giovedì 20 dicembre 2012

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)DA 7 A 12


7.
Il cristiano ideale è persona che vive completamente al di fuori di sé nel Cristo —
vive nella fede della Redenzione da Lui operata, nell’amore del suo Redentore, il
quale ha amato tutti noi ed è morto per noi. Ma soprattutto vive nella speranza di
un mondo avvenire. La speranza è il segreto del vero ascetismo. Nega desideri e
giudizi personali e respinge il mondo nel suo aspetto presente, non perché noi o
il mondo siamo cattivi, ma perché non siamo in condizioni di fare di noi stessi e
della bontà del mondo l’uso migliore. Ma nella speranza esultiamo. Nella
speranza godiamo delle cose create. Ne godiamo non per quello che sono in se
stesse, ma per ciò che sono in Cristo — colme di promessa. Perché la bontà di
tutte le cose è una testimonianza della bontà di Dio e la sua bontà è garanzia
della sua fedeltà alle promesse. Ci ha promesso un nuovo cielo e una terra nuova,
una vita risorta nel Cristo. Qualsiasi rinnegamento di sé che non si basi
interamente sulla sua promessa, è meno che cristiano. Mio Signore, io non ho
altra speranza se non nella tua Croce. Tu, con la tua umiltà, le tue sofferenze e la
tua morte mi hai liberato da ogni vana speranza. Hai ucciso in Te la vanità della
vita presente, e, risorgendo da morte, mi hai dato tutto ciò che è eterno.
Perché dovrei desiderare di essere ricco, quando Tu sei stato povero?
Perché dovrei desiderare di essere famoso e potente agli occhi degli uomini,
quando i figli di coloro che hanno esaltato i falsi profeti e lapidati i giusti, Ti
hanno rigettato e inchiodato alla Croce? Perché dovrei carezzare in cuor mio una
speranza che mi divora la speranza di una felicità  perfetta in questa vita —
quando tale speranza, condannata a esser delusa, non è altro che disperazione?
La mia speranza sta in ciò che gli occhi non hanno  mai visto. Dunque, non
lasciarmi credere in ricompense visibili. La mia speranza sta in ciò che il cuore
umano non sa percepire: non lasciarmi credere ai sentimenti del mio cuore. La
mia speranza sta in ciò che la mano dell’uomo non ha mai toccato: non lasciarmi
credere a quanto posso afferrare tra le dita. La morte allenterà la loro stretta e la
mia vana speranza si dileguerà.
Fa’ che tutta la mia fiducia stia nella tua misericordia, non in me stesso. Fa’ che
la mia speranza sia riposta nel tuo amore, non nella salute, o nella forza, o
nell’abilità, o nelle risorse umane.
Se credo in Te, tutto il resto diventerà per me forza, salute, sostegno. Ogni cosa
mi porterà verso il cielo. Ma se non mi fido di Te, tutto sarà la mia rovina.
8.
Ogni peccato è una punizione per il primo peccato di non conoscere Dio: è
dunque un castigo dell’ingratitudine. Perché, come dice san Paolo (Rom 1,21), i
Gentili che «conobbero» Dio, non Lo conobbero perché non gli furono grati di
questa conoscenza. Non Lo conobbero perché questa loro conoscenza di Lui non li colmò della gioia del suo amore. Se non Lo amiamo dimostriamo di non
conoscerlo. Egli è amore. Deus charitas est.
La conoscenza che abbiamo di Dio si perfeziona con la gratitudine: ringraziamo
ed esultiamo sperimentando la verità del suo amore. L’Eucaristia — il Sacrificio di
lode e di ringraziamento — è il focolare sempre acceso della conoscenza di Dio
perché nel Sacrificio, Gesù, rendendo grazie al Padre, offre ed immola se stesso
interamente per la gloria del Padre e per salvarci dai nostri peccati. Se non Lo
«conosciamo» nel suo Sacrificio, come è possibile che questo abbia per noi tutto
il suo valore? «La conoscenza di Dio vale più degli olocausti» (Os 6,6). Se non
siamo grati e non lodiamo il Padre con Lui, non Lo conosciamo.
Non esiste alternativa tra la gratitudine e l’ingratitudine. Chi non è grato
comincerà presto a lamentarsi di tutto. Chi non ama, odia. Nella vita spirituale
non esiste una specie di indifferenza all’odio o all’amore. Ecco perché la
tiepidezza (che ha la parvenza di essere indifferente) è tanto detestabile. Si
tratta di odio camuffato da amore. La tiepidezza, in cui l’anima non è “né calda
né fredda” — non odia decisamente e neppure decisa- mente ama — è uno stato
nel quale si rigetta Dio e la sua volontà pur mantenendo una parvenza esteriore
di amore per lui, per tenersi lontani dagli impicci e salvare la presunta buona
fama. È la condizione a cui arrivano ben presto coloro che sono abitualmente
ingrati per le grazie che Dio fa loro. Chi risponde davvero alla bontà di Dio e
riconosce di aver tutto ricevuto, non può normalmente essere un cristiano a
metà. La vera gratitudine e l’ipocrisia non possono esistere insieme: sono
assolutamente incompatibili. La gratitudine di per  sé ci rende sinceri —
altrimenti, vuol dire che non è vera.
Ma la gratitudine è più che un esercizio mentale o  un giuoco di parole. Non ci
possiamo accontentare di fare dentro di noi un elenco delle cose che Dio ha fatto
per noi e poi casualmente ringraziarlo dei favori ricevuti.
Essere grati vuol dire riconoscere l’amore di Dio in tutto quello che Egli ci ha dato
— ed Egli ci ha dato tutto. Ogni nostro respiro è un dono dell’amor suo, ogni
attimo della nostra esistenza è una grazia, perché porta con sé grazie immense
che ci vengono da Lui. La gratitudine non considera perciò nulla come se le fosse
dovuto, non è mai svagata, ma percepisce sempre nuove meraviglie ed è pronta a
lodare di continuo la divina bontà. Chi è riconoscente sa che Dio è buono, non per
sentito dire, ma per esperienza. E qui sta tutta la differenza.
9.
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio “nulla”?
Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da
essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello
che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione,
una pretesa umiltà che nel dire “non sono nulla” intende in effetto affermare
“vorrei essere diverso da quel che sono”.
Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità,
ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro
«nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è
buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo.
Una esperienza soprannaturale della nostra contingenza è una umiltà che ama e
apprezza soprattutto il nostro stato di incapacità  morale e metafisica nei
confronti di Dio. Per amare così il nostro “nulla” non dobbiamo ripudiare niente
di ciò che è nostro, niente di quello che abbiamo,  nulla di ciò che siamo. Dobbiamo vedere e riconoscere che è tutta roba nostra e che è buona: buona
nella sua entità positiva, perché ci viene da Dio: buona nella nostra deficienza,
perché ogni nostra incapacità, persino la nostra miseria morale e spirituale,
attira verso di noi la misericordia di Dio.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare in noi tutto ciò che l’orgoglioso ama
quando ama se stesso. Ma dobbiamo amarlo proprio per l’opposta ragione.
Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi.
L’orgoglioso ama se stesso perché pensa di essere, di per sé, degno di amore, di
rispetto, di venerazione: crede di dover essere amato da Dio e dagli uomini.
Perché pensa di meritare più degli altri di venir amato, onorato, ossequiato.
Anche l’umile ama se stesso, e cerca di essere amato e onorato, non perché
affetto e stima gli siano dovuti, ma perché non se li merita. Cerca di essere amato
dalla misericordia di Dio. Domanda alla bontà dei fratelli che lo si ami e aiuti.
Sapendo di non avere nulla, sa anche di aver bisogno di tutto e non teme di
chiedere in elemosina questo tutto e di riceverlo da dove lo può avere.
L’orgoglioso ama la sua illusione e la sua autosufficienza. Chi è povero in spirito
ama proprio la sua insufficienza. L’orgoglioso esige rispetto perché crede di
avere ciò che gli altri non hanno. L’umile chiede in elemosina una parte di ciò che
ogni altro ha ricevuto. Egli pure desidera di essere colmato della bontà e della
misericordia di Dio.
10.
La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come
ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è
innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene  santificato dalla presenza e
dall’azione dello Spirito Santo. La vita spirituale non è quindi una vita
completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli.
Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se
dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto
della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero
dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli
uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha
vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria
degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi
tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni
inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio.
Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio
e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo.
Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di
Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo
prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia
soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo
maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci
accorgiamo neppure di essere caduti. Per mantenerci spiritualmente vivi
dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave
immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle
altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere
la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al
minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità
dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene
all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior
parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si
addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara
se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile
perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un
compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una
maniera diversa di indicare un fallimento. Meditare vuol dire pensare. Eppure una
buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli
“affetti”, molto più che una serie di “atti” per cui si passa. Nella preghiera
meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in
certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente
una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere
a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito.
Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una
specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un
interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle
preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente
si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo
slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso
richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza,
e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con
sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e  si va a finire in una specie di
incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a
passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere
giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare
esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi
della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza
sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il
privilegio di “pregare non facendo nulla”.
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale  «non si faccia nulla», o
«non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non
si sente, non si percepisce o non si pensa nulla. Ogni vera preghiera, non importa
quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e
finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o
passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella
“contemplazione” e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per
stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver
completamente rivolto verso di Lui il nostro volto  interiore, finiremo
inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente
nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si
tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi. D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci
volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci
fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa
anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio
solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza
che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra
ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi
verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un  certo numero di cose che
sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera
meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno
sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a
tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da
meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani
sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità
spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa
dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da
parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che
siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una
completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né
immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una
“idea” di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in
linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e
riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui
nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di
percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di
essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza  della nostra personalità, lo
siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua
propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di
persona a persona che che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò
che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere.
L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra
umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura
spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.
11.
Nutriti dai Sacramenti e formati dalla preghiera e dall’insegnamento della Chiesa,
non abbiamo bisogno di cercare altro all’infuori del posto particolare voluto per
noi da Dio in seno alla Chiesa. Quando lo abbiamo trovato, vita e preghiera
insieme diventano per noi all’improvviso estremamente semplici.
Allora scopriamo che cosa sia in realtà la vita spirituale. Non si tratta di fare
un’opera buona piuttosto che un’altra, di vivere in un luogo piuttosto che in un
altro, di pregare in una maniera piuttosto che in un’altra.
Non è questione di un particolare effetto psicologico nell’anima nostra. È il
silenzio di tutto il nostro essere nella compunzione e nell’adorazione davanti a
Dio, nella abituale consapevolezza del fatto che Egli è tutto e che noi non siamo
nulla, che Egli è il centro a cui tendono tutte le  case, e al quale devono venire
dirette tutte le nostre azioni; che vita e forza ci vengono da Lui e che tanto la vita
quanto la morte da Lui esclusivamente dipendono; che tutto il corso della nostra vita è da Lui previsto e rientra nel piano della sua Provvidenza, sapiente e
misericordiosa; che è assurdo vivere come se Egli non vi fosse, ossia vivere per
noi, come se fossimo soli; che tutti i nostri progetti e le nostre ambizioni
spirituali sono vani se non vengono da Lui e non terminano in Lui e che, alla fine,
la sola cosa che importi è la sua gloria.
Sciupiamo la nostra vita di preghiera se stiamo di  continuo a esaminarla e a
ricercarne i frutti in una pace che non è niente altro che un processo psicologico.
La sola cosa da cercare nella preghiera contemplativa è Dio: e Lo cerchiamo con
successo quando siamo ben convinti che non Lo possiamo trovare se Egli non si
mostra a noi, e che d’altra parte non ci avrebbe ispirato di cercarlo se non Lo
avessimo già trovato.
Più siamo contenti della nostra povertà, più siamo  vicini a Dio perché allora
l’accettiamo in pace, non aspettando nulla da noi, ma tutto da Dio.
La povertà è la porta della libertà, non perché si resti imprigionati nell’ansietà e
nella costrizione che tale povertà implica necessariamente, ma perché non
trovando in noi nulla che sia fonte di speranza, vediamo di non possedere niente
che valga la pena di difendere. Non vi è in noi nulla di particolare che meriti di
essere amato. Perciò usciamo da noi stessi e ci riposiamo in Colui che è tutta la
nostra speranza.
Vi è uno stadio della vita spirituale in cui troviamo Dio in noi questa sua presenza
è un effetto creato dal suo amore. È un suo dono per noi. Rimane in noi. Tutti i
doni di Dio sono buoni, ma se ci riposiamo in essi perdono la loro bontà nei nostri
riguardi. Ed è così anche di questo dono.
Quando viene per noi il tempo di darci alle altre cose, Iddio sottrae il senso della
sua presenza per fortificare la nostra fede. Ed è allora inutile cercarlo con uno
sforzo psicologico: inutile voler trovare nel cuore un senso di Lui. È venuto il
momento di uscire da noi stessi ed elevarci al di sopra di noi e di non cercarlo più
in noi, ma al di fuori e al di sopra. Lo facciamo con la nuda fede, con una
speranza che brucia come carbone acceso sotto la cenere della nostra povertà. Lo
cerchiamo anche nell’umile carità a servizio dei fratelli. Allora, quando vuole, Dio
ci solleva fino a sé nella semplicità.
A che vale la conoscenza della nostra miseria se non imploriamo Dio di sostenerci
con la sua potenza? Che valore ha il riconoscere la nostra povertà, se non ce ne
serviamo mai per sollecitare la sua misericordia? È male abbastanza compiacersi
nel pensiero di essere virtuoso, ma è peggio rimanere in una pigra inerzia, se
siamo consci della nostra debolezza e dei nostri peccati. Il valore della nostra
miseria e della nostra povertà sta nel fatto che esse costituiscono il terreno in cui
Iddio sparge il seme del desiderio. E non importa quanto grande possa sembrare
lo stato di abbandono in cui ci troviamo: il fiducioso desiderio del suo amore
malgrado la nostra avvilente miseria è il segno della sua presenza e il pegno della
nostra salvezza.
12.
Se desideri possedere una vita spirituale, devi unificare la tua vita. La vita è
spirituale per davvero o non lo è affatto. Nessuno può servire a due padroni. La
tua vita viene forgiata dal fine per cui tu vivi. Tu sei fatto a immagine di ciò che
desideri.
Per unificare la tua vita, unifica i tuoi desideri. Per spiritualizzarla, spiritualizza i
tuoi desideri. Per spiritualizzarli bisogna che tu desideri di non aver desideri. Vivere nello spirito vuol dire vivere per un Dio in cui crediamo, ma che non
possiamo vedere. Desiderare ciò vuol dire rinunciare al desiderio di tutto quello
che si vede. Possedere Colui che non può venire compreso, vuol dire rinunciare a
tutto ciò che può comprendersi. Per riposare in Colui che è al di sopra di ogni
pace creata, rinunciamo al desiderio di riposare nelle cose create.
Rinunciando al mondo lo conquistiamo, ci eleviamo al di sopra della sua
molteplicità e la ricapitoliamo nella semplicità di un amore che trova in Dio tutte
le cose. E Gesù intendeva proprio questo quando diceva che chi avrebbe voluto
salvare la propria vita l’avrebbe perduta e chi invece l’avrebbe perduta per amore
di Dio, sarebbe riuscito a salvarla.
Il ventottesimo capitolo di Giobbe (e anche il terzo di Baruch) ci dice che la
sapienza di Dio è nascosta ed è impossibile trovarla — eppure finisce con
l’ammettere che la si può facilmente trovare perché il timore di Dio è sapienza.
Un monaco non deve mai cercare la sapienza al di fuori della sua vocazione. Se lo
facesse non la troverebbe mai, perché per lui la sapienza è nella sua vocazione.
Sapienza è la stessa vita del monaco nel suo monastero. Ed è col vivere questa
vita che il monaco trova Dio, e non già aggiungendo a questa vita qualche altra
cosa che Iddio non vi ha messo. Perché la sapienza è Dio stesso che vive in noi,
che a noi si rivela. La vita ci si rivela soltanto per quel che la viviamo. La vita
monastica è piena della misericordia di Dio. Tutto quello che il monaco fa è voluto
da Dio e ordinato alla sua gloria. Nel fare la volontà di Dio riceviamo la sua
misericordia, perché è solo per un dono della sua misericordia che possiamo
compiere la sua volontà con una intenzione pura e soprannaturale. Ed Egli ci
dona questa intenzione come una grazia che serve soltanto come mezzo, per
ottenere più grazia e più misericordia, dilatando la nostra capacità di amarlo.
Maggiore è la nostra capacità di ricevere la sua misericordia, maggiore è il potere
che abbiamo di dargli gloria, perché Egli è glorificato solamente dai suoi doni, ed
è maggiormente glorificato da coloro nei quali la sua misericordia ha fatto
nascere un amore più grande. «Ama meno colui al quale è stato meno
perdonato» (Lc 7, 47).

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)PARTE DA1 A 6




Parte Prima
Aspetti della vita spirituale
1.
Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella
irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale
che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la
nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è
costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile
morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono
completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la
rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono
considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
 Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali,
dobbiamo avere una netta visione della loro realtà.
Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà
delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così
come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che
non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le
osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si
vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne
distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto
possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di
avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in
Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un
grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente
nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai
potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse,
nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per
quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito
la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma
era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel
futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con
Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire
trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e
per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente
altro che se stesso ossia una creatura solitaria e  povera che non dipende da
nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di
interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo,
il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato “nel
deserto dell’Alto Egitto” perché “vagasse per   luoghi aridi”. La sete fa impazzire
l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia
perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto. E così chi vaga
nel deserto per essere se stesso deve badare a non  impazzire e a non farsi
schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione
nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di
annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste
tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più
bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può
costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al
vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più
immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua
visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele
che sorse un giorno nel deserto di Senaar, “perché l’uomo rendesse famoso il suo
nome e arrivasse fino al cielo” (Gen 11,4). Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca
di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e
dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per
rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue
macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già
combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse
sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il
deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella
solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e  combattere il nemico e
purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova
dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista
nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a  nulla dando il nostro tacito
assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di
colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti,
ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce.
Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il  nostro deserto. Se la
condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo
affrontarla, non lo troveremo mai.
2.
Il temperamento non predestina uno alla santità ed  un altro alla dannazione.
Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la
rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da
trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di
cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri
buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di
servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in
ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi
trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita
peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di
partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire
quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca
suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno
della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il
dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della
ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che
gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è
nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli
avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò
nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure
necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro
agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni
che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei
limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che
resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira
costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere
indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo
temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se
stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente
controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli
ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la
ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo
stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco
non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio
perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece
di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue
possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un
tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche
cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere
umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in
pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più
comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore,  pietà e dolore, felicità,
piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore
consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella
quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto
umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto
amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo. La vita
ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il
temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche
questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità —
perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente
una “persona” a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e
perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la
sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci
rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali
abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità,
all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha  per scopo di purificare ed.
arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere
disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità,
anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci
aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della
volontà, eleva anche il tono della emotività: solo  con la mancanza di
rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte
devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite
religiose. Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di
disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in  cui le emozioni non trovano
nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la
nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra
umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le
nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami
della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.
3.
La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è  soltanto pensiero. E non è
naturalmente neppure una vita di sensazioni, una vita di sentimento— “sentire»”
e sperimentare le cose dello spirito, e le cose di Dio.
La vita spirituale non esclude neppure pensiero e sentimento. Ha bisogno di
entrambi. Non è propriamente una vita concentrata alla “sommità” dell’anima,
una vita dalla quale siano esclusi mente, immaginazione e corpo. Se così fosse,
poca gente potrebbe viverla. E ancora, se tale fosse la vita spirituale, non
sarebbe affatto una vita. Se l’uomo deve vivere, dev’essere tutto vivo, corpo,
anima, mente, cuore e spirito. Tutto deve venire elevato e trasformato dall’azione
di Dio, nell’amore e nella fede.
Inutile cercare di meditare semplicemente “pensando” — ancora peggio meditare
infilando parole, passando in rivista una quantità di insulsaggini.
Una vita puramente intellettuale può essere deleteria se ci porta a sostituire il
pensiero alla vita e le idee alle azioni. L’attività propria dell’uomo non è
puramente mentale, perché egli non è propriamente un’anima disincarnata.
Nostro destino è di vivere di ciò che pensiamo perché se non viviamo di ciò di cui
abbiamo conoscenza, non possiamo neppur dire di conoscere. Soltanto col
rendere la conoscenza parte di noi stessi, trasformandola in azione, penetriamo
nella realtà significata dai nostri concetti.
Vivere da animale ragionevole non significa pensare da uomo e vivere da
animale. Dobbiamo pensare e vivere da uomini. È illusione cercare di vivere come
se le due parti astratte del nostro essere (razionalità e animalità) esistessero
davvero separatamente come due differenti realtà concrete. Siamo una cosa sola,
corpo e anima, e se non viviamo come un tutto unico, siamo destinati alla morte.
Vivere non è pensare. Il pensiero viene determinato e guidato dalla realtà
oggettiva che è al di fuori di noi. Vivere vuol dire adattare di continuo il pensiero
alla vita e la vita al pensiero, in maniera tale da crescere incessantemente, da
esperimentare sempre cose nuove nel vecchio, e cose vecchie nel nuovo. E così la
vita è sempre nuova.
4.
L’espressione «conquista di sé» può arrivare a diventare odiosa perché molto
spesso non significa la conquista di noi stessi, ma una conquista fatta da noi. Una
vittoria riportata con le nostre facoltà. Ma su che cosa? Proprio su ciò che è
all’infuori di noi.
La vera conquista di sé è la conquista di noi stessi compiuta non da noi, ma dallo
Spirito Santo. Conquista di sé vuol dire in realtà resa di sé, donazione di sé.
Eppure ancor prima di poterci arrendere dobbiamo diventare noi stessi. Perché
nessuno può dare quello che non possiede.
Più precisamente, dobbiamo avere abbastanza dominio di noi stessi da poter
rinunciare alla nostra volontà nelle mani di Cristo — in modo che Egli possa
conquistare ciò che non siamo riusciti a raggiungere con i nostri sforzi. Per poter arrivare al possesso di noi stessi, dobbiamo avere una certa
confidenza, una certa speranza di vittoria. E per poter far vivere questa speranza,
dobbiamo ordinariamente avere un certo gusto della  vittoria. Dobbiamo sapere
che cosa sia la vittoria e amarla più della sconfitta.
Non ha nulla da sperare chi combatte per raggiungere una virtù astratta — una
qualità di cui non ha esperienza. Costui non preferirà mai realmente la virtù al
vizio opposto, per quanto sembri disprezzare quest’ultimo.
Ognuno di noi ha un desiderio innato di operare bene e di evitare il male. Ma è un
desiderio, questo, che rimane sterile, finché non abbiamo fatto esperienza di quel
che significhi fare il bene. (Il desiderio di virtù viene frustrato in parecchie
persone di buon volere dal disgusto istintivo che esse provano per le false virtù
di coloro che sono creduti santi. I peccatori hanno un occhio finissimo per le false
virtù e un’idea esattissima di quello che dovrebbe essere la virtù in una persona
buona. Se in chi viene reputato buono vedono soltanto una «virtù» che è in
realtà meno viva e meno interessante dei loro vizi, concluderanno che la virtù
non ha significato e si attaccheranno a ciò che possiedono, per quanto lo trovino
odioso). Ma che possiamo fare se non possediamo la virtù? Come possiamo farne
esperienza? La grazia di Dio, attraverso Cristo nostro Signore, produce in noi un
desiderio della virtù che ne è un’esperienza anticipata. Ci rende capaci di
«gustarla» anche prima di possederla in pieno.
La grazia, che e carità, contiene in sé tutte le virtù in maniera nascosta e
potenziale, così come nella sostanza di una ghianda stanno racchiusi le foglie e i
rami di una quercia. Essere una ghianda vuol dire provare il gusto di essere una
quercia. La grazia abituale porta con sé, in germe, tutte le virtù cristiane.
Le grazie attuali ci spingono a porre in atto queste potenzialità latenti e a
realizzare ciò che significano: — Cristo che agisce in noi. La gioia che viene da
una buona azione è qualche cosa che va ricordata — non per alimentare la nostra
compiacenza, ma per ricordarci che gli atti virtuosi non solo sono possibili e
meritori, ma possono divenire più facili, più graditi e fruttuosi di quelli del vizio
che a essi si oppone e che li rende vani.
Una falsa umiltà non dovrebbe privarci della gioia della conquista, che ci è dovuta
ed è necessaria alla nostra vita spirituale, specialmente agli inizi.
È vero che più tardi ci possono venire lasciati dei difetti che siamo incapaci di
vincere — e questo avviene per procurarci l’umiliazione di combattere contro un
nemico che sembra imbattibile, senza nessuna soddisfazione di vittoria. Ci può
difatti venire richiesto di rinunciare anche alla gioia che si prova nel fare il bene,
per essere sicuri che lo facciamo per un motivo che trascende questa stessa
gioia. Ma prima di pater rinunciare a un tale piacere bisogna averlo provato. E
agli inizi la gioia che viene dalla conquista di sé è necessaria: non dobbiamo
temere di desiderarla.
5.
Pigrizia e ignavia sono due dei più grandi nemici della vita spirituale.  Tanto più
pericolosi degli altri quando si camuffano da “discrezione”. Questa illusione non
sarebbe tanto fatale se la discrezione non fosse una delle virtù .più importanti
per chi conduce una vita spirituale. Difatti è proprio la discrezione che ci fa
vedere la differenza che passa tra ignavia e discrezione. Se il tuo occhio è
semplice ...  ma se la luce che è in te è tenebra ... La discrezione ci dice quel che Dio vuole da noi e quel che non vuole. Nel far ciò,
ci mostra l’obbligo che abbiamo di corrispondere alle ispirazioni della grazia e di
obbedire a tutte le altre indicazioni della volontà di Dio.
Pigrizia ed ignavia antepongono all’amore di Dio le nostre comodità attuali;
hanno paura dell’incertezza del futuro perché non ripongono alcuna fiducia in
Dio.
La discrezione ci mette in guardia contro gli sforzi vani: ma per l’ignavo qualsiasi
sforzo è vano. La discrezione ci fa vedere quando uno sforzo è vano e quando
invece è doveroso.
La pigrizia rifugge da ogni rischio: La discrezione evita i rischi inutili ma ci fa un
obbligo di addossarci i rischi che fede e grazia di Dio esigono da noi. Perché,
quando Gesù disse che il regno dei cieli si conquistava con la violenza, voleva
proprio dire che ciò era possibile solo a prezzo di certi rischi.
E presto o tardi, se seguiamo Cristo, dobbiamo rischiare tutto per tutto
guadagnare. Dobbiamo puntare sull’invisibile e rischiare tutto ciò che ci è dato di
vedere, di provare, di sentire. Ma sappiamo che è un rischio che vale la pena di
affrontare, perché non vi è nulla di più incerto del mondo che passa. Infatti
“passa la figura del mondo attuale” (1Cor 7,31).
Senza coraggio non potremo mai arrivare alla vera semplicità.
L’ignavia ci mantiene in uno stato di “doppiezza” — esitanti tra Dio e il mondo. In
una tale esitazione non vi é fede — la fede resta semplicemente un’opinione. Non
siamo mai sicuri, perché non ci abbandoniamo mai completamente all’autorità di
un Dio invisibile. Questa esitazione è la morte della speranza. Non ci liberiamo
mai da questi sostegni visibili che, ben lo sappiamo, un giorno ci verranno
sicuramente a mancare. E questa esitazione rende impossibile la vera preghiera
non si ha mai il coraggio di chiedere nulla e si dubita talmente di venire esauditi
che proprio nell’atto stesso di chiedere si cerca superstiziosamente, per umana
prudenza, di costruirsi una risposta di proprio gusto (cfr. Gc 1,5-8).
Che vale la preghiera se nell’atto stesso in cui preghiamo abbiamo così poca fede
in Dio che ci preoccupiamo di formulare la nostra risposta alla preghiera?
6.
Non esiste vera vita spirituale all’infuori dell’amore di Cristo.
Possediamo una vita dello spirito soltanto perché siamo amati da Lui. E la vita
spirituale consiste nel ricevere il dono dello Spirito Santo e la sua carità, perché il
Sacro Cuore di Gesù ha disposto, nel suo amore, che vivessimo del suo Spirito —
di quello stesso Spirito che procede dalla Parola e dal Padre e che é l’amore di
Gesù per il Padre suo. Se conosciamo quanto è grande l’amore di Gesù per noi,
non avremo mai paura di andare a Lui in tutta la nostra povertà e debolezza e
miseria e infermità spirituale. Anzi, quando arriviamo a comprendere di che
genere sia il suo amore per noi, preferiamo di andare a Lui in veste di poveri e
derelitti: Non ci vergogneremo mai della nostra miseria. La miseria torna tutta a
nostro vantaggio quando non abbiamo da cercare altro che misericordia.
Possiamo essere contenti del nostro stato di indigenza, se siamo veramente
convinti che la potenza di Dio si perfeziona nella  nostra infermità. Il segno più
sicuro che abbiamo ricevuto una comprensione spirituale dell’amore che Dio ha
per noi, è l’apprezzare la nostra povertà alla luce della sua infinita misericordia.
Dobbiamo amare la nostra povertà come la ama Gesù. Essa ha tanto valore agli
occhi suoi, che è morto sulla Croce per presentare la nostra povertà al Padre suo
e arricchirci dei tesori della sua misericordia infinita. Dobbiamo amare la povertà degli altri come la ama Gesù. Dobbiamo vederli con
gli occhi della sua compassione. Ma non possiamo avere una vera compassione
degli altri se non siamo disposti a essere oggetto di pietà e a ricevere perdono
per i nostri peccati.
Non sappiamo realmente perdonare se non conosciamo  che cosa sia essere
perdonati. Dovremmo dunque essere contenti che i nostri fratelli ci possano
perdonare. È il perdono scambievole che rende manifesto nella nostra vita
l’amore che Gesù ha per noi, perché nel perdonarci a vicenda ci comportiamo nei
confronti degli altri così come Gesù fa con noi.

sabato 15 dicembre 2012

(Lc 3,10-18) E noi che cosa dobbiamo fare?


VANGELO
(Lc 3,10-18) E noi che cosa dobbiamo fare?
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Parola del Signore

LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Io credo in Te Signore, e credo che il Tuo Spirito mi parli, come fa con tutti coloro che chiedono aiuto a te, Gesù ci ha insegnato a pregare, ci ha detto: "chiedi e ti sarà dato" ed io ti chiedo con molta umiltà .... illuminami.


Leggendo mi viene davanti agli occhi una frase,e torna ,s'insinua e ripete: " Poiché il popolo era in attesa".Vedo la mia situazione di oggi,e come me molti attendono che qualcosa cambi, che la violenza sparisca, che l'uomo diventi più buono, che non ci sia più la fame, la guerra; insomma attendiamo che Gesù ritorni e metta fine a tutto questo.C'e chi parla di fine del mondo, chi dell' inizio di una nuova era di pace e d'amore; io credo che la cosa più sensata sia quella di non aspettare, ma di cercare di cambiare questo mondo, cominciando da quello che ci è possibile, e chiedendo a Dio di aiutarci per cambiare quello che non sembra possibile.Siamo cristiani perchè battezzati con acqua,come dice Giovanni? O perchè battezzati con lo Spirito Santo e il fuoco di Gesù Cristo?La differenza la facciamo noi; in questa domenica definita della gioia, quale gioia possiamo provare nell'essere salvati, ma anche tanta angoscia per chi rifiuta questa salvezza, per chi rifiuta Dio.Non possiamo stare fermi,essere inermi ed aspettare che Dio ami anche per noi, che perdoni anche per noi, che spezzi il pane anche per noi! Essere Cristiani significa essere un tutt' uno con Gesù, ma ancor di più, significa capire che se non facciamo la cosa giusta, se non ci preoccupiamo dei fratelli che hanno più bisogno, se lasciamo vincere il nostro egoismo e la nostra superbia, faremo la fine della paglia,che brucerà nel fuoco inestinguibile.Essere nella gioia non vuol dire vivere con ilarità, preoccupandoci solo di divertirci, ma vivere nella consapevolezza di fare quello che è meglio per noi e per la nostra vita,presente e futura.

sabato 8 dicembre 2012

Lc 3,1-6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!


VANGELO
Lc 3,1-6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! 
+ Dal Vangelo secondo Luca

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:«Voce di uno che grida nel deserto:Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri!Ogni burrone sarà riempito,ogni monte e ogni colle sarà abbassato;le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate.Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

Parola del Signore


LA MIA RIFLESSIONE
PREGHIERA
Oh Spirito Santo, ti prego,abbracciami, avvolgimi e insegnami a capire la parola che Dio ha voluto trasmetterci attraverso l' evangelista Luca, che da Te si è lasciato guidare.
Con molta precisione, Luca ci racconta gli eventi  della storia della salvezza, cominciando da Giovanni il Battista. La storia che nasce, che si rende protagonista degli eventi, così com' era scritto.
Prima che tutti noi nascessimo, Dio scelse per noi, come scelse anche per Gesù qualcuno che preparasse la strada alla sua venuta, come scelse Maria per il suo ingresso nel mondo. 
Mi viene alla mente la frase : " non temere " che Dio ripete attraverso l' angelo a Maria, attraverso Gesù ai discepoli e attraverso i discepoli  a noi.  Non temere Maria, perchè anche Elisabetta che era detta sterile è stata toccata dalla grazia di Dio ed aspetta un bambino. 
Sarà proprio questo bambino a precedere Gesù nella sua missione, a preparargli la strada. Questo è un messaggio ancora forte per noi, che fatichiamo a sentirlo nostro. Non dobbiamo avere paura di seguire Gesù, di mostrarci Cristiani e neanche di sembrare fuori moda. Non dobbiamo avere paura degli ostacoli che possiamo incontrare, perchè non siamo chiamati ad essere paurosi, ma Santi; ma ancora più importante, non dobbiamo aver paura di amare tutti, anche i nostri nemici, perchè è questo che ci rende forti e non permette al male di contaminarci.
Bellissima l'ultima frase scelta dalla nostra Madre Chiesa per chiudere la lieta notizia di oggi: " Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio! " ogni uomo, nessuno escluso, potrà essere salvato.

sabato 1 dicembre 2012

(Lc 21,25-28.34-36) La vostra liberazione è vicina.


VANGELO 
(Lc 21,25-28.34-36) La vostra liberazione è vicina.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Parola del Signore
 LA MIA RIFLESSIONE
 PREGHIERA
A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido: che io non sia confuso. Non trionfino su di me i miei nemici. Chiunque spera in te non resti deluso. (Sal 25,1-3) Oggi Signore scelgo questa preghiera dall'antifona d'ingresso,mettendo tutto il mio cuore e la mia mente nelle tue mani.

Mentre l' uomo continua a vivere facendo dei suoi giorni il suo regno, Gesù continua a ricordarci che questo regno non ci appartiene come crediamo, ma è solo un'occasione da non perdere. Mentre tutti parlano della fine del mondo, Gesù dice che quando accadranno queste cose, dovremo alzare la testa, perchè la salvezza è vicina.Spesso si cerca di dare una connotazione, un significato ai segni, alle profezie e ai messaggi, ma forse quello che ne vien fuori, alla fine, è più confusione che altro.Nel Vangelo c' è tutto quello che serve all' uomo di Dio, senza cercare altro e, se qualcosa ci colpisce, se crediamo in un' apparizione o in una rivelazione privata,  questo nulla toglie al Vangelo,se non va in contrapposizione con esso. Il mio invito quindi,  è a conoscere bene il Vangelo e poi, magari,  anche ascoltare altro.Ricordiamo che satana esiste, ce ne parla Gesù proprio nel Vangelo, ed è molto astuto, non per niente era un angelo, quindi non pensiamo che satana è un'invenzione dei preti e non diamo retta a chi ci dice che non esiste.
In futuro ci sarà il giudizio sull'umanità e anche sugli angeli caduti:"Allora [il Signore] dirà anche a quelli della sua sinistra: 'Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli'" (Matteo 25:41)."...Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li inabissò, confinandoli in antri tenebrosi per esservi custoditi per il giudizio" (2 Pietro 2:4)."Egli ha pure custodito nelle tenebre e in catene eterne, per il gran giorno del giudizio, gli angeli che non conservarono la loro dignità e abbandonarono la loro dimora" (Giuda 6)."Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli" (Apocalisse 12:9).
Satana e i suoi angeli operano oggi nel mondo, nei cuori degli esseri umani, guidandoli nella ribellione, nei divertimenti, nell'accumulare beni materiali, nelle molte forme di religiosità e spiritualità, ecc. impedendo loro di riconoscere il loro stato di peccatori perduti, e tenendoli lontani dalla salvezza che Dio offre a ognuno personalmente in Gesù Cristo, che morì per noi sulla croce e risuscitò."Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno" (1 Giovanni 5:19)."...per gli increduli, ai quali il dio di questo mondo (Satana) ha accecato le menti, affinché non risplenda loro la luce del vangelo della gloria di Cristo, che è l'immagine di Dio" (2 Corinzi 4:4)."Seguendo l'andazzo di questo mondo,satana opera negli uomini ribelli; Satana ha anche introdotto numerose vie di salvezza "alternative",e spesso quando non riesce ad allontanarci da Dio,riesce a far entrare nella nostra fede, la superstizione. Stiamo quindi molto attenti a non farci fuorviare ,a non perdere la rotta, come ci ricorda il Papa che ha proclamato l'anno dellafede il cui logo rappresenta una barca, immagine della Chiesa, in navigazione sui flutti. L’albero maestro è una croce che issa le vele le quali, con segni dinamici, realizzano il trigramma di Cristo (IHS). Sullo sfondo delle vele è rappresentato il sole che associato al trigramma, rimanda all’Eucarestia. 
Logo dell'anno della fede. Esso rappresenta una barca, immagine della Chiesa, in navigazione sui flutti. L’albero maestro è una croce che issa le vele le quali, con segni dinamici, realizzano il trigramma di Cristo (IHS). Sullo sfondo delle vele è rappresentato il sole che associato al trigramma, rimanda all’Eucaristia.

domenica 25 novembre 2012

scuola di preghiera


INTRODUZIONE ALLA PREGHIERA CRISTIANA


1. Definizione

La teologia della nostra Chiesa di lingua latina ha definito la preghiera con questa formula: elevazione della mente a Dio per lodarlo e per chiedergli cose convenienti alla salvezza eterna. La Chiesa ritiene perciò che la preghiera abbia due finalità principali: “… per lodarlo”  “… per chiedergli cose convenienti alla salvezza eterna”. La prima di esse è la lode. Il primo atto della preghiera e il più nobile in assoluto è certamente la lode. Solo dopo la lode è ammissibile la preghiera di domanda: “… per chiedergli”. Tuttavia, i contenuti della richiesta non devono in primo luogo essere riferiti a questioni di ordine quotidiano o materiale, ma devono riguardare primariamente la salvezza eterna; anche la preghiera di domanda presuppone il rispetto di alcune priorità, per cui domandare a Dio un beneficio materiale senza chiedergli prima la guarigione del nostro spirito e la liberazione dall’opera del maligno, sarebbe un modo squilibrato di pregare. La richiesta di benefici temporali è sempre lecita, ma va posta in una posizione subordinata.
            Prima di iniziare un discorso sistematico sulla preghiera, dobbiamo precisare quel è il suo potere e cosa ci si può aspettare dall’orazione. Innanzitutto la certezza assoluta della salvezza eterna: “Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (Gl 3,5). Per scampare alla perdizione, basta una semplice invocazione del nome del Signore. L’episodio evangelico di Pietro che sprofonda nel lago in tempesta contiene questo profondo significato: “Per la violenza del vento si impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: Signore, salvami! E subito Gesù stese la mano e lo afferrò” (Mt 14,30-31).
            La preghiera dà inoltre la forza di combattere e di vincere gli assalti di Satana e di tutte le sue legioni di demoni minori: “I discepoli gli chiesero in privato: perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? Ed Egli disse loro: Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo se non con la preghiera” (Mc 9,28-29). Nella notte della Passione, Gesù avverte i discepoli circa la gravità di quell’ora e soprattutto fa intendere loro che non potranno resistere alla bufera satanica, senza la forza che viene dalla preghiera: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione” (Mc 14,38). In sostanza, è la preghiera che tiene lontano il diavolo dalla nostra vita e dalle nostre famiglie.
           
La preghiera infonde nella nostra mente la luce della sapienza e del discernimento. Siamo infatti sempre soggetti a essere ingannati dal maligno, come pure a essere portati fuori strada da una insufficiente conoscenza della volontà di Dio.  La Bibbia ci dice in più punti che la preghiera infonde una luce nuova alla nostra intelligenza: “Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito della sapienza” (Sap  7,7); e più avanti aggiunge: “Mi rivolsi al Signore e lo pregai, dicendo con tutto il cuore: Dio dei padri e Signore di misericordia, … dammi la sapienza che siede in trono accanto a Te” (Sap 8,21-9,1.4). Nella lettera di Giacomo si legge “se qualcuno di voi manca di sapienza, la chieda a Dio, che dona a tutti generosamente” (Gc 1,5). Nel libro di Daniele, la conoscenza derivante dalla preghiera e dalla penitenza è considerata molto superiore alle conoscenze occulte che si possono acquisire mediante la magia. Alla corte del re Nabucodonosor, Daniele è capace di svelare al re degli enigmi estremamente difficili, che i maghi del regno non erano stati capaci di risolvere. Al re che gli chiede se lui sia capace di svelare i misteri sconosciuti ai maghi, Daniele risponde: “Il mistero di cui il re chiede la spiegazione non può essere spiegato né da saggi, né da maghi, né da astrologi, né da indovini; ma c’è un Dio nel cielo che svela i misteri” (Dan 2,27-28). In sostanza, Daniele vuole dire che il sapere occulto ha un limite, perché i maghi non sono in contatto con Dio, mentre Dio svela solo ai suoi servi tutto ciò che essi devono conoscere. Lo stesso accade a Giuseppe in Egitto: il Faraone, dopo che i maghi hanno fallito, lo convoca e gli dice: “Ho sentito dire che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito. Giuseppe rispose al Faraone: Non io, ma Dio darà la risposta” (Gen 41,15-16).
            C’è ancora una domanda che ci dobbiamo porre: può la preghiera cambiare il corso degli eventi? E come si concilia ciò con l’immutabilità della volontà di Dio?
            Dalle parole di Gesù sembra quasi che la preghiera abbia un potere pressoché illimitato. Basta ricordare alcuni insegnamenti evangelici: “quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà” (Mt 6,6). La promessa che suona “ti ricompenserà”, si riferisce al fatto che la preghiera dell’uomo non resta mai senza una risposta da parte di Dio.


Se poi la risposta di Dio è o non è conforme alle aspettative dell’uomo, è un’altra questione. Nel contesto del medesimo insegnamento Gesù dice: “Chiedete e vi sarà dato… Chi di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!” (Mt 7,7-11). Bisogna però aggiungere che il passo parallelo di Luca al posto di “cose buone” mette il dono dello Spirito Santo, che Dio dà con assoluta sicurezza a quelli che glielo chiedono (cfr. Lc 11,9-13). Durante l’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme, Egli disse ai suoi discepoli, commentando l’episodio del fico seccato: “In verità vi dico, chi dicesse a questo monte: Levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo… ciò gli sarà accordato. Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,23-24). Nell’ultima cena, dopo l’uscita di Giuda dal cenacolo, Gesù ritorna sullo stesso argomento: “Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel figlio” (Gv 14,13). E più avanti ripete: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà” (Gv 16,23).
            Per descrivere la potenza della preghiera non occorrono altre dimostrazioni bibliche. Nella nostra esperienza cristiana, tuttavia, le cose non sembrano andare così lisce. A volte si prega e si ha l’impressione di non essere ascoltati, si attende a lungo e non si ottiene ciò che si chiedeva. Questo fatto ha bisogno di una attenta riflessione per essere spiegato. Infatti, accanto al fatto che Dio ascolta chi lo prega, si dicono nel NT tante altre cose che devono essere tenute altrettanto presenti. Consideriamole una per una, perché sono esse che tolgono efficacia alla preghiera:
nonostante le promesse di Gesù circa l’infallibilità della preghiera, vi sono condizioni che purtroppo la rendono inefficace e sono:
-          il dubbio e la mancanza di fiducia in Dio: Mc 11,23-24; Mt 14,31
-          un cuore non riconciliato, ferito e malato di risentimenti: Mc 11,25, e in positivo Mt 18,19-20
-          una vita non unita profondamente a Cristo: Gv 15,5
-          una preghiera che non dà il primato ai valori del regno: Gc 4,3-4
-          una preghiera che non è accompagnata dalla conversione: Mc 1,15; At 2,37-38
-          una preghiera parolaia: Mt 6,7-8
-          una preghiera che è solo un parlare con se stessi: Lc 18,11
-          il mistero della volontà di Dio: Is 55,8-9. Dio si riserva infatti di guidare ciascuno in modo diverso e non sempre comprensibile alla nostra mente.


2. I gradi dell’orazione

La tradizione spirituale della Chiesa latina considera la preghiera come un cammino di graduale maturazione nel dialogo con Dio. Come ogni altra relazione personale, anche il rapporto di amicizia col Signore ha bisogno di crescere e di approfondirsi nel tempo. Il battezzato passa perciò attraverso diverse forme di preghiera, in proporzione alla sua maturità spirituale: il primo gradino è rappresentato dalla preghiera vocale, il secondo da quella mentale, il terzo dalla preghiera del cuore, il quarto dalla contemplazione.


      2.1  L’orazione vocale

La preghiera più facile, ossia quella che costituisce il primo gradino del cammino spirituale è la preghiera fatta di formule. Con la definizione “orazione vocale” non si intende tanto la preghiera pronunciata ad alta voce (anche la preghiera del cuore può essere pronunciata ad alta voce), ma si allude alla preghiera accessibile a chi è ancora immaturo nel dialogo con Dio, e perciò non gli sgorga nulla da dire a Dio, oppure gli sgorgano richieste sbagliate. La Chiesa, allora, ha preparato delle preghiere standard (l’Ave Maria, l’Atto di Fede, l’Atto di Speranza, le preghiere del mattino e della sera…) in cui il battezzato può trovare ciò che va detto a Dio. La preghiera del “Padre Nostro”, insegnata da Gesù ai suoi discepoli – e che a suo tempo analizzeremo – risponde proprio a questa esigenza. In sostanza, nella fase immatura della vita cristiana non si sente il bisogno di parlare a Dio (così come non si sente il bisogno di ascoltarlo nella sua Parola), e la preghiera dei formulari è un aiuto per l’elevazione della mente a Dio.

      2.2 L’orazione mentale o meditazione

Il secondo gradino è la preghiera “mentale”. Questo tipo di preghiera è priva di formule. Anche qui la definizione non allude semplicemente al fatto che non è pronunciata con le labbra. Infatti, anche la preghiera vocale, ad esempio un’Ave Maria, può essere recitata mentalmente, pur essendo costituita da una formula prestabilita. Più precisamente, con la definizione “orazione mentale” ci si riferisce solitamente alla meditazione. La meditazione è una forma di preghiera elevata a cui non si arriva facilmente. Essa può essere definita pure “preghiera di ascolto”, perché si fonda su un rapporto profondo con la Parola di Dio.




Questa forma di preghiera non consiste nel “dire” qualcosa a Dio, ma nella capacità di “ascoltare e capire” ciò che Egli sta dicendo proprio a me attraverso i testi biblici della Messa, e attraverso la lettura quotidiana della Bibbia.
Questo tipo di preghiera raggiunge la sua massima espressione nelle giornate di ritiro e negli esercizi spirituali. Beninteso, questa forma di preghiera non consiste nel capire il testo biblico, ma nella capacità di sentire quella parola utile e illuminante per le situazioni che io sto vivendo proprio adesso.

      2.3 La preghiera del cuore

Terzo gradino: la preghiera del cuore. La preghiera del cuore consiste nel “dire” qualcosa a Dio. Essa rappresenta un livello ancora più alto di quello della meditazione. Quando la persona giunge a sentire il bisogno di “parlare” a Dio, di aprirgli il cuore con fiducia, di esprimergli l’affetto filiale e la lode senza formule prestabilite, ma con parole che vengono dall’intimo, come quelle che siamo soliti dire alle persone che più amiamo, allora significa che si è giunti alla preghiera del cuore e che si è ben avanti nello sviluppo della carità teologale. Questo tipo di preghiera si manifesta sia in momenti celebrativi comunitari, sia nella preghiera intima e individuale, e assume quindi sia il carattere vocale che mentale. Negli incontri di preghiera, quando la comunità si raduna per l’ascolto della Parola o per l’Adorazione, allora la preghiera del cuore si presenta come preghiera spontanea, perlopiù sotto la forma della lode. Nella preghiera individuale, la preghiera del cuore si ha nella spontanea e filiale consegna della propria vita quotidiana a Dio, sentito come Padre. La conoscenza di Dio come “mio” Padre è essenziale alla preghiera del cuore; senza questo rapporto veramente filiale con Dio non può esserci alcuna preghiera del cuore. Sarebbe inautentica se ci fosse.

      2.4 La contemplazione

La forma più elevata di preghiera è la contemplazione. La sua caratteristica peculiare è quella di essere “quasi senza parole”. In termini pratici, questa forma di preghiera si attua quando la persona si concentra su un mistero della fede, preferibilmente con l’aiuto di una icona o di un crocifisso su cui fissare lo sguardo, perché le distrazioni non producano eccessivo disturbo. Per questa preghiera conviene assumere una posizione comoda, in modo che ci si possa rilassare; poi, fissando lo sguardo sul crocifisso, o su un’icona, o sull’Eucaristia solennemente esposta, ridurre i pensieri al silenzio e lasciare che il mistero di Dio occupi tutto lo spazio della nostra interiorità.



L’obiettivo è quello cogliere le meraviglie di Dio, intuire la sua bellezza, e guardarlo come si guardano gli innamorati, ossia con un senso di beatitudine e di stupore. Mentre l’attenzione è concentrata sul mistero di Dio, il pensiero non deve seguire alcun ragionamento. Al massimo, conviene far risuonare dentro di sé, di tanto in tanto, e secondo il proprio stato interiore, qualche breve frase evangelica o liturgica come ad esempio: “Se vuoi puoi guarirmi”, “Figlio di Davide, abbi pietà di me”, “Tu sei il Cristo”, “vieni, Spirito Santo”, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, oppure semplicemente “Padre”. Ma tutto ciò senza che la mente sia afferrata dal ragionamento.
           

3. I tipi di preghiera conosciuti dalla Bibbia

I tipi fondamentali di preghiera sono quattro (intercessione, lode, ringraziamento, richiesta), come già abbiamo detto, ma adesso è opportuno ripercorrere i testi biblici per vedere in quali contesti e in quali situazioni vengono pronunciate.
           

3.1 La preghiera di intercessione

La prima preghiera di intercessione registrata dalla Bibbia risale all’epoca patriarcale ed è pronunciata da Abramo presso le querce di Mamre. Qui Dio gli svela il proposito di distruggere le città di Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 18,16ss), allora Abramo ricorre a una argomentazione molto efficace: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città…” (Gen 18,23-24). Dio si lascia convincere da Abramo e si dichiara disposto a risparmiare tutta la città in forza non di cinquanta ma anche di dieci giusti. Il testo intende sottolineare l’importanza della preghiera di intercessione, con la quale molti mali possono essere evitati, perché Dio non gode della rovina dell’uomo. Il Signore vuole che l’uomo sia consapevole del peccato e del dolore che travagliano il mondo, ma non per schierarsi contro e accusare l’umanità, ma per schierarsi in favore come fa un avvocato difensore. Dio, in sostanza, non ha bisogno di essere “difeso” davanti all’umanità peccatrice; ha bisogno solo di avvocati difensori che attenuino la sua giustizia verso di essa. Egli infatti non gradisce quelli che si calano nel ruolo di avvocati difensori della sua causa, ma a scapito dell’umanità. A Dio va riconosciuta la gloria e la giustizia che gli sono proprie, ma il peccato del mondo va riconosciuto unitamente alla richiesta della divina misericordia. Vi sono diversi esempi biblici che rendono chiara questa intenzione di Dio.


Uno di questi è senz’altro la figura di Giona (cfr. Il libro di Giona), mandato a Ninive per annunciare un castigo imminente, che si sarebbe verificato entro quaranta giorni. La popolazione
prende sul serio l’avvertimento del profeta e si sprofonda nella penitenza e nel digiuno. Dio allora revoca la sua sentenza e il castigo non si verifica. A questo punto Giona ci rimane molto male: si sente preso in giro da Dio che lo aveva mandato ad annunciare una cosa che poi non si è verificata. Il testo sottolinea a più riprese la grettezza della mentalità del profeta, che non capisce che Dio avrebbe preferito avere in lui non un giudice ma un intercessore.
Un altro caso significativo è quello dei tre amici di Giobbe che vanno a trovarlo nel tempo della sua malattia. Rimangono accanto a lui per una settimana senza dire neanche una parola, ma poi cominciano a parlare. I loro discorsi ruotano tutti intorno a un nucleo centrale che si può sintetizzare così: se un uomo viene colpito dalla sventura, allora è segno che egli è sotto la divina riprovazione. Giobbe professa la sua innocenza, ma gli amici non accettano di considerarlo un uomo giusto, perché se fosse giusto non sarebbe stato colpito così dalla sventura. In sostanza, l’atteggiamento dei tre amici di Giobbe è quello che Dio non vuole trovare nei suoi servi: gli amici di Giobbe non fanno altro che affermare la giustizia e l’impeccabilità di Dio, ma a prezzo di calpestare la dignità di Giobbe, che al peso della malattia sente aggiungersi quello del biasimo morale dei suoi amici: “Dio ti ha colpito; non puoi che essere un peccatore. Dio è infinitamente giusto, se ti ha colpito ha sicuramente una buona ragione per farlo”. Alla fine entra in scena Dio stesso, condannando i ragionamenti teologici falsi degli amici di Giobbe e affidandoli alla sua preghiera di intercessione (cfr. Gb 42,7-8). Dal discorso di Dio si comprende che anche qui Egli avrebbe voluto trovare nei tre amici di Giobbe non tre teologi che esaltano la giustizia di Dio schiacciando la persona umana, ma tre intercessori che si schierano accanto alle miserie umane e pregano perché Dio faccia grazia.
Nei libri dell’Esodo e dei Numeri viene particolarmente sottolineata la preghiera di intercessione di Mosè. Prima della partenza dall’Egitto, egli intercede per far cessare le piaghe che tormentano il faraone e il suo popolo. Dopo la liberazione, l’intercessione di Mosè si rivolge unicamente a Israele. Essa ha tre fondamentali sfaccettature, che si ritrovano anche nelle altre parti della Scrittura: è preghiera di richiesta di perdono, è preghiera di guarigione e di liberazione. La prima grande preghiera di intercessione di Mosè è quella che si collega al peccato del vitello d’oro. Fino a quel momento, l’Israele uscito dall’Egitto aveva avuto soltanto impennate dinanzi alle difficoltà del deserto e moti di ribellione o di mormorazione. La produzione del vitello d’oro rappresenta il primo peccato organizzato in grande stile e lucidamente studiato.

Mosè si trova ancora sul monte, quando Dio gli rivela che Israele si è fatto un vitello d’oro per adorarlo, e aggiunge il suo proposito di annientarlo: “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te farò invece una grande nazione” (Es 32,10). Mosè non accetta la prospettiva di divenire capostipite di una grande nazione a prezzo dell’annientamento di Israele e innalza a Dio una preghiera di intercessione che comprende i vv. 11-13 del cap. 32 dell’Esodo. Altri episodi in cui Mosè intercede hanno luogo dopo la partenza dal Sinai e sono narrarti dal libro dei Numeri.
Dopo la partenza dal Sinai, il popolo comincia a lamentarsi a motivo della scarsità del cibo. Più precisamente, il problema non consiste nella mancanza di cibo, ma nel fatto che a un certo momento tutti si stancano di mangiare sempre manna (cfr. Nm 11,4-9). Lo sdegno del Signore divampò, ma l’intercessione di Mosè ottiene al popolo le quaglie e a se stesso la collaborazione di settanta uomini saggi, su cui si posa lo Spirito del Signore, per suddividere il peso del governo del popolo. Mosè intercede ancora per guarire la propria sorella dalla lebbra, che l’aveva colpita per la sua maldicenza nei confronti di Mosè (cfr. Nm 12, 1-15). Nella stessa maniera, quando la mormorazione contro Mosè assume un carattere organizzato o assembleare e viene messa in discussione la sua legittima autorità, l’ira del Signore si accende e il popolo viene colpito da un qualche castigo; allora è sempre l’intercessione di Mosè che libera il popolo dalla piaga che lo tormenta (cfr. Nm 14 e 16). Dall’insieme dello svolgimento dell’intercessione di Mosè si comprende come Dio, nella sua giustizia, non possa lasciare impunito il peccato dell’uomo, ma al tempo stesso, nel suo amore, Egli cerca ansiosamente qualcuno che fermi la sua Mano, intercedendo per i propri fratelli colpevoli. Mosè intercede sempre per Israele, anche quando la colpa è stata commessa direttamente contro di lui.
            Un altro grande intercessore per Israele è il profeta Samuele. Per lui sarebbe addirittura un peccato contro Dio tralasciare la preghiera di intercessione: “Quanto a me, non sia mai che io pecchi contro il Signore, tralasciando di supplicare per voi” (1 Sam 12,23). Nella stessa linea, anche Elia esercita un ministero di intercessione in favore di Israele e ottiene la pioggia in un periodo di estrema siccità (cfr. 1 Re 18,41-46). Anche il re Salomone, nel giorno della consacrazione del Tempio di Gerusalemme, innalza a Dio una lunga preghiera di intercessione, chiedendogli di ascoltare chiunque venisse a pregare in quel luogo per svariate necessità (cfr. 1 Re 8,22-53).
           
Uno dei compiti di cui si sentono investiti i profeti di Israele è la preghiera di intercessione. Isaia riceve una parola per gli abitanti di Gerusalemme: “Popolo di Sion… tu non dovrai più piangere; a un tuo grido di supplica il Signore ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta” (Is 30,19). Il profeta Amos, viene avvertito da Dio circa l’imminenza di due castighi: le cavallette e la siccità. Entrambi vengono scongiurati grazie alla preghiera di intercessione del profeta (cfr. Am 7,1-6). Il profeta Ezechiele riceve da Dio una parola durissima nei confronti dei peccati di Gerusalemme e profetizza un saccheggio e uno sterminio della popolazione; ma mentre profetizza egli stesso si sente sopraffatto dalla visione del castigo: “Io mi gettai con la faccia a terra e gridai con tutta la voce: Ah! Signore Dio, vuoi proprio distruggere quanto resta di Israele?” (Ez 11,13). Il Signore risponde manifestando al profeta il suo progetto di radunare il popolo dopo la sua dispersione, insieme al dono di un cuore nuovo (cfr. Ez 11,14-21).
            Nel NT, sia nei Vangeli che nel libro degli Atti, sono molto numerose le allusioni alla preghiera di intercessione sia da parte del singolo Apostolo, sia da parte della comunità cristiana nel suo insieme. In Gv 11,3 gli Apostoli si rivolgono a Gesù in occasione della malattia di Lazzaro: “Signore, il tuo amico è malato”; in questo caso, la preghiera di intercessione ha il taglio specifico della richiesta di guarigione. Come sappiamo dal seguito del cap. 11, nei confronti di Lazzaro, Cristo intervenuto a modo suo, e da ciò si comprende come la risposta di Dio alla preghiera dell’uomo c’è sempre, anche se non sempre è data nella medesima linea delle aspettative dell’orante. In At 12,5, mentre Pietro si trova in carcere, tutta la chiesa prega per lui incessantemente, e Dio manda un angelo a liberarlo. La comunità cristiana non deve mai tralasciare la preghiera per i suoi pastori, e infatti nella celebrazione eucaristica è prevista la preghiera di intercessione per il Papa, per il Vescovo del luogo e in generale per tutto l’ordine sacerdotale. Dall’altro lato, anche l’Apostolo mette la comunità tra gli obiettivi primari della sua preghiera di intercessione: “Quel Dio, a cui rendo culto nel mio spirito, annunziando il Vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi” (Rm 1,9). Intercessione apostolica, a cui fa eco la preghiera della comunità: “Vi esorto… a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio” (Rm 15,30). La preghiera di intercessione per le necessità della Chiesa non ha limiti e può abbracciare tutto l’arco dei bisogni da quelli concreti, come la rimozione degli ostacoli di ordine materiale, a quelli spirituali, come la conoscenza del progetto di Dio;

la comunità degli Atti si raduna in preghiera sia per chiedere a Dio il soccorso nei momenti di persecuzione (cfr. At 4,23-31), sia per conoscere in pieno la volontà di Dio (cfr. 13,2; Col 1,9-12). La preghiera di intercessione della Chiesa deve infine farsi carico anche dei bisogni della società civile (cfr. 1 Tm 2,1-4)

         3.2 La preghiera di guarigione

Un particolare tipo di preghiera di intercessione è quella che ha come obiettivo specifico la guarigione della persona, che può essere una richiesta tanto di guarigione fisica quanto di guarigione interiore. Sono troppi i passi biblici in cui il Signore è presentato come colui che guarisce, a cui sta a cuore la nostra salute piena. Ne possiamo solo citare qualcuno: “Io sono il Signore, colui che ti guarisce” (Es 15,26); “Io percuoto e io guarisco” (Dt 32,39); “Nella malattia, prega il Signore ed egli ti guarirà” (Sir 38,9). Uno dei testi più espliciti sulla preghiera di guarigione è Gc 5,16: “Pregate per essere guariti”. In sostanza, l’insegnamento biblico esorta ad aggiungere la preghiera di guarigione ai mezzi umani della medicina e della terapia. E’ un dato della fede cristiana il fatto che la guarigione passi comunque per le mani di Dio prima che in quelle del medico. Sia Cristo sia gli Apostoli portano avanti un ministero di guarigione, che considerano parte integrante dell’annuncio del Vangelo. La parola di Dio è essa stessa una forza di guarigione: “Li guarì la tua Parola, o Signore” (Sap 16,12). Anche il centurione del Vangelo, pur essendo un pagano, coglie molto bene il fatto che ciò che guarisce è la Parola di Cristo, cioè l’espressione della sua divina volontà: “Signore… di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). Chi accoglie la Parola di Cristo, inizia un cammino di guarigione globale della sua persona.
            La questione della guarigione fisica non si può affrontare da sola, ossia svincolata dalla guarigione interiore. Quando il Vangelo parla di “guarigione”, il riferimento non va alla eliminazione di una particolare malattia di cui si può essere affetti. Infatti, nonostante la preghiera e la vita di fede, determinate malattie fisiche persistono. Il Vangelo indica innanzitutto il mistero della volontà di Dio, che talvolta ci chiama a condividere la croce del Figlio; tale chiamata alla croce può avere anche il volto di una malattia fisica. A condizione che sia vissuta bene dal soggetto. Esiste infatti una guarigione offerta dalla Parola di Cristo, anche quando Dio vuole che la malattia persista.


Si tratta della guarigione del rapporto con la propria malattia; talvolta, ciò che ci rende veramente malati non è la malattia in sé, ma è il rapporto scorretto che abbiamo instaurato con la nostra malattia.
La guarigione si ha allora quando la malattia non è sentita più dal soggetto come una forza distruttiva operante nel proprio corpo, ma come una crescita nella santità cristiana: “Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,16-17). Chi giunge a vivere la propria malattia, o la propria sofferenza di qualunque natura (vi sono anche malattie invisibili, come le ferite interiori causate dalle cattive esperienze della vita), in questa ottica è una persona radicalmente guarita. La preghiera di guarigione fatta dalla comunità cristiana chiede a Dio innanzitutto questo tipo di guarigione, ma chiede anche, quando Dio lo ritenga opportuno, la guarigione fisica, senza escludere per questo l’intervento del medico. L’espressione sacramentale di questa dottrina è rappresentata dall’unzione degli infermi, che il cristiano medio non è capace ancora di valorizzare. Il sacramento si affianca alla preghiera della Chiesa, per ottenere all’ammalato quella forza spirituale, interiore, che non lo faccia sentire schiacciato sotto il peso del suo dolore.
            Un ambito importante della preghiera di guarigione è quello della guarigione delle malattie interiori, ossia le ferite emozionali, a cui abbiamo accennato sopra tra parentesi. Anche qui non si vuole mettere il medico a riposo, ma si vuole ribadire che secondo la fede cristiana la guarigione è prima nelle mani di Dio, e poi in quelle del medico. La comunità cristiana deve quindi farsi carico non solo di coloro che soffrono fisicamente, circondandoli con la sua solidarietà e la sua preghiera, ma anche di coloro che sono in qualche modo disturbati nella loro personalità. Qui non ci vogliamo riferire alla malattia mentale in senso stretto, ma ci riferiamo a quelle forme di perturbazioni della personalità che derivano semplicemente da esperienze negative non integrate. Talvolta è sufficiente qualcosa come la perdita inaspettata di una persona cara, oppure un obiettivo non raggiunto dopo tanti sacrifici, un tradimento da parte di chi ci si mostrava amico; sono eventi che si possono verificare abbastanza spesso e che turbano gravemente gli equilibri emozionali di una persona. Qui deve subentrare la solidarietà e la preghiera di guarigione della comunità cristiana.

3.3 La preghiera di liberazione

Un’altra specificità della preghiera di intercessione è costituita dalla cosiddetta “preghiera di liberazione”. Questo genere di preghiera ha come suo oggetto specifico tutta quella serie di mali che il maligno può procurare a una persona mediante le pratiche occulte, spiritiche e magiche. Le esperienze connesse all’occultismo non lasciano mai la persona senza conseguenze e senza squilibri bisognosi di risanamento. In questo ambito lo psicoterapeuta può fare oggettivamente poco, dal momento che i disturbi che la persona accusa non sono di natura psicologica, anche se la loro sintomatologia è molto simile. Il rischio maggiore è che la persona venga imbottita di psicofarmaci, senza che le cause profonde del suo malessere vengano rimosse.
            La Bibbia esorta caldamente a mantenere una distanza di sicurezza dal mondo dell’occulto. Qualche citazione potrebbe bastare: “Non praticherete alcuna sorta di magia” (Lv 19,26); “Non si trovi in mezzo a te chi esercita la magia” (Dt 18,10); “Non vi rivolgete ai negromanti” (Lv 19,31); “Non date retta ai vostri indovini” (Ger 27,9); “Gli indovini vedono il falso” (Zc 10,2). Questa insistenza dell’insegnamento biblico non si capirebbe se in tutte queste cose non ci fosse un rischio concreto o una minaccia per la salute spirituale dell’uomo. Di fatto, l’esperienza insegna che chi ha praticato lo spiritismo, e in generale l’occultismo, o ha frequentato maghi, ne esce scosso nei suoi equilibri emozionali, e sovente perde la pace e la serenità della vita quotidiana. Più precisamente, viene imprigionato dalla paura che certe entità negative possano fargli del male e, per evitare questo, uno è portato a compiere quei gesti superstiziosi che terrebbero buone tali entità. In sostanza, la persona cade in una forma di prigionia psicologica, la cui sintomatologia può avvicinarsi – nei casi più gravi - alle nevrosi ossessive.
            Qui deve intervenire la preghiera di intercessione e la solidarietà della comunità cristiana, la quale, nell’annuncio dell’unica Signoria di Gesù Cristo, restituisce serenità a coloro che si sentono minacciati da piccoli tiranni invisibili; tutti i piccoli tiranni, sia visibili che invisibili, in Cristo sono stati vinti, e il vero cristiano si sente un uomo libero. Non solo. Cristo ha dato ai suoi discepoli il potere sugli spiriti immondi, perciò il battezzato che vive bene la sua fede deve sapere che, vivendo in grazia di Dio, è il demonio che deve avere paura di lui e non viceversa: “Chiamati a Sé i dodici, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi” (Mt 10,1); “La folla accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti” (At 5,16); “Nel mio nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17).
           

La preghiera di liberazione porta sollievo e accelera il processo di guarigione di chi è caduto nella prigionia di questo genere di angosce. La guarigione piena dipende però dal cammino di conversione della persona stessa e dalla sua volontaria rinuncia alle opere di satana. L’esperienza più autentica di liberazione si verifica solo nello sviluppo della vita cristiana e lungo la crescita personale nella fede: “Se rimanete fedeli alla mia Parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32). Poi più avanti aggiunge: “Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (v. 36). Cristo promette qui una liberazione autentica, cioè non semplicemente un sollievo, che non è affidata alla preghiera della comunità cristiana, bensì alla crescita personale nel discepolato. In realtà è lo sviluppo della santità cristiana che guarisce e libera la persona in maniera totale e irreversibile. Per questo, attendersi una liberazione dalla preghiera della comunità, senza un impegno personale di conversione e di rinuncia alle opere di satana, sarebbe un errore. In questi casi si può avere un sollievo, ma non la piena liberazione. La persona può essere sempre riafferrata dalle forze del male, pur indebolite dalla preghiera della Chiesa, se la persona stessa non impara a opporvisi con tutte le proprie forze nel combattimento spirituale.
La preghiera di liberazione infine non va confusa con l’esorcismo. L’esorcismo viene praticato solo dal sacerdote autorizzato, mentre la preghiera di liberazione può essere fatta da qualunque battezzato, da solo o in gruppo.

      3.4 La preghiera di lode

Tra tutte le forme di preghiera è l’unica che può definirsi “senza tempo”. E’ infatti quel modo di rivolgersi a Dio che caratterizza il culto celeste; mentre tutte le altre forme elencate sotto presuppongono lo stato di pellegrinaggio, insieme alle difficoltà e alle ombre della vita presente, la preghiera di lode è la preghiera di chi si sente libero, come fosse già risorto. Questa preghiera è perciò possibile quando la persona riesce ad allentare la naturale concentrazione su se stessa, dal momento che è l’unica forma di preghiera ad avere come obiettivo Dio in quanto Dio.
            La preghiera di lode si apprende soprattutto dai Salmi. Il Salmo 8 è una preghiera di lode allo stato puro. Analizzando il testo, ci rendiamo conto che la lode non è motivata da un’opera o da un beneficio che Dio ha personalmente procurato all’orante; il Salmo 8 esprime infatti uno stato d’animo rapito nella visione della bellezza e della grandezza di Dio. Un altro esempio chiaro di preghiera di lode è il Salmo 19(18), dove di nuovo l’unico motivo che spinge alla preghiera è la grandezza e la magnificenza di Dio.

A questo proposito si può vedere anche il Salmo 34(33), il Salmo 46(45), il Salmo 47(46), il Salmo 48(47), il Salmo 62(61), il Salmo 63(62), il Salmo 84(83), il Salmo 91(90), il Salmo 92(91), il Salmo 93(92), il Salmo 100(99), il Salmo 103(102), il Salmo 104(103), il Salmo 135(134), il Salmo 145(144), il Salmo 146(145), il Salmo 147(146-147), il Salmo 148, il Salmo 148 e il Salmo 150.


      3.5 La preghiera di ringraziamento

E’ una preghiera che nasce dalla capacità di vedere l’opera di Dio nella nostra vita, e perciò è in un certo senso il risultato di una guarigione. Infatti, la preghiera di ringraziamento non è quella preghiera che si fa quando, una volta ogni tanto, ci si riconosce liberati da qualche grave malanno, ma è la preghiera che si fa quando i nostri occhi si aprono al mistero della Presenza di Dio nel mondo, nella creazione, nell’itinerario della nostra crescita umana e della nostra esperienza personale. Allora nasce il ringraziamento, ma nasce al contempo anche la lode. Chi non sente il bisogno di ringraziare Dio non deve pensare che ciò provenga dal fatto di vivere una vita serena e tutto sommato non bisognosa di miracoli, ma deve pensare, più verosimilmente, che non ha ancora aperto gli occhi sull’insonnia di Dio verso le sue creature.
Nel libro dei Salmi troviamo alcune preghiere di ringraziamento che possono essere utili a meglio illustrarci i contenuti e la struttura del ringraziamento: Salmo 18(17), Salmo 30(29), Salmo 40(39), Salmo 65(64), Salmo 66(65), Salmo 107(106), Salmo 116(114-115), Salmo 118(117), Salmo 124(123), Salmo 138(137).

      3.6 La preghiera penitenziale

E’ la preghiera del “tempo della caduta”. La richiesta di perdono non è limitata al momento sacramentale, ma è una preghiera personale e indipendente del battezzato. La formula tradizionale della preghiera della sera, conteneva, tra le altre cose, la richiesta di perdono del male commesso durante la giornata. La celebrazione eucaristica prevede all’inizio un rito penitenziale per preparare l’assemblea, mediante la richiesta di perdono. Non ha dunque nessun senso il ragionamento di chi dice: “Prima di fare la comunione mi dico un atto di dolore”. La Chiesa lo prevede già in forma comunitaria sotto la presidenza del celebrante.
Nella Bibbia le preghiere penitenziali si trovano soprattutto nel libro dei Salmi e nella letteratura profetica.


Una preghiera penitenziale completa è quella riportata nel libro di Daniele al capitolo 3, versetti 25-45. Essa esprime la struttura completa di una preghiera penitenziale: l’inizio è la lode (vv. 26-28), poi la memoria e la confessione del peccato (vv. 29-32), poi il dispiacere di avere peccato provocando tante rovine intorno a sé (vv. 33-38), poi la richiesta di perdono (vv. 39-40), poi il proposito di cambiare stile di vita (vv. 41-43).
Alcune preghiere penitenziali del libro dei Salmi: Salmo 32(31), Salmo 38(37), Salmo 51(50), Salmo 79(78), Salmo 106(105), Salmo 130(129).


4. I tempi della preghiera

La preghiera può essere fatta a qualunque ora del giorno e della notte, e non vi sono particolari restrizioni in proposito; tuttavia, dall’insegnamento biblico si ricava una scansione di tempo per la quale vi sono determinate ore che la Bibbia considera tradizionalmente come ore di preghiera. La Chiesa ha ben appreso questa lezione e ha distribuito la preghiera dei Salmi, che è la sua preghiera ufficiale, in quelle determinate ore. Il libro della liturgia delle ore è il risultato di questo insegnamento. Sarà opportuno ripercorre i luoghi biblici più importanti a riguardo. Possiamo però anticipare, dicendo che i tempi della preghiera cristiana sono: il mattino, la sera, la notte e le ore cosiddette terza, sesta e nona.
            La giornata del cristiano si apre con la preghiera: la vita quotidiana viene così offerta e consacrata a Dio; il lavoro e la fatica vengono presentati sull’altare del proprio cuore fin dal mattino come un sacrificio gradito a Dio. Per il cristiano non c’è nulla di profano e le opere quotidiane non si esauriscono nella loro causa contingente, ma acquistano un valore anche davanti a Dio, oltre che davanti agli uomini per i quali esse vengono compiute. Ciò che valorizza le opere della giornata in una dimensione soprannaturale è appunto la preghiera del mattino con la quale si chiede a Dio di illuminare e fecondare la fatica del giorno. La preghiera del mattino è esplicitamente richiesta dalla Bibbia: “Fin dal mattino ti invoco e sto in attesa” (Sal 5,4); “Al risveglio mi sazierò della tua presenza” (Sal 17,15); “Al mattino giunge a te la mia preghiera” (Sal 88,14); “Saziaci al mattino con la tua grazia” (Sal 90,14). La liturgia delle ore risponde a questa esigenza con la preghiera delle Lodi mattutine.
           
La sera, ossia a conclusione della giornata lavorativa, la Bibbia suggerisce al cristiano di mettersi ancora una volta alla presenza di Dio per ringraziarlo della giornata trascorsa e chiedergli perdono delle eventuali mancanze o omissioni. Anche la preghiera della sera è esplicitamente richiesta: “Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (Sal 141,2); “All’offerta della sera… sono caduto in ginocchio e ho steso le mani al mio Signore” (Esd 9,5). Questa orazione legata all’offerta della sera è rappresentata, nella vita della Chiesa, dalla preghiera del Vespro, che appunto si recita al tramonto, ovvero alla fine della giornata lavorativa.
            La Bibbia conosce anche delle ore minori, ossia delle interruzioni brevi del lavoro quotidiano che si hanno nelle tradizionali ore di terza (09,00), sesta (12,00) e nona (15,00). Gli Apostoli solevano pregare in queste ore: “Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio” (At 3,1), ossia all’ora nona. In At 10, Pietro è descritto nell’atto di salire sulla terrazza della casa che lo ospita, per pregare verso mezzogiorno (v. 9), e sarebbe questa la preghiera dell’ora sesta. Ancora il libro degli Atti descrive la comunità cristiana radunata in preghiera con Maria (cfr. 1,14) e all’ora terza, cioè verso le nove del mattino, la Chiesa viene battezzata nello Spirito a Pentecoste (cfr. 2,15). La preghiera dell’ora terza è quindi particolarmente importante in quanto ricorda l’effusione dello Spirito sulla prima comunità.
            Queste tre ore di preghiera previste dalla liturgia delle ore hanno anche un riferimento cristologico: le nove del mattino è l’ora della crocifissione: “Erano le nove del mattino quando lo crocifissero” (Mc 15,25). L’ora sesta è l’ora dell’eclisse che accompagna l’agonia di Gesù: “Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio” (Mc 15,33). Infine, l’ora nona segna la morte fisica di Cristo (cfr. Mc 15,34).
            Accanto a queste ore di preghiera diurna, la tradizione cristiana conosce anche la preghiera notturna, ma preferiamo rimandare l’argomento e parlarne nel contesto dell’insegnamento di Gesù sulla preghiera, insegnamento nel quale la preghiera notturna ha un notevole rilievo.
            Tra i tempi idonei alla preghiera cristiana non si può sorvolare il giorno che i cristiani, fin dalla prima generazione, dedicano alla celebrazione della Risurrezione del Signore: la Domenica. Per i cristiani i giorni non sono tutti uguali. Il giorno del Signore è diverso dagli altri. In esso si mettono da parte le fatiche e le preoccupazioni dei giorni feriali: ci si comporta da uomini liberi, affrancati dagli obblighi del lavoro servile.


Ciò è chiaro fin dalla Legge mosaica: “Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore… non fare lavoro alcuno” (Dt 5,13-14). Si tratta di un giorno destinato a Dio, un giorno in cui l’uomo è sollevato dai pesi della sua fatica quotidiana: “Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là” (Dt 5,15). Il giorno del Signore intende insomma celebrare la liberazione del popolo che dalla condizione di schiavitù è stato condotto verso una nuova dignità di nazione sovrana.
Nella pasqua cristiana, però, il giorno del Signore non è più il sabato ma è la domenica. E la memoria che si celebra non è più quella della liberazione dall’Egitto ma quella della liberazione dal peccato e dalla morte. Questa celebrazione non poteva più avvenire di sabato, per il semplice fatto che Cristo è risorto all’alba della domenica. La celebrazione eucaristica intende rivivere la pasqua di Cristo, e perciò la domenica è il giorno più adeguato. Del resto, Cristo stesso ha orientato la comunità cristiana verso la domenica, quando è apparso più volte ai discepoli “il primo giorno dopo il sabato” (Gv  20,1.19.26). Il veggente dell’Apocalisse, riceve l’ultima rivelazione del NT “nel giorno del Signore” (Ap 1,10).
            La domenica è il giorno in cui il Risorto si rivolge alla sua Chiesa radunata e la nutre con la Parola e l’Eucaristia. A questo proposito sentiamo il bisogno di fare alcune importanti precisazioni: la celebrazione eucaristica è innanzitutto composta da due momenti, la celebrazione della Parola e la celebrazione della Eucaristia. Molti ancora oggi ritengono che la Messa sia composta dalla celebrazione della Eucaristia con una introduzione di qualche lettura biblica. Questa concezione è falsa. La conseguenza è che costoro non prendono nulla della Parola annunciata e rimangono ignoranti nella dottrina cristiana. Poi si fanno la comunione e si ritengono falsamente a posto con Dio. Questi battezzati sono soliti confessarsi di non essere andati a Messa una domenica, mentre dovrebbero confessarsi di esserci andati sempre con una disposizione d’animo fondamentalmente scorretta. Questo è il vero peccato di cui dovrebbero confessarsi. Il battezzato la domenica deve fare due comunioni: la Parola e l’Eucaristia. La seconda senza la prima non può nutrire la fede, perché la fede si nutre della dottrina. Il sacramento dell’Eucaristia corrobora il cammino di fede, ma il cammino di fede a sua volta prende l’avvio dalla Parola.

5. I luoghi della preghiera

Nell’AT e nella tradizione ebraica i luoghi della preghiera erano ben determinati, secondo le diverse epoche. Nel periodo patriarcale bastava una teofania, ossia una qualche manifestazione di Dio a uno dei patriarchi, per costituire un luogo sacro. Possiamo ricordare il famoso sogno di Giacobbe, nel quale egli vide una scala che collegava cielo e terra, mentre gli angeli vi salivano e scendevano (cfr. Gen 28,10ss). Al mattino Giacobbe comprende di avere avuto una rivelazione durante la notte e erige una stele, rinominando il luogo simbolicamente col nome di Betel, cioè “casa di Dio”. Così quel luogo diventa un santuario per lui e per i suoi discendenti. Fino alla nascita della monarchia esistono diversi santuari periferici, finché con la costruzione e la consacrazione del Tempio di Gerusalemme, viene considerato legittimo solo il culto celebrato lì. Vi sono poi altre vicissitudini storiche, ma non è opportuno trattarne in questa sede. A noi interessa giungere al NT e all’esperienza cristiana, per sapere se il luogo ha o no un influsso determinante sulla preghiera. In generale dobbiamo dire che la comunità cristiana non ha luoghi obbligatori per la preghiera personale o comunitaria. L’Apostolo Pietro prega indifferentemente nel Tempio o sul terrazzo di una casa, come abbiamo già visto; questo significa che il cristiano può ritenersi libero da un qualsivoglia legame locale o geografico. Il cristiano può pregare là dove si trova. Infatti, il Tempio in cui il cristiano prega è Cristo stesso. Il battesimo ci inserisce nel Corpo di Cristo come in un Tempio, in cui la preghiera arriva al Padre anche se pronunciata nel profondo di una selva. L’insegnamento del Vangelo di Giovanni è chiaro su questo punto: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Ma egli parlava del Tempio del suo Corpo” (Gv 2,19.21). Da questo momento, dunque, il Tempio è il Corpo di Cristo, ossia la comunità cristiana: “Non sapete che siete Tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16). Se allora si edificano luoghi sacri per il culto cristiano ciò non è per indicare l’esclusività della celebrazione in un determinato luogo, ma solo in ragione della praticità e in vista di un culto ordinato e stabile.
            Qualcosa di simile avviene quando in seguito a un’apparizione della Madonna un certo luogo acquista un particolare significato religioso. Si tratta di un “particolare significato religioso”, ossia di un luogo che Dio ha dato al popolo cristiano come luogo dell’appuntamento, come polo di attrazione per la nostra sensibilità umana sempre bisognosa di segni, ma non come luogo esclusivo per incontrare la salvezza.

6. La posizione del corpo

Dobbiamo interrogare la Bibbia per sapere se anche la tradizione ebraico-cristiana prevede per la preghiera determinati gesti o atteggiamenti del corpo. Dobbiamo subito rispondere di sì, ma dobbiamo precisare che vale anche in questo ambito quel che abbiamo detto a proposito dei luoghi della preghiera: non c’è nulla di assoluto o di obbligante; la posizione del corpo, come pure il luogo, ha senso in quanto favorisce la preghiera e la rende ordinata e non confusa. Interroghiamo però la Bibbia circa la posizione del corpo dell’orante.
            Il Vangelo riporta la consuetudine dei farisei di pregare in piedi: “Amano pregare stando ritti nella sinagoga” (Mt 6,5); ma in generale la tradizione dell’AT conosce un modo di pregare in piedi: “Salomone si mise in piedi e benedisse tutta l’assemblea” (1 Re 8,55); durante la cerimonia di dedicazione del Tempio l’assemblea partecipa pregando in piedi (cfr. 2 Cr 7,6). In prossimità di una guerra santa “i leviti si alzarono a lodare il Signore” (2 Cr 20,19). Anche il nostro cerimoniale liturgico prevede che in alcune parti della Messa l’assemblea stia in piedi.
            Un altro atteggiamento che dalla tradizione ebraica è passato in quella cristiana è la consuetudine di inginocchiarsi per pregare: “Giosafat si inginocchiò… e gli abitanti di Gerusalemme si prostrarono davanti a Signore” (2 Cr 20,18). Quando Mosè ritorna in Egitto, dopo l’incontro con Dio nel roveto ardente, si fa incontro agli israeliti radunandoli, e questi, avendo udito le parole che Dio aveva detto a Mosè, si inginocchiano (cfr. 4,31). Durante la dedicazione del Tempio, Salomone rimane per un certo tempo inginocchiato davanti all’altare (cfr. 1 Re 8,54). Il testo più esplicito che fonda teologicamente questo atteggiamento di pregare in ginocchio è comunque Is 45,23: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio”. Anche gli Apostoli sogliono pregare in ginocchio: quando i fratelli della comunità portano Pietro a visitare il cadavere di Tabità, “Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse: Tabità, alzati!”. Ed essa aprì gli occhi” (At 9,40). L’Apostolo Paolo prega inginocchiato prima di partire per Gerusalemme dove sarebbe stato arrestato; così prima di lasciare Efeso “si inginocchiò con tutti loro e pregò” (At 20,36), come pure sulla costa di Tiro “accompagnati da tutti loro con mogli e figli, inginocchiati sulla spiaggia pregammo, poi ci salutammo a vicenda” (At 21,5).
           
Un altro atteggiamento ricorrente nella preghiera biblica è la prostrazione. Questa posizione per la preghiera si riscontra sovente nei patriarchi, ma anche in epoca monarchica: “Allora Abramo disse: andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi” (Gen 22,5); anche Mosè prega in questa posizione: il Signore scese nella nube presso di lui, allora “Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò” (Es 34,8). Anche di Davide si dice che “andò alla casa del Signore e vi si prostrò” (2 Sam 12,20). Questa posizione per la preghiera è inoltre esplicitamente richiesta dal Sal 29,2: “Prostratevi al Signore in santi ornamenti”, come pure da Is 66,23: “Verrà ognuno a prostrarsi davanti a me, dice il Signore”. La prostrazione è perfino descritta dall’Apocalisse nel culto celeste: “i 24 vegliardi si prostrarono” (Ap 4,10).
            Infine occorre aggiungere qualche parola sui gesti delle braccia: la preghiera biblica prevede anche le braccia alzate. Questo atteggiamento si riscontra nella preghiera di Mosè: “Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte” (Es 17,11). Le sorti della battaglia vengono stranamente determinate non dalle armi ma dalla intercessione di Mosè. Anche Salomone è descritto nell’atto di alzare le braccia per pregare: “Salomone stese le mani verso il cielo” (1 Re 8,22). In Ne 8,6 tutto il popolo prega a mani alzate, rispondendo Amen. I Salmi indicano ripetutamente questo gesto per l’orante: “Alzo le mie mani verso il tuo santo tempio” (Sal 28,2); “nel tuo nome alzerò le mie mani” (Sal 63,5). Anche il NT prevede questo gesto per la preghiera cristiana: “Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese” (1 Tm 2,8).
            La consuetudine comune ha recepito questo gesto quasi esclusivamente per la preghiera del Padre Nostro, ma potrebbe estendersi anche alle altre forme preghiera.
           


7. L’insegnamento di Gesù sulla preghiera

Qui tocchiamo un punto nevralgico dell’insegnamento sulla preghiera cristiana: la preghiera di Cristo è il vertice della preghiera biblica. Nei giorni della sua vita terrena, Cristo prega, sente cioè la necessità di un contatto intimo e frequente col Padre, e insegna a pregare anche ai suoi discepoli. Sarà opportuno analizzare tanto la preghiera di Gesù quanto il suo insegnamento sulla preghiera.

7.1 La preghiera di Gesù

            Sarà in primo luogo opportuno chiederci “come” Cristo ha pregato nella sua vita da uomo. Uno sguardo generale ai cenni evangelici sulla preghiera di Gesù ci permette di dire che Lui ha pregato frequentemente ritirandosi in luoghi deserti, preferibilmente la notte o prima dell’alba. Questa preghiera di Gesù scandisce la sua attività di evangelizzazione e non sembra avere scopi pratici aldilà di un ristoro del suo cuore nell’intimità con il Padre. Notiamo anche l’assenza di preghiera in occasione dei miracoli: Gesù non prega prima di operare il miracolo, tranne in due casi, la moltiplicazione dei pani e la risurrezione di Lazzaro. Oltre alla preghiera ordinaria che scandisce il ritmo delle sue attività apostoliche, vi è una preghiera circostanziale, ossia una preghiera dettata dal momento particolare che Cristo si trova a vivere; vediamo così Cristo in orazione prima di prendere le decisioni più importanti, come la scelta dei Dodici; oppure in momenti cardine del suo ministero, come il battesimo e la trasfigurazione (secondo Luca); quando gli Apostoli stanno per essere vagliati dalla bufera della Passione, Cristo prega in particolare per Pietro (cfr. Lc 22,31-34); infine Cristo prega per ottenere dal Padre la forza di affrontare il tempo della prova e di essere in grado di affrontare la morte.
            Si può dire inoltre che Cristo ha praticato le forme più importanti di preghiera note all’AT: la preghiera di lode, di intercessione, di richiesta di perdono (anche se mai per Se Stesso), di domanda.

                 I caratteri della preghiera di Gesù
La prima cosa che ci viene di notare in riferimento alla preghiera di Gesù è il suo pieno inserimento nell’esperienza religiosa di Israele. Cristo si reca di sabato nella sinagoga e lì prega insieme alla comunità ebraica: “Si recò a Nazaret ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga” (Lc 4,16). E ancora: “Gesù insegnava nelle loro sinagoghe” (Mt 4,23). La sinagoga e la preghiera comunitaria rappresentano quindi la prima tappa della manifestazione pubblica di Cristo. La comunità che si raduna in preghiera è sempre il primo e necessario riferimento del singolo credente, il quale impara a pregare dalla comunità che prega.
            Più volte il Vangelo fa riferimento al fatto che Gesù soleva ritirarsi in luoghi solitari a pregare (Mt 14,13; Mc 1,35), ma non ci dice mai in cosa consistesse questa preghiera solitaria né quali contenuti avesse.



I discepoli hanno infatti desiderato sapere come Cristo pregasse, quindi hanno intuito nella preghiera di Cristo qualcosa di nuovo e di diverso da quel che tradizione ebraica aveva loro comunicato; e gli hanno chiesto esplicitamente di insegnare loro a pregare come pregava Lui. Sarà appunto questo l’argomento del successivo paragrafo. L’unico punto in cui potrebbe venire alla luce quel che la preghiera solitaria di Cristo poteva essere, è il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, dove viene portata la lunga preghiera di Gesù che affida alla custodia del Padre gli Apostoli e la Chiesa futura. Si tratta di una preghiera piena di confidenza filiale, ma anche piena di una divina consapevolezza, per la quale Cristo può dire perfino, rivolgendosi al Padre: “Voglio che anche quelli che mi hai dato siano con Me” (Gv 17,24). La preghiera di Gesù conosce dunque sia l’adesione piena del Figlio al volere del Padre, sia la coscienza lucida dell’uguaglianza nella natura divina e nell’unica maestà, identica per il Padre e per il Figlio.
            Cristo non mette sullo stesso piano la preghiera e l’attività apostolica, né si ritira a pregare solo quando non ha nulla da fare. Al contrario, Egli si ritira a pregare anche quando le folle lo cercano per ascoltare la sua Parola e ricevere al guarigione: “Folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc 5,15-16). Neppure l’incalzare della piena dei bisogni umani lo ferma dalla ricerca della solitudine e della intimità col Padre. Significa che la preghiera deve avere la priorità assoluta su ogni attività. Mentre lo cercano, Egli si ritira in luoghi solitari. Non sempre ci riesce, perché talvolta la folla intuisce dove sta per andare e lo precede. Qui Cristo si commuove e apre a chi lo cerca i tesori del suo Cuore (cfr. Mc 6,30-34). La notte è perciò l’unico tempo di preghiera che Lui riesce a ricavarsi senza interruzioni.
I momenti più importanti e più determinanti dell’attività apostolica di Gesù sono scanditi dalla preghiera. Il Vangelo di Luca sottolinea la preghiera di Gesù nel battesimo e nella trasfigurazione, due grandi momenti teofanici che Cristo vive immerso nella preghiera e astratto dal mondo (cfr. Lc 3,21 e 9,28-29). Certe esperienze forti, insomma – quei momenti di incontro con Dio che sono orientati alla nostra crescita -, non possono essere vissute dal cristiano con l’animo distratto o svagato, o assente. Cristo stesso si è concentrato e ha messo in fuga distrazioni e superficialità nel giorno del suo battesimo e della sua trasfigurazione, quando il Padre lo ha accreditato dinanzi agli uomini come testimone verace.
           
Un altro momento cardine del ministero pubblico di Cristo è la scelta dei Dodici. Anche in questa circostanza Egli ha voluto sprofondarsi nella preghiera prima di prendere una decisione così importante e determinante per la vita della Chiesa: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a Sé i suoi discepoli e ne scelse dodici” (Lc 6,12-13). Non c’è dubbio che il cristiano debba sentirsi interpellato dinanzi a questo quadro: le svolte della vita, le grandi decisioni e le scelte definitive non possono essere prese nel rumore e nel trambusto della vita quotidiana, né possono prescindere da una consultazione del Signore nel silenzio e nella preghiera prolungata.
            Come già dicevamo, nella preghiera personale di Gesù troviamo sia la preghiera di lode che quella di intercessione. La sua preghiera di lode è riportata in Lc 10,21: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode Padre… che hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. La preghiera di lode di Gesù non è di origine cerebrale, intellettuale, ma non è neppure frutto di un moto sentimentale: si tratta di una esultanza nello Spirito Santo. Può giungere alla preghiera di lode solo chi giunge a provare la gioia dello Spirito, ossia a percepire intimamente che ciò che Dio comanda e vuole è qualcosa di meraviglioso che riempie di stupore; chi pensa che il Vangelo contiene una serie di idee belle e buone non è ancora arrivato a scoprire questa esultanza; essa non si prova dinanzi alle cose belle e buone, ma solo dinanzi alle cose divine. Chi arriva a sentire dentro di sé che il Vangelo è divino, che il modo di essere uomo personificato da Cristo è divino, che la Parola che risuona nella Chiesa non è solo “moralmente buona” ma è divina, allora costui può giungere alla preghiera di lode, che esprime l’esultanza dell’animo riempito di stupore dinanzi alla bellezza divina del Cristo.
            La preghiera di intercessione di Gesù è riportata da Lc 22,31: “Simone, Simone, satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede”. Poco prima di essere arrestato, Gesù prepara l’Apostolo Pietro non solo avvertendolo della bufera che sta per scatenarsi, ma soprattutto pregando per lui così che la sua fede non venga annullata dalla persecuzione. Sarà infatti Pietro il punto di riferimento della comunità postpasquale e il kerygma cristiano comincerà proprio con lui nel giorno di Pentecoste (cfr. At 2).

L’altra grande preghiera di intercessione è quella riportata da Gv 17, dove Gesù, prima di essere arrestato, prega per la Chiesa che nascerà dalla predicazione apostolica e chiede al Padre di conservarla nell’unità della Trinità.

            Tra il Getsemani e il Golgota
La preghiera di Gesù raggiunge il vertice nel momento più delicato e drammatico della sua vita terrena: le ore oscure della Passione. Qui Gesù prega per ottenere dal Padre la forza di attraversare quel mare di odio che stava per riversarglisi addosso. Il messaggio è abbastanza chiaro anche per il cristiano: se è importante la preghiera nelle svolte e nelle grandi decisioni della vita, lo è soprattutto nella svolta più grande che è rappresentata dall’esperienza del dolore e dalla prossimità della morte. Cristo prega non solo in prossimità della morte, ma anche nelle ore lunghe dell’agonia, prima di perdere conoscenza.
            Nel Getsemani, Gesù vuole la compagnia di tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. A loro chiede un particolare tipo di preghiera, che consiste semplicemente nel rimanere accanto a Lui: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con Me” (Mt 26,38). Cristo non chiede loro particolari formule da recitare, non chiede la proclamazione di qualche Salmo, ma semplicemente di restare con Lui. Restare e vegliare, ossia offrirgli una presenza non distratta ma attenta, concentrata sulla sua divina Persona. E’ in sostanza la preghiera di semplice sguardo che si fa davanti all’Eucaristia; una preghiera senza parole, ma carica di attenzione, dove la tensione del cuore è tutta nello sguardo.
La preghiera di Gesù nel Getsemani è una preghiera essenziale, fatta di poche parole: “Se è possibile passi da Me questo calice! Però non come voglio Io, ma come vuoi Tu” (Mt 26,39). Queste stesse parole Gesù le ripete più volte (cfr. Mt 26,44); è quindi possibile che, in momenti particolarmente intensi, la preghiera del cristiano si componga anche di poche e brevi frasi, ripetute più volte. Come vedremo, Gesù mette esplicitamente in guardia i suoi discepoli dalla pratica di una preghiera parolaia, che non giunge di fatto al cuore di Dio. Serve solo a ingolfare la vita interiore del discepolo con le molte parole e i ragionamenti non necessari.
            Gesù prega soprattutto mentre sulla croce sente che la vita a poco a poco gli sfugge. La sua preghiera è una preghiera di richiesta di perdono per tutti coloro che lo hanno colpito: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Ma è anche una preghiera di infinita fiducia in Colui che lo ha abbandonato (cfr. Mc 15,34) nelle mani dei nemici: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Anche qui c’è un intero programma per il cristiano, che non può giungere impreparato alla morte, né farne l’esperienza senza immedesimarsi profondamente nel mistero della croce. E ciò non può avvenire se non nella preghiera.

7.2 La preghiera insegnata da Gesù

Oltre alla preghiera personalmente fatta da Gesù nei giorni della sua vita terrena, c’è anche un insegnamento esplicito, sollecitato dai suoi discepoli: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: insegnaci a pregare” (Lc 11,1). L’insegnamento di Gesù sulla preghiera è riportato in diversi brani. Cominciamo col Vangelo di Matteo 6,5-15 e 7,7-11.
            Il contesto prossimo ci conduce direttamente alla preghiera del cuore: è infatti tolta di mezzo ogni forma di preghiera che si esaurisca nel pronunciamento meccanico di determinate formule: “Quando preghi, entra nella tua camera…” (6,5). La propria “camera” è indubbiamente un’immagine finalizzata a un insegnamento, visto che la preghiera comunitaria e liturgica è sempre stata, fin dalla prima generazione cristiana, un elemento portante della vita della Chiesa. In sostanza, non si tratta di un invito di carattere privato e intimistico, quanto piuttosto di una qualità dell’incontro con Dio. La “camera” indica il dialogo del cristiano con il Padre, incontrato nella profondità della propria coscienza. La stessa preghiera comunitaria e liturgica si svuota completamente, e diventa pura esteriorità, quando i membri dell’assemblea, ciascuno per la propria parte, non hanno incontrato il Padre nelle profondità del proprio animo. Ancora peggio è quando la preghiera è fatta visibilmente, per dare un “tocco di classe” alla propria rispettabilità sociale (cfr. 6,5). Al giorno d’oggi, perfino i maghi ricorrono a questo stratagemma, circondandosi di crocifissi e di immagini sacre, per far credere alla gente che i loro “poteri” vengono da Dio. Perciò il discepolo non deve mai lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze, perché Satana si traveste solitamente da angelo di luce (cfr. 2 Cor 11,14).
L’insegnamento centrale sulla preghiera è però rappresentato dal Padre Nostro, che non si presenta come una “formula” di preghiera, bensì come un archetipo su cui modellare la preghiera cristiana. Il medesimo insegnamento è riportato nel Vangelo di Luca, dove la parabola dell’amico importuno è introdotta dalla preghiera del Padre Nostro, che Luca riporta in una maniera più breve di quella di Matteo (cfr Lc 11,1-4).

La diversità delle due redazioni di questa preghiera, dimostra che non si tratta di una “formula” ma, come abbiamo detto, di un modello di preghiera. Se si fosse trattato di una formula, sarebbe stata registrata parola per parola, tanto più che questa è l’unica preghiera insegnata direttamente dal Signore.
            Da questo modello risulta:
1.      La nostra preghiera è rivolta più alla Paternità di Dio che alla sua onnipotenza: “Quando pregate, dite: Padre...” (6,9).
2.      Non è giusto pregare per le proprie necessità umane, senza cercare prima la gloria di Dio: cfr vv. 9-10
3.      Non è autentica la preghiera di chi non è uomo di pace (cfr. v. 12)

L’insegnamento di Gesù addita ai discepoli anche una preghiera ininterrotta. Uno dei discepoli, avendo notato che Gesù si ritirava spesso in solitudine a pregare, gli disse: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). La preghiera è uno dei temi che l’evangelista Luca più ama sottolineare. Soprattutto è messa in evidenza la preghiera di Gesù nelle scelte più difficili (cfr Lc 6,12) o nei momenti più cruciali del suo ministero (cfr Lc 3,21 e 9,28). Queste due parabole si riferiscono alla preghiera dei cristiani, i quali a maggior ragione devono affidarsi a Dio nella preghiera, se Cristo non ha pensato di poterne fare a meno. Il Gesù storico si presenta allora anche come Maestro di preghiera. Queste due parabole non esauriscono l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, ma ne sono soltanto una introduzione.

            Occorre pregare senza stancarsi
Prima di narrare la parabola del giudice iniquo, Luca ci fa sapere perché Cristo l’ha inserita nel proprio insegnamento: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1).
            La preghiera cristiana, secondo questo insegnamento, ha insomma bisogno di due principali caratteristiche: essere ininterrotta; non essere soggetta alla stanchezza.

Ma quale stanchezza?
Cominciamo col secondo elemento: “pregare senza stancarsi”. Di che stanchezza si tratta? Certo, la preghiera esige concentrazione, lotta contro le distrazioni, in certo qual modo un affaticamento mentale. E’ questa la stanchezza di cui parla Gesù? Non ci sembra proprio. Non è in questione la stanchezza fisica o quella psicologica. Infatti, quando uno è stanco fisicamente o mentalmente, il suggerimento di Cristo è prima di tutto il riposo: cfr. Mc 6,31 e Mt 9,36.
            Inoltre, se è una stanchezza di cui si può dire “non stancarti”, allora è di diversa natura da quella fisico-psichica. L’unica stanchezza di cui si può dire “non ti stancare” è infatti quella stanchezza che risulta dall’affievolimento della fede. La stanchezza che non dobbiamo avere è quella del dubbio, del cedimento interiore della certezza dell’aiuto di Dio. In tal modo la preghiera sarebbe indebolita in partenza e sterilizzata alla radice. Ecco perché se la preghiera vuole essere efficace non può e non deve essere soggetta alla “stanchezza” della fede.

            E’ possibile pregare ininterrottamente?
Più difficile a capirsi (oltre che a farsi) ci sembra quest’altra esigenza della preghiera cristiana. Pregare ininterrottamente! Ma come si fa con tutti gli impegni che ci sommergono appena ci alziamo dal letto?
            Per capire cosa sia la “preghiera continua” occorre ampliare la prospettiva sull’intera rivelazione biblica, dal momento che la preghiera ininterrotta è richiesta anche ai Patriarchi, e precisamente ad Abramo. Ci riferiamo al brano di Gen 17,1, dove incontriamo il primo insegnamento biblico sulla preghiera ininterrotta: “Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a Me e sii integro”. Da qui comprendiamo una cosa essenziale: la preghiera non consiste nel parlare con Dio, ma nel vivere ogni istante della vita quotidiana alla sua Presenza. Questo insegnamento ritorna chiaramente nel racconto della Passione; nell’orto degli Ulivi, Gesù dice ai suoi discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc 14,34). Gesù non chiede che i discepoli si mettano lì a conversare con Lui, ma chiede solo la loro presenza. Pregare significa infatti essere presenti a Colui che è Presente. In definitiva, pregare è amare. E non si ama con le parole. Nell’amore le parole esprimono “una disposizione di dono” della persona; ma talvolta può esserci la “disposizione di dono” senza le parole. Come nella vita di coppia, non sempre si parla, ma ciò che conta è la disposizione personale del reciproco dono.
           
Chi giunge a vivere la propria giornata “alla presenza di Dio”, si può dire che ha attuato l’insegnamento evangelico della preghiera continua, ripreso anche dall’Apostolo Paolo: cfr. Ef 6,18 e 1 Ts 5,17, ma anche nell’intendere il vivere cristiano, cioè la quotidianità, e non solo la preghiera liturgica, come un culto spirituale reso a Dio (cfr. Rm 12,1-2).


            “Quale padre darà una pietra al figlio che gli chiede un pane?” (cfr Lc 11,9-13)
Prima di parlare della preghiera, Cristo tiene a precisare chi è Colui a cui la nostra preghiera si rivolge. Al discepolo che gli chiede “insegnaci a pregare”, Gesù risponde: “Quando pregate, dite: Padre...” (11,2). Il tema della paternità di Dio è poi ripreso dopo la parabola dell’amico importuno: un uomo può anche soccorrere un amico solo per la sua insistenza, ma un padre non ha bisogno dell’insistenza dei figli, per beneficarli, perché li ama. Anche un uomo malvagio può fare del bene solo per essere lasciato in pace (Lc 18,4-5), ma al proprio figlio non darà un sasso se gli chiede del pane (11,13). Nella stessa maniera il Padre celeste dà il necessario all’uomo, ma soprattutto gli dà il regalo che in senso assoluto è necessario: lo Spirito Santo (v. 13). Ma è proprio su questo terreno che si gioca l’autenticità della preghiera cristiana. Cfr. anche 1 Re 3,5-15.
            Un altro elemento di estrema importanza nell’insegnamento di Gesù è la fede che deve accompagnare la preghiera. La mancanza di fede o il tarlo del dubbio rischiano di vanificare l’efficacia della preghiera cristiana: “Se avrete fede e non dubiterete… direte a questo monte levati di lì e gettati nel mare, e ciò avverrà. Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Mt 21,21-22). E il passo parallelo di Marco: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,22.24). In altre parole, la mancanza di fede, che poi altro non è se non sfiducia in Dio, o mancanza di aspettative, come se Dio non fosse abbastanza buono o abbastanza potente da soccorrerci nelle nostre necessità, la mancanza di fede, insomma, sterilizza la preghiera che così rischia di ridursi a una vuota recitazione di formule.