venerdì 15 settembre 2017

Il silenzio di Maria vertice dell’ascolto.

Il silenzio di Maria vertice dell’ascolto.


 Ci sono molti tipi di silenzio: vi è un silenzio esteriore e uno interiore, vi è un silenzio di stupore ed un silenzio di rabbia, vi è un silenzio annoiato ed un silenzio che sta in ascolto. Molte volte il silenzio è segno di assenza, di disinteresse, di morte ma, qui, vorrei parlare della pratica spirituale del silenzio, cioè vorrei parlare di quel silenzio che, perseguendo una maniera di comunicazione diversa da quella che si dà nella parola, si affida al silenzio. Grossomodo possiamo dire che, sotto questo profilo, vi sono due grandi maniere di intendere il silenzio: quella sapienziale e quella mistica. 1. Il silenzio sapienziale La prima è ampiamente testimoniata nelle scritture: è la prospettiva sapienziale, è quella prospettiva che percependo la grandezza potente e sconcertante di Dio zittisce. Vorrei richiamare due esempi. Prendo il primo dal testo di 1Re 19 che presenta Elia, un uomo impaurito dalle minacce di Gezabele, in marcia verso la montagna dove Israele aveva avuto la sua prima esperienza di Dio. Quel Dio che non è nel vento, nel terremoto e nel fuoco, si rivela in una qol demamá daqà, cioè letteralmente in una voce di silenzio sottile. La recente traduzione CEI – il sussurro di una brezza leggera – è forse migliore della precedente che parlava del mormorio ma né il sussurro né il mormorio riescono a rendere veramente l’ossimoro «voce di silenzio». Il senso è che Dio non può essere racchiuso in schemi umani né in quelli del grandioso e dello straordinario né in quelli della dolcezza: Dio è la voce del silenzio, quel silenzio che l’aggettivo “sottile” precisa come capace di insinuarsi nei cuori e nella mente delle persone. Prendo il secondo dal lavoro di A. Neher, L’esilio della Parola (Marietti, Casale Monferrato 1983) dove l’autore avvicina l’esperienza di Dio ad Auschwitz e si chiede dov’era Dio di fronte alle esperienze crudeli e terribili della Shoà. Di fronte ai drammi del male, Dio apparentemente tace, sta in disparte ed il suo silenzio si impone al credente chiamato ad un atteggiamento nuovo di preghiera, di testimonianza e di profezia. «Dio si è ritirato nel silenzio – scriverà – non per evitare l’uomo ma per incontrarlo»: in questa situazione, tocca all’uomo riprendere e riformulare le parole non-dette di Dio. Mi viene facile pensare al testo di Mt 14 dove la barca dei discepoli è agitata dal mare della paura e del dubbio mentre Gesù se ne sta solo sul monte a pregare. È da lì, da una condizione di silenzio e di preghiera che va incontro alla sua comunità; l’importanza di questo modo silenzioso ed orante di accostare le persone sarà ripreso anche da Mc 14 nel racconto del Getsemani. Il silenzio sapienziale è l’atteggiamento che la persona umana prende di fronte alla esperienza della presenza di Dio: ogni pretesa umana deve tacere per liberare così lo spazio di una purificazione, di una adesione a Dio. Basta richiamare i testi di Ab 2,20; Zac 2,17 per ricordare questo silenzio che si impone a tutta la terra e ad ogni mortale quando si pone 1 davanti al Signore. Questo silenzio sapienziale è il silenzio che si fa invocazione perché Dio parli ed attenzione al suo ascolto. Una simile visione, poiché rimanda ad una esperienza umana, si ritrova anche in molti saggi. Confucio ad esempio osserva: «il silenzio è un amico fedele che non tradisce mai» mentre Kahlil Gibran scrive che «soltanto avendo bevuto dal fiume del silenzio, tu potrai cantare». Del resto anche i nostri proverbi insegnano che «il silenzio è d’oro» mentre le scritture ricordano che «vi è un tempo per tacere ed un tempo per parlare» (Qo 3) tanto che «anche lo stolto, se tace, passa per saggio» (Pro 17). Nel suo lavoro Buddismo e Occidente (Jaca Book, Milano 1987, 255), H. de Lubac indicherà questo insieme di dati come una pars purificans che si può ritrovare anche in altre religioni; il silenzio sapienziale introduce a quello mistico. 2. Il silenzio mistico Il silenzio mistico non è oggetto delle scritture perché, nella sua sostanza, sta al di là delle parole ma è solo alluso. Possiamo cioè recuperarne il senso attraverso alcune parziali indicazioni: se ne trova l’eco nel rispetto chiesto a Mosé (Es 3) perché possa avvicinarsi al roveto ardente, nella purificazione delle labbra imposta ad Isaia (Is 6) perché possa annunciare degnamente la Parola o nelle esperienze di Paolo (1Cor 2) quando richiama ciò che mai occhio vide, né orecchio udì né mai entrarono in cuore d’uomo. Questi momenti di purificazione introducono a qualcosa di indicibile, a qualcosa che sta oltre; per dire di più è alla tradizione spirituale che dobbiamo guardare. Questo profondo silenzio interiore appartiene alla tradizione spirituale cristiana. Qui vorrei richiamare tre brani presi, il primo, dalle Confessioni di S. Agostino (354-430), il secondo da una lettera di un monaco, P. Giannoni dell’eremo di Mosciano (FI) ed il terzo da Miguel de Molinos (1628-1696): l’autore è stato condannato per gli errori del quietismo che, riconducendo ogni cosa a Dio, non lasciava spazio alla libertà umana ma il passo che qui riportiamo si appoggia ad antecedenti che risalgono ad una vera tradizione monastica. Il passo di Agostino narra la singolare esperienza di contemplazione che Agostino e Monica hanno ad Ostia prima di imbarcarsi sulla nave per l’Africa. «Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi. […]Elevandoci con più ardente impeto d'amore verso l'Essere stesso, percorremmo su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo … e ancora ascendendo in noi stessi … giungemmo alle nostre anime e anch'esse superammo per attingere la plaga dell'abbondanza inesauribile … ove la vita è la Sapienza […]. E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la 2 cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito… Si diceva dunque: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire, se per un uomo tacessero completamente, sì, perché a chi le ascolta tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece chi permane eternamente"; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne … ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose … non sarebbe questo l'"entra nel gaudio del tuo Signore"?» (Agostino, Le Confessioni IX, 10). Il secondo testo si lascia alle spalle una concezione negativa del silenzio, propria di chi non ha nulla da dire e prova a chiarirne il valore spirituale: «il silenzio non è assenza del mondo ma patria delle voci. Chi è stordito dal rumore non accoglie l’infinito; […]il silenzio invece è l’accogliere quell’oltre-che-è-il-vero-di-tutto, perché costeggia le sponde dell’infinito. A volte ci coglie la tristezza di vivere in una Chiesa che non sa farsi “ricreare dal silenzio”: quante volte i riti sommano parole a parole senza spazi di silenzio come adorazione, sosta di accoglimento, contemplazione dei simboli. Non è forse un segno di volgarità il gettarsi fuori, senza vivere gli inaccettati silenzi di Gesù, i lunghi silenzi che Dio impone a se stesso perché abbia luogo la libertà umana? Il monaco vive il prezioso e nascosto gioire della vita nel silenzio che ascolta: ascolto dello Spirito che unisce al Padre; ascolto della Parola di vita; ascolto delle parole della vita di tutti. […]Nel silenzio del suo eremo, il monaco vive il privilegio di portare silenziosamente a Dio il “rumore” della storia, per rendere presenti i ritmi della vicenda umana. Quando l’orante porta a Dio il segreto bisogno di tutti, ha la certezza che il vagare lascia il posto all’andare verso una meta, verso l’approdo» (Lettera). Il terzo testo è più didascalico e meno esperienziale: «Tre modi vi sono di silenzio. Il primo è di parole, il secondo di desideri e il terzo di pensieri. Il primo è perfetto, più perfetto è il secondo e perfettissimo il terzo. Nel primo – di parole – si raggiunge la virtù; nel secondo – di desideri – si ottiene la quiete; nel terzo – di pensieri – il raccoglimento interiore. In esso Dio parla con l’anima, si comunica, le insegna nel suo più intimo la più perfetta e alta sapienza» (Manducatio spiritualis (1687) I, 17). Quasi nel tentativo di trovare una sintesi tra queste diverse maniere di intendere il silenzio Ramon Panikkar (L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, 33) lo collocherà nell’ambito del dialogo tra persone diverse e tra l’uomo e Dio e lo vedrà come la radice di questo misterioso colloquio: «il dialogo non è semplice discussione. Proviene da una sorgente più profonda e più interna della stimolazione che riceviamo dagli altri. Questa sorgente può essere chiamata silenzio o, forse, l’umana sete per la verità». 3. Il silenzio di Maria È in questo contesto che possiamo collocare il silenzio di Maria. I testi che più sviluppano la tematica mariana sono il vangelo di Luca e quello di Giovanni; questi due testi riportano nel loro insieme alcuni atteggiamenti e alcune parole di Maria. 3 Gli atteggiamenti sono sempre legati allo sconcerto che l’agire di Dio provoca nella vita umana: iniziano come il turbamento di chi si interroga sul senso del saluto dell’angelo (Lc 1,29); in seguito il turbamento è sviluppato come stupore e angoscia per il non capire quel figlio così singolare (Lc 2,47-48.50; Mc 3,21. 30-35); nello stesso tempo diventa un intuire qualcosa del segreto di quella persona che pure era suo figlio ed è descritto come un meditare, un ripensare, un confrontare momenti diversi dell’agire di Dio (Lc 2,19. 51b); viene poi tradotto in una certezza che da una parte osa affidare al figlio i bisogni dell’umanità e dall’altra si abbandona comunque al volere di Gesù secondo la formula della alleanza (Gv 2,3. 5); infine, per ultimo, si esprime in un silenzio partecipativo alla passione redentrice del figlio: nel punto più alto del suo cammino, ai piedi della croce, Maria tace. Ormai Maria è nella piena comunione con il Figlio: partecipa alla sua morte e alla sua preghiera (Gv 19,26-27; At 1,14). Quando la prima comunità cristiana vorrà interpretare il mistero di questa vita, lo farà attribuendo e adattando a lei un canto di liberazione e Maria indicherà nella gioia di una umile serva, nella beatitudine di colei nella quale Dio ha compiuto grandi cose e nella contemplazione di una misericordiosa potenza che ha rovesciato il mondo dei superbi, dei potenti e dei ricchi il segreto della sua personalità. Al vertice di questi atteggiamenti vi è il silenzio contemplativo della croce. Non si può commentare questi atteggiamenti se non con le parole di un’altra mistica, Chiara Lubich, che – in L’unità e Gesù abbandonato (Città nuova, Roma 1984, 59) – così commentava l’opera di Cristo: «il vertice del suo amore è il culmine del suo dolore. In Gesù abbandonato è rivelato infatti tutto l’amore di Dio». Ma il mistero di Gesù abbandonato è anche il vertice degli atteggiamenti di Maria ed il suo stile di vita altro non è che la trasparenza di un abbandono al disegno di Dio. Essa sa bene che questo mistero interiore non può essere vissuto a parte delle relazioni umane in cui è inserita: per questo in ogni momento vive e parla in modo che la sorgente stessa della sua vita interiore possa esprimersi. Non fa crociate contro il mondo ma lascia fluire la sua vita interiore in un mondo di relazioni: farà sua la fede di Abramo (Lc 1,38) ed Elisabetta gliela riconoscerà (Lc 1,45), tradurrà la fede in una attiva carità tanto che Elisabetta parlerà di lei usando i termini con cui si designava una vicenda di quell’arca della alleanza (Lc 1,41) che era il simbolo della protezione che Dio riservava la suo popolo. In Gv 2,5 fa sua la celebrazione 4 della alleanza di Giosué a Sichem e in Gv 19,25-27 adora in un silenzio orante il mistero della nostra redenzione. Questo mistero di vita, questo stile con cui Maria affronta la sua vita non è una sorta di rifugio ma è il modo trasparente della sua partecipazione al disegno di Dio; il segreto della sua personalità è una contemplazione del Padre e della sua rivelazione in Gesù spinta al punto tale che questa contemplazione diventa il criterio del suo comportamento, diventa la ragione della sua vita esterna. L’oggettività della sua contemplazione e la realizzazione di questa in una esperienza di vita si fondono al punto tale che non abbiamo più due realtà ma una contemplazione che si completa nella vita: senza di essa, la stessa contemplazione mancherebbe di qualcosa. Ora poiché della vita fa parte il nostro mondo di relazioni con amici e vicini, con credenti e non-credenti, lo stile contemplativo di vita deve lasciare che la radice di comunione con Cristo e la sua verità si saldi con l’esperienza umana del bisogno di altri fino ad essere loro prossimi, fino ad imparare da loro. In poche parole Maria si modella su Gesù; come, in modo sintetico, scriverà J. Alfaro in Maria. Colei che é beata perché ha creduto (Piemme, Casale Monferrato 1983, 32): «non é Maria che fa di Cristo suo figlio ma Cristo che fa di Maria sua madre». Totalmente concentrato su Gesù, lo stile contemplativo di Maria è uno stile di vita umile e semplice, è lo stile di chi, senza impancarsi a maestra, sa però creare lo spazio in cui emerge la verità di quell’amore in cui le persone trovano la libertà e la pienezza che vanno cercando. In questa prospettiva di contemplazione, il silenzio è «lo spazio nel quale lo spirito può aprire le ali» (A. de Saint-Éxupery). Aprendo le ali del suo spirito, Maria vive ogni momento nella luce della comunione materna con il Verbo e questo la porta ad una totale concentrazione su ogni attimo, su ogni momento: non vive di nostalgia del passato e non cerca fughe nel futuro ma gusta ogni momento, vive ogni istante come chi, intuendovi il segreto calice del volere di Dio, vi aderisce abbracciandone la volontà. Il contemplativo non ha fretta: è contento di ciò che vive e dispiega un ritmo di vita in cui sa trovare la gioia del presente ed il seme del futuro. Ed è nella pace. È nella pace quando è davanti a Dio, quando ascolta le persone e quando traffica le cose quotidiane; la sua guida è quello Spirito che in lui grida Abbá. Potremmo quasi dire che il contemplativo è quasi una rinascita della spiritualità degli anawim: sa cogliere e vivere il prezioso dono della vita, il suo senso 5 nascosto. Quando questo avviene, la sua vita appare in sintonia con le parole del Sal 23, l’inno degli anawim: non manco di nulla, non temo alcun male perché tu sei con me, felicità e grazia mi saranno compagne. Mi viene in mente un passo di Jean Paul Sartre che interpreta a fondo il mistero della maternità di Maria provando ad illuminare il singolare mistero di questa maternità. È un passo scritto per uno momento di Natale nel campo di prigionia di Trier in cui era prigioniero durante la seconda guerra mondiale. Scrive così: « La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”. Ma, in altri momenti, resta interdetta e pensa: là c’è Dio e viene presa da un religioso orrore per quel Dio muto, per quel bambino che incute timore. Tutte le madri, in qualche momento, si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a quella vita nuova che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente e più rapidamente di questo a sua madre, perché è Dio e supera in tutti i modi ciò che essa può immaginare. Ma penso che ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui essa avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la mia, mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia. Nessuna donna ha mai potuto avere per sé il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che ride. È in uno di questi momenti che dipingerei Maria se fossi pittore» (J.P. Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, Marinotti Edizioni, Milano 2003). Non a caso, in questo stesso testo, discutendo il senso di una maternità in un mondo problematico come quello di allora e come il nostro di oggi, chiarirà che «fare un figlio è approvare la creazione del mondo dal fondo del proprio cuore» (Ivi, 91). 4. Il silenzio di Maria lezione per noi La lezione che Maria ci lascia la presenza e il valore del silenzio contemplativo nella nostra vita; questa scelta chiede il recupero di alcuni atteggiamenti antropologici come il primato dell’essere sull’avere, l’importanza religiosa del silenzio, un corretto rapporto con la dimensione comunitaria della vita e via dicendo. Ciò che in questi anni difficili abbiamo imparato in termini di professione di fede, di impegno nella carità, di coerenza di vita e di ecclesialità della fede non va abbandonato ma deve trovare nella dimensione contemplativa la sua base e il suo sostegno. Il card. C.M. Martini descrive la dimensione contemplativa della vita in modo semplice e naturale come l’aprire gli occhi sulla dimensione profonda della vita e 6 l’accorgersi che l’amore di Dio ci avvolge e ci accompagna (C.M. Martini, La dimensione contemplativa della vita. Lettera pastorale per l’anno 1981, Milano 1980). È questa dimensione profonda che dà senso ad una vita di fede: non si dà azione o impegno che non sgorghi da qui, da una vita segnata dall’amore di Dio, da lui salvata e resa significativa per il bene dell’umanità. Per quanto Giovanni osservi che all’inizio vi era la Parola, il Verbo, è chiaro che all’inizio della nostra vita sta un disegno ed una volontà divina d’amore; all’inizio della nostra vita sta qualcosa che non ci appartiene, che non viene da noi e che dobbiamo imparare a riconoscere. Non è sbagliato pensare che questo riconoscimento implichi la ricerca e l’adesione al disegno di Dio, l’ascolto della sua Parola, l’impegno per accoglierla; questa tensione per qualcosa che sta fuori di noi, oltre noi, può ben essere descritta come silenzio, come svuotamento di sé per essere disponibili a qualcosa che, da fuori, ci viene incontro. L’esempio di Zaccaria è significativo: se il secondo segno messianico di quel Gesù che ha fatto bene ogni cosa sta nel far parlare i muti, il primo di questi segni indicati in Mc 7,37 che riprende Is 35,5-6, cioè far udire i sordi, può ben essere reso come un ascoltare e accogliere la Parola divina legato però «all’ammutolire l’uomo ciarliero e disperso (Lc 1,20-22)» (Ivi). Citando Clemente Rebora, Martini conclude: «la Parola zittì chiacchiere mie» (C. Rebora, Curriculum Vitae, Interlinea, Novara 2001). Ora, se il silenzio è parte decisiva della vita spirituale, si può ben capire come chi ha estromesso Dio dalla sua vita non sappia e non possa sopportare il silenzio; al contrario il discepolo di Gesù, che si raccoglie attorno alla vita inesauribile del Dio trino, ha bisogno di momenti di silenzio per protendersi a cercare l’eco delle parole divine ed il segreto della creazione e della storia delle nozze di Dio con l’umanità. Certo l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, che convivono in ciascuno di noi, ci obbligano a lottare per conquistare questo spazio di intimità e di comunione. Se il primo gesto di questa contemplazione è il silenzio, il secondo è la parola ma la parola di preghiera che è il linguaggio della fede, il linguaggio con cui entriamo in dialogo con Dio. Con la preghiera lasciamo che l’incontro con Dio mostri a fondo cosa Dio è per noi e chi noi siamo per lui e questo avviene nello spazio della lode, dell’abbandono, del ringraziamento, della domanda e della richiesta di misericordia rivolta a Colui che è la fonte di ogni cosa. Entriamo così sia nella comunione con il Padre, pienezza di ogni essere 7 8 e mai lontano da tutto ciò che esiste, sia nella comunione con lo Spirito, che è anelito a superare ogni individualismo ed a rivolgerci al Padre, sia nella condivisione dell’amore crocifisso che supera e cancella l’ingiustizia ed il peccato. Nasce così il contemplativo, l’orante, il discepolo raccolto sul mistero di una vita che è dono di Dio ed insieme spazio di una libertà che riconosce il mistero su cui è edificata. Questo silenzio-parola aperto all’amore deve diventare la "forma", il modello che impronta di sé tutta la nostra vita; tramite essa, condividiamo la vita del Figlio in contemplazione dell’Abbá, il suo coraggio, il suo modo di essere e di vivere nella storia. Condividiamo pure la vita di Maria, il suo cammino umano e femminile di adesione al Verbo, la sua misura di una vita che si consegna illimitatamente all’amore e, senza sovrabbondare in parole, accoglie in modo materno il “corpo e sangue” del Figlio per vivere di Lui e diventare così guida a noi che quel corpo e quel sangue lo accogliamo nel sacramento eucaristico. Essa vive così e così ci insegna a vivere. 
Gianni Colzani © 

Centro di Cultura Mariana

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