Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)


Pensieri nella solitudine
Thomas Merton
Nota dell’autore
Coloro che sono stati abbastanza indulgenti da trovare in Semi di contemplazione
e in Nessun uomo é un’isola qualche cosa che li abbia interessati, riusciranno
forse a trarre un po’ di gioia da queste riflessioni, il merito delle quali, se si può
parlare di qualche valore, sta nell’enunciare qua e là alcune delle cose che
l’autore desiderava dire a se stesso e a coloro che si sentissero inclini a
condividere le sue idee. Ciò vale specialmente per la seconda parte, quella sull’
“Amore della solitudine”. Chi conosce le pagine entusiasmanti di Max Picard nel
Mondo del silenzio riconoscerà in parecchie di queste meditazioni l’ispirazione
del filosofo svizzero.
Prefazione
Le note racchiuse in queste pagine furono scritte nel 1953 e nel 1954, quando
l’autore, per grazia di Dio e benevolenza dei Superiori, poté usufruire di
opportunità speciali per darsi alla solitudine e alla meditazione. Di qui il titolo. Ma
ciò non implica che queste note siano soggettive o autobiografiche, e non vanno
assolutamente intese come un racconto di avventure  spirituali. Per quel che
riguarda l’autore, non esiste alcuna avventura da descrivere, e se ve ne fosse
stata, non la si sarebbe in ogni caso affidata alla carta. Si tratta semplicemente di
pensieri sulla vita contemplativa, di intuizioni fondamentali che a quel tempo
sembravano avere una importanza basilare.
Ma si rende qui necessaria una precisazione. È naturalissimo che delle intuizioni
che all’autore sembrano delle più vitali non abbiano la medesima importanza per
coloro che non hanno lo stesso genere di vocazione. Perciò in questo senso il
libro è assolutamente personale.
Talvolta le affermazioni sono di indole piuttosto generale, talaltra sono fatte en
passant e rasentano i limiti del comune. Non si troverà mai che siano esoteriche,
ma soprattutto queste riflessioni sulla solitudine  dell’uomo di fronte a Dio, sul
dialogo con Dio nel silenzio e sulle relazioni che  intercorrono tra le solitudini
personali di ciascuno di noi, sono per l’autore essenziali, dato il suo particolare
genere di vita. Si può anche dire, tra parentesi, che il genere di vita da lui
prescelto non è necessariamente l’ideale dell’Ordine religioso al quale egli
appartiene. È, però, un ideale sostanzialmente monastico.
Non c’è bisogno di aggiungere che parecchia acqua è passata sotto il ponte
personale di chi scrive da quando ha raccolto queste note, e le linee di pensiero
che vi si trovano hanno proseguito negli anni successivi in direzioni varie ed
insospettate.
In un’età nella quale il totalitarismo ha tentato in ogni modo di svalutare e
degradare la persona umana, speriamo che sia giusto chiedere un po’ di
attenzione per tutte e ciascuna delle reazioni dettate dalla sana ragione in favore
della inalienabile solitudine dell’uomo e della sua libertà interiore. Non si può
permettere che il chiasso omicida del nostro materialismo faccia tacere le voci
libere che mai cesseranno dal parlare siano esse quelle dei santi cristiani, o dei
saggi di Oriente come Lao Tse o Zen Masters, o voci di uomini come Thoreau
o Martin Buber o Max Picard. Va benissimo che si insista sul fatto che l’uomo è un
“animale sociale” — ciò è abbastanza ovvio. Ma non vi è nessuna giustificazione
per farne un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria — sia pur religiosa.
In realtà la società dipende, nel suo esistere, dalla inviolabile solitudine
personale dei suoi membri. La società, per meritare questo nome, non deve
essere costituita di numeri o di unità meccaniche,  ma di persone. Essere una
persona implica responsabilità e libertà, e l’una e l’altra presuppongono una
certa solitudine interiore, un senso di integrità personale, un senso della propria
realtà e della capacità individuale di darsi alla società — o di rifiutare un tale
dono. Quando gli uomini sono completamente sommersi in una massa di esseri
umani senza personalità, sospinti qua e là da forze automatiche, perdono la loro
vera umanità, l’integrità, l’attitudine ad amare, la capacità di prendere delle
decisioni. Quando la società è costituita di uomini che non conoscono solitudine
interiore, non può più essere cementata dall’amore, ed è perciò tenuta insieme
da una autorità usurpatrice e violenta. Ma quando gli uomini vengono a viva
forza privati di quella solitudine e libertà che sono a essi dovute, la società nella
quale vivono imputridisce, marcisce nel servilismo, nel risentimento e nell’odio.
Nessuna misura di progresso tecnico basterà a sanare l’odio che rode, come
cancro spirituale, gli elementi vitali della società materialistica. L’unica cura
possibile è, e deve sempre essere, spirituale. Non si ricava gran frutto dal parlare
agli uomini di Dio e dell’amore se non sono capaci di ascoltare. Le orecchie con le
quali si ascolta il messaggio del Vangelo sono nascoste net cuore dell’uomo e non
sono capaci di udire nulla se non posseggono una certa solitudine e silenzio
interiore.
In altre parole, siccome la fede è questione di libertà e di capacità di
autodeterminazione — il libero accogliere un dono di grazia liberamente dato —
l’uomo non può dare il suo assenso a un messaggio spirituale finché ha cuore e
mente schiavi dell’automatismo. E resterà sempre in una tale schiavitù finché
sarà sommerso in una massa di altri automi, privi di individualità e di quella
integrità a cui hanno diritto come persone.
Ciò che qui si dice della solitudine non è propriamente una ricetta per eremiti. Ha
importanza per tutto il futuro dell’uomo e del suo  mondo, ma in particolare,
naturalmente, per il futuro della sua religione.


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