giovedì 20 dicembre 2012

Pensieri nella solitudine ( Thomas Merton)PARTE DA1 A 6




Parte Prima
Aspetti della vita spirituale
1.
Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella
irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo s cambio vitale
che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la
nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è
costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile
morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono
completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la
rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono
considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
 Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali,
dobbiamo avere una netta visione della loro realtà.
Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà
delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così
come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che
non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le
osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si
vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne
distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto
possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di
avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in
Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un
grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente
nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai
potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse,
nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per
quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito
la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma
era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel
futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con
Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire
trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e
per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente
altro che se stesso ossia una creatura solitaria e  povera che non dipende da
nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di
interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo,
il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato “nel
deserto dell’Alto Egitto” perché “vagasse per   luoghi aridi”. La sete fa impazzire
l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia
perduta — perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto. E così chi vaga
nel deserto per essere se stesso deve badare a non  impazzire e a non farsi
schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione
nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di
annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste
tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più
bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può
costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al
vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più
immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua
visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele
che sorse un giorno nel deserto di Senaar, “perché l’uomo rendesse famoso il suo
nome e arrivasse fino al cielo” (Gen 11,4). Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca
di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e
dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per
rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue
macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già
combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse
sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il
deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella
solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e  combattere il nemico e
purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova
dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista
nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a  nulla dando il nostro tacito
assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di
colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti,
ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce.
Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il  nostro deserto. Se la
condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo
affrontarla, non lo troveremo mai.
2.
Il temperamento non predestina uno alla santità ed  un altro alla dannazione.
Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la
rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da
trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di
cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri
buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di
servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in
ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi
trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita
peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di
partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire
quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca
suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno
della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il
dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della
ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che
gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è
nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli
avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò
nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure
necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro
agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni
che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei
limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che
resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira
costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere
indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo
temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se
stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente
controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli
ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la
ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo
stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco
non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio
perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece
di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue
possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un
tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche
cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere
umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in
pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più
comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore,  pietà e dolore, felicità,
piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore
consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella
quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto
umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto
amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo. La vita
ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il
temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche
questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità —
perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente
una “persona” a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e
perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la
sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci
rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali
abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità,
all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha  per scopo di purificare ed.
arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere
disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità,
anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci
aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della
volontà, eleva anche il tono della emotività: solo  con la mancanza di
rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte
devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite
religiose. Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di
disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in  cui le emozioni non trovano
nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la
nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra
umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le
nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami
della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.
3.
La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è  soltanto pensiero. E non è
naturalmente neppure una vita di sensazioni, una vita di sentimento— “sentire»”
e sperimentare le cose dello spirito, e le cose di Dio.
La vita spirituale non esclude neppure pensiero e sentimento. Ha bisogno di
entrambi. Non è propriamente una vita concentrata alla “sommità” dell’anima,
una vita dalla quale siano esclusi mente, immaginazione e corpo. Se così fosse,
poca gente potrebbe viverla. E ancora, se tale fosse la vita spirituale, non
sarebbe affatto una vita. Se l’uomo deve vivere, dev’essere tutto vivo, corpo,
anima, mente, cuore e spirito. Tutto deve venire elevato e trasformato dall’azione
di Dio, nell’amore e nella fede.
Inutile cercare di meditare semplicemente “pensando” — ancora peggio meditare
infilando parole, passando in rivista una quantità di insulsaggini.
Una vita puramente intellettuale può essere deleteria se ci porta a sostituire il
pensiero alla vita e le idee alle azioni. L’attività propria dell’uomo non è
puramente mentale, perché egli non è propriamente un’anima disincarnata.
Nostro destino è di vivere di ciò che pensiamo perché se non viviamo di ciò di cui
abbiamo conoscenza, non possiamo neppur dire di conoscere. Soltanto col
rendere la conoscenza parte di noi stessi, trasformandola in azione, penetriamo
nella realtà significata dai nostri concetti.
Vivere da animale ragionevole non significa pensare da uomo e vivere da
animale. Dobbiamo pensare e vivere da uomini. È illusione cercare di vivere come
se le due parti astratte del nostro essere (razionalità e animalità) esistessero
davvero separatamente come due differenti realtà concrete. Siamo una cosa sola,
corpo e anima, e se non viviamo come un tutto unico, siamo destinati alla morte.
Vivere non è pensare. Il pensiero viene determinato e guidato dalla realtà
oggettiva che è al di fuori di noi. Vivere vuol dire adattare di continuo il pensiero
alla vita e la vita al pensiero, in maniera tale da crescere incessantemente, da
esperimentare sempre cose nuove nel vecchio, e cose vecchie nel nuovo. E così la
vita è sempre nuova.
4.
L’espressione «conquista di sé» può arrivare a diventare odiosa perché molto
spesso non significa la conquista di noi stessi, ma una conquista fatta da noi. Una
vittoria riportata con le nostre facoltà. Ma su che cosa? Proprio su ciò che è
all’infuori di noi.
La vera conquista di sé è la conquista di noi stessi compiuta non da noi, ma dallo
Spirito Santo. Conquista di sé vuol dire in realtà resa di sé, donazione di sé.
Eppure ancor prima di poterci arrendere dobbiamo diventare noi stessi. Perché
nessuno può dare quello che non possiede.
Più precisamente, dobbiamo avere abbastanza dominio di noi stessi da poter
rinunciare alla nostra volontà nelle mani di Cristo — in modo che Egli possa
conquistare ciò che non siamo riusciti a raggiungere con i nostri sforzi. Per poter arrivare al possesso di noi stessi, dobbiamo avere una certa
confidenza, una certa speranza di vittoria. E per poter far vivere questa speranza,
dobbiamo ordinariamente avere un certo gusto della  vittoria. Dobbiamo sapere
che cosa sia la vittoria e amarla più della sconfitta.
Non ha nulla da sperare chi combatte per raggiungere una virtù astratta — una
qualità di cui non ha esperienza. Costui non preferirà mai realmente la virtù al
vizio opposto, per quanto sembri disprezzare quest’ultimo.
Ognuno di noi ha un desiderio innato di operare bene e di evitare il male. Ma è un
desiderio, questo, che rimane sterile, finché non abbiamo fatto esperienza di quel
che significhi fare il bene. (Il desiderio di virtù viene frustrato in parecchie
persone di buon volere dal disgusto istintivo che esse provano per le false virtù
di coloro che sono creduti santi. I peccatori hanno un occhio finissimo per le false
virtù e un’idea esattissima di quello che dovrebbe essere la virtù in una persona
buona. Se in chi viene reputato buono vedono soltanto una «virtù» che è in
realtà meno viva e meno interessante dei loro vizi, concluderanno che la virtù
non ha significato e si attaccheranno a ciò che possiedono, per quanto lo trovino
odioso). Ma che possiamo fare se non possediamo la virtù? Come possiamo farne
esperienza? La grazia di Dio, attraverso Cristo nostro Signore, produce in noi un
desiderio della virtù che ne è un’esperienza anticipata. Ci rende capaci di
«gustarla» anche prima di possederla in pieno.
La grazia, che e carità, contiene in sé tutte le virtù in maniera nascosta e
potenziale, così come nella sostanza di una ghianda stanno racchiusi le foglie e i
rami di una quercia. Essere una ghianda vuol dire provare il gusto di essere una
quercia. La grazia abituale porta con sé, in germe, tutte le virtù cristiane.
Le grazie attuali ci spingono a porre in atto queste potenzialità latenti e a
realizzare ciò che significano: — Cristo che agisce in noi. La gioia che viene da
una buona azione è qualche cosa che va ricordata — non per alimentare la nostra
compiacenza, ma per ricordarci che gli atti virtuosi non solo sono possibili e
meritori, ma possono divenire più facili, più graditi e fruttuosi di quelli del vizio
che a essi si oppone e che li rende vani.
Una falsa umiltà non dovrebbe privarci della gioia della conquista, che ci è dovuta
ed è necessaria alla nostra vita spirituale, specialmente agli inizi.
È vero che più tardi ci possono venire lasciati dei difetti che siamo incapaci di
vincere — e questo avviene per procurarci l’umiliazione di combattere contro un
nemico che sembra imbattibile, senza nessuna soddisfazione di vittoria. Ci può
difatti venire richiesto di rinunciare anche alla gioia che si prova nel fare il bene,
per essere sicuri che lo facciamo per un motivo che trascende questa stessa
gioia. Ma prima di pater rinunciare a un tale piacere bisogna averlo provato. E
agli inizi la gioia che viene dalla conquista di sé è necessaria: non dobbiamo
temere di desiderarla.
5.
Pigrizia e ignavia sono due dei più grandi nemici della vita spirituale.  Tanto più
pericolosi degli altri quando si camuffano da “discrezione”. Questa illusione non
sarebbe tanto fatale se la discrezione non fosse una delle virtù .più importanti
per chi conduce una vita spirituale. Difatti è proprio la discrezione che ci fa
vedere la differenza che passa tra ignavia e discrezione. Se il tuo occhio è
semplice ...  ma se la luce che è in te è tenebra ... La discrezione ci dice quel che Dio vuole da noi e quel che non vuole. Nel far ciò,
ci mostra l’obbligo che abbiamo di corrispondere alle ispirazioni della grazia e di
obbedire a tutte le altre indicazioni della volontà di Dio.
Pigrizia ed ignavia antepongono all’amore di Dio le nostre comodità attuali;
hanno paura dell’incertezza del futuro perché non ripongono alcuna fiducia in
Dio.
La discrezione ci mette in guardia contro gli sforzi vani: ma per l’ignavo qualsiasi
sforzo è vano. La discrezione ci fa vedere quando uno sforzo è vano e quando
invece è doveroso.
La pigrizia rifugge da ogni rischio: La discrezione evita i rischi inutili ma ci fa un
obbligo di addossarci i rischi che fede e grazia di Dio esigono da noi. Perché,
quando Gesù disse che il regno dei cieli si conquistava con la violenza, voleva
proprio dire che ciò era possibile solo a prezzo di certi rischi.
E presto o tardi, se seguiamo Cristo, dobbiamo rischiare tutto per tutto
guadagnare. Dobbiamo puntare sull’invisibile e rischiare tutto ciò che ci è dato di
vedere, di provare, di sentire. Ma sappiamo che è un rischio che vale la pena di
affrontare, perché non vi è nulla di più incerto del mondo che passa. Infatti
“passa la figura del mondo attuale” (1Cor 7,31).
Senza coraggio non potremo mai arrivare alla vera semplicità.
L’ignavia ci mantiene in uno stato di “doppiezza” — esitanti tra Dio e il mondo. In
una tale esitazione non vi é fede — la fede resta semplicemente un’opinione. Non
siamo mai sicuri, perché non ci abbandoniamo mai completamente all’autorità di
un Dio invisibile. Questa esitazione è la morte della speranza. Non ci liberiamo
mai da questi sostegni visibili che, ben lo sappiamo, un giorno ci verranno
sicuramente a mancare. E questa esitazione rende impossibile la vera preghiera
non si ha mai il coraggio di chiedere nulla e si dubita talmente di venire esauditi
che proprio nell’atto stesso di chiedere si cerca superstiziosamente, per umana
prudenza, di costruirsi una risposta di proprio gusto (cfr. Gc 1,5-8).
Che vale la preghiera se nell’atto stesso in cui preghiamo abbiamo così poca fede
in Dio che ci preoccupiamo di formulare la nostra risposta alla preghiera?
6.
Non esiste vera vita spirituale all’infuori dell’amore di Cristo.
Possediamo una vita dello spirito soltanto perché siamo amati da Lui. E la vita
spirituale consiste nel ricevere il dono dello Spirito Santo e la sua carità, perché il
Sacro Cuore di Gesù ha disposto, nel suo amore, che vivessimo del suo Spirito —
di quello stesso Spirito che procede dalla Parola e dal Padre e che é l’amore di
Gesù per il Padre suo. Se conosciamo quanto è grande l’amore di Gesù per noi,
non avremo mai paura di andare a Lui in tutta la nostra povertà e debolezza e
miseria e infermità spirituale. Anzi, quando arriviamo a comprendere di che
genere sia il suo amore per noi, preferiamo di andare a Lui in veste di poveri e
derelitti: Non ci vergogneremo mai della nostra miseria. La miseria torna tutta a
nostro vantaggio quando non abbiamo da cercare altro che misericordia.
Possiamo essere contenti del nostro stato di indigenza, se siamo veramente
convinti che la potenza di Dio si perfeziona nella  nostra infermità. Il segno più
sicuro che abbiamo ricevuto una comprensione spirituale dell’amore che Dio ha
per noi, è l’apprezzare la nostra povertà alla luce della sua infinita misericordia.
Dobbiamo amare la nostra povertà come la ama Gesù. Essa ha tanto valore agli
occhi suoi, che è morto sulla Croce per presentare la nostra povertà al Padre suo
e arricchirci dei tesori della sua misericordia infinita. Dobbiamo amare la povertà degli altri come la ama Gesù. Dobbiamo vederli con
gli occhi della sua compassione. Ma non possiamo avere una vera compassione
degli altri se non siamo disposti a essere oggetto di pietà e a ricevere perdono
per i nostri peccati.
Non sappiamo realmente perdonare se non conosciamo  che cosa sia essere
perdonati. Dovremmo dunque essere contenti che i nostri fratelli ci possano
perdonare. È il perdono scambievole che rende manifesto nella nostra vita
l’amore che Gesù ha per noi, perché nel perdonarci a vicenda ci comportiamo nei
confronti degli altri così come Gesù fa con noi.

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