiaramente; s. Giovanni Crisostomo, s. Gerolamo, s. Gregorio Magno, asserirono invece l’assoluta spiritualità; il già citato Concilio Lateranense IV, quindi il Magistero della Chiesa, affermò che gli Angeli sono spirito senza corpo.
L’angelo per la sua semplicità e spiritualità è immortale e immutabile, privo di quantità non può essere localmente presente nello spazio, però si rende visibile in un luogo per esplicare il suo operato; non può moltiplicarsi entro la stessa specie e s. Tommaso d’Aquino afferma che tante sono le specie angeliche quanti sono gli stessi angeli, l’uno diverso dall’altro.
Nella Bibbia si parla di angeli come di messaggeri ed esecutori degli ordini divini; nel Nuovo Testamento essi appaiono chiaramente come puri spiriti.
Nella credenza ebraica essi furono talvolta avvicinati a esseri materiali, ai quali si offriva ospitalità, che essi ricambiavano con benedizioni, promesse di prosperità, ecc.

Intelligenza e volontà
L’Angelo in quanto essere spirituale non può essere sprovvisto della facoltà dell’intelligenza e della volontà; anzi in lui debbono essere molto più potenti, in quanto egli è puro di spirito; sulla prontezza e infallibilità dell’intelligenza angelica, come pure sull’energia, la tenace volontà, la libertà superiore, il grande Dottore Angelico, s. Tommaso d’Aquino, ha scritto ampiamente nella sua “Summa Theologica”, alla quale si rimanda per un approfondimento.

Elevazione
La Sacra Scrittura suggerisce più volte che gli Angeli godono della visione del volto di Dio, perché la felicità alla quale furono destinati gli spiriti celesti, sorpassa le esigenze della natura ed è soprannaturale.
E nel Nuovo Testamento frequentemente viene stabilito un paragone fra uomini, santi e angeli, come se la meta cui sono destinati i primi, altro non sia che una partecipazione al fine già conseguito dagli angeli buoni, i quali vengono indicati come ‘santi’, ‘figli di Dio’, ‘angeli di luce’ e che sono ‘innanzi a Dio’, ‘al cospetto di Dio o del suo trono’; tutte espressioni che indicano il loro stato di beatitudine; essi furono santificati nell’istante stesso della loro creazione.

Caduta
Il Concilio Lateranense IV, definì come verità di fede che molti Angeli, abusando della propria libertà caddero in peccato e diventarono cattivi.
San Tommaso affermò che l’Angelo poté commettere solo un peccato d’orgoglio, lo spirito celeste deviò dall’ordine stabilito da Dio e non accettandolo, non riconobbe al disopra della sua perfezione, la supremazia divina, quindi peccato d’orgoglio cui conseguì immediatamente un peccato di disobbedienza e d’invidia per l’eccellenza altrui.
Altri peccati non poté commetterli, perché essi suppongono le passioni della carne, ad esempio l’odio, la disperazione. Ancora s. Tommaso d’Aquino specifica, che il peccato dell’Angelo è consistito nel volersi rendere simile a Dio.
La tradizione cristiana ha dato il nome di Lucifero al più bello e splendente degli angeli e loro capo, ribellatosi a Dio e precipitato dal cielo nell’inferno; l’orgoglio di Lucifero per la propria bellezza e potenza, lo portò al grande atto di superbia con il quale si oppose a Dio, traendo dalla sua parte un certo numero di angeli.
Contro di lui si schierarono altri angeli dell’esercito celeste capeggiati da Michele, ingaggiando una grande e primordiale lotta nella quale Lucifero con tutti i suoi, soccombette e fu precipitato dal cielo; egli divenne capo dei demoni o diavoli nell’inferno e simbolo della più sfrenata superbia.
Il nome Lucifero e la sua identificazione con il capo ribelle degli angeli, derivò da un testo del profeta Isaia (14, 12-15) in cui una satira sulla caduta di un tiranno babilonese, venne interpretata da molti scrittori ecclesiastici e dallo stesso Dante (Inf. XXIV), come la descrizione in forma poetica della ribellione celeste e della caduta del capo degli angeli.
“Come sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora! Come sei stato precipitato a terra, tu che aggredivi tutte le nazioni! Eppure tu pensavi in cuor tuo: Salirò in cielo, al di sopra delle stelle di Dio innalzerò il mio trono… salirò sulle nubi più alte, sarò simile all’Altissimo. E invece sei stato precipitato nell’abisso, nel fondo del baratro!”

L’esercito celeste
La figura dell’Angelo come simbolo delle gerarchie celesti, in genere appare fin dai primi tempi del cristianesimo, collocandosi in prosecuzione della tradizione ebraica e come trasformazione dei tipi precristiani delle Vittorie e dei Geni alati, che avevano anche la funzione mediatrice, tra le supreme divinità e il mondo terrestre.
Attraverso l’insegnamento del “De celesti hierarchia” dello pseudo Dionigi l’Areopagita, essi sono distribuiti in tre gerarchie, ognuna delle quali si divide in tre cori.
La prima gerarchia comprende i serafini, i cherubini e i troni; la seconda le dominazioni, le virtù, le potestà; la terza i principati, gli arcangeli e gli angeli.
I cori si distinguono fra loro per compiti, colori, ali e altri segni identificativi, sempre secondo lo pseudo Areopagita, i più vicini a Dio sono i serafini, di colore rosso, segno di amore ardente, con tre paia di ali; poi vengono i cherubini con sei ali cosparse di occhi come quelle del pavone; le potestà hanno due ali dai colori dell’arcobaleno; i principati sono angeli armati rivolti verso Dio e così via.
Più distinti per la loro specifica citazione nella Bibbia, sono gli Arcangeli, i celesti messaggeri, presenti nei momenti più importanti della Storia della Salvezza; Michele presente sin dai primordi a capo dell’esercito del cielo contro gli angeli ribelli, apparve anche a papa s. Gregorio Magno sul Castel S. Angelo a Roma, lasciò il segno della sua presenza nel Santuario di Monte S. Angelo nel Gargano; Gabriele il messaggero di Dio, apparve al profeta Daniele; a Zaccaria annunciante la nascita di s. Giovanni Battista, ma soprattutto portò l’annuncio della nascita di Cristo alla Vergine Maria; Raffaele è citato nel Libro di Tobia, fu guida e salvatore dai pericoli del giovane Tobia, poi non citato nella Bibbia, c’è Uriele, nominato due volte nel quarto libro apocrifo di Ezra, il suo nome ricorre con frequenza nelle liturgie orientali, s. Ambrogio lo poneva fra gli arcangeli, accompagnò il piccolo s. Giovanni Battista nel deserto, portò l’alchimia sulla terra.

L’angelo nell’arte
Ricchissima è l’iconografia sugli angeli, la cui condizione di esseri spirituali, senza età e sesso, ha fatto sbizzarrire tutti gli artisti di ogni epoca, nel raffigurarli secondo la dottrina, ma anche con il proprio estro artistico.
Gli artisti, specie i pittori, vollero esprimere nei loro angeli un sovrumano stato di bellezza, avvolgendoli a volte in vesti sacerdotali o in classiche tuniche, a volte come genietti dell’arte romana, quasi sempre con le ali e con il nimbo (nuvoletta); dal secolo IV e V li ritrassero in aspetto giovanile, efebico, solo nell’epoca barocca apparirà il tipo femminile.
Gli angeli furono raffigurati non solo in atteggiamento adorante, come nelle magnifiche Natività o nelle Maestà medioevali, ma anche in atteggiamento addolorato e umano nelle Deposizioni, vedasi i gesti di disperazione per la morte di Gesù, degli angeli che assistono alla deposizione dalla croce, nel famoso dipinto di Giotto “Compianto di Cristo morto” (Cappella degli Scrovegni, Padova).
Poi abbiamo angeli musicanti e che cantano in coro, che suonano le trombe (tubicini); gli angeli armati in lotta con il demonio; angeli che accompagnano lo svolgersi delle opere di misericordia, ecc.

L’angelo nella Bibbia
Specifici episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, indicano la presenza degli Angeli: la lotta con l’angelo di Giacobbe (Genesi 32, 25-29); la scala percorsa dagli angeli, sognata da Giacobbe (Genesi, 28, 12); i tre angeli ospiti di Abramo (Genesi, 18); l’intervento dell’angelo che ferma la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco; l’angelo che porta il cibo al profeta Elia nel deserto.
L’annuncio ai pastori della nascita di Cristo; l’angelo che compare in sogno a Giuseppe, suggerendogli di fuggire con Maria e il Bambino; gli angeli che adorano e servono Gesù dopo le tentazioni nel deserto; l’angelo che annunciò alla Maddalena e alle altre donne, la resurrezione di Cristo; la liberazione di s. Pietro, dal carcere e dalle catene a Roma; senza dimenticare la cosmica e celeste simbologia angelica dell’Apocalisse di s. Giovanni Evangelista.

L’Angelo Custode
Infine l’Angelo Custode, l’esistenza di un angelo per ogni uomo, che lo guida, lo protegge, dalla nascita fino alla morte, è citata nel Libro di Giobbe, ma anche dallo stesso Gesù, nel Vangelo di Matteo, quando indicante dei fanciulli dice: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”.
La Sacra Scrittura parla di altri compiti esercitati dagli angeli, come quello di offrire a Dio le nostre preghiere e sacrifici, oltre quello di accompagnare l’uomo nella via del bene.

Il nome di ‘angelo’ nel discorrere corrente, ha assunto il significato di persona di eccezionale virtù, di bontà, di purezza, di bellezza angelica e indica perfezione.

Autore: Antonio Borrelli



Il nuovo Calendario universale della Chiesa ha conservato, a questa data, non la festa, ma la memoria degli Angioli Custodi.
Abbiamo già parlato, il 5 maggio, dell'unico Santo che ripete, nei calendari, il nome di Angelo, il carmelitano Martire in Sicilia. Ma tra i moltissimi fedeli che ripetono questo nome così diffuso non mancheranno quelli che preferiscono celebrare il loro onomastico nel giorno dedicato proprio agli Angioli, non di nome ma di fatto.
Un tempo questa festa veniva celebrata il 29 settembre, insieme con quella di San Michele, custode e protettore per eccellenza. Tre giorni fa, a quella data, abbiamo ricordato i tre Arcangeli principali, e diciamo così prototipi, ognuno con il loro nome: Michele, Gabriele e Raffaele.
L'uso di una festa particolare dedicata agli Angioli Custodi si diffuse nella Spagna nel '400, e nel secolo successivo in Portogallo, più tardi ancora in Austria. Nel 1670, il Papa Clemente X ne fissò la data al 2 ottobre.
La devozione per gli Angioli è più antica di quella per i Santi: prese particolare importanza nel Medioevo quando i monaci solitari ricercarono la compagnia di queste invisibili creature e le sentirono presenti nella loro vita di silenzioso raccoglimento.
Dopo il concilio di Trento, la devozione per gli Angioli fu meglio definita e conobbe nuova diffusione. Nella vita attuale, però, gli uomini trascurano sempre di più la propria angelica compagnia, e non avvertono ormai la presenza di un puro spirito, testimone costante dei pensieri e delle azioni umane.
Di solito si parla dell'Angiolo Custode soltanto ai bambini, e per questo anche l'iconografia si è fissata sulla figura dell'Arcangiolo Raffaele, che guida e conduce il giovane Tobiolo.
Gli adulti, invece, dimenticano facilmente il loro adulto testimone e consigliere, il loro invisibile compagno di viaggio, il muto testimone della loro vita. E anche questo aumenta il senso della desolazione e addirittura dell'angoscia che caratterizza il nostro tempo, nel 4uale si sono lasciate cadere, come infantili fantasie, tante consolanti e sostenitrici verità di fede.
R infatti verità di fede che ogni cristiano, dal Battesimo, riceve il proprio Angiolo Custode, che lo accompagna, lo ispira e lo guida, per tutta la vita, fino alla morte, esemplare perfetto della condotta che si dovrebbe tenere nei riguardi di Dio e degli uomini.
L'Angiolo Custode è dunque il luminoso specchio sul quale ogni cristiano dovrebbe riflettere la propria condotta giornaliera.
Per questo la Chiesa ha dettato una delle più belle preghiere che dice: "Angiolo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla pietà celeste. Così sia".


Fonte:
Archivio Parrocchia

(Mt 18,1-5.10) I loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.

VANGELO
 (Mt 18,1-5.10) I loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Vieni Spirito di Dio ed aiutami ad essere come un bambino e affidarmi a te.

Vorrei notare con voi una frase che dice il Signore,”accoglie me”.Gesù si immedesima in un bambino, si fa piccolo e ci chiede di fare come lui; di non cercare la grandezza, ma proprio come un fanciullo lasciarsi educare e plasmare dall’amore del Padre. Incredibile come Gesù dipenda dal Padre e dalla Madre, lui che tiene lezioni di teologia ai dotti del tempio, ma che non si distacca mai da Dio e non disobbedisce alla Madonna quando gli chiede di intervenire a Canan di Galilea. Questa unione terra - cielo viene riportata anche nelle sue parole, e sicuramente con questo vuole farci presente che anche per gli uomini che si affidano e si fidano di Dio può realizzarsi questa unione già sulla terra.
I bambini hanno degli angeli che li custodiscono, e l' intervento immediato del Padre in loro difesa: egli ha disposto uno schieramento di angeli a servizio e a difesa dei suoi bambini, dei suoi "piccoli". Tramite i propri angeli che vedono la faccia di Dio, essi possono far giungere fino a lui i torti e le ingiustizie che ricevono. Chi tocca i suoi "piccoli", tocca Dio.
Essere come bambini, vuol dire essere semplici ed umili e non significa essere incapaci di ragionare, ma capaci di affidarsi a Dio.